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il N° 5 - LUGLIO 2016

Guitto

Rivista dell’Associazione Culturale Il Guitto

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Arte e natura a Collepardo

Il dramma delle marocchinate

Modelli ciociari dell’arte europea

Monarchia o Repubblica? Il Referendum del 1946 a Fumone

EDITORIALE

Riflessioni a margine

Cittadinanza attiva e coscienza civica di Elisa Potenziani È risaputo che l’Italia possiede un eccezionale patrimonio artistico, un patrimonio che potrebbe costituire la fortuna di ogni paese e città della penisola. - Pag. 2

di Mariano D’Agostini

Finita la seconda guerra mondiale e caduto il regime fascista che per oltre vent’anni aveva soggiogato l’Italia, era della massima urgenza sistemare la “questione istituzionale”. In molti sentivano il bisogno di democrazia e autonomia: un nuovo senso di libertà si andava diffondendo in tutta la nazione e il popolo italiano iniziò ad avere una nuova consapevolezza di sé. Non furono solo i movimenti politici e sindacali a risorgere, ma anche i giornali e le organizzazioni culturali; le persone ebbero la possibilità di ottenere informazioni sul Paese non più preventivamente vagliate, le idee potevano ora circolare liberamente e i cittadini potevano avere un ruolo sempre più concreto nella vita dello Stato. Venne così indetto per il 2 giugno 1946 il referendum che avrebbe permesso al popolo italiano di decidere quale forma di governo dare al Paese: quale sarebbe stata la migliore? - Pag. 2


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segue da pag. 1 - Un tesoro però, e anche questo si sa, non sempre adeguatamente valorizzato e anzi spesso lasciato in uno stato di totale abbandono. Proprio la valorizzazione e la tutela dei beni culturali possono invece attivare un’economia sostenibile, migliorare la qualità della vita delle comunità, alimentare una ricchezza quantificabile non solo in denaro ma anche nella capacità di mantenere alto il “livello di bellezza” di un territorio, vessillo di un Paese inserito tra le mete più ambite dai viaggiatori di tutto il mondo. Sono nate nel tempo molte Associazio-

ni allo scopo di tenere i riflettori costantemente accesi sulle situazioni a rischio: spesso l’associazionismo si è rivelato un mezzo efficiente per salvare dall’incuria e dall’indifferenza, dunque dalla distruzione irrimediabile, il nostro patrimonio culturale. Molte Associazioni promuovono la pratica virtuosa, affermatasi con forza negli ultimi anni, della cittadinanza attiva: con essa si intende la partecipazione dei cittadini alla vita civile del Paese, i quali sono chiamati a onorare i propri doveri ma anche a conoscere ed esigere i diritti propri e quelli altrui. La partecipazione è un percorso entusiasmante e necessario, anche se non sempre facile, per provocare un cambiamento. L’Associazione culturale “Il Guitto”, lo abbiamo più volte ribadito, è nata per promuovere la valorizzazione del territorio di Fumone: si indicano percorsi storici e sentieri naturalistici; si incentiva l’idea dello “slow tourism” ossia un turismo lento, sostenibile e responsabile che in molti piccoli centri italiani è diventato già una pratica quotidiana e attraverso il quale si mira a offrire un’accoglienza di qualità per favorire il ritorno dei turisti. Per la passeggiata archeologica svoltasi in località “Le Carceri” lo scorso 22 maggio, alcuni componenti dell’Associazione han-

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no provveduto a ripulire i resti della villa rustica romana di II-I sec. a.C. per permettere a quanti avrebbero aderito all’escursione, di camminare in totale sicurezza e osservare senza impedimenti gli eccezionali reperti archeologici. A tal proposito cogliamo l’occasione per ringraziare il proprietario del terreno sul quale tali reperti si trovano: senza il suo consenso non avremmo potuto organizzare l’evento. Al di là delle iniziative della nostra Associazione, però, c’è un Regolamento – il Regolamento per l’amministrazione condivisa dei beni comuni – che mira a disciplinare il rapporto tra i cittadini attivi per la tutela dei beni comuni e l’amministrazione comunale attraverso patti di collaborazione che, tra l’altro, il Comune di Fumone ha sottoscritto circa un anno fa: questi nuovi mezzi di regolamentazione degli interventi danno la misura di quanto le amministrazioni comunali italiane stiano cambiando atteggiamento nei confronti dei cittadini desiderosi di mettere in campo le proprie risorse per fare delle città dei luoghi che facilitino la realizzazione di ogni individuo e per tutelare quei beni comuni, materiali e immateriali, che appartengono alla collettività. I piccoli comuni sono un laboratorio ideale per la sperimentazione di strategie nuove da estendere successivamente a contesti più complessi: essi spesso riescono ad attivare percorsi innovativi in grado di

generare nuove e sane economie legate, appunto, alla valorizzazione del territorio. Il coinvolgimento della cittadinanza in operazioni di pubblica utilità – fatto strettamente connesso anche al rapporto identitario che lega i cittadini al proprio territorio – deve, a sua volta, costituire una spinta propulsiva per gli enti locali, ma non deve e non può in alcun modo sostituirsi ad essi.

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Monarchia o Repubblica? Contestualmente si sarebbe votato per eleggere l’Assemblea Costituente che avrebbe dato all’Italia il testo con le leggi fondamentali dello Stato, la Costituzione italiana. Il 2 giugno 1946 circa 25 milioni di cittadini italiani, usciti da anni di torpore, votarono l’importante e delicato quesito istituzionale e, per la prima volta nella storia, ebbero diritto al voto anche le donne. Il 10 giugno 1946 la Corte Suprema di Cassazione proclamò i risultati del referendum, mentre il 18 giugno integrò i dati delle sezioni mancanti ed emise il giudizio definitivo sulle contestazioni, le proteste e i reclami concernenti le operazioni referendarie. I risultati definitivi furono i seguenti: la Repubblica ottenne 12.718.641 voti, pari al 54.3% degli aventi diritto; la Monarchia ne ottenne 10.718.502, pari al 45.7% dei votanti mentre le schede nulle furono 1.509.735. Dai risultati elettorali emerse un’Italia divisa: al Sud prevaleva ancora la Monarchia mentre al Nord l’idea repubblicana venne accolta con maggior favore. Nella regione Lazio, Monarchia e Repubblica avevano guadagnato un uguale consenso, ma a Fumone, pur nell’esiguità degli aventi diritto al voto – erano solo 1288 – la preferenza per la Repubblica era assimilabile alle regioni del Nord: il 58% aveva votato per la Repubblica mentre il 35% aveva


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scelto la Monarchia. Dei 1288 fumonesi iscritti nelle liste elettorali, di cui 634 maschi e 654 femmine, votarono nelle due sezioni del Comune in 1109 (86%) di cui 570 maschi e 539 femmine. Ambedue le sezioni erano collocate nel centro storico di Fumone: la sezione n. 1 si trovava in via Umberto I n. 122 presso la sede delle scuole elementari, l’edificio oggi occupato dalla locanda “Il falco nero” mentre la sezione n. 2 era dislocata in via Risorgimento n. 22 presso gli ambulatori medici, oggi parte della Taverna del Barone. I voti per la Repubblica furono 647 (58%), quelli per la monarchia 391 (35%), le schede nulle furono 26, quelle bianche 37, mentre 13 furono i voti contestati e non attribuiti. La commissione per la sezione n. 1 era composta dal presidente, il dott. Morolli Raul, e dagli scrutatori Ciafani Sebastiano, Cecchetti Aldino, De Carolis Italo, Tirletti

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Filippo, Potenziani Paolo, Mancini Attilio e Cecchetti Luigi; nella sezione n. 2 il presidente era il dott. Minotti Franco mentre gli scrutatori erano: Potenziani Calisto, De Carolis Felice, Colatosti Vincenzo, Potenziani Alberto, De Carolis Giuseppe, De Carolis Giovanni, Caponera Ugo e Potenziani Riccardo. Fonti: Fumone, Archivio storico comunale – faldone B 150/65.

Il 2 giugno 1946 i cittadini italiani furono chiamati per la prima volta a votare in una consultazione politica nazionale e finalmente anche le donne poterono votare ed essere elette. Cogliamo l’occasione per ricordare che dal 30 maggio al 5 giugno si è tenuta presso la Prefettura di Frosinone (Palazzo del Governo – Piazza della Libertà, 14) a cura della Dott.ssa Viviana Fontana, Direttore dell’Archivio di Stato di Frosinone, la Mostra documentaria “2 giugno 1946: nascita della Repubblica e voto delle donne”.

il Guitto - Rivista di cultura fumonese e ciociara Direttore: Elisa Potenziani - Direttore artistico: Francesco Caponera Hanno collaborato a questo numero: Alberto Bevere, Lamberta Caponera, Umberto Caponera, Mariano D’Agostini, Cecilia Giovannetti, Fabrizio Girolami, Matteo Girolami, Matteo Petitti, Alessandro Potenziani.

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L’Indulgenza nel tempo

Pratica di espiazione e di riconciliazione di Umberto Caponera

Affrontare un tema sull’indulgenza è cosa assai complessa poiché si tratta di un argomento che implica aspetti teologici, giuridici, storici, di tradizione e di fede; inoltre comprende profondi aspetti evolutivi che occupano uno spazio temporale di oltre un millennio. Quindi questo tentativo è ben lontano dal voler entrare nel merito specifico dell’argomento. Rappresenta, più semplicemente, lo sforzo per definire un ambito generale delle pratiche indulgenziali al fine di inquadrare al suo interno la Perdonanza di Celestino e l’indulgenza di Fumone. Fin dall’inizio del cristianesimo la disciplina delle penitenze era costituita da forme pubbliche di espiazione piuttosto dure, ma con la diffusione di questa religione in Europa si registra un’evoluzione: la pena, sempre proporzionata al peccato commesso, poteva essere commutata in opere utili alla Chiesa quando l’eccessiva durata o la particolare durezza ne rendevano impossibile l’eseguibilità. Siamo intorno all’VIII secolo. Queste forme di redenzione che si chiamavano propriamente “redemptiones”, erano di tipo individuale, cioè si interveniva in ogni singolo caso. Soltanto nel secolo XI compaiono le prime forme di remissione generale e questo può essere considerato l’inizio vero e proprio delle indulgenze. La prima indulgenza plenaria fu offerta dal Papa Urbano II in occasione della crociata del 1095. Il senso profuso nell’indulgenza medievale, per estensione, è quello legato al martirio. Dopo i martiri delle persecuzioni romane vengono i martiri missionari e successivamente i crociati. Anche in quest’ultimo caso chi perdeva la vita terrena acquistava particolari meriti per la vita eterna in quanto il “sacrificio” sostenuto sarebbe servito a scontare la pena temporale derivante dai peccati commessi. Sono proprio le crociate del mondo medioevale a dare consistenza e spessore alla pratica dell’indulgenza. In breve si passa ad estendere il beneficio indulgenziale a tutti i

Francobollo commemorativo edito da Poste Italiane in occasione del settimo centenario della morte di san Celestino (incisore P.N. Arghittu)

crociati che con devozione e senza altri fini, partivano per la liberazione del Santo Sepolcro. Successivamente questo privilegio fu riservato anche a chi, impossibilitato a partire, mandava un proprio sostituto sostenendone le relative spese. Indulgenze parziali, invece, venivano concesse a coloro che si adoperavano per aiutare in qualunque modo l’impresa, anche economicamente. Nel secolo XIII si ha la massima concretizzazione e affermazione del rapporto indulgenza plenaria-crociata, ma contemporaneamente inizia un lungo processo di trasformazione concettuale che, si potrebbe dire, giunge fino ai nostri giorni.

toelettatura cani, gatti, conigli


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Fumone, Collegiata SS. Maria Annunziata. Morte di Celestino V.

Mentre da un lato si assiste ad un grande flusso di reliquie dalla Terra Santa verso l’Occidente, dall’altro si percepisce che ognuno avrebbe voluto avere la possibilità di utilizzare l’indulgenza come “lavanda spirituale” per la propria anima. La reliquia rappresentava un pezzetto di “terra santa” a portata di mano e quindi una prospettiva molto concreta per lucrare l’indulgenza, senza dover affrontare un lungo e difficile viaggio. Quasi contemporaneamente si diffonde un principio teologico che a noi oggi sembra scontato: in ogni Chiesa è presente il Cristo risorto, in ogni Tabernacolo vi è Dio, quindi la presenza della reliquia diventa superflua per chi ha desiderio di riconciliazione. Il “sacrificio” per scontare la pena materiale poteva essere assolto attraverso il “pellegrinaggio”, cioè un percorso da compiere per raggiungere un luogo santo, insignito dall’indulgenza da lucrarsi a determinate condizioni. Già san Francesco, infatti, con la famosa indulgenza della Porziuncola, intendeva andare oltre i crociati: era sufficiente raggiungere la chiesetta di Santa Maria degli Angeli. Tuttavia la prima indulgenza formale, espressa con regolare bolla papale, di carattere universale, diretta cioè a tutti i cristiani, fu la Perdonanza di Celestino V. Egli invitava tutti alla riconciliazione e ne fissava le condizioni: entrare nella chiesa di Santa Maria di Collemaggio nel giorno della ricorrenza della decollazione di san Giovanni Battista, veramente pentiti e confessati. È il primo giubileo avente carattere universale a cui potevano accedere tutti e, soprattutto, non prevedeva altri fini se non quelli

spirituali. Qualche anno dopo, esattamente nel 1300, l’idea di Celestino fu ripresa da Bonifacio VIII con l’indizione del famoso giubileo. Nei secoli successivi, in molte occasioni, il senso spirituale intrinseco dell’indulgenza venne, in qualche caso, travisato e interpretato anche in modo negativo dai “quaestores” cioè esattori – oggi potremmo definirli “burocrati” – dell’indulgenza. Costoro spesso, soprattutto nel periodo rinascimentale, arrivavano a promettere addirittura la remissione dei peccati anche per il futuro. Il loro principale scopo era quello di procurare risorse economiche alla Chiesa dando vita ad un florido commercio che non mancò di sollevare notevoli perplessità e proteste come quella di Martin Lutero. Con Paolo VI l’indulgenza è tornata ad essere un fatto esclusivamente spirituale dove ognuno può trovare l’occasione per liberarsi «della colpa e della pena» perché «l’indulgenza è la remissione dinanzi a Dio della pena temporale per i peccati, già rimessi quanto alla colpa» attraverso il Battesimo e la Confessione (Cfr. la Costituzione Apostolica “indulgentiarum doctrina”). È in questa dimensione che il Santo Padre Giovanni Paolo II, in occasione del settimo centenario della morte di san Pietro Celestino, ha voluto onorare la comunità di Fumone legando a questo luogo l’indulgenza plenaria “in perpetuum”, cioè per sempre, che si svolge in concomitanza con quella aquilana, nel giorno della ricorrenza della decollazione di san Giovanni Battista, che è anche il giorno dell’incoronazione di Celestino V.


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La bolla della Perdonanza conservata presso il municipio dell’Aquila.

LA PERDONANZA DI CELESTINO Traduzione italiana della Indulgenza plenaria detta “Perdonanza” emessa da Celestino V nel giorno della sua incoronazione papale nel piazzale di Collemaggio a L’Aquila il 29 agosto 1294. Celestino Vescovo, servo dei servi di Dio, a tutti i fedeli di Cristo che vedranno la presente lettera, salute ed apostolica benedizione. Tra le solennità dei Santi, la memoria di San Giovanni Battista tanto più solennemente è da onorare, in quanto egli nascendo da grembo di sterile madre ricolmo di virtù e sorgente eloquente di sacri doni, labbro degli apostoli e silenzio dei profeti, annunziò la presenza di Cristo, lucerna del mondo offuscato, sulla terra ricoperta dalle tenebre dell’ignoranza, con la proclamazione della parola e con il mirabile gesto di colui che addita, per cui seguì il suo glorioso martirio, misteriosamente imposto dall’ammirazione di una donna impudica. Noi che nella decollazione dello stesso Santo ricevemmo l’insegna del diadema, posto sul nostro capo nella chiesa aquilana di Santa Maria di Collemaggio, dell’Ordine di S. Benedetto, desideriamo che sia onorato con più venerazione con inni e canti e con devote suppliche dei fedeli. Affinché

0775 49614

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dunque in detta Chiesa la festività della decollazione stessa sia esaltata con particolari onoranze e tanto più devotamente e più ferventemente si festeggi con il fedele concorso del popolo di Dio, quando ivi la supplice preghiera dei ricercatori del Signore scoprirà le gemme risplendenti dei doni spirituali della Chiesa, che gioveranno nei tabernacoli eterni, per la misericordia di Dio onnipotente e confidando nell’autorità dei suoi beati apostoli Pietro e Paolo, annualmente assolviamo dalla colpa e dalla pena, che meritano per tutti i loro delitti, commessi fin dal battesimo, tutti coloro, che veramente pentiti e confessati saranno entrati nelle predetta Chiesa dai vespri della vigilia della festività, fino ai vespri immediatamente seguenti la festività stessa. Dato in L’Aquila, 29 settembre, anno primo del nostro pontificato.

La Perdonanza di Celestino V è diretta a tutti i cristiani e questo è già un fatto nuovo, ma per tentare di comprendere le motivazioni che indussero Celestino a promulgare la Perdonanza è necessario esaminare brevemente almeno due aspetti: quello spirituale e quello socio-politico. Sul piano spirituale si deve notare che, già da qualche secolo, era andata sempre più crescendo una forte aspettativa di spiritualità autentica in applicazione del Vangelo di Cristo che la Chiesa ufficiale non riusciva completamente a soddisfare. Tra gli esponenti di maggiore spicco di questo movimento di spirituali troviamo Gioacchino da Fiore, san Francesco e lo stesso Celestino. Da questo punto di vista la Perdonanza era una risposta immediata che il “Papa Angelico”, secondo la profezia di Gioacchino da Fiore, aveva voluto fornire come speranza di salvezza. Anche sul piano socio-politico vi erano profonde aspettative di pace dopo un periodo di forti tensioni legate alla nascita della Città dell’Aquila. L’elezione di Celestino cade in una fase delicatissima


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della città che era stata appena ricostruita dopo la distruzione del 1259 e fortemente voluta dagli Angioini. La città era stata realizzata aggregando una serie di lotti assegnati ad ognuno dei castelli circostanti e tutte le tensioni esistenti tra i castelli, in tal modo, furono trasferite nella nuova città. A queste tensioni se ne miscelarono altre derivanti dalla presa di coscienza della nuova realtà cittadina che mal tollerava i diritti delle antiche rocche, fedeli alla casa reale Angioina. Pertanto, al fine di eliminare gli antichi diritti, i cittadini aquilani, dimenticando momentaneamente le tensioni interne, si coalizzarono e distrussero tutte le rocche fedeli al Re. L’iniziativa di Celestino V scaturisce dunque da motivazioni di tipo spirituale e politico-sociale: la Perdonanza, infatti, da un lato andava a soddisfare le attese degli spirituali fornendo a tutti uno strumento di riconciliazione intima con Dio, dall’altra, sul piano pratico, spingeva necessariamente ognuno a ricercare le condizioni migliori per accedere all’indulgenza e ciò non poteva prescindere dalla rappacificazione tra gli uomini, prima che con Dio. A tale principio soggiacque anche il Re Carlo D’Angiò che perdonò la città dell’Aquila condonando tutte le pene per i gravosi misfatti di cui si era resa responsabile. Fu un vero e proprio giubileo, cioè un momento di giubilo, dove la gente, soprattutto la povera gente, si vide sollevata da gravosi fardelli tributari. Un perdono della pena temporale per i peccati rimessi con la confessione, ma, di riflesso, anche un vero perdono materiale. Celestino consegnò, stranamente, la bolla del Perdono al magistrato aquilano, all’autorità civile, quindi. Ciò si rivelò determinante per la salvezza della Perdonanza, poiché il successore Bonifacio VIII tentò in ogni modo di eliminarla. Nell’imminenza del primo anniversario del 1295, mentre Celestino era già prigioniero a Fumone, Bonifacio tentò ripetutamente e con vari atti, di annullare e sopprimere la Perdonanza, ma nulla poté contro l’autorità cittadina dell’Aquila che la difese strenuamente e, soprattutto, non riuscì a dissuadere la moltitudine di fedeli che spontaneamente si recarono a L’Aquila il 29 agosto per lucrare l’indulgenza di Celestino. Fu così anche per gli anni successivi e dopo il famoso Giubileo del 1300, voluto da Bonifacio anche per inglobare e svuotare la valenza della Perdonanza e delle altre indulgenze. L’indulgenza celestiniana però superò quella prova ed altre ancora e, salvo qualche brevissima interruzione nel corso dei secoli, è giunta

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fino a noi. Tuttora si celebra a L’Aquila ogni anno così come aveva prescritto Celestino, dai vespri del giorno 28 agosto, vigilia della ricorrenza della decollazione di san Giovanni Battista e della sua incoronazione, fino ai vespri del 29 agosto. Il Papa Paolo VI dopo essere stato a Fumone a pregare nel carcere di Celestino, nel procedere alla revisione di tutta la disciplina che regola le indulgenze, emanò, il primo gennaio 1967, la costituzione apostolica indulgentiarum doctrina e al primo posto nel Protocollario della Sacra Penitenzieria inserì la Perdonanza di Celestino.

Indulgenza plenaria di Fumone, donata da SS. Giovanni Paolo II, legata alla Chiesa di S. Pietro Celestino V In occasione del settimo centenario della morte di san Pietro Celestino V, avvenuta a Fumone il 19 maggio del 1296, SS. Giovanni Paolo II ha impreziosito questa Chiesa intitolata al Santo con una indulgenza plenaria da lucrarsi il giorno 29 agosto, nella ricorrenza della Perdonanza donata in L’Aquila proprio da san Celestino in occasione della sua incoronazione papale. Per Fumone è un grande privilegio e per i concittadini tutti è un’occasione preziosa per la remissione della pena temporale causata dal peccato. L’indulgenza concessa a Fumone è inserita tra quelle contenute nel protocollario della Sacra Penitenzieria dove, al primo posto, figura la Perdonanza di Celestino. Il dispositivo papale nella parte finale prevede espressamente: «il Pontefice concede in perpetuo l’indulgenza plenaria alle stesse condizioni (confessione sacramentale, comunione eucaristica, una preghiera secondo l’intenzione del Sommo Pontefice con l’obbligo di assistere ad una funzione liturgica ovvero recitare almeno il Padre Nostro e il Credo) per il giorno 29 agosto nel quale giorno ricorre l’anniversario della Perdonanza, concessa dallo stesso Celestino V, quando fu incoronato Papa in S. Maria di Collemaggio a L’Aquila». L’indulgenza plenaria può essere lucrata presso la Chiesa dedicata a san Pietro Celestino V, in località Pozzi, nel Comune di Fumone. Gli aquilani, primi beneficiari della Perdonanza di Celestino, la chiamarono subito “la festa del perdono”. Forse anche Fumone potrebbe adottare lo stesso nome e celebrare, nel nome di Celestino, il 29 agosto “la festa del perdono”.


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Viaggiare in Ciociaria: arte e natura a Collepardo Gli inestimabili tesori del borgo bandiera arancione di Elisa Potenziani con foto di Alberto Bevere

Situata nel cuore dei Monti Ernici, Collepardo si raggiunge facilmente dalla statale che collega Fiuggi ad Alatri. Il paesaggio di rara bellezza che si gode da questi luoghi è tra i più affascinanti della Ciociaria. Nel piccolo comune situato a 586 mt s.l.m., insignito dal Touring Club Italiano del marchio di qualità “Bandiera Arancione”, si trova un’eccezionale concentrazione di opere straordinarie, realizzate dalla natura e dall’uomo: abbazie di antica fondazione, abissi carsici e indizi che testimoniano la presenza di forme di vita già nel II millennio a.C.

Il borgo medievale è costituito da un fitto reticolo di viuzze e piazzette che converge nel palazzo comunale e nella chiesa parrocchiale (XV sec.): nei secoli IX e X Collepardo si dotò di mura e torri che la resero un baluardo inespugnabile e che, continuamente restaurate e trasformate, ne cingono ancora la parte più antica. Il territorio circostante, di origine carsica, dà luogo a singolari fenomeni geologici di eccezionale interesse naturalistico tra cui vanno annoverate innanzitutto le Grotte: esse si compongono di un ambiente maggiore e di una sala minore, ora chiusa al pubblico per salvaguardare la piccola colonia di pipistrelli che la popola. Lo spettacolo a cui danno luogo le stalattiti e le stalagmiti, create dallo stillicidio delle acque nel corso dei millenni, ha assunto caratteri straordinari ed incredibili: per la singolarità delle forme che somigliano a figure umane ed animali, le grotte di Collepardo sono state denominate “Grotte dei bambocci”. Esse sono importanti anche dal punto di vista paleontologico, dato che vi sono stati rinvenuti numerosi reperti di fauna pleistocenica come quelli appartenenti alla specie cervus elaphus e reperti scheletrici umani dell’età del bronzo databili tra il 1600 e il 1400 a.C. Strettamente legato alle grotte per via di una genesi simile è il cosiddetto Pozzo d’Antullo, una grandiosa voragine di origine carsica creatasi a seguito dello sprofondamento della volta di una cavità sotterranea: lungo le pareti verticali pendono meravigliose cortine di stalattiti mentre il fondo è ricoperto da una ricca e lussureggiante vegetazione. Per questo motivo in passato il pozzo era adibito al pascolo delle pecore che vi venivano calate con una fune in autunno per essere riportate in superficie a primavera. La rarità del fenomeno e l’aspetto selvaggio hanno acceso nei secoli l’immaginazione popolare, che ha dato vita a leggende e fantasiosi racconti sull’origine di questa dolina, la maggiore per dimensione in Europa e tra le più grandi del mondo. Appartiene al territorio del comune di Collepardo anche la magnifica Certosa di Trisulti. Essa sorge a

circa 800 mt di altitudine, all’ombra del monte Rotonaria, immersa nei boschi degli Ernici. Le sue origini risalgono all’anno Mille quando san Domenico da Foligno, monaco benedettino, fondò in questo luogo già meta prediletta di molti eremiti – come ci testimonia ancora oggi la vicina grotta della Madonna delle Cese – un monastero, detto di San Domenico, sede della prima comunità benedettina: i resti di questo primo insediamento sono ancora visibili dalla strada asfaltata a poche centinaia di metri dalla Certosa; nei pressi dell’antico monastero di San Domenico si trova anche l’eremo nel quale il santo visse durante i suoi primi tre anni di permanenza in questi luoghi, mentre sull’opposto versante della vallata, sorge il monastero di San Nicola, anch’esso fondato da san Domenico, ma destinato ad ospitare una comunità monastica femminile. In fondo alla vallata si può ammirare, infine, il Ponte dei Santi così chiamato perché, nelle principali solennità dell’anno, san Domenico vi riuniva le comunità monastiche dei suoi due monasteri per tenere loro lunghi sermoni. Ma torniamo alla Certosa di Trisulti. Per volere del papa Innocenzo III (1161-1216) nel 1204 i beni posseduti dall’originaria comunità benedettina, passarono ai certosini che curarono la costruzione di un nuovo monastero in un luogo più accessibile. Il nome Trisulti deriva dal latino tres saltibus, appellativo che identificava un castello del XII secolo gestito dai Colonna: esso dominava i tre valichi (i “salti”) che immettevano rispettivamente verso l’Abruzzo, verso Roma e verso la Ciociaria.Tale castello è andato distrutto, ma in seguito il nome si estese a tutta la zona situata sulle tre appendici – i tres saltibus – del monte Rotonaria. Il cenobio è un complesso organico di edifici, viali e giardini che si articolano attorno a un raccolto piazzale munito di fontana: tra di essi troviamo l’antica foresteria nobile in stile romanico-gotico, detta “Palazzo di Innocenzo III”, oggi sede di una biblioteca che vanta oltre 36.000 volumi. Di fronte al palazzo sorge la chiesa dedicata alla Vergine Maria, a san Bartolomeo apostolo e a san Giovanni Battista, come tutte le chiese dell’ordine certosino, e consacrata nel 1211: più volte rimaneggiata, si presenta oggi


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nella sua veste barocca. La facciata è del 1768 ed è stata realizzata dall’architetto Paolo Posi mentre l’interno è suddiviso da un’iconostasi in due parti per separare i conversi dai monaci, conformemente alla tradizione certosina: alla base trovano posto i resti di due martiri cristiani. Sulle pareti sono conservati i dipinti di Filippo Balbi, mentre quelli della volta sono stati realizzati da Giuseppe Caci nel 1683; sua è anche la pala d’altare che raffigura la Madonna in trono con il Bambino e i santi Bartolomeo e Bruno. Di pregevole fattura sono i due cori lignei: il coro dei Fratelli conversi è stato realizzato negli anni 1688-1690 sotto la direzione del fratello converso certosino Frà Stefano mentre quello dei Padri è stato realizzato a partire dalla seconda metà del XVI secolo, sotto la direzione di Mastro Jacobo, intagliatore francese residente a Roma. La Certosa possiede anche due chiostri: nel cosiddetto “piccolo chiostro” si apre la sala capitolare mentre al centro sorge il cimitero dove sono sepolti i certosini che hanno trascorso la loro vita a Trisulti e “il grande chiostro”, settecentesco, in stile neorinascimentale lungo il quale si trovavano le celle di clausura destinate ai Padri certosini. Il gioiello della Certosa è indubbiamente la farmacia, situata nei pressi dell’attuale ingresso al complesso davanti la quale si estende un giardino caratterizzato da siepi di bosso modellate in forme curiose, che un tempo era l’orto botanico dove i frati coltivavano le erbe officinali: la sua realizzazione risale al XVIII secolo, ma da sempre i monaci della Certosa hanno raccolto sulle montagne circostanti erbe con cui preparare rimedi naturali di vario genere che riponevano nei vasi di terracotta maiolicata tuttora presenti all’interno della farmacia arredata con un mobilio settecentesco (di Giuseppe Koefler), anch’esso dipinto. Oltrepassata la soglia della sala principale della spezieria si schiudono allo sguardo le pitture settecentesche realizzate da Giacomo Manco in stile pompeiano, in ossequio alla moda esplosa dopo i primi ritrovamenti pittorici a Pompei ed Ercolano La lussureggiante decorazione pittorica connota fortemente questi ambienti: il salotto d’attesa è chiamato anche “salottino del Balbi” dal nome del principale decoratore dell’intero complesso, il pittore napoletano Filippo Balbi che soggiornò nella Certosa tra il 1857 e il 1865; nel salottino cattura l’attenzione il monaco che fa capolino tra le pareti: è Fra Benedetto Ricciardi, direttore della Spezieria dal 1837 al 1863, anno della sua morte. Bastano questi brevi cenni per comprendere l’importanza della Certosa di Trisulti che infatti è stata dichiarata monumento nazionale nel 1879. Nonostante questo però la struttura necessita di interventi di restauro conservativo: nel 2014 il FAI (Fondo Ambiente Italiano) ha promosso una cam-

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pagna di sensibilizzazione e, nell’ambito dell’iniziativa “I luoghi del cuore”, la Certosa è stata inserita nell’elenco dei beni meritevoli di intervento, intervento per il quale sono stati stanziati fondi dal FAI, dal Ministero dei Beni Culturali, dalla Regione Lazio e da Unindustria. Per salvare la Certo-

sa si sono mobilitati privati cittadini, associazioni, rappresentanti degli enti provinciali e regionali, sono stati mandati in onda vari servizi televisivi: un bell’esempio di autocoscienza che dimostra quanto la sinergia pubblicoprivato possa concorrere alla tutela del patrimonio artistico italiano. Un ultimo cenno va fatto al corso di erboristeria e botanica pratica introduttivo al riconoscimento ed uso delle piante officinali, organizzato annualmente nel piccolo centro ciociaro: viene così tenuta in vita l’antica tradizione locale, attraverso la quale da secoli si individuano e si trasformano le erbe officinali di cui è ricca la flora dei Monti Ernici per la valorizzazione della quale è stato creato il Giardino botanico “Flora Ernica”. Non è nemmeno casuale, a tal riguardo, se proprio a Collepardo esiste la storica liquoreria-erboristeria “Sarandrea Marco”, fondata nel 1918: le linee di prodotti sono composte da una serie di estratti ottenuti dalla flora dei Monti Ernici; la preparazione dei liquidi avviene solo con piante fresche macerate in una soluzione di acqua e alcool: l’acqua usata è quella sorgiva che scorre nella natura incontaminata dell’alta Ciociaria mentre l’alcool proviene dalla distillazione di vinacce e frutta.


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L’Ecomuseo di Collepardo Un percorso per scoprire e conoscere la natura dei Monti Ernici di Matteo Petitti

Nel cuore del borgo di Collepardo, all’interno della Rocca Colonna (XIV sec.), ha sede l’ecomuseo “Orto del centauro Chirone”. L’ecomuseo quale nuova espressione museale, nasce e si sviluppa nei primi anni Settanta del Novecento in Francia dalla confluenza di diverse esigenze sociali indirizzate alla ricerca di un più stretto legame fra museo e territorio, fra natura e cultura, fra comunità e patrimonio culturale. Oggi l’ecomuseo è un modello ben strutturato di una nuova forma di tutela, valorizzazione e gestione dei beni culturali e ambientali di cui a Collepardo si può fare diretta esperienza. Già a partire dal nome che per esso è stato scelto, si può capire come l’essenza stessa dell’ecomuseo sia il risultato della sintesi tra storia e leggenda, tra scienza e tradizione, tutti elementi che caratterizzano questo piccolo borgo ciociaro: l’allusione al centauro Chirone ci rimanda, infatti, alla mitologia greca. Chirone, figlio di Crono e Filira, considerato il capostipite della medicina e della scienza erboristica, è il più saggio tra i centauri: abitante del monte Pelio (Grecia centrale) esperto di musica ma soprattutto di medicina, fu educatore di famosi eroi come Achille, Eracle e Teseo, e fu maestro di Asclepio, divinità pagana e

patrono della medicina. Lo storico e canonista Giustino Febronio (XVIII sec.) nei suoi scritti lega la figura del centauro a quella di Collepardo, dicendo che «Chirone nei monti Ernici ha il suo orto, dove vegetano miracolose erbe medicinali». Ritroviamo la figura del centauro sulla facciata esterna della Rocca Colonna, quale simbolo ed emblema dell’ecomuseo, nelle suggestive forme dategli dall’artista contemporaneo Patrik Alò: Chirone, ferito da Eracle in allenamento con una freccia avvelenata, è raffigurato nell’atto di tornare nel suo orto, alla ricerca di quella erba officinale (la Centarium Erythraea) che gli avrebbe curato il dolore. Il mito però non è avulso dalla realtà: a Collepardo infatti è ancora viva un’antica tradizione erboristica che ha saputo valorizzare l’importante patrimonio vegetale, costituito da specie montane e specie mediterranee, che in questo piccolo angolo dell’Appennino centrale hanno conosciuto un rigoglioso sviluppo. L’ecomuseo si trova nel centro storico di Collepardo, in via M. Tolomei: dopo aver

Via Provinciale d’Accesso n.61 Fumone

superato lo splendido portale dei Tolomei, risalente al 1606, ci troviamo nel cortile della Rocca, pronti per un’esperienza fuori dal comune. Lo spazio espositivo è composto da due sezioni: una accoglie la ricca e interessante biblioteca naturalistica aperta alla consultazione pubblica; l’al-


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tra, in forma didattico-espositiva, mette in mostra le tre principali tematiche del territorio collepardese: erboristeria, carsismo e biodiversità. Nella sezione erboristica, oltre ad un nutrito erbario e alla descrizione di una parte delle 1200 specie presenti nel giardino botanico “Flora Ernica” (situato a 2 km dal paese, lungo la strada provinciale che conduce alla Certosa di Trisulti), vi sono esposti diversi reperti testimoni della storia dell’erboristeria e della medicina, attraverso i quali chiaro è il riferimento all’antica farmacia certosina. Nella sezione geologica sono illustrati, su un’immaginaria linea del tempo, i processi evolutivi dei monti Ernici, territorio nel quale sorge il comune di Collepardo: si tratta di un massiccio calcareo-dolomitico costituito in prevalenza da rocce calcaree affioranti e da evidenti fenomeni carsici. Proprio il fenomeno carsico è oggetto di un particolare approfondimento nella sezione dedicata al Pozzo d’Antullo e alle Grotte dei Bambocci, straordinari esempi del carsismo appenninico. Nell’ultima sezione, la più ricca e forse la più sorprendete, è stata ricreata, grazie a

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supporti grafici e reperti naturali, la selva d’Ecio situata a cornice dell’antica certosa di Trisulti. Il bosco in questione ha un altissimo valore naturalistico ed è l’emblema della biodiversità di questo territorio. Proprio la biodiversità quale espressione dell’incredibile varietà di organismi e microrganismi, piante, animali ed ecosistemi, indissolubilmente legati gli uni agli altri, è illustrata sia attraverso foto e reperti naturali delle specie vegetali presenti nel bosco quali carpino, faggio, acero, sorbo e soprattutto il rarissimo cerro (Quecus Cerris), sia attraverso le riproduzioni a grandezza naturale degli animali che abitano questo territorio: uccelli, mammiferi e insetti, molti dei quali noti, molti altri sconosciuti e altri noti ma la cui presenza si crede sia ascrivibile esclusivamente entro i confini di aree naturali protette. Le importanti attività di ricerca scientifica del personale volontario dell’ecomuseo procedono di pari passo con le attività di promozione di eventi divulgativi su temi naturalistici, che spesso vedono protagonisti i giovani studenti delle scuole della provincia, sempre pronti a indagare la natura che intorno a loro cresce e si trasforma di

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stagione in stagione. È possibile visitare il museo tutti i sabati e le domeniche dalle ore 10.30 alle 13.00 e dalle 15.30 alle 20.00. Per ulteriori informazioni e per prenotare le visite guidate si può scrivere a ecomuseo.collepardo@gmail.com o contattare il numero 349.7880332 (dott. Fabio Collepardo Coccia). Fonti e riferimenti bibliografici: S. Cazora, Curarsi con le piante. Nella Certosa di Trisulti sui Monti Ernici i monaci cistercensi tramandano l’antica conoscenza erboristica, in «Il Forestale» n. 77 (2013), pp. 20-24 Sitografia: W. Culicelli, Flora dei monti Ernici, http://www. apicolturaonline.it/ernici.htm, ultima consultazione 20 maggio 2016 D. Jalla, Gli Ecomusei e la gestione partecipata del patrimonio culturale, http://www.italianostra-milano. org/cms/files/26%2002%2009%20Jalla%20.pdf, ultima consultazione 18 maggio 2016 http://www.patrickalo.com/index.html, ultima consultazione 20 maggio 2016 http://www.treccani.it, ultima consultazione 20 maggio 2016 http://www.hortus-hernicus.org, ultima consultazione 22 maggio 2016


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Un percorso naturalistico nel cuore degli Ernici: il sentiero “Santissima - Cappellette” di Fabrizio Girolami e Matteo Girolami

Uno degli itinerari montani più affascinanti del Lazio si trova in Ciociaria nel cuore dei monti Ernici: è il sentiero “Santissima - Cappellette”, di facile percorribilità e adatto a tutti. L’itinerario parte a Collepardo, in località “Santissima Trinità” (726 m. s.l.m.), e termina alle “Cappellette” da cui inizia il sentiero sacro che, snodandosi lungo il bosco demaniale di Selva d’Ecio, conduce alla certosa di Trisulti (825 m. s.l.m.) la quale, fondata da papa Innocenzo III nel 1204, rimane uno dei monasteri più belli dell’Italia centrale. Nei secoli passati questa strada mulattiera di montagna era l’unico tracciato percorribile per raggiungere il monastero certosino. Occorre considerare infatti che l’attuale strada provinciale asfaltata che da Collepardo conduce alla certosa (SP115) è stata costruita solamente negli anni Cinquanta del XX secolo. La strada antica veniva battuta a dorso di cavalli, asini o muli dai pellegrini, contadini, pastori, boscaioli o dai briganti che intendevano utilizzare i selvaggi anfratti dei monti come base logistica per i loro progetti criminosi. I pellegrini percorrevano questa strada per bussare alla porta della certosa facendo affidamento sulla regola dell’Ordine certosino che impone di dare ricovero e vitto gratuito per tre giorni ad ogni viandante. Pochi luoghi della natura del Lazio come questo sono in grado di ispirare poeti e artisti. Il grande storico tedesco Ferdinand Adolf Gregorovius (1821-1891) rimase folgorato dalla bellezza di questa antica strada mulattiera e volle cristallizzare le emozioni provate nelle sue celebri Passeggiate per l’Italia, nelle quali scrisse: «Ricordo aver vedute poche regioni montuose solitarie e belle come quella per la quale stavamo salendo». Il sentiero “Santissima - Cappellette” - delimitato dai segnavia del C.A.I. (Club Alpino Italiano) di colore giallo e rosso - è stato sistemato dal Comune di Collepardo nel 2009, nell’ambito del progetto “Vie della Transumanza”, con parziale finanziamento del G.A.L. (Gruppo Azione Locale) Ernici-Simbruini. La partenza del sentiero si trova, come detto, in località “Santissima Trinità” a pochi chilometri a nord del paese di Collepardo (586 m. s.l.m.), posta qualche decina di metri prima del campeggio “Adventure Camp Resort Monti Ernici” (http://www.adventurcampresort. com/). Qui si trova una chiesa ormai sconsacrata, dedicata appunto

alla Santissima Trinità, nei pressi della quale è possibile parcheggiare l’auto. Prima di intraprendere il sentiero si consiglia di effettuare un rifornimento d’acqua all’antico fontanile. Dopo aver dato uno sguardo alla tabella segnaletica, il sentiero inizia in discesa. Il primo punto di attrazione è la località “Porta Laduna” (o anche “Portella”), così denominata per la presenza di un avanzo di muro che faceva parte dell’antica “portella” che qui si trovava e alla quale era annesso un corpo di guardia proveniente dal paese di Collepardo. Il toponimo “Laduna” deriva da un fatto storico realmente verificatosi: nel primo decennio del 1400 l’esercito francese si trovò a transitare per Collepardo, probabilmente nell’ambito di una spedizione punitiva contro i monaci certosini che dimoravano nella vicina certosa di Trisulti. I castellani di Collepardo, agli ordini del re Ladislao I di Napoli, attesero proprio nei pressi di questa portella i francesi per affrontarli a viso aperto. Qui ebbe luogo lo scontro tra le fazioni in causa. Un generale francese, di nome Laduno, cadde sotto il colpo mortale di una pietra scagliata con la fionda da un collepardese, il cui nome è rimasto sconosciuto. Da allora la località si chiamò “Porta Laduna”, in memoria del generale francese ucciso. Dopo diversi tornanti percorsi in discesa, si arriva a un ponte di pietra nella località denominata “Le Sedine”. Da qui è possibile osservare con chiarezza il tracciato percorso dal torrente “Rio”, la cui portata d’acqua non è costante in tutti i mesi dell’anno.


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Dopo aver attraversato il ponte, l’escursionista si troverà di fronte ad una diramazione. A sinistra si apre il sentiero (Variante di Capo Rio) che conduce alle sorgenti del torrente “Rio”, situate a 804 m s.l.m. (con spettacolare cascata).A destra, invece, si prosegue per lo sterrato in salita che conduce alle Cappellette. Pochi metri dopo il ponte, in alto a sinistra (si vede la segnalazione dipinta su una roccia), è possibile ammirare l’ingresso della c.d. Grotta dell’Orso, utilizzata come rifugio dagli abitanti di Collepardo per porsi al riparo dai frequenti bombardamenti scagliati dalle forze alleate negli anni 1943-1944. Proseguendo in salita il sentiero si nota sulla destra una piccola croce in ferro battuto che contraddistingue il luogo di martirio di un anonimo civile che fu qui ucciso durante la seconda guerra mondiale. Continuando a salire si giunge ad un ampio spiazzo sulla destra denominato “LaVicenda” (o “Vicenna”), un tempo di proprietà dei monaci certosini di Trisulti, e così denominato perché qui le coltivazioni dei terreni “si avvicendavano”, essendo effettuate a rotazione, stagione per stagione. Qui, su un basamento di pietra (su cui si può ancora leggere la data incisa dell’anno “1921”), venne posta una grande croce di legno che - intorno agli anni Sessanta del XX secolo - si ruppe, cadendo al suolo, a causa dei venti e degli avversi fenomeni atmosferici. Il giorno 8 novembre 2008, per iniziativa di un gruppo di amici collepardesi, fu installata, sul medesimo basamento di pietra, in sostituzione della vecchia croce di legno, una nuova croce di ferro, benedetta dal parroco don

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Virginio Ciavardini. Il promotore dell’importante iniziativa fu il sig. Vincenzo De Sanctis, con la collaborazione di Tito Rondinara,Andrea Ditacco e Giuseppino Caponera. L’anno di installazione della croce (2008) e i nomi dei promotori sono incisi ai piedi della croce. Proseguendo il nostro cammino, allietati dalla straordinaria vista delle montagne, è possibile notare, poco prima della meta, un fontanile in pietra da cui scaturisce la sorgente denominata “Le Fontanelle” che fornisce acqua limpidissima e leggerissima. Il sentiero si conclude sul pianoro asfaltato denominato “Le Cappellette” per la presenza di due piccole cappelle in mattoni. In origine, a partire dal XVI secolo, esisteva una sola cappella in pietra che sorgeva nel luogo dove si trova l’attuale cappella destra. Divenuta fatiscente con il tempo, è stata restaurata negli anni Ottanta del secolo scorso. All’interno è possibile ammirare, sopra il piccolo altare, un crocifisso ligneo di recente realizzazione e un piccolo quadro raffigurante la Vergine Maria con il bambino Gesù. La cappella di sinistra è stata costruita solamente nel XIX secolo. TAVOLA SINOTTICA Coordinate inizio sentiero: 41.774418, 13.376576 Coordinate fine sentiero: 41.776890, 13.389312 Quota inizio sentiero: 725 m s.l.m. Quota fine sentiero: 837 m s.l.m. Distanza: 2.99 km Tempi di percorrenza: circa 50 minuti Grado di difficoltà: facile


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Pagine dal Passato Fumone nella letteratura storica del XVIII secolo di Alessandro Potenziani

Nel primo articolo dedicato a questa rubrica (p. 7 nel n. 1 de “Il Guitto”) abbiamo iniziato a porre la nostra attenzione agli scritti dedicati a Fumone prodotti entro il XVIII secolo, sottoponendo ai nostri lettori il brano riguardante Antenna nell’opera intitolata «La Reggia de Volsci» di Antonio Ricchi, brano che nel tempo ha indotto alcuni storici a identificare Fumone con l’antica località volsca. Sarebbe affascinante credere che Tarquinio il Superbo, cacciato da Roma e rifugiatosi presso Antenna, possa aver scelto il centro che poi sarebbe divenuto Fumone. Tale leggenda, però, non è suffragata da alcuna prova storica. Senza la presunzione di aver rintracciato tutte le citazioni letterarie inerenti Fumone, ci limiteremo a pubblicare quelle che finora, per questo secolo, la ricerca ha evidenziato. È da notare innanzitutto che il nome di Fumone viene indissolubilmente legato al fatto storico più rilevante, cioè l’«honesta custodia» che il pontefice Bonifacio VIII si arrogava il diritto di avere sul suo predecessore rinunciatario Celestino V, relegato presso l’angusta cella della rocca fumonese, dove poi morì. Del resto, è innegabile che tale evento abbia contribuito a rendere famoso il castello di Fumone, quasi certamente anche grazie all’interpretazione di molti letterati che hanno voluto riconoscere l’eremita del Morrone nel personaggio che, nei versi danteschi (Inferno, III vv. 59 e seg.), viene apostrofato come «colui che fece per viltade il gran rifiuto». Un esempio lampante ce lo offre lo storico e geografo inglese Thomas Salmon (Meppershall 1679 - 1767) il quale dedicò molti anni della sua esistenza ai viaggi, tra cui si ricorda quello intorno al mondo insieme a George Anson. Salmon, nella sua poderosa pubblicazione dal titolo «Lo stato presente di tutti i paesi e popoli del mondo» (titolo originario: «Modern History, or the Present State of all Nations», Londra 1739), composta da 26 volumi, tradotta in olandese, francese, tedesco e italiano, incentra le poche righe dedicate a Fumone sullo storico avvenimento. Di seguito ne riproponiamo il testo dell’edizione italiana, edita aVenezia da Giambattista Albrizzi tra il 1731 e il 1766 (vol. XXII, 1759): «Fumone è un Castello tra Alatri e Ferentino, tre miglia discosto d’ambedue. È osservabile per aver servito di prigione al S. Pontefice Celestino V, chiamato in prima Pietro Morone, che ivi morì nel 1296, fatto in esso rinchiudere dopo la sua rinunzia del Pontificato da Bonifacio VIII, per timore che alcuno abusandosi della sua semplicità non fosse per eccitare de’ nuovi torbidi nella Chiesa; approfittandosi del dubbio in cui erano in parecchi, che un Pontefice potesse rinunziar legittimamente il Pontificato». Ritroviamo lo stesso testo molti anni più tardi, nel 1787, incluso nell’opera dal titolo «Storia moderna, geografica, civile, e naturale della Campagna di Roma in generale», edita sempre a Venezia dal figlio dell’Albrizzi, Andrea. Stringate citazioni su Fumone le rileviamo anche in «Italia Sacra» edita dall’abate cistercense Ferdinando Ughelli (Firenze 1595 - Roma 1670) a Roma tra il 1642 e il 1648, in 9 tomi, in lingua latina e data nuovamente alle stampe, aumentata ed aggiornata, da Nico-

la Coleti a Venezia tra il 1717 e il 1722. Ughelli fu il primo a dedicare una pubblicazione ai vescovi italiani raggruppati per diocesi, dando notizie su ciascuno e sulle chiese a loro assegnate. L’opera, di fondamentale importanza per la conoscenza della storia delle diocesi, divenne punto di riferimento imprescindibile per tutti coloro che si sarebbero dedicati allo studio del medesimo argomento.Vengono elencati anche due vescovi di Alatri nativi di Fumone: Christophorus de Fumone, eletto nel 1386 da papa UrbanoVI, e Tuccius Antonius de Fumone, eletto nel 1457 da papa Callisto III; nella seconda edizione una nota su Fumone dice: «Oppidum Fumonis celebre est incolatu obitu Caelestini Papae V». L’opera «Delle città d’Italia e sue isole adjacenti compendiose notizie sacre, e profane» edita a Perugia dal 1770 al 1778 dal conte Cesare Orlandi (Città della Pieve 1734 - Perugia 1779), viene pubblicata con l’obiettivo di realizzare una prima ricognizione dei centri urbani della “nazione” italiana esclusa la Savoia, rivolgendosi a un pubblico di viaggiatori e commercianti italiani ed esteri ma, purtroppo, l’opera rimase incompleta per la morte prematura dell’autore. La citazione su Fumone resta compresa nelle righe dedicate alla città di Alatri: «La stessa Città di Alatri ha dalla parte di Ponente il Castello di FUMONE celebre per il famoso Carcere di S. Pietro Celestino; in questa Terra o Castello ha avuta giurisdizione nel temporale il Capitolo di Alatri». Tale descrizione della sola città di Alatri venne ripubblicata molti anni più tardi, in onore della storica visita di papa Gregorio XVI alla città, avvenuta il 4 maggio 1843. Non possiamo non riferire infine che nel corso del XVIII secolo troviamo riferimenti a Fumone in alcune opere dell’illustre dottore e filosofo Antonio Celestino Cocchi (Fumone 1685 - Roma 1747), discendente dell’antico e nobile casato tuttora esistente a Fumone, il quale celebrava le sue origini a tal punto da citarne il luogo in molte sue opere letterarie.

Fonti e riferimenti bibliografici C. Orlandi, Delle città d’Italia e sue isole adiacenti compendiose notizie sacre, e profane compilate da Cesare Orlandi nobile patrizio di Fermo, di Atri, e di Città della Pieve, Perugia 1770. T. Salmon, Lo stato presente di tutti i paesi e popoli del mondo, naturale, politico, e morale, con nuove osservazioni, e correzioni degli antichi e moderni viaggiatori. Volume XXII. Continuazione dell’Italia o sia descrizione degli altri Stati del Dominio Ecclesiastico, cioè della Campagna di Roma, del Patrimonio di S. Pietro, e del Ducato di Castro, con un Compendio delle vite de’ SS. Pontefici, Venezia 1759. T. Salmon, Storia moderna, geografica, civile, e naturale della Campagna di Roma in generale, ed in particolare, della città di Roma, e sue magnificenze, del patrimonio di S. Pietro, e del ducato di Castro, ed un compendio delle vite de’ sommi pontefici. Adorna di carte geografiche e figure in rame, Venezia 1787. F. Ughelli, Italia Sacra sive de Episcopis Italiae, Opus Singulare Provinciis XX. Distinctum, Tomus Primus, Complectens Ecclesias Sanctae Romanae Sedi immediate subjectas, seconda edizione a cura di N. Coleti, Venezia 1717.


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L’olio extravergine di oliva di Fumone: un’eccellenza alimentare Intervista a Matteo Ciocchetti di Elisa Potenziani

Matteo Ciocchetti è il giovane responsabile commerciale del frantoio De Santis e si occupa di promuovere l’attività di famiglia. La famiglia De Santis si dedica alla coltivazione dell’ulivo dal 1958 e nel tempo ha tenuto fede all’impegno di produrre un olio extravergine di alta qualità nel pieno rispetto della tradizione. Quella dell’olio, simbolo per eccellenza della tradizione agroalimentare del Mediterraneo, è sicuramente una delle produzioni più rinomate della Ciociaria: l’olio di questa regione, in quanto extra vergine, ha caratteristiche che ne esaltano le proprietà antiossidanti, contribuisce a ridurre il colesterolo “cattivo” presente nel sangue, facilita l’assimilazione delle vitamine in esso contenute e conserva inalterate le proprie qualità nel tempo. Ogni olio ha comunque caratteristiche qualitative e organolettiche differenti che dipendono dalla zona di produzione, dal tipo di cultivar e dai procedimenti utilizzati per la trasformazione del frutto. Gli uliveti di Fumone, impiantati su terreni di origine calcarea, producono olive di eccellente qualità.

difetti ma pregi. Tali caratteristiche indicano la presenza di polifenoli, importanti antiossidanti per il benessere del nostro organismo. Il vostro olio viene ricavato attraverso la spremitura a freddo. Che cosa garantisce questo processo? Per prima cosa occorre spiegare che cosa vuol dire “spremitura a freddo”. La spremitura a freddo delle olive è uno dei procedimenti meccanici per l’estrazione dell’olio di oliva: questo metodo di lavorazione consente di ottenere un

Quali soddisfazioni avete ottenuto dal vostro duro lavoro? La nostra Azienda Agricola ha ricevuto a Parigi, in occasione della vetrina europea del BioItaly, un importante riconoscimento a livello internazionale e numerosi apprezzamenti dagli esperti del settore.

Rivolgiamo ora qualche domanda a Matteo. Ciao Matteo. Che cosa ti ha spinto a intraprendere la strada della valorizzazione di questo eccezionale prodotto? Ho scelto di continuare una tradizione di famiglia, da anni impegnata nella produzione di olio extra vergine di oliva. Crescendo ho imparato ad apprezzarne l’importanza, in quanto elemento fondamentale per una corretta alimentazione, e a sostenere il duro lavoro che occorre per produrre un olio di qualità. Il mio impegno è quello di seguire gli insegnamenti che mi sono stati trasmessi con la volontà, però, di imparare cose nuove. Quali sono le caratteristiche che deve avere un olio di buona (o possibilmente ottima) qualità? Un olio di ottima qualità presenta le caratteristiche dell’amaro e del piccante che, contrariamente a quanto si possa pensare, non sono

olio extravergine di ottima qualità in quanto la temperatura della pasta delle olive non supera i 26°C. L’olio lavorato in questa maniera esprime al meglio le sue caratteristiche chimiche ed organolettiche. A quali manifestazioni avete partecipato? L’Azienda Agricola De Santis aderisce a molte manifestazioni del settore agroalimentare: l’anno scorso abbiamo partecipato anche all’Expo di Milano, prestigioso evento che ha permesso di far conoscere ai visitatori di tutto il mondo l’Italia e le sue eccellenze, tra cui quelle della nostra Ciociaria.

Quali progetti avete realizzato e quali avete in cantiere? Tra i vari progetti in fase di realizzazione c’è “Io amo la mia terra”. Il progetto nasce dall’idea di promuovere un’agricoltura sociale con l’intento di portare ragazzi diversamente abili a contatto con la natura e permettere loro di partecipare attivamente ad alcune attività che quotidianamente si svolgono all’interno di un’azienda. Anche alla luce dei recenti scandali che hanno investito importanti aziende produttrici di olio, ci sentiamo di incoraggiare la produzione biologica (che non usa pesticidi) e le piccole aziende, come l’Azienda De Santis, spesso garanti di prodotti di altissima qualità, dove si ha la possibilità di assistere al ciclo di produzione del vero extravergine, dallo stoccaggio delle olive raccolte fino all’estrazione finale, e di degustarlo su bruschette di pane (rigorosamente locale).


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A memoria

Il dramma delle marocchinate in Ciociaria di Lamberta Caponera

«Rosetta non era svenuta, e tutto quello che era successo lei lo aveva veduto con i suoi occhi e sentito con i suoi sensi […]. Lei mi guardava con occhi spalancati, senza dire una parola né muoversi, uno sguardo che non avevo mai visto, come un animale che sia stato preso in trappola e non può muoversi e si aspetta che il cacciatore gli dia l’ultimo colpo». (Alberto Moravia, La Ciociara) I recenti fatti di cronaca calcistica, avvenuti in concomitanza con la lettura del libro “La Ciociara” di Alberto Moravia, hanno riportato alla ribalta – nella mia testa, ma anche in quella di moltissime altre persone – il tema delle cosiddette “marocchinate”:

da qui è nato il desiderio di raccontare che cosa successe in Ciociaria e in tanti altri

paesi italiani durante l’ultima fase della seconda guerra mondiale. Con il termine “marocchinate” vengono indicate le violenze commesse dalle truppe del Corps expéditionnaire français: tali violenze e soprusi avvennero ai danni di donne, bambini di entrambi i sessi, uomini e religiosi. I componenAlcuni soldati dei Corps expéditionnaire français. ti di questo corpo erano in gran parte marocchini, ma anche algerini e torio di Cassino. L’operazione bellica desenegalesi, tutti provenienti da co- nominata “Diadem” si sarebbe sviluppata lonie francesi: erano capeggiati dal attraverso i Monti Aurunci; partendo da generale Alphonse Juin ed avevano Castelforte e passando per Ausonia, Monte un eccellente addestramento per i Petrella, Esperia, le truppe sarebbero giunte combattimenti in montagna. al paese di Pontecorvo e alla via Casilina: in La furia di questi uomini si palesò questo modo i difensori di Cassino sarebsin dal loro primo sbarco, avvenuto bero stati aggirati. Il XII corpo britannico in Sicilia vicino Licata, e, a mano a riuscì infatti a sfondare la linea Gustav e mano che risalivano l’Italia, la loro ad arrivare alla linea di difesa denominaviolenza divenne di una brutalità ta “Adolf Hitler”. Per ottenere la vittoria, inaudita. L’attacco dei goumiers (da come incentivo, il generale Juin promise ai “goums” che significa “gruppo”) suoi uomini totale libertà per due giorni: avrebbe dovuto sbloccare la situazione di tale concessione implicava il diritto di vita stasi che si era venuta a creare nel terri- e di morte sulle popolazioni vinte, il furto

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dei loro averi e violenze sulle donne. I giorni però non furono due, ma molti di più. I goumiers fecero cose inenarrabili: uccisero, razziarono e violentarono donne e bambini di ogni età obbligando padri, mariti, fratelli ad assistere agli stupri e, se si fossero ribellati, avrebbero subìto la stessa sorte o sarebbero stati impalati. Tristemente famoso è l’episodio che vide protagonista don Alberto Terrili, parroco di Esperia, che per salvare tre giovani venne violentato e per le conseguenze morì dopo pochi giorni. I paesi colpiti da tanto orrore furono molti: in primis Esperia, ma anche Pontecorvo, Pastena, Castro dei Volsci, Pofi, Vallecorsa, Amaseno, Giuliano di Roma, Ceccano, Frosinone, Patrica, Supino, Sezze e altri ancora. Le vittime furono moltissime: si parla di 60.000 casi e nella sola provincia di Frosinone vennero denunciate 6.000 violenze. Perché accadde tutto questo? Quale fu l’input che determinò questa barbarie? Oltre al fatto che il generale Alphonse Juin, concedendo carta bianca alle sue truppe, ne giustificò la violenza inaudita, va tenuto presente che i francesi non erano ben disposti verso gli italiani perché erano stati pugnalati alle spalle da questi ultimi con i bombardamenti a Blois (10 giugno 1940) senza che ce ne fosse stata una vera necessità militare e agli italiani rimproveravano pure i mitragliamenti sulle colonne di rifugiati a sud della Loira. Finita la guerra delle marocchinate se ne parlò poco o per niente e lo stesso governo cercò di far dimenticare una pagina di storia disonorevole. La popolazione femminile che conobbe tanta furia ebbe la vita violata, cambiata e distrutta per sempre: tante morirono per le conseguenze delle violenze subìte, moltissime si ammalarono, il 20% contrasse la sifilide, il 90% la blenoraggìa e altre malattie veneree molto gravi. Molte di coloro che avevano subìto violenza e che erano sopravvissute, scapparono in città lontane dove sarebbe stato più facile dimenticare e farsi dimenticare, ma tante si suicidarono perché abbandonate a loro stesse, umiliate e sottoposte all’onta di parenti e amici. Il fatto sconcer-

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Castro dei Volsci, Monumento alla mamma ciociara.

tante fu proprio questo: le donne oltraggiate non trovarono aiuto e solidarietà – com’era giusto e lecito aspettarsi – dai loro compaesani, ma furono considerate con spregio “avanzi di marocchini” (questo fatto è stato ribadito a voce alta da tutte le sopravvissute). Dopo tanti anni passati tra vergogna e reticenze, il 15 marzo 2004 è stato finalmente conferito l’importante riconoscimento morale: la più

alta carica dello Stato, l’allora presidente Carlo Azeglio Ciampi, insieme all’Associazione Nazionale dei reduci marocchini, ha ricordato le vittime degli stupri e dei bombardamenti di Cassino. Al di là di ogni riconoscimento e di ogni monumento è nostro dovere morale tenere sempre viva la memoria di quanto è accaduto. Fonti e riferimenti bibliografici: Alberto Moravia, La Ciociara, Milano 1957 (portato sul grande schermo nell’omonimo film da Vittorio De Sica nel 1960) Sitografia: www.morasta.it http://digilander.libero.it/folgore4a/ http://vittimemarocchinate.blogspot.it http://www.instoria.it/home/marocchinate.htm https://www.youtube.com/watch?v=bO2RoB0quzs (Interviste alle donne violentate nel 1944 dal CSF)


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Uomini e donne della Ciociaria: Gli affascinanti modelli dell’arte europea di Cecilia Giovannetti

che si leva nei giardini di Kensington, Capolavori pittorici e scultorei dell’arsempre a Londra. te europea dell’800 e del primo ‘900 Era di Atina Michele De Rosa, l’adohanno avuto come modelle e modelli lescente rappresentato nel “Ragazzo ispiratori umili paesani, originari deldal panciotto rosso” di Paul Cézanne la Ciociaria. La maggior parte di essi (1839-1906): il fanciullo era fermo in è rimasta nell’ombra o ancor peggio un angolo, in attesa di un artista che lo nell’anonimato, anche se furono famoassoldasse. Cezanne fu colpito particosi gli artisti per i quali posarono: Malarmente dal panciotto rosso sfavillante. net, Degas, Renoir, Corot, Rodin,Van Lo ritrasse in quattro oli e due acqueGogh, Matisse, Picasso. relli, cercando di riprodurre quella toOggi però, grazie ad un’approfondinalità così particolare, ma non vi riuscì ta ricerca compiuta dal prof. Michele perché il colore del tessuto era natuSantulli conosciamo, ad esempio, il rale, ottenuto con piante tintorie che nome di Maria Bruzzese, la ciociara crescevano nella campagna ciociara e scolpita nell’“Eva incompiuta” e nella perciò inimitabile dal colore che usciva “Toletta di Venere” di Auguste Rodin dai tubetti. Cezanne si invaghì anche (1840-1917), e le due sorelle minori, della sorella di Michele e la ritrasse nel Anna e in particolare Adele, dalle modipinto “La ragazza che si appoggia col venze feline e selvagge, la pantera dai gomito sul tavolo”, oggi presso il Paul capelli rossi, che ispirò l’artista francese Getty Museum di New York. nella realizzazione di opere d’arte oggi Altrettanto famosa è Rosa Arpino che presenti nei musei di tutto il mondo compare per la prima volta in un’enor(“La femme accroupie”, “Iris”, “Torso me tela di Henri Matisse (1869-1954), di Adele”). oggi in America, a Philadelphia, dal Non possiamo dimenticare Cesidio titolo “Gioia di vivere”. Rosa era una Pignatelli, il ciociaro sporco, affamato, quindicenne ciociara, splendidamente puzzolente, con la barba incolta che formata, dal corpo sodo, dalle lunghe Rodin volle come modello per il suo chiome corvine dai grandi occhi neri “Saint Jean Baptiste” e per la statua, e luccicanti. L’artista dipinse scene di sempre bronzea, ma priva di testa e danza e paesaggi e, tra le numerose fibraccia,“L’homme qui marche”. gure, fece emergere il corpo splendido Conosciamo la storia di Rosalina Pedi Rosa, in piedi, con le braccia dietro sce, la quattordicenne di Gallinaro che la nuca. ha regalato il proprio corpo alla celePersino Georges Braque (1882-1963), bre “Semeuse” di Oscar Roty (1846Auguste Rodin, Saint John the Baptist, 1880 che mai dipinse la figura umana, si in1911), immortalata sulle monete d’arteressò al corpo di Rosa e realizzò un gento, sui francobolli francesi e ancora oggi presente sui venti centesimi. Sappiamo che anche suo padre, Cele- quadro che intitolò “Grande nudo”, oggi a Parigi. L’artista fornì al corpo stino, posò per Rodin. In quel periodo l’artista ricevette la commissione di Rosa nuove prospettive e dimensioni, conservandone le forme e le di realizzare una statua di Balzac per la ricorrenza dei cinquant’anni dalla curve e affidò a lei, umile modella ciociara, il ruolo di portavoce dell’insua morte. Dopo sette anni di tentativi, il bozzetto in gesso a grandezza gresso del Cubismo nella storia dell’arte. naturale era pronto, ma l’opera non piacque. Rodin la tenne per sé e, Anche la sorella di Rosa, Loreta, fu molto corteggiata ed Henri Matisse, vent’anni dopo la sua morte, fu fusa in bronzo e posta aVavin all’incrocio che la chiamava Lorette: l’artista iniziò a ritrarre il suo corpo nel proprio del Boulevard du Montparnasse col Boulevard Raspail. Rosalina, ogni studio, lungo la Senna. È lei la protagonista delle opere “L’Italienne” e volta che passava per quell’incrocio, si commuoveva perché in quel volto “Lorette col copricapo persiano”. Una terza opera di Matisse, “Les trois soeurs”, ha come modelle proprio le tre sorelle, Rosa, Loreta, Maria riconosceva suo padre e non Balzac. Sappiamo tutto di Agostina Segatori che Jean-Baptiste Camille Corot Elena. (1796-1875) conobbe in Italia e portò a Parigi: ella prestò il suo corpo E si ha la certezza che fu una ciociara a prestare il proprio corpo al quae il suo volto a questo artista per l’opera “dama blu” e successivamente dro, intitolato “L’italiana”, che Pablo Picasso dipinse nel 1917 in uno dei suoi viaggi a Roma, oggi conservato a Zurigo. divenne la modella di pittori del calibro di Matisse, Degas,Van Gogh. Conosciamo chi è l’adolescente immortalato nel centro della fontana di È indubbia, quindi, nella storia dell’arte, la fama dei ciociari come moPiccadilly Circus, nei panni di Eros, come pure chi è il bambino – figlio delli: erano donne e uomini che venivano dalla campagna, le loro storie di poveri emigranti di Picinisco – che posò per la scultura di Peter Pan erano spesso storie di miseria e povertà, e la possibilità di evadere dalla


il Guitto

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La città, in cui per prima si crearono luoghi di ritrovo, fu Roma: qui, le donne, mentre vendevano violette o altri fiori, attendevano di essere ammirate da un artista. Piazza Montanara, Piazza Farnese, Piazza del Popolo,Via del Corso, Piazza Barberini,Via Margutta con gli studi “Marinelli”, “Rasinelli” e “Patrizi”, Fontana di Trevi dove ancora oggi esiste la “Via dei Modelli”, furono i principali luoghi di ritrovo di questi nuovi professionisti. Ma a seguito di epidemie di colera, di moti rivoluzionari e della fine del potere papale, che portarono miseria e povertà, iniziò l’emigrazione verso Parigi da parte dei modelli ciociari che divennero le muse dei pittori della Belle Époque. E chi più dei modelli ciociari la poteva interpretare? Nell’antica scuola di Belle Arti a Parigi vi erano delle regole ben definite: non erano ammesse donne, non si poteva disegnare da modelli nudi e gli insegnanti potevano essere solo uomini. Ma i giovani artisti, portatori di idee rivoluzionarie, risvegliarono nuovi stimoli per un mondo artistico tutto da reinventare. La capitale francese allora, si affermò come il centro focale della cultura europea: nacquero numerose accademie private (l’Académie Julian, Carmen, Colarossi), dove gli artisti si ritrovavano per esprimere il proprio spirito artistico: furono denominati “bestie feroci” (in francese fauves) per l’eccessiva esuberanza dei colori, per la fortissima espressività e la primitività dei corpi da essi rappresentati. Erano i corpi dei nostri modelli ciociari, quei corpi che regalarono al mondo intero e all’arte europea l’idea di una bellezza nuova, colorata e semplice, spontanea e selvaggia, ricca di profondi valori interiori.

Pablo Picasso, L’italienne, 1917

loro amara vita quotidiana era offerta proprio dall’ opportunità di intraprendere il mestiere di modella o modello. Per Auguste Rodin le ciociare erano le migliori modelle del mondo, di loro diceva: «meravigliosamente belle, […] belle come unaVenere, come un Apollo, […] un incanto per gli occhi»; Jean-Baptiste Camille Corot scriveva ad un amico: «le più belle del mondo […] gli occhi, le mani, i culi sono meravigliosi». Un poeta di cui non conosciamo il nome scrive: «Tu non conosci la donna ciociara, stretta al busto da lacci mordenti, il suo passo che musica i fianchi, allunga la strada, accorcia il respiro di chi la vede la prima volta». Ferdinand Gregorovius, il famoso scrittore tedesco, parlava dei loro magnifici costumi e della loro grazia naturale. Erano, dunque, donne di una grande espressività, una fisionomia e un portamento quasi regale, modellato dalle dure sofferenze, una bellezza soda e florida, corpi turgidi, pieni e scattanti, volti intensi, sguardi acuti, carnagione ambrata, pelle levigata, chiome lunghe nere o ramate. E poi i loro abiti, fatti in casa, di lana, lino o canapa, erano “stracci” coloratissimi, composti da tre o quattro pezzi: il grembiule o “zinale”, la veste col busto, il camicione, un fazzolettone in testa chiamato “tovaglia”. Anche gli uomini indossavano abiti particolari: pantaloni blu o rossi, corti fino alle ginocchia per lasciar vedere i loro calzari, con le pezze di tela bianca avvolte fino ai polpacci con i tredici giri di stringhe di cuoio e poi i giubbetti vivaci, il tipico cappello conico, spesso adorno di piume, di nastri o fiori di campo. Così l’abito divenne costume, le calzature divennero ciocie e il ritratto divenne posa: ecco come si spiega l’incanto dei vari pittori di fronte a questo fascino arcaico. Per i ciociari la professione di modello o modella costituì un tentativo di riscatto sociale, di fuga dalla povertà e dalla fame, un mezzo per vivere in altre città, al seguito di artisti famosi che avrebbero assicurato loro fama imperitura.

Paul Cézanne, Ragazzo dal panciotto rosso, 1890-1895

Fonti e riferimenti bibliografici: Gente di Ciociaria, cur. U. Iannazzi – E. M. Beranger, Isola del Liri 2007, pp. 450-491. M. Santulli, Modelle e modelli ciociari nell’arte europea a Roma, Parigi, Londra nel 1800/1900, Arpino 2012.


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