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Guitto

N° 7 - FEBBRAIO/MAGGIO 2017

Rivista dell’Associazione Culturale Il Guitto

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Le vie dei canti

La storia del campo “Le Fraschette”

Una balia fumonese per una principessa

La Riserva Naturale Regionale

“Lago di Canterno” Tre percorsi per conoscerne i geositi

Foto: Alberto Bevere

EDITORIALE

Natura, cultura e consapevolezza, veicoli di sviluppo del nostro territorio di Elisa Potenziani Tutto il territorio nazionale è costellato di luoghi che varrebbe la pena visitare, tutelare e proteggere. È stato più volte messo in risalto che pochi “macrocontenitori” stanno cedendo il passo a “ecosistemi” in cui le dimensioni non sono più sentite come direttamente proporzionali alla quantità di bellezza in essi contenuti. Bisognerebbe abbandonare l’approccio basato sull’idea di sviluppo culturale che fa leva sui grandi eventi, di una cultura sostanzialmente estranea al tessuto sociale e civile della comunità locale e che trova giustificazione nel ritorno economico immediato (e pertanto limitato) che riesce a generare. - Pag. 2

di Giuseppe Cino

Da alcuni decenni si assiste alla valorizzazione dei luoghi di particolare interesse per la presenza di evidenti testimonianze della natura geologica di un territorio, i cosiddetti geositi. I geositi sono rappresentativi dei fenomeni geologici perché raccontano le trasformazioni che il territorio ha subito e danno indicazioni sulla evoluzione che subirà. La loro principale caratteristica è l’ampia possibilità di fruizione didattica dovuta sia alla loro rappresentatività sia alla disponibilità durante l’intero arco delle stagioni. Ciò ne consente la visita e la conoscenza che sono elementi fondamentali per informare e formare i cittadini e adottare forme di tutela di questo particolare valore ambientale. Essi, inoltre, hanno grandi potenzialità di promozione del processo di sviluppo socio-economico del territorio per attrattiva, durata e sostenibilità. Basti pensare alle ricadute economiche per i residenti dei territori vicini a complessi di grotte o di cascate o di terme. Quando più geositi sono presenti all’interno di un’area protetta, essi costituiscono un vero pilastro per la pianificazione e la gestione. È questo il caso della Riserva Naturale Regionale “Lago di Canterno”. Istituita nel 1997 ed estesa per 1824 ettari, occupa l’ampia conca di Fiuggi, comprendente il lago di Canterno e le depressioni circostanti. Il principale substrato roccioso è costituito dai materiali depositati sul fondo di un antico mare nel periodo compreso dal cretacico (calcari di 130-65 milioni di anni fa) al miocenico (fino a 7 milioni di anni fa). Queste formazioni calcaree (carbonati di calcio con silicati di ferro) sono sia affioranti, sia sepolte da strati più recenti di tipo continentale come depositi fluviali, o alluvionali o vulcanici. - Pag. 2


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Segue da pag. 1 - Questo è particolarmente importante in un Paese come l’Italia dove una delle principali criticità del modello competitivo sta nella scarsissima capacità di integrare le competenze avanzate nelle catene del valore: la cultura potrebbe costituire una piattaforma innovativa di straordinaria importanza e lo testimoniano realtà fortunatamente dislocate anche in territori marginali della geografia produttiva italiana. Ci sono città, borghi, e altri luoghi con caratteristiche così peculiari che si candiderebbero ad essere laboratori ideali di questa profonda trasformazione del significato e delle forme delle politiche culturali. Nessuna città è modello e nessuna è pienamente sviluppata poiché la carta vincente di un modello sano è la capacità di adattarsi al mutamento delle situazioni di partenza. Che cosa succederebbe se ogni territorio guardasse profondamente “dentro se stesso” mettendo in campo tutte le sue risorse? Noi, abitanti della Ciociaria, portiamo a tal proposito un esempio: il lago di Canterno. Tale lago è il bacino carsico più esteso del Lazio e, al contempo, il più giovane: formatosi definitivamente intorno al 1821, fu utilizzato dalla Società Romana, ora ENEL, che vi instaurò un impianto idroelettrico all’indomani della Seconda Guerra Mondiale. Il bacino è diventato parte integrante della Riserva naturale regionale istituita nel 1997 per preservare un’area paesaggisticamente rilevante: essa, anche se non molto estesa, presenta una notevole varietà di ambienti naturali che accolgono una determinata flora e fauna, tra cui vari tipi di uccelli, sia stanziali che di passo. Tra gli uccelli acquatici figurano il cormorano, l’airone cenerino, l’airone bianco, la garzetta, lo svasso maggiore, la gallinella d’acqua, la folaga, il germano reale, il cavaliere d’Italia ed altri ancora. Tra i rapaci, sia notturni che diurni, vanno annoverati la poiana, lo sparviero, il gufo reale, il gufo comune, l’allocco, il cuculo, il barbagianni, il gheppio. Capita anche di vedere, tra i tanti mammiferi presenti, la faina, la volpe, la talpa europea, il cinghiale, lo scoiattolo, la lepre, l’istrice, il tasso, oltre che piccoli roditori e insettivori, mentre raramente sono stati avvistati esemplari di gatto selvatico e lupo appenninico. Tra gli anfibi possiamo citare il rospo e la salamandrina, tra i rettili la vipera e il saettone, tra i molluschi quelli del genere Anodonta cygnea e specie di pe-

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sci come la carpa, il carasso, la tinca, il persico reale, il persico sole, l’anguilla. La sua vegetazione riparia, essendo il lago soggetto ad una notevole fluttuazione del livello delle acque, risulta alquanto povera ma comunque le condizioni di umidità favorevoli e la buona fertilità del terreno hanno permesso il proliferare di un notevole numero di specie vegetali, alcune delle quali, per quanto riguarda il Lazio, sono riscontrabili solo in questa zona. La tipica vegetazione palustre caratterizzata da giunchi, cannucce, ranuncoli acquatici, si sviluppa a ridosso dei vari fossi – il Fosso del Diluvio, il fosso Dove, il fosso Padrone e il fosso Riopreta – che convogliano le acque meteoriche e che garantiscono una maggiore umidità durante tutto l’anno. Le forme arboree iniziano a svilupparsi dal limite di massimo invaso delle acque (550 m s.l.m.), e variano salendo di quota: più a valle si trovano latifoglie igrofile come salici e pioppi, mentre le quote più alte sono caratterizzate da formazioni boschive di querce rappresentate essenzialmente dal cerro e da boschi misti di latifoglie come il castagno, il carpino bianco, il carpino nero, la roverella, il ginepro rosso, l’Acero campestre e l’orniello. Salendo ancora, le formazioni boscose lasciano posto a forme arbustive. I boschi di conifere (Pino domestico, Pino marittimo e Pino nero), che si trovano su colle Monticchio, su Monte Vasciano e sul Monte Corniano, sono stati introdotti per azione antropica di rimboschimento. Un microambiente interessante è offerto dalle siepi, rappresentate essenzialmente da ginestre e da specie appartenenti alla famiglia delle rosacae, che offrono riparo ad animali selvatici e vengono utilizzate da molti uccelli per la deposizione delle uova, mentre l’ambiente roccioso non alterato dall’attività antropica, vede il proliferare di alcune specie di orchidee, di ginestre di cardi e piante aromatiche come il timo, la mentuccia, il rosmarino etc. (Fonte: http://www.riservanaturalecanterno.it/area_ protetta.php) Proprio per tale patrimonio di biodiversità il lago di Canterno andrebbe tutelato a dovere e potrebbe rappresentare una potenzialità turistica ancora inespressa nonostante in passato siano stati fatti vari tentativi in questa direzione. I dati presentati da La Goletta dei Laghi di Legambiente, ad esempio, hanno evidenziato, in riferimento ad alcuni anni, un preoccupan-

Segue da pag. 1 - Lo studio delle rocce presenta almeno nove tipi di calcare di diversa età, composizione e contenuto di fossili, mentre lo studio delle fratture, dette faglie, verificatesi per spinte o strappi della crosta terrestre, indicano che il territorio è stato sottoposto principalmente a forze di tipo distensivo (faglie dirette) e solo raramente di tipo compressivo (faglie inverse). L’aspetto del territorio, il suo profilo o per intendersi il suo panorama (geomorfologia), è fortemente influenzato dal fenomeno del carsismo che ha azione erosiva, ma anche di deposito, in un continuo alternarsi di forme che costituiscono appunto i geositi. Tutto il paesaggio, gli ecosistemi in esso contenuti e tutta l’elevata variabilità di piante ed animali presenti, cioè la biodiversità di questa area protetta, deriva dalla origine geologica e dalla geomorfologia del territorio. I geositi presenti nella zona hanno una scala di grandezza che va da quella di paesaggio (in genere da uno a diverse decine di ettari), a quella

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te stato di salute delle acque del lago, criticità alla quale devono essere sommati gli atti irresponsabili di quanti abbandonano sulle sponde rifiuti di ogni sorta. Da ciò emerge l’assoluto bisogno di recuperare la consapevolezza dell’esistenza di tale lago a tutti i livelli, dalla politica ai cittadini. A vent’anni dall’Istituzione della Riserva Naturale Lago di Canterno si propone dunque un Convegno scientifico che, attraverso gli interventi di specialisti, vuole essere motivo di riflessione e ricognizione sullo stato attuale della Riserva stessa: partita su proposta dell’Associazione culturale Il Guitto, l’idea dell’incontro ha visto la partecipazione entusiasta e determinante del Sindaco di Fumone, Cav. Uff. Maurizio Padovano, il quale si è fatto portavoce del progetto presso gli altri Comuni e Istituzioni legate al lago, assumendone onori e oneri, come pure assolutamente vitale per l’anima scientifica del progetto è stata la dedizione e la laboriosità del prof. Giuseppe Cino nonché la supervisione costante di Umberto Caponera il quale, essendo stato Sindaco di Fumone e Presidente della XII Comunità Montana, è da sempre impegnato nella valorizzazione del nostro territorio. Il Convegno si svolgerà presso la Sala Consigliare del Comune di Fumone il prossimo 20 maggio mentre per il giorno successivo è prevista una visita guidata al lago di Canterno. Nella rubrica “Viaggiare in Ciociaria” che troverete all’interno di questo numero, si è deciso di dare spazio ai cinque Comuni i cui territori sono lambiti dalla Riserva, ovvero Fumone, Ferentino, Fiuggi, Torre Cajetani e Trivigliano assegnando un piccolo spazio anche a Porciano, frazione del Comune di Ferentino. L’intento è quello di porre in risalto la quantità di bellezza che un territorio così piccolo contiene, le cui potenzialità turistiche potrebbero rappresentare il volano per la ripresa economica dell’area. Qualsiasi progetto che riguarderà il lago di Canterno ed i paesi ad esso connessi dovrà comunque tenere presente, in primo luogo, il rispetto dell’ecosistema che attorno ad esso si è generato e preservarne dunque l’equilibrio nel miglior modo possibile.

di dettaglio (intorno al metro o poco più). Un esempio del primo caso è rappresentato dal lago, che ha una storia unica legata alla sua formazione, ed è il più grande, in Italia, di origine carsica. La distribuzione è abbastanza densa perché diffusa, e anche varia, perché si trovano sia forme sotterranee che affioranti o a cielo aperto. Dal punto di vista dell’attrattiva esercitata sui visitatori dell’area protetta, i geositi si distinguono dalle valenze botaniche o faunistiche perché sono sempre disponibili, il più delle volte facilmente accessibili tranne che per le forme sotterranee, e la loro fruizione è pienamente sostenibile. Data l’importanza di tutelare, ma anche di godere di questo patrimonio, l’Università degli Studi di Camerino e la XII Comunità Montana Monti Ernici, nell’anno 2001, hanno stipulato una convenzione di studio affidando al sottoscritto una ricerca per l’individuazione, la catalogazione e la presentazione delle forme carsiche presenti. Il frutto di questa ricerca è stato raccolto in una pubblicazione, nel 2002. Successivamen-


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te la SIGEA (Società Italiana di Geologia Ambientale) ha proposto di progettare percorsi naturalistici che potessero avvicinare la popolazione residente e non, a conoscere meglio questo ulteriore valore ambientale. Nello stesso anno sono stati tracciati tre percorsi, riassunti poi in un poster, e presentati all’Università degli Studi di Genova nell’ambito di un

ginatesi sottoterra oggi affioranti. I tre percorsi verranno illustrati nel dettaglio nei prossimi numeri della rivista “Il Guitto”.

convegno della SIGEA, proprio incentrato sui geositi. Il primo di questi percorsi interessa gli elementi che spiegano le origini e la storia del lago, come le faglie, i resti fossili, le grotte e gli inghiottitoi. Il secondo si snoda nello scenario degli elementi di maggiore visibilità assoluta del paesaggio tra il lago, le doline (fondi prosciugati di antichi laghetti), gli inghiottitoi e i pozzi di crollo. Il terzo è dedicato alle forme affioranti del carsismo come pietraie, campi solcati, massi corrosi isolati (hum), vasche di corrosione e marmitte (pietre forate dall’acqua), e alla storia geologica dell’area, come scarpate di faglia, resti fossili, forme ori-

il Guitto - Rivista di cultura fumonese e ciociara Direttore: Elisa Potenziani - Direttore artistico: Francesco Caponera Hanno collaborato a questo numero: Elisa Alviani, Roberto Bellotti, Alberto Bevere, Lamberta Caponera, Umberto Caponera, Valentina Cardinale, Giuseppe Cino, Felice D’Amico, Marilinda Figliozzi, Cecilia Giovannetti, Matteo Petitti, Stefano Petri, Leda Virgili

info.ilguitto@gmail.com facebook: www.facebook.com/ilguittodifumone Codice IBAN: IT97 F076 0114 8000 0102 7118 502

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Le vie dei canti di Roberto Bellotti

Il lago di Canterno, non distante dall’abitato di Fumone, ha rappresentato per molto tempo una risorsa importante per la vita quotidiana delle persone dei centri abitati circostanti che vi si recavano per il pascolo e l’abbeveramento delle greggi e delle mandrie, per raccogliere l’acqua necessaria alle attività domestiche, per la coltivazione degli orti e dei campi che ancora oggi tappezzano l’ampia piana che chiude il lago e anche per il bucato, approfittando dell’ampia disponibilità di acqua, quando ancora la rete di distribuzione idrica non raggiungeva tutte le abitazioni private. Fa parte della memoria storica di molte famiglie fumonesi, infatti, il recarsi delle donne al lago a dorso di muli e asini, per il bucato.Tra di loro c’era anche chi svolgeva tale servizio per conto delle famiglie più abbienti, soprattutto in occasione dei cambi stagionali delle pesanti lenzuola di lino tessuto a mano, che venivano lavate, profumate e riposte per l’inverno successivo. Le donne seguivano sentieri diversi: quello cosiddetto “delle lavandaie” che aveva origine dalla località “Vallefredda”, quello che passava per la località “Monte di lago” ovvero, infine, quello che scendeva dalla località “Pozzi”, ora strada asfaltata ma all’epoca poco più che un sentiero sterrato. La discesa veniva allietata dai canti

delle donne che portavano con sé i propri bambini, messi a cavalcioni sugli asini e sui muli, indumenti e biancheria da lavare e i cosiddetti “lavaturi” in legno che servivano come piani di appoggio sui quali ogni donna strofinava il proprio carico. Il tratto di riva preferito per il “rito” era quello alle pendici di Monte Maino, perché più vicino ma, soprattutto, perché lì le acque erano più pulite. Nel ripercorrere oggi quei sentieri non è difficile, con un piccolo aiuto dell’immaginazione, riascoltare quei canti gioiosi, quelle vivaci conversazioni delle ilari donne che coglievano l’occasione per aggiornarsi sulle vicende dei compaesani. Non è difficile neanche provare a immaginare le macchie di colore del bucato adagiato sui rovi per l’asciugatura, provare a respirare ancora l’odore dei saponi fatti in casa con soda e grasso animale cui venivano aggiunti candeggina e borotalco. Gli ingredienti di quei saponi che ancora si possono trovare in qualche angolo recondito delle case dei nostri nonni, venivano sciolti nella “cuttora” - recipiente in rame molto ampio - e quindi riversati nelle “scife” per il raffreddamento e il taglio. I nostri anziani, poi, ricordano ancora come la sera precedente la “gita” al lago, i capi da lavare venissero sottoposti all’ammollo nella “co-

lata”, detergente composto da acqua e cenere, quest’ultima cernita con le “vigliare”. La giornata si chiudeva spesso con le donne che si cambiavano le vesti fradice al riparo dagli sguardi troppo curiosi dei viandanti – non sempre occasionali – e con il ritorno nelle proprie abitazioni, stanche ma appagate anche dalle splendide vedute ammantate delle intense tinte che l’area del lago regala sul finire del giorno nelle stagioni più calde. Il lago veniva frequentato poi dai numerosi pastori che scendevano dai paesi vicini per portare le greggi al pascolo e all’abbeveramento. Rimane impressa nella memoria dei nostri anziani la transumanza verso la pianura pontina dei pastori provenienti dai vicini Monti Ernici, da Guarcino in particolare. È evidente come l’area del lago abbia sempre rappresentato un luogo di incontro e di scambio fra persone che discendevano dai paesi circostanti. Ancora oggi la popolazione di Fumone e degli altri comuni mantiene un rapporto strettissimo con il lago, con le sue acque e con le fertili terre che lo circondano. Ne sono testimonianza gli innumerevoli mezzi agricoli che nei mesi estivi fanno la spola per caricare l’acqua dai pozzi alimentati dalle acque del lago e il brulicare delle persone intente alla cura degli orti


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Lago di Canterno. Donne intente al bucato in una cartolina postale degli anni Trenta (Collezione R. Bellotti).

che tappezzano la piana. L’intensa vita sociale che da sempre si è sviluppata intorno al lago beneficiava di numerosi sentieri che consentivano spostamenti agevoli e rapidi tra quasi tutti i centri abitati del circondario. Quei sentieri, costruiti dai nostri avi, spesso non coincidenti con la moderna rete viaria, sono ancora a nostra disposizione anche se in alcuni punti non sono più facilmente riconoscibili e se ne sta perdendo traccia a causa del loro scarso utilizzo. Sarebbe molto importante recuperarli, valorizzarli e, naturalmente, mantenerli. In primo luogo perché così si rafforzerebbero memoria storica e radici della nostra comunità, in secondo luogo perché potreb-

bero costituire un volano per l’economia locale. Essi, infatti, potrebbero essere percorsi da chi volesse avventurarsi alla scoperta dell’area a piedi, in bici o a cavallo; consentirebbero loro di godere di paesaggi suggestivi, di colori sempre coinvolgenti, dei profumi dei campi, lontani dalle strade percorse dai veicoli motorizzati. Potrebbero poi essere collegati alla nota ciclovia già esistente che, seguendo il percorso della vecchia linea ferroviaria tra Roma e Fiuggi, collega quest’ultima con Piglio. Gli eventuali progetti di valorizzazione si inserirebbero dunque in un contesto italiano ed europeo in cui i temi della mobilità sostenibile, del turismo “slow” e responsabile, hanno sempre maggiore dignità e

interessano sempre più persone. Verrebbe così aggiunta un’altra importante tessera al già ricco mosaico dell’offerta culturale del nostro territorio a beneficio dei visitatori delle nostre terre. Un pieno recupero di tale patrimonio, alla luce delle sue originarie caratteristiche di inclusività, non può prescindere da una stretta collaborazione tra le comunità e gli enti che hanno responsabilità e interessi sull’area: solo così potranno essere attivate sinergie finanziarie e culturali. Un progetto di valorizzazione così ampio e complesso probabilmente richiede tempi lunghi. In attesa che ciò si realizzi si potrebbe però cominciare a lavorare sul territorio fumonese.


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Viaggiare in Ciociaria

Fumone, il suo “Olimpo” di Elisa Potenziani con foto di Alberto Bevere

La felice espressione coniata da Curzio Malaparte che definisce Fumone l’“Olimpo” della Ciociaria, caratterizza in modo lapidario il grazioso comune della provincia di Frosinone. Le sue origini sfumano nella leggenda: si è creduto, erroneamente, che Fumone fosse l’antica antenna degli Ernici, favoloso rifugio di Tarquinio il Superbo in fuga da Roma mentre, più probabilmente, quella denomiazione “Antenna” (C. Plinii Secundi Historiae mundi libri XXXVII, Volume 1) si riferiva ad una città diversa dall’attuale Fumone. Certamente la posizione geograficamente favorevole fu sfruttata dagli Ernici prima e dai Romani poi: tra la valle del Cosa e quella del Sacco, su un monte isolato di forma conica, Fumone, con i suoi 783 metri s.l.m., domina la valle circostante costellata di città storicamente importanti. Ancora oggi si accede al paese attraverso due ingressi: Porta Romana che, rivolta verso Roma, nel passato costituiva l’unico accesso alla fortezza, e Porta Napoletana (o posterula, porta secondaria, da cui la deniminazione attuale “portella”); quest’ultima, rivolta verso Napoli, era in realtà un’uscita

di sicurezza che ha conservato il suo assetto originario fino al XIX secolo. Il nome Fumone deriva da una pratica militare a scopo difensivo risalente al Medioevo: dall’alta torre di avvistamento si innalzava una densa colonna di fumo, segnale dell’arrivo imminente di un pericolo che veniva ripreso e trasmesso dalle fortezze del territorio circostante fino a Roma che in, questo modo, veniva avvisata tempestivamente. Da tale usanza deriva anche il detto “cum Fumo fumat, tota Campania tremat” (quando Fumone fuma, tutta la Campagna trema), intendendosi per Campania l’antica regione interna dell’attuale basso Lazio. L’edificio più rilevante che ha caratterizzato e condizionato lo sviluppo del centro storico è il Castello: il primo documento ufficiale che ne attesta l’esistenza risale al 962 d.C. quando l’imperatore di Germania, Ottone I di Sassonia, donò al pontefice Giovanni XII la rocca di Fumone insieme alle città di Teramo, Rieti, Norcia e Amiterno. Principale castellania del Patrimonium Sancti Petri nel Basso Lazio, durante il Medioevo il Castrum Fumonis

apparteneva a una rete difensiva di fortezze direttamente soggette alla Chiesa tra le quali figuravano Paliano, Serrone, Lariano, Castro dei Volsci tutte legate all’autorità del pontefice da un giuramento di fedeltà. L’inespugnabilità della rocca fu confermata in due importanti occasioni: nel 1155 quando fu assalita, invano, da Federico Barbarossa e ancora nel 1186 quando, unica a resistere, vide allontanarsi lo sconfitto Enrico VI Hohenstaufen, figlio del Barbarossa. Nel 1230 papa Gregorio IX recuperò definitivamente la rocca togliendone il possesso ai custodi, dopo l’esborso di svariate libbre d’oro a titolo di liberale indennizzo. Da roccaforte militare e prigione pontificia nella quale vennero reclusi personaggi di prim’ordine, il Castello di Fumone divenne proprietà della famiglia Longhi: risalgono al 1536 gli Statuta del Comune di Fumone, corpus di provvedimenti che regolava la vita cittadina, mentre il Castello, già disarmato nella seconda metà del secolo precedente, venne acquistato da Giovanni Longhi che lo trasformò in residenza signorile creando sulle rovine delle mura difensive e del maschio centrale un caratteristico giardino pensile all’italiana a pianta vagamente trapezoidale. Il giardino copre una superficie di circa 4000 mq e si trova a 803 metri s.l.m.: da questa posizione lo sguardo riesce ad abbracciare circa quarantacinque paesi. Il giardino pensile di Fumone è tutelato dalle leggi 1089/1939 e 1497/1939 e vincolato dalla legge regionale sui castelli storici laziali. Il palazzo, nel suo complesso, risulta attualmente costituito da più corpi di fabbrica, al-


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cuni risalenti al Medioevo, altri costruiti tra il 1600 e il 1800 per volere dei marchesi Longhi. Conserva ancora al suo interno la cella in cui, si dice, morì Celestino V, l’eremitapapa che nel dicembre 1294 rinunciò al soglio pontificio. È frequente l’associazione di quel gesto al famoso verso dantesco «fece per viltade il gran rifiuto», (Inferno, III vv. 59 e seg.) su cui, in realtà, persistono forti dubbi, a cominciare da quelli mossi da Francesco Petrarca nel De vita solitaria. La cappella adiacente, a pianta circolare, risale all’inizio del XVIII secolo, sorta in sostituzione di una originaria forse eretta dopo la canonizzazione del 1313. Nell’attuale cappella si trova un altare al di sopra del quale è conservata un’effige del santo molisano. Il Castello racchiude anche un’altra preziosa testimonianza storica: la casa-museo Ada e Giuseppe Marchetti Longhi. L’appartamento, abitato dall’importante archeologo romano, è stato donato nel 1989 al Comune di Fumone dall’erede della coppia, Valerio Bufacchi: al suo interno sono conservati arredi del XIX secolo e collezioni di interesse storico e antropologico. Altri monumenti degni di nota sono: - la chiesa collegiata della Santissima Annunziata, risalente al XII secolo ma profondamente modificata nel XVIII: era la chiesa dei signori della rocca e al suo interno, al centro del soffitto, è raffigurato il miracolo legato alla morte di papa Celestino V, una croce luminosa apparsa in cielo a testimonianza della santità dell’eremita sulmonese; - la chiesa della Madonna del Rosario,

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del XIV secolo, si trova di fronte alla collegiata: aperta al culto fino al 1819, è oggi sconsacrata e adibita al ricovero di suppellettili ecclesiastiche e statue processionali. Al suo interno è ancora conservato l’altare in stucco seicentesco; - la chiesa di San Gaugerico risale al XIV secolo: di piccole dimensioni, sorge sui resti di un edificio precedente. L’esterno è caratterizzato da un portale gotico e gli ambienti seminterrati, di proprietà privata, hanno eleganti volte a crociera. Il campanile, un tempo a vela, è stato modificato nel 1934; - la chiesa Santa Maria degli Angeli è la cappella privata della famiglia Cocchi: risalente alla metà del XVIII secolo, fu edificata per volere della nobildonna Anna Maria Cocchi al posto di un’antica edicola lungo il percorso che conduceva dalla campagna al Castello. Al suo interno si trova un dipinto quattrocentesco raffigurante una Madonna con Bambino e angeli che sorreggono una corona; - la chiesa di San Giuseppe, oggi sconsacrata e adibita a residenza privata, è nascosta tra i vicoli del centro storico: la sua facciata, rinnovata nei primi anni del Novecento, la rende austera e signorile. Tutto il borgo, inoltre, può essere considerato un museo diffuso: percorrendo i vicoli del centro storico con il naso all’insù si scoprono case-mura, torri, bifore, resti di un camino

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medievale che un crollo ha denudato in via Covone e, nello stesso vicolo, un frantoio, proprietà della famiglia Longhi, le tracce di mura poligonali in piazza di Porta Romana e lungo via della Croce, un robusto portico in via Torricelle. Fumone offre dunque una valida proposta per chiunque voglia trascorrere un fine settimana rilassante concedendo l’opportunità di programmare un itinerario alla scoperta delle vicine città ciociare.


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Ferentino: “Det tibi florere Christi potentia vere” (La forza di Cristo ti conceda di fiorire nella verità) di Leda Virgili con foto di Alberto Bevere

Così recita il motto che si trova sullo stemma della città di Ferentino, l’antica Ferentinum, posta su di una collina dei Monti Ernici a circa 395 mt s.l.m. la quale costituiva, forse, un avamposto militare strategico degli Ernici, popolazione preromana che abitava in un’area delimitata del Lazio meridionale, tra il lago del Fucino e il fiume Sacco, le cui città più importanti erano Anagni, Alatri, Veroli e, appunto, Ferentino. Si può visitare la città partendo da Porta Montana, posta nell’area nord del centro storico: questa, anche se presenta vari rifacimenti, non ha perso per nulla il suo fascino, anzi, essendo una porta di tipo sceo, ci offre la possibilità di ricordare la mitica città di Troia. Dopo un breve tragitto, arroccata su di una scalinata, si trova la chiesa di Santa Maria dei Cavalieri Gaudenti (XIII sec.) all’interno della quale è conservato un quadro di Andrea Giorgini raffi-

gurante santa Caterina, mentre accanto alla scalinata della chiesa si erge il Palazzo dei Cavalieri Gaudenti (XIII sec.), ordine cavalleresco di cui parla anche Dante, collocando nella bolgia degli ipocriti due concittadini fiorentini appartenenti a tale ordine (Inferno, Canto XXIII). Dopo quindici metri s’incontra il Palazzo di

Innocenzo III (XIII sec.) sulla facciata del quale, in epoca antica ed entro formelle di marmo ancora oggi visibili, era raffigurato un giglio, stemma della Città di Ferentino. Proseguendo per l’Acropoli, su via don Giuseppe Morosini (il sacerdote ferentinate, cappellano militare e partigiano, ucciso a Roma il 3 aprile 1944, la casa del quale si affaccia su questa strada), si arriva al Mercato Romano datato al II sec. a.C., molto interessante dal punto di vista architettonico perché costituito da una sala principale e da cinque sale laterali: l’arco d’entrata è realizzato “obliquo” per far sì che la luce del sole raggiungesse con facilità la parte finale della galleria principale e delle sale laterali. Proseguendo, si arriva dunque a Piazza Duomo: qui sorge la basilica dei Santi Giovanni e Paolo (XII sec.) all’interno della quale si ammira un meraviglioso mosaico pavimentale del XIII secolo, opera dei Maestri Cosmati, ottenuto utilizzando vari tipi di marmo; allo stesso secolo risalgono il ciborio di marmo, opera di Drudus De Trivio, e il candelabro tortile. Dopo la visita del Duomo, è


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d’obbligo un tour intorno all’Avancorpo dell’Acropoli, struttura realizzata nel II sec. a.C. nei pressi della quale, grazie alla sua struttura architettonica, non si può non far riferimento ai grandi santuari a terrazze italici come il Santuario della Fortuna Primigenia di Palestrina, il Santuario di Ercole Vincitore a Tivoli o il Santuario Giove Anxur a Terracina. Da qui si può raggiungere Palazzo GiorgiRoffi-Isabelli del quale, su prenotazione, è possibile visitare l’interno: questo Palazzo è il risultato dell’unione di più strutture e mantiene pitture murali realizzate tra il 1700 e il 1800. Altro Palazzo che si raggiuge con facilità dall’Avancorpo dell’Acropoli, è il Palazzo del Governo o Palazzo dei Consoli, sede del Municipio di Ferentino sino a poco dopo la Seconda Guerra Mondiale. Nella parte bassa, dove c’è la sede dell’Associazione Pro Loco Ferentino (tel. 0775 245775), si possono ammirare i resti di una Domus romana del II sec. d.C. (ingresso libero) mentre, sulla facciata del Palazzo, di epoca medievale ma ingrandito in seguito, campeggia una bella loggia composta da tre bifore. Da Piazza Mazzini si giunge alla chiesa di Santa Maria Maggiore solo dopo aver fatto una breve sosta su Piazza Matteotti dove si trova il monumento ai caduti della Prima Guerra Mondiale, progettato dall’Arch. Luigi Morosini, ferentinate e cognato di Giuseppe Sacconi (l’architet-

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to che concepì il progetto del Vittoriano). Passando accanto alla chiesa di San Valentino, che nel 1060 era di proprietà dell’Abbazia di Montecassino, ci si può soffermare qualche istante per ammirare la bella abside pensile che sovrasta l’ingresso dell’oratorio dedicato ai santi Filippo e Giacomo. La chiesa di Santa Maria Maggiore, in stile gotico-cistercense edificata tra il 1140 e il 1150, si trova su un terrazzo di epoca romana e copre i resti di altri edifici destinati al culto cristiano, tra cui quelli di una Domus Ecclesiae e quelli della chiesa del IX sec. che ha custodito i resti del Patrono di Ferentino sant’Ambrogio Martire – centurione romano martirizzato a Ferentino il 16 agosto 304 – sino al 29 dicembre 1108, quando le reliquie del santo furono trasferite, con processione solenne, nella nuova Cattedrale sull’Acropoli. Sulla facciata della chiesa Abbaziale di Santa Maria Maggiore, a “reggere” la lunetta che sovrasta il portale di sinistra, due testine rappresentano Federico II e sua madre Costanza D’Altavilla: secondo la tradizione locale questi due personaggi avrebbero elargito donazioni per la costruzione della chiesa e ciò spiegherebbe il posto d’onore a loro assegnato. Cosa certa è che lo Stupor Mundi ha soggior-

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nato molte volte in questa Abbazia perché molto amico dei monaci cistercensi. Per chi ha ancora tempo a disposizione, prima di raggiungere il quartiere di santa Lucia, si può visitare, al di fuori di Porta Maggiore, il Testamento di Aulo Quintilio (57-117 d. C.), monumento considerato un “unicum” al mondo per le sue caratteristiche. Da qui, risalendo il viale e costeggiando la cinta muraria, si raggiunge il quartiere più antico di Ferentino, quello di Santa Lucia, entrando da Porta Sanguinaria, chiamata così perché legata a fatti di sangue: da questa porta, in epoca romana, uscivano i condannati a morte e nel 211 a.C. fu teatro di una violenta battaglia contro Annibale. Si incrociano poi i resti del Teatro Romano di I-II sec. d.C. e la graziosa chiesa di Santa Lucia, risalente al IX secolo. Prendendo uno dei vicoli che partono dall’area circostante quest’antica chiesa, si può tornare a Porta Montana, dove avevamo iniziato il nostro tour: durante il tragitto si incontrano la chiesa di San Francesco e Porta san Francesco, una delle porte principali della Ferentino medievale. Non si può non menzionare, infine, l’Eremo di Sant’Antonio Abate, edificato nel corso del Medioevo e primo sepolcro di Pietro del Morrone, conosciuto da tutti come Celestino V, patrono secondario della Città di Ferentino, morto nel Castello di Fumone il 19 maggio 1296: le spoglie del santo rimasero in questo sito per oltre trenta anni, poi trafugate e portate a L’Aquila, nella Basilica di Collemaggio mentre a Ferentino rimasero solo un pezzo del cuore, ora custodito dall’Ordine delle Clarisse, e alcuni oggetti personali del santo confessore.


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Porciano: dall’antico castrum medioevale al borgo moderno di Matteo Petitti con foto di Alberto Bevere

Due storie distinte ma continue per uno stesso luogo: questa è l’immagine che la storiografia fornisce per descrivere le vicende, per quanto ancora in gran parte misteriose, del piccolo borgo. Le due storie si riferiscono a periodi diversi: quello del “Castrum Porciani” che va dalle origini documentate alla seconda metà del XV secolo e quello che va dalla metà del XVIII secolo ad oggi, il quale vede protagonista il borgo come lo conosciamo. Tra il monte Cisternola e il monte Pratella a circa 900 m s.l.m. sorgeva, nei pressi del luogo dove tutt’ora sono visibili le sue rovine, il Castrum Porciani costituito nel suo corpo centrale dalla rocca da cui si sviluppano altre costruzioni: cinque chiese e un numero non trascurabile di abitazioni, il tutto distribuito su un’area di circa 4 ettari. Il castello occupava una posizione strategica dalla quale era possibile dominare a nord-ovest la valle Anticolana

e a sud-est la valle del Sacco. La più antica testimonianza sul Castrum risale al 1085, quando Trasmondo di Amato fa dono, per motivi religiosi, al monastero di Subiaco di tutti i suoi beni dislocati nel territorio di Porciano. All’interno del Castrum la popolazione che vi dimorava dipendeva direttamente dalla Chiesa di Roma; gli abitanti avevano il compito di difendere militarmente il castello in cambio del godimento collettivo del territorio dipendente dal castello (terreni seminativi, pascoli, boschi e acque), a cui in più veniva pagato un canone annuale di sei libbre d’argento per il riconosciuto dominio. La comunità era governata da figure magistraturali (balivi e rettori) che amministravano la cosa pubblica e garantivano la sicurezza del castello, che raggiunse in alcune fasi anche i 1200 abitanti. A partire dal XIII sec. diverse furono le vicende storico-giuridiche che legarono la storia del

Castrum a quella del monastero benedettino di Subiaco, prima tra tutte l’assegnazione del censo di Porciano al priore dello Speco da parte di Papa Innocenzo III con bolla del 24 febbraio 1203, forse per motivi di carattere politico. Nel corso del XV secolo, dopo essere stato dato alle fiamme per le lotte che imperversavano tra il Papato e il re di Napoli, la condizione giuridica del Castrum mutò poiché esso venne infeudato a Pietro De Viviani da parte di papa Eugenio IV con bolla del 5 maggio 1436. Il dominio durò fino al 1464, cioè fino alla morte di De Viviani quando il capitolo della Cattedrale di SS. Giovanni e Paolo di Ferentino figurò come beneficiario testamentario del castello che nel frattempo era stato ricostruito e fortificato. Il 1464 tuttavia rappresenta il momento in cui la storia del Castrum inizia la sua parabola discendente a causa del graduale abbandono


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da parte degli abitanti che perdettero indipendenza giuridica e territoriale fino a diventare coloni. La maggior parte di essi si spostò nei comuni limitrofi, ma continuò a sfruttare le risorse agricole dell’antico agro del castello in particolare i territori in prossimità del “Casale”, edificio compreso tra il territorio di Fumone e il Lago di Canterno, costruito nel 1646 e tutt’ora esistente, che diventò residenza estiva dei vescovi di Ferentino. Negli anni a seguire nei pressi del Casale verrà costruita la chiesa di Sant’Erasmo, attuale protettore della contrada. Intorno alla metà del XVIII secolo quei contadini e pastori che non abbandonano mai del tutto il tenimento dell’antico castello iniziarono a stanziarsi in un luogo compreso tra il vecchio castello (a circa 2 km a

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sud di questo) e il Casale, formando un nuovo agglomerato urbano: la “Nuova Porciano”. L’edificazione del nuovo abitato si ripercuote direttamente sulla distruzione dell’antico, che verrà quasi del tutto demolito, perché da esso verrà prelevato materiale da reimpiegare nelle nuove costruzioni. Nel corso del XIX secolo l’ormai “Castrum dirutum” fu spesso dimora dei briganti provenienti dal Regno delle Due Sicilie. Oggi il Borgo si trova entro i confini comunali di Ferentino, gli abitanti residenti non superano le 300 unità, ma nonostante tale esiguo numero la vita all’interno del borgo è particolarmente animata soprattutto nel periodo estivo e in occasioni come la festa patronale di Sant’Erasmo (2 giugno) a cui si

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lega l’antichissima tradizione della panarda, che consiste nella distribuzione di una o due pagnotte di pane benedetto, dal valore taumaturgico, agli abitanti del borgo e ai visitatori; la festa di Cristo Re (domenica precedente all’inizio dell’Avvento) cui è intitolata la chiesa parrocchiale, unica nel centro abitato della borgata, costruita nel biennio 1929-1930; la frequentatissima festa del santuario della Madonna della Stella (8 settembre) a cui per una più approfondita trattazione si rimanda alla lettura delle pp. 6-7 del n. 4 della rivista “il Guitto”. Visitare oggi il Borgo, passeggiando tra le antiche viuzze, permette di scoprire scorci resi quanto mai suggestivi da alcune pitture murali realizzate in occasione delle tredici edizioni della rassegna pittorica “otto arte” organizzata dall’Ass. “il Cartello”: l’intervento creativo intende valorizzare, attraverso i soggetti scelti, la tradizione contadina e pastorale del borgo. Fonti e riferimenti bibliografici: F. Cardinali – T. Cardinali, Porciano. Storia e tradizione, Porciano - Ferentino 1999 ISALM, La Panarda di Porciano, Anagni 2016 (supporto multimediale) G. Rocchetti, Il dominio collettivo nel tenimento e Castello di Porciano (1202-1264), Ferentino 1935 Sitografia http://www.associazioneilcartello.it/press/, consultazione 1 marzo 2017

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Fiuggi, fonte del benessere di Felice D’Amico con foto di Alberto Bevere

La fortuna del nostro progresso risiede soprattutto nella presenza nel territorio della sorgente Fiuggi che ha sempre rappresentato il volano della nostra economia ed il cui sfruttamento oltre che dall’impegno e il lavoro dei nostri padri è stato avviato da imprenditori forestieri (Palladino, Spada, Frascara, Casalini, Breda, Della Casa, De Simone Niquesa, Ciarrapico) e quasi sempre abbiamo avuto il sostegno di importanti uomini politici (Giolitti, il Marchese San Giuliano, Andreotti, Campilli) . Oggi Fiuggi ha assunto l’aspetto di una città che si espande intensamente lungo i pendii dei colli e le concavità delle valli e per raffigurarla nella sua complessità la fotografia ha bisogno di pazienti collages. La visione delle vecchie cartoline ci provoca immancabilmente una forte sensazione emotiva fino a stimolarci un groppo di nostalgico rimpianto per la perduta illibatezza del nostro ambiente. I primordiali abitanti vivevano prevalentemente di pesca e delle connesse attività agro-silvo-pastorali. Non per niente nello stemma del gonfalone cittadino, lungo una banda trasversale, sono raffigurati tre pesci (carpe) i quali, emblematicamente stanno a testimoniare l’antica cultura, socio-economica, della primigenia popolazione anticolana. Nell’economia di un paese in cui sono sufficientemente sviluppate la pastorizia con l’allevamento di armenti, l’acqua, indispensabile al loro mantenimento, ne rappresenta l’elemento insostituibile. Non era solamente “il grande lago di Canterno” che caratterizzava l’ambiente, naturalmente molto più esteso di quello di oggi, tanto che le acque invadevano tutto il fondo valle delle “Prata”, ma nel nostro territorio esistevano, fin verso la fine dell’Ottocento, una decina di laghi, laghetti, stagni, specchi d’acqua, forre, pantani, fonti e fontanili vari. L’economia di Fiuggi è stata sempre basata sull’acqua: ieri erano gli specchi d’acqua che sviluppavano l’agricoltura e la pastorizia, cul-

tura preminente della vita sociale in un determinato periodo di storia, oggi è l’acqua delle Fonti che determina il moderno sistema economico della città. L’antico agglomerato urbano (castrum) era difeso da mura, oggi scomparse e inglobate dalle periodiche costruzioni abitative, mura che erano intervallate da torrioni i cui resti ancora oggi si possono intravedere. In sostanza la primigenia Anticoli possedeva tutte le caratteristiche urbanistiche e architettoniche delle roccaforti fortificate dell’Antichità e del Medioevo. Il Castrum di Anticoli di Campagna era, anche prima dei signori di Poli, dipendente dalla Chiesa e gestito attraverso una famiglia papale, ossia un gruppo di vassalli che non ricevevano concessioni terriere e non amministravano la giustizia, ma che in pratica sostituivano il potere del Papa in loco.Tale classe sociale tenne di fatto il potere anche durante il periodo degli Oddoni. Il 2 dicembre 1196 il conte Amato cedeva ad altra famiglia metà del castello, ma con documento del 1248 i feudatari, suoi discendenti, rivendicarono i loro diritti, contro un’investitura concessa da Innocenzo IV a Pietro Bono che era stato incluso nella famiglia papale di Anticoli. Da questi elementi si può affermare che sostanzialmente dal primo Medioevo, la sorte di

Anticoli rimase legata a quella pontificia e che il governo della città fu assicurato dai delegati papali che, sotto varie forme, si avvicendarono nel castello. Nel caso di Anticoli di Campagna il legame con lo Stato avveniva principalmente attraverso la nomina di un Vicario, designato dalla Curia e in carica per un semestre, il quale aveva poteri di amministrazione finanziaria e giudiziaria e fornito di uno stipendio personale e per gli addetti a tali compiti. Essi non potevano violare gli statuti o introdurre nuove tasse senza il consenso degli eletti del popolo. Gli statuti di Anticoli del 1420, prezioso documento che può aiutare a leggere le origini di questo territorio, riportano i caratteri salienti della comunità, dell’economia, del funzionamento della vita sociale e politica di Anticoli. Dalla lettura di questi possiamo affermare che durante il periodo comunale si introdussero importanti differenziazioni socio-economiche nella società anticolana che contava all’epoca circa mille abitanti. Si rafforzò in particolare la parte dei cavalieri e dei massari che aumentano il loro potere rispetto ai “Familiae Papae” e ai “Populares”. Nel 1425 Oddone Colonna Principe di Genazzano elevato al soglio pontificio col nome di Martino V concesse in uso perpetuo alla popolazione anticolana le sorgenti “Fiujy”.


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Col tempo l’imposizione papale si mitigò per poi scomparire gradatamente, rimanendo in effetti il privilegio di attingimento e di abbeverata che si trasformò in proprietà e possesso della comunità fino al 1870, anno dell’annessione del Lazio al regno d’Italia. Il privilegio del Papa si trasformò in concessione naturale alla municipalità che ereditò tutti i beni del cessato potere temporale della Chiesa, concessione che fu poi legalizzata, attraverso vari decreti, dal governo fascista negli anni che vanno dal 1927 al 1936. Dal 1400 ci vollero ancora quattro secoli per iniziare il percorso turistico della città, allargare e potenziare la fama di questo territorio. Il borgo agricolo di Anticoli diventa tra la fine dell’800 e gli inizi del 900 uno dei centri termali più importanti d’Italia grazie alla combinazione di due importanti fattori. La notorietà della sua acqua e la presenza di personaggi famosi d’importanza internazionale. Questa combinazione deriva da molteplici ragioni tra cui la posizione geografica, la vicinanza con la capitale, il clima estivo, l’ambiente ameno, i soggiorni dei Reali d’Italia ma indubbiamente senza i dottori Attilio e Dandolo Mattoli non sarebbe mai decollata. Sembra curioso ma è così. I dottori Mattoli erano praticamente medici omeopatici letteralmente cooptati da quasi tutti i personaggi più famosi che frequentavano Fiuggi. I Mattoli, conoscitori di tutti i rimedi naturali e omeopatici, prescrivevano ai loro particolari pazienti l’acqua di Fiuggi per la cura di molteplici malattie, cosicché le fonti e la città trassero sicuramente benefici incredibili sia direttamente che indi-

importanti personalità nel campo finanziario imprenditoriale e il senatore Alessandro Casalini veneto di Rovigo, presidente delle acciaierie di Terni nonché comproprietario del Giornale d’Italia, sono gli eredi di un progetto per Fiuggi perseguito dal senatore veneto Vincenzo Stefano Breda concessionario del contratto di gestione delle terme di Fiuggi ma a seguito della sua morte avvenuta nel 1903 i programmi si interrompono. I fratelli Frascara e Casalini riprendendo i progetti di Breda, fonderanno e presenzieranno la Società Anonima Fiuggi che poi gestirà le terme sino al 1960. Altri personaggi importanti calcano in questi primi anni del 1900 le scene di Fiuggi: Giolitti, la regina Elena, il re Vittorio, il

rettamente dalla frequenza assidua nella città di questi personaggi. Il primo ventennio del 1900 è, quindi, un periodo per Fiuggi fondamentale per lo sviluppo futuro. I personaggi protagonisti dello sviluppo di Fiuggi sono legati tra loro per amicizia e per territorialità: I fratelli Giacinto e Giuseppe Frascara di Alessandria entrambi senatori del Regno nonché

Marchese di San Giuliano Antonino Paternò Castello, Marco Besso legato aVenezia tramite la moglie Ernesta il cui genitore Isacco Pesaro Maurgonato è deputato nella circoscrizione diVenezia, Nicolò Spada di Venezia tutti legati ad un filo sottile che unisce amicizie e relazioni lungo un’asse territoriale Roma - Venezia. Questo periodo è stato cruciale per la con-

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figurazione della città termale. L’imprenditore veneto Nicolò Spada affidò all’architetto Giulio Magni il progetto per la nuova città di cui oggi rimane solo parte del complesso edilizio che circonda Piazza Spada ed alcuni villini. L’architetto Garibaldi Burba produsse due capolavori: il Palazzo della Fonte nel 1911 ed il complesso della Fonte Bonifacio VIII nel 1910, oggi purtroppo scomparsa a causa della sua demolizione per far posto ad un altro capolavoro di architettura moderna progettato dall’architetto Luigi Moretti. Ancora prima nel 1906 un altro architetto romano importante dal nome di Giovan Battista Giovenale progetta e ci consegna un gioiello di architettura liberty: il Grand Hotel – Teatro-Casinò di piazza dell’Olmo (oggi piazza Trento e Trieste) inaugurato da Giovanni Giolitti nel 1911. Questo complesso oggi adibito a teatro-sala mostre e scuola alberghiera è stato recentemente proclamato luogo del cuore FAI. Anche durante l’epoca del ventennio fascista la città continuò a crescere con imponenti opere ed interventi di architetti importanti come i progetti prodotti dal noto architetto romano Mario Paniconi per il Piano Urbanistico e la sistemazione di alcune aree della città. La storia di Anticoli-Fiuggi, come d’altronde quella di tutto il territorio degli Ernici, nasconde ancora molti avvenimenti e luoghi che ne plasmano l’anima. L’egemonia del papato in queste aree ha lasciato indirettamente tesori ed opere inestimabili in cui si può leggere tutto il passato. Si pensi che nel territorio di Anticoli composto da mille anime, nel XV secolo erano presenti sei complessi conventuali e nove chiese in cui si potrà ritrovare il genius loci del passato e meditare su alcune opere d’arte esistenti tra cui spicca la tela del Cavalier d’Arpino conservata presso l’antica chiesa di San Biagio raffigurante la Madonna tra San Francesco ed Sant’Agostino.


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Torre Cajetani: baluardo ciociaro di una famiglia potentissima di Valentina Cardinale con foto di Alberto Bevere

Torre Cajetani sorge sull’estremità orientale di un dorsale montuoso che si distacca dal versante meridionale dei Monti Ernici. Il centro ciociaro, il cui nome fa riferimento alla famiglia Caetani o Cajetani che qui avevano molti possedimenti, si erge a 819 m s.l.m. e i suoi 1.464 abitanti sono detti “torrigiani”. Le origini risalgono al 1180 come attesta una pergamena che dimostra l’esistenza in tale epoca di un abitato fortificato ormai pienamente formato ed organizzato, la cui difesa è demandata agli stessi abitanti. Nel 1303 una Bolla Papale sancì l’egemonia della famiglia Caetani nell’area e il castrum di Torre Cajetani divenne un importante punto strategico di difesa per contrastare la Famiglia dei Colonna. Il simbolo del paese, il Castello, è segno tangibile di continuità storica, un testimone vivo del Medioevo e del periodo di massimo splendore di questo borgo, il cui cuore, con i vicoli tortuosi e le antiche chiese che accolgono pregevoli dipinti, confermano l’atmosfera medievale. 
Torre Cajetani è un luogo specchio di una profonda devozione religiosa, terra di passaggio di San Benedetto che qui si fermò durante il suo viaggio da Subiaco a Cassino. Una chiesa e un monastero furono costruiti in occasione della visita del Santo

delle quali rimangono resti ancora visibili. Vicina ad Anagni, la “Terra dei Papi”, la città ospitò per un lungo periodo il Papa Bonifacio VIII che, per curare i suoi problemi di calcolosi renale (il famoso “mal della pietra” che tanto affliggeva il pontefice, illustrissimo membro della famiglia Caetani), beneficiava della sorgente d’acqua oligominerale in zona

Fontanelle. La presenza “sacra” oggi si concretizza con la presenza di numerosi luoghi di culto sparsi sul suo territorio: chiesette, cappelle e tradizioni locali ne sono un esempio, come l’imponente chiesa di Santa Maria Assunta in Cielo, la chiesa della Santissima Trinità o la presenza di una cappella nell’ala occidentale del


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Castello del tempo di Bonifacio VIII. Arte e storia ma anche paesaggi meravigliosi e verde incontaminato fanno di Torre Cajetani un luogo adatto agli amanti dello sport e della natura. Nella parte nuova del paese, per esempio, gli appassionati di pesca possono trascorrere ore piacevoli nel grazioso laghetto di Cerano o fare altrettanto nella Riserva Naturale Lago di Canterno.Torre Cajetani è inoltre il punto di partenza di molti tour esplorativi delle montagne vicine dalle quali si può godere della vista della Valle Anticolana, della Valle del Sacco fino ai Monti Lepini. Torre Cajetani è anche luogo adatto per gli

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amanti dei sapori autentici grazie alle sue eccellenze enogastronomiche: le sue campagne forniscono un olio di oliva di ottima

Ristorante del Pescatore ...da più di cento anni semplicità e tradizione a due passi dal lago di Canterno...

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qualità, gustose carni locali e la tradizione casearia trova nella produzione di ottimi formaggi ovini il suo punto di forza.


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Trivigliano: tramandare la storia attraverso le tradizioni di Elisa Alviani con foto di Alberto Bevere

Trivigliano è un caratteristico paesino di 1700 abitanti, arroccato su un monte isolato di 780 metri, nel territorio dei Monti Ernici, che si sviluppa sulle piccole valli circostanti per un’estensione totale di circa 12 kmq e confina a nord con Torre Cajetani e Guarcino, a sud con Fumone, a est con Alatri e a ovest con Ferentino e Fiuggi. Diverse sono le teorie sull’origine del toponimo Trivigliano: potrebbe far riferimento al nome del proprietario di una tenuta agricola risalente all’epoca imperiale (Trebellius) o all’espressione “Tres Vigilantes”, in relazione alle tre torri della cinta muraria, presenti anche nello stemma comunale. Certo è invece il primo documento storico risalente al X secolo che parla della controversia tra la sede vescovile di Alatri e alcuni uomini di Trivigliano (non ancora un vero

e proprio paese), per definire i confini di un nuovo centro in via di formazione. Se dalla piazza del paese è possibile godere di panorama mozzafiato sulla campagna circostante (non a caso soprannominata “Piazza Belvedere”), passeggiando per i vicoli del centro storico si possono osser-

Via Provinciale d’Accesso n.61 Fumone

vare edifici di rilevanza storica, legati alle tradizioni religiose del paese, che vedono prevalere tra la popolazione triviglianese, il culto della patrona santa Oliva, nobile anagnina del V secolo, festeggiata l’11 giugno, giorno in cui arrivò nel paese una reliquia della santa, gelosamente conserva-


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ta ed esposta ogni anno in occasione della festa: proprio a santa Oliva è dedicata una piccola cappella di fronte al Comune, in cui si può ammirare un affresco presumibilmente del XVII secolo e una statua della santa, rappresentata con un chicco di grano in bocca, in quanto protettrice del raccolto, contro le intemperie e il cattivo tempo. Proprio sopra la cappella di santa Oliva, sorge la chiesa dedicata a Santa Maria Assunta, costituita da un’unica navata a volta circolare, in alto l’organo del XVII secolo e in fondo al presbiterio l’altare maggiore rialzato con la maestosa pala

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dell’Assunta; all’esterno sorge la torre campanaria con l’orologio. Merita attenzione anche l’Eremo della Madonna delle Grazie, una piccola chiesa che sorge lungo le pendici del centro abitato, aperta solo in occasione della prima domenica di maggio e della festa di San Giuseppe quando la popolazione si riunisce per la santa messa e una piccola processione di ringraziamento. Proprio nella chiesetta della Madonna delle Grazie, è ospitato un piccolo museo dedicato ai mestieri e alla civiltà contadina: antichi strumenti, utensili di lavoro,

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oggetti della vita quotidiana riportano in vita un tempo passato, fatto di sapori genuini, gesti semplici ma fondati sui valori di umiltà e fratellanza che ancora oggi contraddistinguono il modo di pensare degli abitanti di questo piccolo paese. Durante l’anno sono diverse le manifestazioni e le attività organizzate a Trivigliano, uno tra tutti il Presepe Vivente, che ogni anno richiama migliaia di spettatori dai paesi limitrofi e non solo: il centro storico si risveglia e tutti si mettono in opera per rendere questa manifestazione sempre più affascinante.


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Curiosità e riflessioni sul lago di Canterno di Umberto Caponera con foto di Alberto Bevere

Chi è nato prima: l’uovo o la gallina? Quante volte abbiamo sentito questa domanda! Di solito non è seguita da alcuna risposta, ognuno sa che non v’è risposta logica. Venendo a noi, chi è nato prima: la contrada Canterno o il lago di Canterno? È il lago a denominare la contrada o l’inverso? In questo caso la risposta è piuttosto facile poiché si tratta di un lago giovane, formatosi definitivamente intorno al 1821. Le cronache del tempo, infatti, ci tramandano che in Fumone, in località Canterno, a causa dell’ostruzione della cavità “pertuso”, detta comunemente “bocca di Canterno”, si era formato un lago, quindi, non ci sono equivoci: è nata prima la contrada. La caratteristica del lago non è soltanto quella di essere giovanissimo, cosa ignorata dai più, ma aleggia su di esso anche un velo di mistero che assume varie sfaccettature. Non sempre le risposte scientifiche raggiungono l’orecchio popolare ed ecco, allora, che nascono congetture, risposte e “certezze” basate sul sentito dire. Una ricorrente, per esempio, è quella secondo la quale il lago sarebbe di origine vulcanica. Ipotesi nata probabilmente da una alchimia di frammentarie notizie tra loro anche inconciliabili: zona sismica “parente” di vulcanica, crateri spenti sono spesso sinonimo di lago. Un’altra novella circa l’epoca in cui si sarebbe formato il lago è circolata, ma per la verità con scarso credito. Facendo riferimento al breve contenuto del ”TRACTATUS PARVUS-F. CANGEMI” (1666) si sottolinea la presenza in zona di acqua limpida e ricca di vita animale e a sostegno si invoca come prova la carta di G. F. Ameti del 1693 che in prossimità di Fumone riporta due macchie riferibili a laghetti, ma non pare verosimile individuare in una di quelle macchie il nostro lago, sembrerebbe più rispondente l’ipotesi del laghi Lattanzi, quelli che noi chiamiamo “pantanegli”.

Oggi, fortunatamente, è piuttosto diffusa la giusta informazione: quello di Canterno è un lago di origine carsica, e addirittura uno dei più grandi d’Italia! Ma l’alone di mistero comunque resta e ciò che più alimenta le fantasie deriva da due elementi: prima dei lavori di realizzazione dell’impianto idro-elettrico (1940), il lago si svuotava e ricompariva periodicamente e, cosa assai sorprendente, con esso si ripresentavano anche i pesci! Fenomeno spiegato scientificamente attraverso la prima esplorazione dell’inghiottitoio “pertuso” (1943) che si trova alle pendici di Monte Maino. Durante i lavori di realizzazione della “presa” per l’alimentazione della centrale idroelettrica di Tufano fu accertato che il pertuso confluiva in una cavità sotterranea molto vasta, capace di contenere buona parte dell’acqua del lago con tutti i pesci. Quando avveniva il fenomeno “sifone”, l’acqua tracimava nuovamente dal contenitore sotterraneo verso il precedente lago, restituendo così anche i pesci. Sul lago in molti hanno scritto, si potrebbero individuare almeno tre categorie di scritti: articoli di cronaca che ha narrato di volta in volta fatti e misfatti, testi scientifici, che hanno fornito spiegazioni, e testi letterari che, influenzati dall’aura di fascino che circonda il misterioso lago, lo hanno inserito nelle loro opere. In taluni casi potrebbero apparire delle imprecisioni, ma come è noto, la “licenza” poetica e narrativa assolve ogni cosa. Uno dei primi cronachisti che ha descritto il lago nella sua fase di formazione è sicuramente Giuseppe Ricciotti (1896) che esordisce così: «Nella contrada Canterno havvi un lago omonimo... la posizione è veramente pittoresca: vi si elevano varie isolette, e nelle capanne erettevi


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vegliano i pescatori: e da qualunque di quelle isole si giri lo sguardo ci si aprono dei colli, dei paesi e dei villaggi... Qualche intendente volle far risalire la formazione del lago ai tempi di Nerone, ma l’opinione è una vera poesia, mentre il lago rimonta soltanto al 1816 (a causa dell’ostruzione del pertuso n.d.r.)... riuscendo insufficiente l’emissario di Fumone le acque ingrossando stagnarono sempre in guisa che nel 1825 il lago si formò nelle dimensioni attuali occupando 30 ettari dei terreni di Fumone. Il Comune ne ritrae un lucro annuo poiché ne affitta la pesca dal 1837». Fin qui il Ricciotti. Un altro autorevole scrittore, Antonio Agresti (1866 – 1927), in una sua novella:“La profezia della maga”, trattando della guerra tra Guarcino e Anticoli di Campagna, l’attuale Fiuggi, narra di un certo Bonetto Floridi, crociato e poi capitano dell’esercito guarcinese, il quale prima della “battaglia di Canterno” avrebbe consultato una maga per conoscere in anticipo l’esito dello scontro. Il fatto narrato è ambientato nel XII secolo. Istintivamente, leggendo “Canterno”, si viene indotti a pensare al lago, ma non è da dimenticare che il lago all’epoca non esisteva affatto. Un’autrice sicuramente autorevole che cita Canterno è Alessandra Lavagnino nella sua celebre opera “Le bibliotecarie di Alessandria”. Il romanzo tratta della famiglia Canterno che ha origini in Fumone ed esordisce così: «Arroccato in cima a un monte, Fumone... Fra le case abbracciate fra loro e fitte come gli acini d’un grappolo d’autunno, le stradine fanno gradino di ogni rilievo di roccia. Sopra sta inaccessibile la Rocca, e lì dentro, avendo con sé due libri solamente, morì prigioniero e santo Pietro da Morone, colui ch’era stato il papa angelico Celestino V. Ma seicento anni dopo chi ci pensava più?

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Delle antiche mura di Fumone la porta medievale è tanto stretta che a malapena ne passa un somaro con sopra l’uomo e qualche fascina: quei begli asini marrone di muso e pancia bianchi, di grandi orecchi e fianchi generosi. In groppa a un animale così era giunta da Alatri la levatrice e dentro il grovigliato paese s’era lasciata guidare dai gridi della partoriente. Quando fu alla casa lavorò pochi minuti poi, nel silenzio dopo l’urlo più alto e lungo della donna, con voce che suonò di conferma disse: «maschio!». Il padre Canterno Giacomo e nonna Erminia - questa un attimo appena mandarono occhi e mani al cielo ringraziando;...Il piccolo fu battezzato Tommaso come il nonno compianto e crebbe bene... L’anno appresso Tommaso si innamorò: però di una signora, e allora volle uccidersi. Maldestramente si ferì, poi si trovò guarito, anche se «non di testa» dissero i suoi, e quando poté di nuovo reggersi in piedi, volle mettersi davanti a padre, nonna e sorella, poi fece un lungo e incomprensibile discorso che conteneva un’idea nuova a Fumone, e pazza: l’essere latrocinio o poco meno il possedere terre, pascoli e vigne. E concluse: «non voglio niente, solo che mi lasciate in pace. Quanto mi spetta lo regalo ad Erminia e Giovanni. Ne facciano ciò che vogliono. Voglio solo quanto mi serve per studiare». Giovanni era il cognato.Tommaso compiva allora ventun anni. Si fece dare un poco di bajocchi e su un carretto, assieme a poche cose andò giù per la Casilina fino a Roma. Conosceva Fumone grumoso e stretto nella nebbia, conosceva Alatri orgogliosa dentro le nere mura di venticinque secoli: Roma gli apparve grande, alluciata, polverosa e dispersa. Ma dentro la mente sua c’era uno scopo solo: trovatala, si iscrisse all’Università, che si chiamava allora La Sapienza». In realtà la scrittrice non parla propriamente del lago, non sarebbe stato congeniale al romanzo, ma ne ha utilizzato il nome per dare un luogo di origine a quella famiglia di Fumone, appunto “La famiglia Canterno”.


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Sotto i nostri occhi

La storia del campo “Le Fraschette”: da campo di concentramento a centro raccolta rifugiati e profughi di Marilinda Figliozzi

Dalla cinta muraria più esterna del poderoso borgo di Fumone, nel territorio della confinante Alatri, si scorgono ancora oggi i resti del campo “Le Fraschette”. Luogo di confino, dolore, discriminazione, il campo ha visto passare tra le sue mura e le sue baracche oppositori del regime fascista, prigionieri di guerra, esuli da terre conquistate, stranieri indesiderati, criminali di guerra, criminali comuni, rifugiati politici, profughi... Una congerie di persone che dà il senso di una realtà portatrice di una memoria unica nel suo genere. Un campo di cui si sta ricostruendo faticosamente la storia e che, però, minacciato dall’incuria, dal tempo e dall’uomo, rischia di scomparire per sempre. A partire dalla metà del XX secolo in molti, per motivi diversi, si ritrovarono costretti a popolare le baracche: ognuno di loro fu obbligato ad abbandonare la propria casa, la propria famiglia e i propri affetti, trascinando con sé quel bagaglio di dolore che per anni ha nutrito il campo. Il 1° ottobre 1942 il campo “Le Fraschette”

1950: il campo ricostruito nel dopoguerra. Collezione privata fam. M. Benenati

popolazione, una “bonifica etnica”. Arrivò ad ospitare fino a 5500 internati, tra cui molti bambini e anziani. I primi a popolare il campo furono gli anglomaltesi residenti in Libia che avevano manifestato sentimenti anglofili, poi iniziò il trasferimento di intere famiglie provenienti dalla

Luglio 1943: Mons. Facchini cresima giovani internati. Foto tratta dal libro di Don Giuseppe Capone “La provvida mano”

entrò ufficialmente in funzione come campo di concentramento con lo scopo di perseguire, attraverso un massiccio trasferimento di

Venezia Giulia, dalla Slovenia, dalla Dalmazia e dalla Croazia che avrebbero potuto aiutare gli uomini che combattevano nella resistenza

nei territori occupati. A questi si aggiunsero alcune centinaia di confinati politici. Le condizioni di vita erano di forte disagio: cibo, medicinali e vestiario erano assai scarsi. Gli internati che arrivavano a “Le Fraschette” portavano con loro le poche cose che erano riusciti a racimolare, prese all’ultimo istante dalle proprie abitazioni durante le concitate fasi di rastrellamento effettuate dalla polizia militare italiana. Questa prima parte della vita del campo si chiuse a causa dei ripetuti mitragliamenti e bombardamenti: la sera del 25 febbraio 1944 dalla piazza di Alatri partì il primo torpedone carico di internati diretto alla stazione di Frosinone e il successivo 30 marzo, dopo un altro bombardamento, Fraschette fu abbandonata anche dalle truppe tedesche. Il campo, vuoto e devastato da una violenta tromba d’aria e dai bombardamenti, fu letteralmente preso di mira e saccheggiato di tutto quello che poteva essere usato come materiale da costruzione o come legna da ardere. Buona parte dei materassi e delle coperte, su iniziativa di Mons. Facchini, fu trasferita ad Alatri ed usata per allestire ricoveri per gli sfollati in fuga dal fronte di Cassino. Oltre alle razzie il campo fu teatro di incendi: sembra infatti che i contadini della zona volessero distruggerlo per evitare nuovi insediamenti da parte dei tedeschi che avrebbero alimentato la possibilità di ulteriori attacchi aerei.


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Vescovo, Sindaco e militari al Campo (1955-1960). Collezione privata fam. A. Della Morte

Subito dopo la fine della guerra il campo fu interamente ricostruito e venne abitato da nuovi “ospiti”, questa volta come campo di internamento. Era in queste strutture che il governo italiano aveva disposto l’identificazione e l’internamento dei profughi “indesiderabili”: criminali comuni e di guerra, collaborazionisti, ustascia, e molti altri ancora. Ad essi si unirono anche esuli istriani, stranieri senza documenti e rifugiati d’oltrecortina ai quali non era stato riconosciuto lo status di rifugiato politico. Dagli anni ‘60 inizia l’ultima parte della storia del campo “Le Fraschette”. Una storia legata alla fine del colonialismo, quando nazioni come l’Egitto, la Tunisia e la Libia decretarono la nazionalizzazione con la conseguente espulsione degli immigrati europei. In questa “terza fase” i capannoni furono ristrutturati e resi più fruibili, pronti ad ospitare, nel neonato Centro Raccolta Profughi di Alatri, gli italiani che vennero rimpatriati, ad ondate, per un decennio almeno. Da allora, da quando quest’ultima fase si è conclusa, il campo è rimasto abbandonato all’incuria del tempo, anche se in molti, in primis l’Associazione Nazionale Partigiani Cristiani, intraprendono da anni azioni volte al recupero e alla tutela non solo del sito, ma anche dei ricordi, della memoria e il vissuto di un luogo che ancora ha molto da insegnarci. Quelle che seguono sono due testimonianze di internati che abitarono nel campo “Le Fraschette” tra il 1942 e il 1944, e che in quegli anni erano dei ragazzi.

Romeo Cini, internato anglo-maltese, racconta in un libro alla comunità maltese emigrata in Australia, la triste storia della sua vita: «Il primo ottobre 1942 ci fu ordinato di prepararci per il trasferimento al campo Fraschette[…] Quando arrivammo al campo trovammo fango dappertutto a causa della pioggia torrenziale e dei lavori non ancora terminati. Ci stabilimmo in una grossa baracca dove trovammo file di cuccette con un materasso di paglia, tre coperte militari e un cuscino ciascuno. Le baracche erano divise

in camerate con un lungo corridoio. Appendemmo alcune coperte per garantire un po’ di intimità alle donne. Il cibo era disgustoso e scarso, soffrivamo la fame.[…] La fame cominciò a farci deperire fisicamente. Mi ricordo che, quando riuscivamo a trovarle, le castagne erano l’unico alimento per calmare la terribile fame. Mi ricordo anche che alcuni soldati italiani che sorvegliavano il campo, davano parte della loro razione di pane ai bambini. […] Una sera a fine novembre 1942, mentre era-

Vita delle famiglie dei militari in servizio al Campo


1948-49: richiedenti asilo. Collezione privata fam. P. Zagar

vamo seduti ai tavoli aspettando il pasto, la luce se ne andò lasciandoci al buio per parecchi minuti. Facemmo molto rumore con le nostre scodelle e un bimbo di 4 anni preso dal panico scappò dal controllo di sua madre. Inciampò e andò a finire nel calderone di zuppa bollente. I soldati accorsero e lo tirarono fuori, lo portarono subito all’ospedale di Alatri, ma le sue ustioni erano così gravi che morì. Quel bambino si chiamava Gaetano Falzon ed è sepolto al cimitero di Alatri. La fame era così terribile che non ci permise di rifiutare quella zuppa. Oggi, con il cuore che mi trema, devo ammettere che tutti la mangiammo». Mentre queste sono le parole di Ivan Galantic, internato croato, estrapolate da un articolo da lui scritto e dedicato ai suoi studenti della Tufs University negli USA. «Io ero sempre molto affamato. Alla mia età qualche uovo o un frutto caduto non erano certo sufficienti. Un giorno di fine ottobre decisi che dovevo mangiare. Scelsi la casa di un contadino, che era isolata, con l’intenzione di rubare qualcosa da mangiare. Aspettai fino a che la famiglia si fosse riunita per cenare. Quando vidi attraverso la porta aperta che la pietanza era stata portata in tavola, entrai. Sul tavolo basso c’era un piatto di legno fatto a mano che conteneva una pasta di granturco che si chiama polenta, con sopra della cicoria condita con aglio e olio. C’erano 6 o 7 persone intorno al tavolo e tutte mangiavano dallo

stesso piatto. Li salutai e chiesi un po’ di acqua perché avevo sete. Loro mi guardavano senza rispondere. Avevo tenuto tutto il tempo gli occhi sulla polenta, con la chiara intenzione di affondarvi entrambe le mani, prenderla e scappare. Preso in queste considerazioni, con gli occhi sempre incollati sul pasto caldo, sentii le parole più belle della mia vita, accompagnate dal rumore di un altro sgabello avvicinato al tavolo e di un’altra forchetta che si piantava nella polenta. Non in Dante, nemmeno in Shakespeare e nemmeno nel Vangelo si possono trovare parole più belle, anche se pronunciate in un

dialetto molto marcato: «che po fa, pur’iss è figlie de mamma». In quella casa di contadini ho avuto testimonianza del più grande valore che l’uomo possa conoscere. Ho visto la bontà». Per consultare la bibliografia: http://campolefraschettealatri.blogspot.it/2013/04/bibliografia-costantini-mario.html Chi fosse interessato ad integrare la nostra ricerca con ricordi, foto, documenti e racconti può scrivere a fraschette.alatri@hotmail.it oppure sul gruppo facebook “campo Le Fraschette di Alatri” oppure chiamare il 338/4901414.


081.0200640 081.0200640


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Il campo “Le Fraschette”

La storia di Dane Sesko di Lamberta Caponera

Il campo “Le Fraschette” si trova nella campagna di Alatri: questa ubicazione viene scelta dal regime fascista per la lontananza dal fronte di guerra e per essere facilmente controllabile. I deportati sono soprattutto civili di varie etnie: slavi, anglo-maltesi, croati e dalmati rei di appartenere a paesi in guerra contro l’Italia. È l’etnia slava a patire le condizioni peggiori: l’unico pasto della giornata è preparato dai soldati e comprende una misera minestra insieme a un pezzetto di pane. La situazione degli anglo-maltesi invece è leggermente migliore perché sono assistiti dalla Croce Rossa Svizzera. Per alleviare le sofferenze dei prigionieri scendono in campo i vescovi di Trieste e Gorizia che coinvolgono mons. Edoardo Facchini, vescovo di Alatri, che usa tutti i mezzi in suo possesso per portare aiuti sia materiali che spirituali. Il campo rimane attivo fino al 1944 finché i tedeschi, contravvenendo alla convenzione di Ginevra, spostano il comando all’interno di Fraschette, determinando quindi mitragliamenti e bombardamenti anche sul campo: in un primo momento si pensa di spostare i prigionieri ad Alatri, poi invece si opta per uno svuotamento totale del campo. La sera del 25 febbraio il primo gruppo di internati parte dalla piazza della città diretto verso la stazione di Frosinone: la situazione diviene sempre più critica a causa dei numerosi atti bellici e, il 30 marzo, all’ennesimo bombardamento, il campo si svuota completamente e viene di-

strutto. Da questo campo e in questo contesto storico inizia la storia che vi racconterò. È mattina presto. Si vede poco a causa della fitta nebbia: due bambini, fratelli, sgattaiolano furtivamente dal campo “Le Fraschette”, cosa non difficile dato che il campo ha parecchie aperture e falle nel sistema di sorveglianza. Si

La foto, scattata alla fine degli anni Ottanta, ritrae Rosina e Dane.

avviano verso la campagna, raggiungono i piedi del Monte Fumone e, incoraggiandosi a vicenda, iniziano l’irta salita. Raggiungono il paese: la paura fa battere fortissimo i loro cuori. Hanno timore di essere cacciati in malo modo, loro sono slavi e ne sono consapevoli perché tutti i giorni provano sulla loro pelle cosa significhi appartenere ad un popolo tanto sfortunato e maltrattato. Il bambino più grande ha circa 9 anni e si chiama Dane, il più piccolo, Ivan Krste, ne ha circa 5 e ne segue i passi. Mentre camminano incerti per le vie del paese, incontrano Rosina, una giovane donna: sorride, tende loro la mano e li porta con sé, verso la sua casa. Da mangiare ne ha poco anche lei però lo divide volentieri con i due bambini, molto magri e malnutriti. Dane e suo fratello placano così, per un po’, la fame, accennano un mezzo sorriso e si avviano nuovamente verso il campo. Camminare fino a Fumone da quel giorno per loro diventa una consuetudine e conoscono altre persone: oltre Rosina c’è anche Cecilia, la fornaia del paese,

che li aiuta e li rifocilla. Questa abitudine si interrompe con la chiusura del campo “Le Fraschette”. Dane parte, di lui non si hanno più notizie fino a quando un’estate, all’inizio degli anni Settanta, a Fumone arriva una giovane coppia che cerca Cecilia e Rosina: le donne, sopraggiunte, fissano stupite i due. Non li riconoscono fino a quando l’uomo non dice: «Sono Dane!». Per l’emozione tutti rimangono senza parole, ma è solo un momento perché non appena si riconoscono, si abbracciano come se al posto dell’uomo ci fosse ancora il bambino di tanti anni prima, smunto e impaurito. Dane racconta che ora è direttore di una fabbrica di materiale plastico a Sibenik, ha una famiglia, una casa, un lavoro e conserva ancora tanta gratitudine verso queste due donne, ormai mature, che lo accolgono con lo stesso affetto di allora. Le visite e le lettere sono proseguite fino agli anni Ottanta, poi, con lo scoppio della guerra nell’ex Jugoslavia, di Dane non si sono avute più notizie. Cecilia e Rosina non ci sono più, la sorte di Dane è incerta, mentre il fratello minore vive in Australia. È una storia importante, carica di emozioni, di stima, di rispetto e dignità. Una storia vissuta da persone di etnia e cultura diverse, così attuale che può essere un monito per tutti noi e per le generazioni future.


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«Va’ a chiamà la mammana ch’è ora!» Il mestiere di dare la vita di Cecilia Giovannetti

«Curri, curri, va’ a chiamà la mammana!». Ecco la tipica frase del linguaggio popolare che si pronunciava quando un bimbo stava per nascere. Erano gli anni del dopoguerra e la miseria si faceva sentire in molte case. Se le nostre nonne o bisnonne potessero ascoltare le donne di oggi parlare di epidurale o parto cesareo, sicuramente sorriderebbero ripensando a come semplicemente si partoriva una volta. Ebbene sì, una volta, durante il parto, bastavano asciugamani, acqua calda e la presenza della levatrice, “la mammana”. Ma chi era la levatrice? In passato il parto era un momento molto delicato, sia per la madre sia per il bambino, perché presentava sempre elevati margini di rischio: frequente, infatti, era la mortalità infantile e materna, sia per la mancanza di strumentazioni adeguate che per l’assenza di personale competente. La donna, al momento del parto, era assistita solamente dalla levatrice, chiamata così perché era in grado di “levare il neonato dal corpo della madre” e spesso era un’anziana, che veniva chiamata dalle donne del paese per aiutare la partoriente. La levatrice, nel corso degli anni, aveva imparato “l’arte della maieutica”, per dirla con Socrate (filosofo greco, figlio dell’ostetrica Fenarete) cioè “l’arte di tirar fuori i bambini dal grembo materno”. Fu proprio l’importante compito di sua madre ad ispirare il famoso metodo filosofico di Socrate, il principio della maieutica, nel quale il maestro che deve aiutare il discepolo a partorire la conoscenza e la verità è paragonato a una levatrice. Platone, il noto allievo di Socrate, parlò della levatrice come una donna «che ha intelligenza sveglia e memoria pronta, è attiva, robusta, compassionevole, riflessiva e prudente, mai collerica, intrigante ed avara». Così scrive una levatrice nel suo libro, purtroppo inedito, intitolato “Frammenti di vita di una ostetrica”: «Condividevo l’ansia e cercavo di renderla serena e costruttiva fino a quando il vagito irrompeva nel cupo silenzio della casa, come una musica sublime, trasformando tutto in allegria. Nessun suono sulla terra potrà mai eguagliare un primo vagito e avere un potere più magico». Tale potere magico diventava qualcosa di intimo e familiare, reso sacro proprio dalla “mammana”, quasi un’altra mamma, una

donna che presta le sue mani alla madre naturale diventando, al momento del parto, madre essa stessa. La levatrice entrava a far parte della famiglia in quanto non esauriva il suo compito al momento della nascita, ma ricopriva un ruolo importante anche nei primi periodi di vita del bambino dando consigli su allattamento e cure per il piccolo, offrendo rimedi naturali per ogni tipo di malessere femminile e spesso veniva scelta dalla famiglia stessa come madrina di battesimo. I segreti del mestiere di levatrice erano trasmessi e arricchiti da una generazione all’altra: la missione provvidenziale di questa importantissima figura professionale della civiltà contadina veniva compensata con l’autorevolezza e la considerazione di cui godeva presso la popolazione, che poneva la levatrice sullo stesso piano del sindaco, del parroco, del maresciallo dei carabinieri, del farmacista e del medico condotto. Il titolo onorifico di “donna” stava proprio a significare il grande rispetto che si nutriva per la sua persona e per il suo ruolo. Con l’età moderna e il progresso della scienza, però, il lavoro venne regolamentato: prima con la scuola di Ostetricia, che prevedeva un corso biennale a cui si poteva accedere, una volta ottenuto il Diploma di Stato, per l’esercizio della professione di infermiera; successivamente con la legge 833/1978 del Servizio Sanitario Nazionale, attraverso la quale l’Istituto della Sanità aboliva la figura dell’ostetrica condotta, sostituendola con una più emancipata, in possesso di laurea ed iscritta nell’albo professionale. Sicuramente un grande passo avanti: oggi è un lavoro di alta qualità e competenza, professionalmente riconosciuto e retribuito, nulla però può cancellare il ricordo del passato, le tracce di una tradizione, le testimonianze di un lavoro antico, ricco di fascino intimo, tutto al femminile. A tal proposito, l’On. Stelio De Carolis, di origini fumonesi, racconta: «Mia madre era

la levatrice di Fumone. Di origine romagnola, si trasferì nel piccolo borgo ciociaro e fu subito accolta dalla popolazione con grande affetto. Donna forte e coraggiosa, appena veniva chiamata, lasciava tutto e correva: doveva sbrigarsi. Nulla la intimoriva: a piedi o in sella ad un somaro partiva, di giorno o di notte, sfidando la pioggia, il freddo, la neve, il gelo. La sua presenza era indispensabile: il bimbo non aspettava. Le giovani partorienti si affidavano totalmente a lei che, con forza, coraggio, vigore e pazienza le accompagnava durante le doglie. Quante notti sono rimasto solo, nel letto, stretto stretto a mio fratello e aspettavo che lei tornasse, sicuramente stremata ma felice di aver aiutato un altro bambino a nascere». Si ringrazia l’On. Stelio De Carolis per averci fornito la sua testimonianza. Fonti e riferimenti bibliografici: Arena Ivana, “La raccoglitrice di bambini”, Roma 2012 Sitografia F. Spavieri, “La mammene. “A ta chi t’arcodde?””, http://www.sansalvoantica.it/altripersonaggi/levatrice/la-levatrice.html ultima consultazione 5 settembre 2016


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Una balia fumonese per una principessa afgana di Stefano Petri

Quella della balia è una figura che, per molti anni, ha caratterizzato la storia della Ciociaria (cfr. pp. 4-5 nel n. 4 de “Il Guitto”) e, pur appartenendo a un’epoca ormai passata, è ancora oggi oggetto di studio, utile ad approfondire gli aspetti sociali ed economici di un fenomeno, quello del baliatico, che ha rappresentato non solo un’occasione di lavoro, ma anche una forma di riscatto sociale per diverse donne. Ed è proprio su questo filone di ricerca che si innesta la nostra storia: quella di una giovane donna, nata a Fumone in contrada Colle, l’11 maggio 1894. La sua vicenda, sin dall’inizio della propria esistenza, è testimonianza della dura realtà che si viveva in quell’epoca e che vedeva le madri costrette a disconoscere, e quindi ad affidare ai brefotrofi, i propri figli per l’impossibilità di sfamare un’altra bocca. Dai documenti esaminati presso l’anagrafe del Comune di Fumone emerge che la madre della protagonista di questa storia (indicata con la seguente dicitura: «donna che non consente riconoscimento») consegnò la piccola, appena nata, a un’altra donna che la portò a Roma per affidarla a un istituto presso l’ospedale di Santo Spirito in Sassia, vicino a San Pietro, luogo deputato ad accogliere gli infanti abbandonati o non riconosciuti, i cosiddetti “esposti”. Com’era consuetudine, una volta entrata nell’istituto, le venne dato un nome e un cognome: Diomira Monticelli. Di lei non sappiamo più nulla fino alla data del matrimonio, avvenuto ad Alatri il 2 giugno 1926, con Umberto Rumbi: ciò testimo-

nia come, nonostante le vicissitudini iniziali, fosse rimasta, in qualche modo, legata alla terra d’origine. Ma l’evento che innalzerà la giovane donna agli onori della cronaca sarà l’incarico, ricevuto nella seconda metà del 1929, di diventare la balia della figlia del re dell’Afghanistan, Amanullah Khan, in esilio a Roma. Questo eccezionale avvenimento ci è testimoniato da un articolo pubblicato il 17 agosto 1929 su “Il Giornale d’Italia” nel quale si spiega come, a causa di un’improvvisa mancanza di latte da parte della regina Soraya, venga scelta «una giovane e formosa figlia di Ciociaria di Fumone» affinché la piccola possa crescere forte e sana. La giovane donna fu individuata grazie all’operato svolto da un ente creato appositamente in quegli anni: l’Istituto romano di baliatico “la Nutrice”. La storia di questa figlia di Ciociaria viene così ad intrecciarsi con quella di una coppia regale e

La Principessa India D’Afghanistan nasce a Bombay nel 1929 e nello stesso anno arriva a Roma dopo che la sua famiglia viene esiliata a causa delle idee progressiste di cui si fa portavoce. Studia in Italia e in Svizzera. Nel 1951 sposa Kazem Malek, un proprietario terriero iraniano, e si stabilisce a Mashad, in Iran: dal matrimonio nascono due figli, Soraya e Hamdam, ma dopo otto anni, in seguito al divorzio dal marito, torna a Roma. La morte della madre, nel 1968, spinge la principessa a tornare in Afghanistan e da quel momento, vedendo le condizioni del suo paese

della loro piccola nata: la famiglia afgana si trovava infatti in esilio in Italia anche per le idee progressiste di alcuni suoi componenti riguardanti la condizione della donna nel proprio paese. Forse la giovane balia mai si sarebbe immaginata di dover allattare una principessa e invece, proprio grazie a lei, la neona-

d’origine, lavora instancabilmente per i problemi che lo affliggono. Partecipa a conferenze in molte città italiane ed europee al fine di sensibilizzare il pubblico soprattutto sui temi di emergenza sanitaria, condizione femminile e scolarizzazione infantile. È uno dei soci fondatori della “Mahmud Tarzi Cultural Foundation” (2005). È stata nominata Ambasciatore Culturale onorario dell’Afghanistan verso l’Europa. A partire dal 2011 ha trascorso la maggior parte del suo tempo a Kabul per costruire un futuro migliore per i bambini afgani.


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ta crescerà sana e diventerà S.A.R. India d’Afghanistan. Ci piace credere che la giovane fumonese Diomira Monticelli, disconosciuta e portata in orfanotrofio, scelta come balia per donare il proprio latte ad una neonata ugualmente costretta a separarsi dalla sua terra, abbia trasmesso quell’amore che per gran parte della propria vita la principessa India d’Afghanistan ha donato ai bambini e alle donne del suo paese d’origine. Grazie, figlia di Fumone!

Fonti e riferimenti bibliografici: I. Toscani, “Le balie ciociare”, in «Strenna Ciociara», a cura di Associazione tra i Ciociari, Roma 1965, pp. 117-123. “Alla ricerca di una balia per una bimba regale!”, “Il Giornale d’Italia”, 17 agosto 1929. L. Monzali, “Un re afghano in esilio a Roma: Amanullah e l’Afghanistan nella politica estera italiana (19191943)”, Firenze 2012. “Gente di Ciociaria”, a cura di U. Iannazzi – E. M. Beranger, Isola del Liri 2007, pp. 426-449. Sitografia http://www.mahmudtarzi.com/

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Il re Amanullah Khan (Paghman 1892 – Zurigo 1960) è stato sovrano dell’Afghanistan dal 1919 al 1929. Ha condotto l’Afghanistan all’indipendenza dai colonizzatori inglesi ed ha avuto un ruolo cruciale nel progresso politico e sociale del suo paese. Nel 1921 promulgò la prima costituzione afghana nella quale veniva garantita l’eguaglianza dei diritti a tutti i cittadini del paese senza distinzione di sesso. È dunque durante il regno di Amanullah Khan che, per la prima volta, i diritti delle donne sono posti al centro dell’attenzione. Il re, insieme alla regina Soraya, mise all’ordine del giorno la questione delle donne in un paese in cui la società patriarcale e tribale le aveva tenute lontane da qualsiasi forma di diritto. Questo programma di riforme ha costituito una delle campagne politiche più progressiste di tutta l’Asia, con il fine di migliorare la condizione delle donne in tutto il medio-oriente: fu istituita la scolarizzazione obbligatoria fino alla quinta elementare per maschi e femmine; fu promulgato il codice di famiglia che proteggeva i diritti delle donne anche attraverso la costituzione di un’associazione per la tutela delle donne patrocinata dalla regina Soraya; fu abolita l’obbligatorietà del velo nella convinzione che esso costituisse un impedimento per l’emancipazione femminile. L’Afghanistan era diventato un paese modello, libero e soprattutto indipendente, ma i repentini cambiamenti causarono una forte preoccupazione, tantoché i sovrani con i loro figli furono costretti all’esilio forzato e raggiunsero l’Italia. Il re Amanullah e la regina Soraya sono sepolti a Jalalabad in Afghanistan nel mausoleo reale. Entrambi sono ancora molto amati dal popolo afgano: il re è considerato tuttora un riformatore e modernizzatore del Paese mentre la regina Soraya è un simbolo per le donne afgane.

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