il N° 3 - NOVEMBRE 2015
Guitto
Rivista dell’Associazione Culturale Il Guitto
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Viaggiare in Ciociaria: Fumone
Un’icona ritrovata
Il guardiano del lago
Il naufragio del piroscafo Oria
La tragedia navale in cui perse la vita il fumonese Roberto Bellotti
EDITORIALE
Fumone: perla della Ciociaria di Elisa Potenziani Fumone è divenuta ormai da più di venticinque anni meta prediletta di quanti si allontanano per pochi giorni dalle grandi città: il paese mantiene un fascino tutto particolare in ogni stagione dell’anno e d’estate offre refrigerio a chi fugge dal caldo torrido dei grandi centri. Il borgo fortificato, interamente pedonale, concede ai visitatori la possibilità di godere in assoluta tranquillità di un panorama mozzafiato delimitato dalle vette degli Ernici ad est e dei Lepini ad ovest. - Pag. 2
di Roberto Bellotti
La storia spesso sembra lontana, fatta per rimanere sui libri. A volte però si avvicina, ti chiama e ti porta via dal tuo paese natio a cui mai ritornerai. Quella che sto per raccontarvi è la vicenda di un fumonese di vent’anni chiamato a partecipare alla seconda guerra mondiale, evento di cui forse non aveva percepito la tragica rilevanza, che non tornerà mai più nella sua Ciociaria, accolto per sempre dal mare, in Grecia, con altri 4.200 ragazzi. Roberto Bellotti, questo il suo nome, da poco divenuto padre, venne dislocato nel 1941 sull’isola di Rodi nel Dodecaneso per rinforzare i ranghi della Divisione Regina impegnata nella difesa di quei territori italiani durante il conflitto mondiale. Le storie tramandate in famiglia dicono che il suo invio in Grecia fu la punizione per essere stato scoperto da una suora a fumare durante una convalescenza presso l’ospedale militare del Celio a Roma. Si dice pure che, durante una sosta a Ferentino del convoglio che lo portava verso il porto da cui sarebbe salpato, avrebbe fatto una corsa a piedi verso Fumone per un veloce saluto a suo figlio, nato da pochi mesi. A Rodi, raccontano le cronache, la guerra veniva percepita lontana infatti quelle isole non furono mai teatro di scontri diretti fra gli eserciti opposti. - Pag. 2
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segue da pag. 1 - Poi però arrivò l’8 settembre1943 e sull’isola si con- na: era un aviere che aveva prestato servizio sull’isola di Rodi negli frontarono uno sparuto manipolo di soldati tedeschi ben organiz- anni della guerra e autore di alcune pubblicazioni sulle vicenzati e preparati all’evento e un nutrito schieramento di soldati ita- de militari nell’Egeo. Cominciavano a emergere le prime tracce liani che, colti alla sprovvista dall’armistizio, tentarono di resistere dell’Oria: le date del suo ultimo tragico viaggio erano compatibili in maniera disorganizzata e spontanea. Il confronto, nonostante la con le informazioni di cui disponevo. prevalenza numerica delle forze italiane, vide una rapida afferma- Ero quasi certo che mio nonno fosse morto in quel naufragio ma ancora non avevo ben chiaro dove. zione dei tedeschi che in due giorni presero possesso dell’isola. Da quel momento iniziarono le deportazioni dei soldati che rifiu- La curiosità crescente, alimentata dai primi riscontri documentali, nel 2004 mi indusse a partire per Rodi tavano di prestare giuramento alla Repubcon lo scopo di raccogliere ulteriori inblica di Salò ovvero di arruolarsi nelle file formazioni sulle deportazioni e sulla vita dell’esercito germanico. In massima parte dei soldati italiani nel periodo bellico e i soldati venivano caricati su navi in conper vedere con i miei occhi i luoghi in cui dizioni disumane per essere spediti verso i aveva vissuto mio nonno. campi di concentramento europei o verso Fu un viaggio emozionante. Molte sono le industrie del Reich. le tracce della permanenza delle truppe Una di queste navi era il piroscafo Oria, italiane, inoltre passai parte del mio temvecchio vascello commerciale norvegese. po con le persone più anziane che ancora Caricato ben oltre il limite massimo, con avevano vivi i ricordi di quegli anni. Mi circa 4200 persone chiuse nelle stive – tra raccontarono di soldati italiani ben voluti cui mio nonno Roberto Bellotti – l’Oria dalla popolazione locale dediti alla pratisalpò dal porto di Rodi l’11 febbraio 1944 che militari ma soprattutto a quelle civili a per poi affondare all’alba del giorno sucsupporto della popolazione locale. cessivo in un mare in tempesta sull’isola di L’incantesimo si ruppe l’8 settembre 1943: Patroclo a poche miglia dalla destinazione, la breve resistenza, la prigionia, le esecuAtene. zioni, le deportazioni. Pochi furono i sopravvissuti. Una delle più Qualche anno dopo, l’intervista televisigrandi tragedie navali del Mediterraneo. va di un altro famigliare impegnato nelle La vicenda per vari motivi cadde nel diricerche, unitamente al grande potenziale menticatoio: alle famiglie arrivarono inofferto da internet, consentì di stabilire i formazioni scarne e incomplete facendo primi contatti tra i famigliari dei naufraghi sì che quell’avvenimento venisse relegato Roberto Bellotti dell’Oria per iniziare a dar loro un volto. nella memoria individuale di pochi. Una quindicina di anni fa, io, figlio di quel bambino nato nel 1941, Scoprimmo che uno di noi era entrato in possesso, tramite la Crocominciai a sentire l’esigenza di annodare i fili della memoria con ce Rossa di Ginevra, della lista degli imbarcati dell’Oria redatta dai quelli della storia, dando concretezza alle storie sentite da mio soldati tedeschi prima che la nave salpasse. Era la prova che tutti cercavamo. padre. Ricordo ancora la fortissima emozione nello scorrere quell’elenco Cominciò la ricerca fatta di letture e di colloqui. Mi rivolsi all’Archivio Storico Centrale dell’Esercito Italiano e ri- e trovare il nome di mio nonno, la storia e la memoria si erano uscii ad ottenere la possibilità di visionare i diari della Divisione ritrovate. Regina che offrivano uno spaccato emozionante della vita quoti- Un altro momento fondamentale della ricerca fu il ritrovamento in fondo al mare, da parte di alcuni subacquei greci, di una gavetta diana dei soldati. Attraverso alcuni studiosi che si occupavano della storia del Dode- con incise le iniziali del nome del soldato cui era appartenuta e caneso entrai in contatto con l’ing. Manicone, residente a Terraci- la parola “Vaiano”, un Comune della Toscana. Le ricerche presso
segue da pag. 1 - Le rocce calcaree
restituiscono la primordiale sensazione di imponenza dell’arx e la sua originaria vocazione militare: nel corso dei secoli il borgo non ha subìto sventramenti di rilievo che abbiano snaturato il luogo o cambiato i tratti della sua fisionomia sì da renderla irriconoscibile, al contrario i due ingressi al castrum, e porta Romana in particolare, offrono la suggestione di tornare indietro nel tempo attraverso un varco spazio-temporale. Fumone è ricca sotto tanti punti di vista: architettonico, storicoartistico, archeologico e naturalistico. Lambisce il territorio del comune di Fumone il lago di Canterno, bacino di origine carsica facen-
te parte della Riserva naturale regionale istituita nel 1997. Proprio per una tale varietà Fumone è molto apprezzata: lo conferma il numero di presenze annue che si aggira attorno ai ventimila visitatori. Attrattiva di prim’ordine rimane il Castello che non smette di richiamare turisti provenienti da ogni parte d’Italia: la presenza della prigione di Celestino V all’interno dell’antico maniero fa inoltre di Fumone un luogo citato dai libri di storia e di letteratura e tappa di un percorso spirituale alla scoperta dei luoghi celestiniani. La Pro Loco, con la manifestazione Cantine aperte, ha coniugato la promozione dell’enogastronomia locale con la musica
popolare ciociara collaudando un percorso che si snoda attraverso i vicoli del centro storico con l’intento di valorizzarne la particolare organizzazione urbanistica. Tentativi di radicare una pratica virtuosa, quella del turismo culturale, sono stati compiuti dall’Associazione culturale Il Guitto: con due appuntamenti diurni è stato valorizzato un antico sentiero che dalle pendici del monte conduce fino al cuore del castrum medievale; durante la visita guidata vengono segnalate le emergenze architettoniche dislocate lungo il percorso mentre lo sguardo può vagare liberamente sulla vallata circostante. Nel doppio appuntamento del trekking in notturna, la classica
visita di taglio storico e archeologico è stata accompagnata dal racconto di aneddoti riguardanti personaggi del centro storico rievocati in prossimità di luoghisimbolo teatro di fatti realmente accaduti, e dalla lettura di stralci di racconti e poesie di autori fumonesi. All’impostazione corale della visita hanno contribuito tre persone che, avvicendando le proprie voci, hanno restituito la parola alla Memoria. Iniziative culturali da parte di privati o associazioni culturali dimostrano che la Ciociaria e Fumone, in particolare, hanno tanto da offrire ed è forse giunto il momento di fare del nostro patrimonio storico, culturale, culinario e paesaggistico un bene condiviso e condivisibile.
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l’Archivio Anagrafico Comunale consentirono di attribuire quella gavetta al soldato Dino Mencacci, morto nel naufragio dell’Oria: era dunque stata identificata la posizione del relitto. Da quel momento i rapporti con i greci si intensificarono e lo scorso anno, grazie al loro generoso contributo, siamo riusciti a inaugurare un monumento che dalla punta di Saronikos guarda lo scoglio di Protroklou dove giacciono i resti dell’Oria e dei ragazzi italiani per anni dimenticati. Alla gran parte di loro si deve ancora restituire il diritto di uscire dall’oblio.
Fonti e riferimenti bibliografici Avvenimenti in Egeo dopo l’armistizio, cur. Ufficio Storico della Marina Militare, Roma 1972. G. Manicone, Italiani in Egeo, Casamari 1989. G. Manicone, I martiri dell’Egeo, Casamari 2001. Sitografia: www.piroscafooria.it www.dodecaneso.org
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Viaggiare in Ciociaria: Fumone, il suo “Olimpo” Guida breve per la visita al paese di Elisa Potenziani
La felice espressione coniata da Curzio Malaparte che definisce Fumone l’“Olimpo” della Ciociaria, caratterizza in modo lapidario il piccolo comune della provincia di Frosinone. Le sue origini sfumano nella leggenda: si è creduto, erroneamente, che Fumone fosse l’antica antenna degli Ernici, favoloso rifugio di Tarquinio il Superbo in fuga da Roma. Certamente la posizione geograficamente favorevole fu sfruttata dagli Ernici prima e dai Romani poi: tra la valle del Cosa e quella del Sacco, su un monte isolato di forma conica, Fumone, con i suoi 783 metri s.l.m., domina la valle circostante costellata di città storicamente importanti come Ferentino, Anagni, Alatri,Veroli. Ancora oggi si accede al paese attraverso due ingressi: Porta Romana che, rivolta verso Roma, nel passato costituiva l’unico accesso alla fortezza, e Porta Napoletana; quest’ultima, rivolta verso Napoli, era in realtà un’uscita di sicurezza che ha conservato il suo assetto originario fino al XIX secolo. Il nome Fumone deriva da una pratica mi-
litare a scopo difensivo risalente al Medioevo: dall’alta torre di avvistamento si innalzava una densa colonna di fumo, segnale dell’arrivo imminente di un pericolo che veniva ripreso e trasmesso dalle fortezze del territorio circostante fino a Roma che, in questo modo, veniva avvisata tempestivamente. Da tale usanza deriva anche il detto “cum Fumo fumat, tota campania tremat” (quando Fumone fuma, tutta la campagna trema). L’edificio più rilevante che ha caratterizzato e condizionato lo sviluppo del centro storico è
il Castello: il primo documento ufficiale che ne attesta l’esistenza risale al 962 d.C. quando l’imperatore di Germania, Ottone I di Sassonia, donò al pontefice Giovanni XII la rocca di Fumone insieme alle città di Teramo, Rieti, Norcia e Amiterno. Principale castellania del Patrimonium Sancti Petri nel Basso Lazio, durante il Medioevo il Castrum Fumonis apparteneva a una rete difensiva di fortezze direttamente soggette alla Chiesa tra le quali figuravano Paliano, Serrone, Lariano, Castro dei Volsci, tutte legate all’auto-
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rità del pontefice da un giuramento di fedeltà. L’inespugnabilità della rocca fu confermata in due importanti occasioni: nel 1155 quando fu assalita, invano, da Federico Barbarossa e ancora nel 1186 quando, unica a resistere, vide allontanarsi lo sconfitto Enrico VI Hohenstaufen. Nel 1230 papa Gregorio IX recuperò definitivamente la rocca togliendone il possesso ai custodi, dopo l’esborso di svariate libbre d’oro a titolo di liberale indennizzo. Da roccaforte militare e prigione pontificia nella quale vennero reclusi personaggi di prim’ordine, il Castello di Fumone divenne proprietà della famiglia Longhi: nel 1537 infatti, la comunità di Fumone diventò libero Comune e il Castello, già disarmato nella seconda metà del secolo precedente, venne acquistato da Giovanni Longhi che lo trasformò in residenza signorile creando sulle rovine delle mura difensive e del maschio centrale un caratteristico giardino pensile all’italiana a pianta vagamente trapezoidale. Il giardino copre una superficie di circa 4000 mq e si trova a 803 metri s.l.m.: da questa posizione lo sguardo riesce ad abbracciare circa quarantacinque paesi; il giardino pensile di Fumone è tutelato dalle leggi 1089/1939 e 1497/1939 e vincolato dalla legge regionale sui castelli storici laziali. Il palazzo, nel suo complesso, risulta attualmente costituito da più corpi di fabbrica, alcuni risalenti al Medioevo, altri costruiti tra il 1600 e il 1800 per volere dei marchesi Longhi. Conserva ancora al suo interno la cella in cui morì Celestino V, l’eremita-papa che nel dicembre 1294 «fece per viltade il gran rifiuto», collocato da Dante Alighieri tra gli ignavi (Inferno, III vv. 59 e
seg.) ma riabilitato da Francesco Petrarca nel De vita solitaria. La cappella adiacente, a pianta circolare, risale all’inizio del XVIII secolo: in essa si trova un altare al di sopra del quale è conservata un’effige del santo molisano. Il Castello racchiude anche un’altra preziosa testimonianza storica: la casa-museo Ada e Giuseppe Marchetti Longhi. L’appartamento, abitato dall’importante archeologo romano, è stato donato nel 1989 al Comune di Fumone dall’erede della coppia,Valerio Bufacchi: al suo interno sono conservati arredi del XIX secolo e collezioni di interesse storico e antropologico. Altri monumenti degni di nota sono: la chiesa collegiata della SS.ma Annunziata, risalente al XII secolo ma profondamente modificata nel XVIII: era la chiesa dei signori della rocca e al suo interno, al centro del soffitto, è raffigurato il miracolo legato alla morte di papa Celestino V, una croce luminosa apparsa in cielo a testimonianza della santità dell’eremita sulmonese; la chiesa della Madonna del Rosario, del XIV secolo, si trova di fronte alla collegiata: aperta al culto fino al 1819, è oggi sconsacrata e adibita al ricovero di suppellettili ecclesiastiche e statue processionali. Al suo interno è ancora conservato l’altare in stucco seicentesco. La chiesa di S. Gaugerico risale al XIV secolo: di piccole dimensioni, sorge sui resti di un edificio precedente. L’esterno è caratterizzato da un portale gotico e gli ambienti seminterrati, di proprietà privata, hanno eleganti volte a crociera. Il campanile, un tempo a vela, è stato modificato nel 1934. La chiesa S. Maria degli Angeli è la cappella privata della famiglia Cocchi: risalente alla
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metà del XVIII secolo, fu edificata per volere della nobildonna Anna Maria Cocchi al posto di un’antica edicola lungo il percorso che conduceva dalla campagna al Castello. Al suo interno si trova un dipinto quattrocentesco raffigurante una Madonna con Bambino e angeli che sorreggono una corona. La chiesa di S. Giuseppe, oggi sconsacrata e adibita a residenza privata, è nascosta tra i vicoli del centro storico: la sua facciata, rinnovata nei primi anni del Novecento, la rende austera e signorile. Tutto il borgo, inoltre, può essere considerato un museo diffuso: percorrendo i vicoli del centro storico con il naso all’insù si scoprono case-mura, torri, bifore, resti di un camino medievale che un crollo ha denudato in via Covone e, nello stesso vicolo, un frantoio, proprietà della famiglia Longhi, le tracce di mura poligonali in piazza di Porta Romana e lungo via della Croce, un robusto portico in via Torricelle e, oltre alle tante emergenze archeologiche disseminate nella campagna fumonese, vale la pena annoverare in questa breve rassegna anche il lago di Canterno. A circa 4 km dal centro storico, quello di Canterno è uno dei bacini carsici più estesi del Lazio ma anche uno dei più giovani, la sua formazione risale infatti al 1821. Il lago di Canterno è parte integrante della Riserva naturale regionale istituita per preservare un’area paesaggisticamente rilevante e la biodiversità che la caratterizza. Fumone offre dunque una valida proposta per chiunque voglia trascorrere un fine settimana rilassante con l’opportunità di programmare un itinerario alla scoperta delle vicine città ciociare.
il Guitto - Rivista di cultura fumonese e ciociara Direttore: Elisa Potenziani - Direttore artistico: Francesco Caponera Hanno collaborato a questo numero: Roberto Bellotti, Lamberta Caponera, Mariano D’Agostini, Bruno Mastromoro, Matteo Petitti, Stefano Petri, Alessandro Potenziani
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Un’icona ritrovata L’immagine della Madonna del Perpetuo Soccorso di Fumone di Alessandro Potenziani
L’indizione dello speciale anno giubilare iniziato lo scorso 27 giugno, su iniziativa dei missionari Redentoristi della chiesa di S. Alfonso Maria de’ Liguori sul colle Esquilino a Roma, per celebrare i 150 anni della presenza dell’icona originale della Madonna del Perpetuo Soccorso, offre lo spunto per parlare del medesimo culto a Fumone di cui i fedeli si apprestano a festeggiare, l’anno prossimo, il 130° anniversario. Secondo la tradizione l’antica icona conservata nella chiesa romana sarebbe giunta a Roma tra il 1495 e il 1497, trafugata da un mercante in una chiesa dell’isola di Creta. Durante il viaggio una terribile tempesta per poco non causò il naufragio della nave, ma tutti i passeggeri rimasero illesi e questo avvenimento fu ricondotto all’icona invocata nel momento di pericolo. Il mercante custodì devotamente l’immagine sacra e, in punto di morte, chiese a un suo amico di portarla in una chiesa, ma le resistenze della consorte di quest’ultimo non lo permisero. Non passò molto tempo che anche l’amico morì; la Madonna allora apparve in sogno alla figlioletta chiedendole di portare l’icona presso la chiesa tra le basiliche di S. Maria Maggiore e S. Giovanni in Laterano: il racconto della bambina convinse la madre a donare l’immagine sacra alla chiesa di S. Matteo all’Esquilino il 27 marzo 1499. L’icona fu venerata in questo luogo per trecento anni fino a quando le truppe napoleoniche, nel 1798, non devastarono la chiesa e l’immagine fu quindi trasferita a S. Maria in Posterula, dove il culto venne meno con il passare del tempo. Fu grazie all’intervento di padre Michele Marchi, entrato nella congregazione dei Redentoristi nel 1855, e per volere di papa Pio IX che l’icona fu ricondotta al suo primitivo luogo di culto e il 26 aprile 1866 le porte della chiesa di S. Alfonso Maria de’ Liguori si aprirono per accogliere l’immagine sacra. Da allora su iniziativa della congregazione missionaria e grazie al favore del papa, il culto della Madonna del Perpetuo Soccorso ricevette un notevole impulso devozionale, accresciuto successivamente sia dall’incoronazione dell’icona avvenuta il 23 giugno 1867, sia dall’istituzione di una festività con un proprio ufficio liturgico decretato nel 1876. In questi anni furono prodotte moltissime copie, su diversi supporti e con varie tecniche, per i fedeli di molte parti del mondo.
©Sergio Caponera
Nel 1886 una di queste copie giunse anche a Fumone grazie all’allora arciprete don Vincenzo De Carolis: l’icona fu accompagnata trionfalmente dal popolo dalla chiesetta rurale della Madonna delle Grazie fino alla collegiata della SS. Maria Annunziata e festeggiata ogni prima domenica di settembre. Ancora oggi, in occasione della festa, l’immagine viene alloggiata nel suo trono in legno dorato ornato di angioletti e durante la suggestiva processione non è raro individuare una persona che, ritenendosi graziata, cammini priva di calzature. Quello della Madonna del Perpetuo Soccorso è, a Fumone, il culto mariano più importante: lo testimoniano le elargizioni in denaro e i doni in argento e oro che, fino ad alcuni decenni fa, impreziosivano la cappella del SS.
Sacramento dove l’icona si trova. Nel 1894 la cappella venne risistemata e decorata mentre nel 1904 fu arricchita con marmi per volere del sacerdote fumonese don Elviro Fonti, ritenutosi miracolato in seguito ad un grave intervento chirurgico. Su iniziativa dell’arciprete don Vittorino Caponera e con decreto di mons. Benedetto Spila, vescovo di Alatri, il 25 agosto 1909 fu istituita la “Pia Unione di Maria Santissima del Perpetuo Soccorso”, «a scopo di culto e di reciproca carità», diretta dall’arciprete fino alla sua morte, sopravvenuta nel 1940. Nel 1911, per il 25° anniversario del culto, avvenne la solenne incoronazione dell’icona per mano di mons. Americo Bevilacqua, vescovo diocesano e fu restaurato il trono processionale da artisti di Subiaco.
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Nel 1936, per il 50° anniversario, una raccolta fondi iniziata già nel 1934, permise di restaurare l’interno della collegiata e, a spese della Pia Unione, fu aggiunta la cupola che sovrasta la cappella del SS. Sacramento progettata dall’architetto Morosini e realizzata da Guido Arduini. Altra tappa importante furono i festeggiamenti solenni del 1961 per il 75° anniversario e, soprattutto, il primo centenario nel 1986. Per l’anno giubilare del 2000 la decorazione della cappella fu completamente restaurata dal maestro Paolino Cialone, fumonese di nascita, il quale nel 2008 risistemò anche il trono processionale in legno dorato. La devozione popolare nei confronti dell’icona si è rafforzata in concomitanza di eventi calamitosi come avvenne durante il rovinoso terremoto del 1915 nel quale Fumone non subì i gravi danni verificatisi in molti centri vicini e ancora, nella notte del 29 marzo 1944, in occasione dell’ultimo conflitto mondiale, una bomba caduta nei pressi della collegiata risparmiò da distruzione certa l’edificio di culto ma non alcune case dove infatti perirono due persone. Nella notte tra il 2 e 3 gennaio del 1980 l’icona fumonese fu derubata insieme a molte suppellettili sacre: l’azione sacrilega suscitò sdegno e costernazione nella popolazione e il diffondersi della notizia ne favorì il ritrovamento. Nell’arco di pochi giorni, infatti, la Guardia di Finanza di Roma ritrovò l’icona
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chiusa in un sacchetto, ridotta in ventidue frammenti e con i volti delle figure abrasi e privi delle preziose corone. Una delegazione di fumonesi guidata dalle autorità locali fu invitata negli uffici della Guardia di Finanza di Roma per le formalità del caso mentre il quadro, ormai frammentario, dopo il dissequestro fu affidato ai monaci Studiti ucraini del monastero nei pressi di Castel Gandolfo, i quali, essendo esperti pittori di icone sacre, dopo un delicato restauro durato più di due mesi, restituirono all’immagine la sua antica bellezza. L’allora Papa Giovanni Paolo II, informato della vicenda, volle benedire il quadro prima del suo rientro a Fumone, nell’udienza del 30 aprile di quell’anno. Tre giorni dopo il quadro, alloggiato nel suo trono dorato, fu ricondotto in solenne processione alla collegiata di Fumone, accolto dal popolo in festa e dal vescovo di Alatri, monsignor Umberto Florenzani. Quella fumonese è una copia conforme all’icona originale conservata a Roma: quest’ultima è dipinta a tecnica mista su una tavoletta in noce di cm 53x41, rappresenta la cosiddetta “Madonna della Passione”, databile all’ultimo quarto del sec. XV, la quale deriva dalle elaborazioni del pittore cretese Andreas Ritzos (1421 ca. – 1492 ca.); il prototipo è stato rintracciato in un affresco della chiesa di Lagoudera nell’isola di Cipro datato al 1192.
Una pesante ridipintura risalente alla seconda metà dell’Ottocento, impedisce di apprezzare le reali componenti stilistiche dell’opera e, di conseguenza, di tentarne un’attribuzione. La Vergine sorregge il Figlio con il braccio sinistro, il quale, rannicchiato verso di Lei, volge lo sguardo all’arcangelo Gabriele, in scala minore, che mostra la croce. Anche l’arcangelo Michele porta con sé gli strumenti della Passione mostrando i quali spaventa il Bambino che chiede soccorso alla Madre rifugiandosi tra le sue braccia. La Vergine offre a suo figlio protezione e, al contempo, sembra mostrarlo e donarlo al fedele.
Fonti e riferimenti bibliografici Fumone, Archivio storico parrocchiale SS. Maria Annunziata. Fumone, Archivio privato del Maestro Paolino Cialone. Cinquant’anni dalla prima esposizione dell’antica e prodigiosa immagine della Madonna del Perpetuo Soccorso nella chiesa di S. Alfonso M. de’ Liguori all’Esquilino in Roma avvenuta il 26 aprile 1866, Roma 1916. Fumone attorno alla Madonna del Perpetuo Soccorso in Madre di Dio, mensile mariano. Organo del santuario «Maria Regina degli Apostoli», Roma 1980, pp. 21-23. Da Candia a Venezia. Icone greche in Italia (XV-XVI secolo), Catalogo della mostra (Venezia, Museo Correr, 17 settembre - 30 ottobre 1993) a cura di N. Chatzidakis, Atene 1993, pp. 104-106, scheda n. 22. G. Leone, Icone di Roma e del Lazio (Repertori dell’Arte del Lazio, 5-6), Roma 2013, vol. I, pp. 149-150; vol. II, Appendice I, p. 57.
Via Provinciale d’Accesso n.61 - Fumone
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I cannolicchi magici La refezione scolastica a Fumone nel secondo dopoguerra di Lamberta Caponera
I nomi di Marcella Dell’Uomo, Tra gli alunni c’erano Ines Ciavardini e Rosa Ciafani tanti bambini “abbaliaai giovani fumonesi sono scoti”, cioè affidati a faminosciuti, ma alle persone del glie fumonesi dalle loro paese con qualche anno in più madri o da vari istituti; rievocano ricordi legati alla loro anche questo era un infanzia e un po’ d’emozione. modo per arrotondare i Subito dopo la seconda guerra miseri introiti di allora, mondiale, fino alla fine degli e a loro Rosina riseranni Sessanta, il Governo Itavava un trattamento di liano istituì la “Refezione scofavore: una fetta di pane lastica”, una mensa gratuita per con un formaggino in tutti i bambini in età scolare: era più c’era sempre. questo un modo per sostenere Oggi quei bambini le famiglie che vivevano nel disono uomini e donne sagio economico dovuto al pematuri e, ricordando riodo storico appena trascorso; quei tempi, ne parlano per i bambini, invece, la refeziocon entusiasmo, gioia e FUMONE. Una scolaresca degli anni Cinquanta ne oltre a dare loro la possibilità un pizzico di nostalgia. di un pasto completo al giorno, rappresentava un momento di aggre- È stato un periodo duro, irto di difficoltà e di sacrifici ma in loro è gazione e di divertimento. rimasto l’incanto della loro infanzia. Chissà, forse quei cannolicchi Le tre donne sopra citate, alzandosi presto e con grande fatica, pre- erano magici! paravano i pasti e il pane direttamente nelle loro case, Marcella per la scuola della località Madonna delle Grazie, Ines per quella della contrada Pozzi e Rosa per i bambini del centro storico: terminavano dunque il loro lavoro nel tardo pomeriggio, dopo la distribuzione dei pasti. Oltre al pranzo, i bambini avevano diritto alla colazione che consisteva in un bicchiere di latte. Ricordo quando mia madre, Rosina, preparava la colazione - per la quale il latte era fornito in polvere - ai bambini del centro e la mattina, durante il periodo scolastico, in casa nostra risuonavano le chiacchiere, le risa, gli scherzi fatti da quel piccolo esercito in grembiuli neri e fiocchi colorati. Le lezioni finivano alle 12.30 e i bambini, in fila per due, si recavano nella stanza adibita a mensa per consumare un pasto che prevedeva minestra di cannolicchi e alternativamente formaggini, carne in scatola, tonno, fette di formaggio e pane.
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Varcando Porta Romana si entra in uno scenario storico a dir poco incredibile. Sede d’arte e mito, il borgo millenario di Fumone si è trovato sempre al centro di vicende storiche di rilevanza notevole. Camminando tra i vicoli del centro storico rimasto intatto nei secoli, si giunge nel cuore del borgo dove è ubicato il Castello Longhi De Paolis. Fortezza militare mai espugnata, il maniero è passato alla Chiesa nel corso del Medioevo svolgendo la funzione di prigione fino a quando, nel XVI secolo, fu ceduto alla famiglia Longhi. Dopo l’ingresso le luci affievolite dal rosso sangue delle pareti conducono al “pozzo delle vergini”. Questo pozzo è legato alla pratica dello jus primae noctis, diffusa nel Medioevo: a Fumone il diritto venne rivendicato da uno dei proprietari del Castello e le donne appena sposate dovevano trascorrere la loro prima notte di nozze con il signore dimostrando di essere vergini oppure, in caso contrario, sarebbero state gettate nel pozzo e condannate quindi ad un’atroce tortura perché si dice che sul fondo del pozzo fossero collocate lame affilate. Non è questa la sola caratteristica ad avvolgere il Castello in un alone di mistero: l’intrigante storia delle sette sorelle tiene banco ancora oggi tra turisti increduli e curiosi di tutte le età. Risale alla metà del 1800 la storia del marchese Gaetano Longhi e di sua moglie Emilia Cajetani i
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quali, già genitori di sette figlie femmine, ebbero un ottavo figlio: il tanto desiderato erede che chiamarono Francesco. Il bambino, unico discendente maschio della famiglia, avrebbe ereditato il Castello e gli altri possedimenti territoriali alla morte dei genitori estromettendo le sorelle le quali decisero di scongiurare il pericolo avvelenando il fratellino giunto ormai all’età di tre anni con piccole dosi di arsenico. Il dolore della madre fu atroce. Emilia Cajetani infatti, dopo la morte del figlio, fece ritoccare di nero tutti i dipinti del castello e fece perfino imbalsamare il corpicino del bambino in modo da averlo sempre lì con sé, tuttora conservato in una delle stanze del Castello. A questa storia e ad altri episodi cruenti sarebbe da ricondurre la presenza dei fantasmi nel Castello di Fumone: tra di essi sembra esserci quello della duchessa Emilia Cajetani che ogni notte esce a cullare il piccolo Francesco. Il maniero è inoltre noto per essere stato luogo della morte del papa che rinunciò alla tiara. Ci troviamo tra il 1295 e il 1296 e parliamo di Celestino V, rinchiuso per volere del suo successore, Bonifacio VIII, in un’angusta prigione del Castello di Fumone – tuttora visibile – dove morì il 19 maggio 1296. Anche se l’ipotesi più accreditata rimane quella della morte naturale (Celestino V aveva infatti raggiunto la veneranda età di ottantasei anni), c’è
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ancora chi sostiene che sia stato assassinato, forse con un chiodo conficcato nel cranio. Ma il Castello non è stato solo luogo di atrocità e morte, offre anzi una vasta gamma di suggestioni tra cui va annoverato sicuramente il giardino pensile, definito «la terrazza della Ciociaria», che si estende su due livelli: ricavato dall’abbattimento delle torri d’avvistamento alla fine del Cinquecento, fu ricoperto con terra di castagno proveniente da Fiuggi. La sua estensione sfiora i 4.000 mq e da qui, a più di 800 metri sul livello del mare, si può ammirare un panorama mozzafiato sulla Valle del Sacco. E poi ci sono le stanze del piano nobiliare la cui fisionomia è fortemente caratterizzata dai tratti forti dell’originaria fortezza militare: un luogo suggestivo che vale la pena assaporare.
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Dalla messa all’osteria Curiosità e abitudini dei fumonesi nel 1700 di Bruno Mastromoro
Una relazione scritta nell’anno 1780 da un prelato, relativa alla visita pastorale effettuata due anni prima, descrive in modo minuzioso lo stato delle due parrocchie presenti nel paese: Santa Maria Annunziata e San Michele Arcangelo; inoltre ci informa che nel 1778 a Fumone vivevano 295 famiglie costituite da 1347 persone. Sono menzionati i nomi dei sacerdoti assegnati alle varie chiese e le loro funzioni, vengono descritti i periodi delle cerimonie da officiare nell’arco dell’anno, sono quantificate le varie entrate economiche. Molto interessante risulta la descrizione della chiesa di san Michele Arcangelo, oggi non più esistente che, situata fuori dalle mura del paese, si suppone sia stata la prima chiesa ad essere edificata a Fumone, la sola dove si amministravano i sacramenti e che era frequentata dai soldati e successivamente dai castellani dell’antica rocca: la sua architettura era abbastanza semplice, con il tetto fatto di pianelle di mattoni, l’altare posizionato verso oriente e le sepolture situate fuori della chiesa. Suscita curiosità anche la descrizione del comportamento di alcune persone che nei giorni festivi, dopo aver ascoltato la santa messa, si recavano all’osteria e non ne uscivano più: nel testo si legge infatti che «dopo mezzogiorno il vino lavora assai negli uomini e verso la sera più d’uno si vede ubriaco». Raramente l’ubriachezza era causa di disordini, ma a volte finalmente sazi, uscendo dall’osteria, gli uomini si apostrofavano tra loro in modo volgare. Generalmente gli autori di tali fatti erano pastori e gente che proveniva dalla campagna
(foritani). Il documento riferisce anche che nel territorio di Fumone operavano tre ostetriche (stetrici): due risiedevano dentro le mura ed esercitavano la loro professione con l’approvazione del medico mentre la terza, che viveva in campagna, lo faceva con la sola approvazione del parroco. L’insegnamento della dottrina cristiana veniva impartito dal parroco con l’aiuto dei chierici, e raramente tale compito era affidato a persone di sesso femminile. Tale insegnamento veniva esercitato con molta fatica perché poteva essere svolto solo in alcuni periodi dell’anno visto che molti dei bambini presenti in paese venivano portati dai loro genitori a lavorare nei campi: essi si assentavano alla fine del mese di marzo e rientravano verso la fine di maggio e subito dopo, dalla fine di giugno all’autunno inoltrato; così il tempo da dedicare all’istruzione si riduceva a circa sei mesi all’anno. Nella giurisdizione delle parrocchie di Fumone c’erano due eremiti: uno dimorava nella chiesa rurale della Madonna Della Grazie, viveva di elemosine ed esercitava anche l’arte del falegname; l’altro, Domenico Cialone, era incaricato della custodia dell’ospedale di S. Antonio Abbate, e proveniva dalla città di Alatri; abitava con la moglie ed i figli nel suddetto ospedale.
Viveva esercitando due mestieri diametralmente opposti: l’uno come eremita, mestiere che gli permetteva di effettuare le questue, ma talvolta era anche il mandatario della curia per la riscossione dei tributi; a volte succedeva che dopo aver ricevuto l’elemosina con l’immagine del santo in mano, eseguiva intimazioni di pagamento contro i benefattori. Nella relazione sono riportate diverse altre notizie dalle quali si evince il ruolo centrale della chiesa nel periodo descritto, intorno alla quale orbitavano tutte le attività umane del borgo.
Fonti e riferimenti bibliografici C. Pietrobono, Storia sociale e religiosa di Guarcino e della diocesi di Alatri nel settecento, Alatri 1997.
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L’impianto idroelettrico del lago di Canterno di Mariano D’Agostini
A ridosso della fine della seconda guerra mondiale, in un’Italia in piena ricostruzione e assetata di energia, la Società Romana di Elettricità porta a compimento l’impianto idroelettrico di Canterno. La maggior parte delle opere sono state realizzate con il lavoro di centinaia di persone, spesso provenienti da Fumone, e sono nascoste alla vista perché si trovano sotto l’acqua o sono gallerie scavate nelle montagne. Era il febbraio del 1945 quando fu inaugurata la centrale: l’evento ebbe grande risalto e “la Romana”, come veniva chiamata l’allora Società Elettrica, tra le tante iniziative pubblicò anche un opuscolo che descriveva il luogo, i lavori eseguiti e le potenze ottenute. Di seguito riportiamo alcuni brani tratti dal documento pubblicato nel 1945 dalla Società Elettrica intitolato Impianto idroelettrico del Canterno che ci permettono di capire la grandezza dell’impianto realizzato e la differenza tra quello che ammiriamo oggi e quello che c’era fino agli anni Trenta. LAGO DEL CANTERNO – NOTIZIE GEOLOGICHE E GENERALI
Nella ridente e boscosa valle di Fiuggi, circondata dalle alte cime dei Monti Ernici, s’apre ai piedi del Monte Porciano il Lago del Canterno, un lago di natura carsica adagiato sopra una piccola conca ricoperta di un forte strato di terreni impermeabili. Secondo le tradizioni locali la formazione del lago risale al 1821; prima di tale data le acque della conca di Fiuggi venivano assorbite dall’inghiottitoio dello Sgolfo poco a monte della stretta attraverso la quale si passa al lago, e quelle della conca del Canterno dall’inghiottitoio del Pertuso. L’interramento dello Sgolfo provocò il passaggio anche delle acque della conca di Fiuggi in quella del Canterno rendendo il Pertuso insufficiente allo smaltimento; da ciò la sua progressiva ostruzione a causa di materiali trasportati e la conseguente formazione del lago. Intermittentemente peraltro la pressione delle acque provocava il cedimento del diaframma ostruente l’emissario, ed il corrispondente svuotamento del lago; in un secolo esso si sarebbe svuotato circa 12 volte (l’ultima volta nel 1913). Potrà sembrare ardito il progetto di utilizzare come serbatoio un lago di natura carsica ed a carattere intermittente; ma la Società Romana di Elettricità non ha esitato ad affrontare tale arduo compito con piena cognizione di causa dopo averne vagliate tutte le difficoltà e dopo particolareggiati e lunghi studi da parte di illustri geologi. Per l’attuazione del progetto si è proceduto allo svuotamento del lago, alla sua impermeabilizzazione e per eliminare il fenomeno di intermittenza è stato isolato l’inghiottitoio sotterraneo mediante la costruzione di una torre che emerge per circa 23 metri e che funziona anche da sfioratore in caso sopraelevazione del livello dell’acqua. Per lo svuotamento del lago sono state usate le stesse pompe adibite all’abbassamento del livello del lago di Nemi nel 1928, intervento realizzato per il recupero di due navi di epoca romana. Il lago ha una capacità di 13.000.000 di mc. Prossimamente, nell’estate del 1946, il lago sarà di nuovo vuotato per completare, dopo un primo periodo di esercizio, le necessarie opere di impermeabilizzazione di alcuni limitrofi settori del lago stesso e della galleria in pressione. ESECUZIONE DEI LAVORI I lavori dell’impianto del Canterno, furono iniziati nel giugno 1941, e secondo il programma previsto avrebbero dovuto giungere a compimento per la fine del 1943. Gli avvenimenti del settembre di detto anno portarono un brusco rallentamento e posero in prima linea il problema essenziale della salvaguardia del macchinario e del materiale da distruzioni od asportazioni. Si ritenne perciò opportuno sospendere i lavori di montaggio e rifinitura, e si provvide con ingegnosi accorgimenti ad occultare in luoghi e modi diversi il macchinario, le apparecchiature ed il materiale più importante e pregiato, continuandosi solo, con ritmo ridotto, i lavori stradali e della galleria di scarico, che non avrebbero potuto subire gravi danni.
Tali cautele alla cui attuazione tutto il personale si prestò con slancio, intelligenza e discrezione, valsero malgrado le frequenti azioni di guerra e la sorveglianza e la occupazione da parte dei tedeschi, ad assicurare l’integrità dei materiali, rendendo così ora possibile l’entrata in esercizio dell’impianto. ALCUNE CARATTERISTICHE DELL’IMPIANTO DEL CANTERNO
BACINO IMBRIFERO: circa 69.20 Kmq di superficie. QUOTA MASSIMA INVASO: 548.50 m QUOTA MINIMO INVASO: 535.50 m GALLERIA FORZATA: a sezione circolare del diametro interno di m 1.90 pendenza 5.5 x 1000 lunghezza m 1997.10 CONDOTTA FORZATA: In lamiera di acciaio lunga m 889.54 diametro interno m 1.50 CENTRALE: è ubicata al piede del Monte Maino in località Collicillo del comune di Ferentino QUOTA ASSE TURBINA: 248.80 m MACCHINARIO INSTALLATO: turbina tipo Francis ad asse verticale. Caratteristiche: salto medio m 297.30, portata l/s 4580, potenza resa HP 15000, giri al 1° 720 PRODUCIBILITA’ANNUA: 8.500.000 Kwh DEVIAZIONE DEL TORRENTE COSA NEL LAGO CANTERNO
PRESA: alla confluenza del Cosa con la Valle Macerosa, immediatamente a valle dello scarico della costruenda centrale di Guarcino. Quota 554 m CANALE DERIVATORE: è a pelo libero lungo complessivamente m 7561 di cui 4240.60 in galleria e m 3320.40 all’aperto. Pendenza 1x1000. Portata 8 mc/sec. Con la deviazione delle acque del Torrente Cosa l’impianto Canterno utilizzerà un: BACINO IMBRIFERO: di 101.20 Kmq di superficie. PORTATA: media annua utilizzabile mc/sec 0.950 PRODUCIBILITA’ANNUA: Kwh 17.000.000 Con un progetto diligente e con l’alacre lavoro di centinaia di persone, dal 1945 l’invaso del lago di Canterno è stato sfruttato per la produzione di energia elettrica e dal 1997 è una delle riserve naturali più importanti del Lazio.
Fonti e riferimenti bibliografici
Impianto idroelettrico del Canterno, cur. Società Elettrica di Elettricità, Roma 1945
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il Guitto
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Il guardiano del lago Intervista a Domenico Potenziani di Stefano Petri
Lungo la sponda meridionale del lago di Canterno si trova una casa che fino a pochi anni fa era l’abitazione del “guardiano del lago”: si trattava infatti di un operaio dell’Enel (già Società Romana Elettricità) il cui incarico era quello di tenere sotto controllo gli impianti e le strutture al servizio della centrale idroelettrica che sfrutta le acque del lago sin dal 1942. Per nostra fortuna abbiamo la possibilità di farci raccontare il suo lavoro e la sua vita trascorsa sulle sponde del lago direttamente dall’interessato, il sig. Domenico Potenziani. Lo incontriamo nella sua casa, in località Fossa Zoffrena, e sin dalla prima domanda traspare negli occhi di questo ragazzo di 87 anni un’intensa emozione nel rivivere un’importante fase della sua vita. Buongiorno sig. Domenico. Lei ha lavorato per molti anni presso il lago di Canterno: quando le fu affidato l’incarico e che mansione svolgeva? Dopo essere stato impiegato in diversi cantieri Enel facendo, come tanti operai dell’epoca, il pendolare tra Fumone e Roma mi arrivò la proposta di lavorare presso il lago di Canterno. Sin dall’inizio apparve come un’opportunità importante, considerando anche il fatto che poteva venire con me mia moglie Annita: decidemmo in poco tempo di accettare l’incarico e iniziare così una nuova vita. Certamente i primi tempi non furono facili soprattutto per le condizioni ambientali. Gli inverni rigidi e la forte umidità erano nemici difficili da combattere, ma lentamente cominciammo ad abituarci. Iniziai nel dicembre del 1972 il
mio servizio presso il bacino lacustre ed io, in particolare, dovevo vigilare sugli impianti e sulle chiuse dei diversi canali afferenti. Oltre a verificare che i canali fossero puliti e le chiuse funzionassero, dovevo regolarmente ispezionare sia il canale sotterraneo lungo 6800 metri attraverso il quale l’acqua del fiume Cosa arriva a Canterno, sia la galleria che porta l’acqua alla condotta forzata. Ci sono stati momenti in cui ha pensato «chi me l’ha fatto fare?» No. Anche se di momenti difficili ce ne sono stati diversi, grazie soprattutto alla vicinanza di mia moglie, siamo riusciti a superarli certi che i nostri sacrifici avrebbero dato i loro risultati. In effetti quando dovevo attraversare la galleria che porta alla condotta forzata, dopo aver indossato giacca a vento, stivali, casco, e preso il lume a carburo (sostanza che reagendo con l’acqua si infiamma), provavo sempre un po’ di timore pensando ai molti metri di roccia sopra la mia testa, al pericolo di scivolare e magari non poter chiedere aiuto. Anche quando, durante gli inverni più rigidi, il lago si ghiacciava, raggiungere la torretta era un’impresa piuttosto rischiosa, ma la verifica degli impianti lo richiedeva e quindi andavo, con la massima prudenza e utilizzando la pic-
cola barca che avevo a disposizione. Che cosa ha lasciato e che cosa si è portato via quando il suo lavoro è terminato? Quando lasciai il servizio presso il lago nel
1992 per aver raggiunto il limite di età, pensai che soprattutto durante i primi tempi non sarebbe stato facile separarsi da un ambiente così particolare: ritornavo spesso sulle sponde del lago, ripensando alle notti insonni e alle chiamate con il telefono a manovella collegato direttamente con la centrale. Oggi comunque sono ancora qui insieme a mia moglie a raccontarlo e questo è certamente il regalo più bello che quegli anni sul “mio lago” mi abbiano dato. Ci congediamo da Domenico non prima di aver notato, quasi nascosto, il diploma di Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana per meriti lavorativi del quale lui non parla mai, ci conferma sua figlia.
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il Guitto
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La Ciociaria ad Expo Milano 2015 Eccellenze enogastronomiche ciociare in mostra di Matteo Petitti
Uno dei mezzi più efficaci per promuovere un territorio è far conoscere i prodotti enogastronomici che lo caratterizzano; tali prodotti raccontano la storia di un popolo che ha saputo sfruttare al meglio le risorse ambientali di cui disponeva in funzione delle proprie esigenze alimentari. Nei mesi scorsi tale argomento è stato al centro della rassegna espositiva universale di Expo Milano 2015 (1 maggio - 31 ottobre) il cui tema era “Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita”: al suo interno il “progetto Lazio Expo” ha costituito un disegno unitario di promozione e di sviluppo del territorio a partire dalla valorizzazione dei prodotti regionali. La tradizione enogastronomica ciociara nasce in un territorio vasto e geograficamente diversificato infatti attraversandolo si può passare dalle dolci colline dei comuni ai piedi dei monti Ernici, ai pascoli montani della Val Comino, dalle distese pianeggianti della media e bassa valle del fiume Sacco ai territori boschivi dei Monti Lepini. Tra i cento prodotti provenienti dal Lazio, quindici sono state le eccellenze dell’agroalimentare ciociaro in mostra a Mi-
lano, presso lo spazio espositivo allestito dalla Camera di Commercio di Frosinone, dall’8 al 20 giugno: il Vino Cesanese del Piglio DOCG, frutto della storia millenaria di un vitigno rosso autoctono; il Vino Anagni ITG; l’Acqua di Fiuggi, nota fin dai tempi di Bonifacio VIII per i suoi effetti curativi legati principalmente alla stimolazione della funzionalità globale del rene, favorendone le capacità depurative; l’Amaretto di Guarcino PAT, dolce a base di mandorle, zucchero, albume d’uovo e ostia; l’Acqua Filette, nota già al tempo dei Romani, è considerata oggi una tra le più pure acque oligominerali italiane; il Vino Passerina del Frusinate, ottenuto da uve autoctone, si contraddistingue per il colore giallo paglierino con riflessi dorati; la Ciambella e il Gran Cacio di Morolo PAT, formaggio vaccino a pasta filata dalla lunga stagionatura; la mozzarella di bufala di Amaseno; il Pane di Veroli PAT, elemento fondamentale della tradizione alimentare contadina della Ciociaria; la Marzolina PAT, formaggio caprino dalla forma cilindrica prodotto in diversi centri della provincia nel mese di marzo; il Pecorino di Picinisco, prodotto da greggi che pascolano nella Val Comi-
no; il Peperone di Pontecorvo DOP, detto “corno di bue” per la forma, si caratterizza per la sottile cuticola e il sapore dolce; il Conciato di San Vittore, prodotto caseario ereditato dalla civiltà sannitica, a base di latte ovino e di forma cilindrica, viene speziato con ben quindici erbe; il Fagiolo Cannellino di Atina DOP, varietà locale dal colore bianco opaco e buccia sottile, è conosciuto per la tenerezza della polpa ed un tempo di cottura piuttosto breve e, infine, dello stesso centro, prende parte a questa virtuosa rassegna anche il Vino Cabernet. Ognuno di questi prodotti, la maggior parte dei quali etichettati da marchi che ne certificano la qualità, racconta una storia che spesso affonda le sue radici in un tempo lontano, ma che ancora oggi è presente nella cultura del singolo paese o area di provenienza. Conoscere questi prodotti, le loro storie e le tecniche di produzione è il primo passo che si può fare per conservare il grande patrimonio di conoscenze agricole e zootecniche, e ancor di più per valorizzarlo e trasmetterlo alle future generazioni guardando alle mutevoli esigenze alimentari e ambientali.
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La manipolazione storica nell’Italia e nella Libia postcoloniali La messa in scena della memoria nel nuovo libro di Stefania Del Monte di Elisa Potenziani
Staging Memory
Del Monte
Nella società contemporanea la memoria ha assunto un ruolo fondamentale diventando oggetto di discussione socioculturale e interdisciplinare a livello globale. Ed è proprio questo l’argomento di Staging Memory. Myth, Symbolism and Identity in Postcolonial Italy and Libya, il nuovo libro di Stefania Del Monte, giornalista e scrittrice italiana di origini fumonesi. Stefania Del Monte Recentemente pubblicato in lingua inglese dall’editore accademiStaging Memory co internazionale Peter Lang, il lavoro tratta, adottando un approcMemory in postcolonial Italy and Libya has been used, reinterpreted and staged by political powers and the media. This book investigates the roots of myth, colonial amnesia and censorship in postwar Italy, as wellmanipolazione as Colonel Gaddafi’s deliberate use of rituals, cio interdisciplinare, della della memoria coloniale symbols, and the colonial past to shape national identity in Libya. The argument is sustained by studiesLibia ranging among film, documentary, literature art, shedding nell’Italia e case nella postcoloniali ed è and frutto di un progetto di new light on how memory has been treated in the two postcolonial societies examined. last part briefly analyses the completato identity transformationlo process in the new Libya. alla Royal HolricercaTheche l’autrice ha scorso anno loway The University of London. Author Del Monte is a un’ampia writer, journalist and communication specialist with extensive Il libroStefania ha avuto diffusione anche in Libia dove Del international experience. She holds a Masters Degree by Research from Royal Holloof London a BA in Communication and Politicalgrazie Sciences. alle recensioni di MontewayèUniversity ormai unaandscrittrice affermata due noti intellettuali libici. Dallo studio emerge uno staging (qui inteso nel senso di “orchestrare” cioè di pianificare o coordinare gli elementi di una situazione per produrre l’effetto desiderato, spesso in maniera subdola) della memoria, sia nel corso degli eventi storici che hanno caratterizzato la Libia e l’Italia postcoloniali, sia nei rispettivi ambienti mediatici. Italia e Libia sono paesi giovani e frammentati che hanno usato il colonialismo come strumento di unificazione. In epoca postcoloniale, pur partendo da posizioni diametralmente opposte, le strategie dei due paesi hanno finito in qualche modo per coincidere e la memoria coloniale, in entrambi i casi, è oggi il risultato di manipolazione. Il trattato di pace firmato a Parigi il 10 febbraio 1947 tra l’Italia e i paesi vincitori della seconda guerra mondiale ha posto termiISBN 978-3-631-66125-3 ne al colonialismo italiano. Da allora, nell’Italiawww.peterlang.com contemporanea, la memoria dell’esperienza coloniale è quasi completamente assente: sia a causa di rivisitazioni avvenute da più parti, sia a causa della rimozione di ogni possibile riferimento a un passato scomodo, la memoria collettiva è stata vittima di mito, amnesia e censura. Ad esempio, al posto del dibattito costruttivo che ha avuto luogo in molti degli ex imperi coloniali, in Italia si è diffusa, fin dalla sua unificazione, l’auto-rappresentazione degli “Italiani, Brava Gente” che ha permesso alla nazione di nascondere un passato fastidioso
Stefania Del Monte
Staging Memory Myth, Symbolism and Identity in Postcolonial Italy and Libya
contribuendo invece a glorificare e miticizzare il proprio ruolo nella storia. La tesi di uno staging della memoria trova riscontro principalmente nei media i quali, portando avanti un processo iniziato durante l’epoca fascista, sono stati in grado di trasformare la memoria collettiva in amnesia collettiva.
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Tale manipolazione non è sempre avvenuta in maniera consapevole: ad esempio, il romanzo Il Deserto della Libia di Mario Tobino e il film Le Rose del Deserto di Mario Monicelli dimostrano come, seppur involontariamente, gli intellettuali italiani contemporanei abbiano contribuito a diffondere il mito della “Brava Gente” e a far calare una cortina di silenzio sugli orrori commessi dal colonialismo italiano. Esempio lampante dell’uso sistematico della censura in Italia dal ventennio fascista fino ai giorni nostri, è fornito dai documentari dell’Istituto Luce, ma induce a riflettere sullo status quaestionis anche il caso di una pellicola che ancora oggi, in Italia, rimane oggetto di censura: Il Leone del Deserto. Prodotto dal Colonnello Gheddafi con un chiaro intento propagandistico, soprattutto a livello internazionale, il film si presenta nel tipico stile hollywoodiano e si avvale di un cast internazionale di grande prestigio. In Italia, tuttavia, la diffusione del film è stata bloccata in diverse occasioni e non è ancora mai stato trasmesso dalla televisione pubblica. Nella Libia postcoloniale invece, al contrario di quanto accaduto in Italia, specialmente dopo la salita al potere del Colonnello Gheddafi il 1° settembre 1969, l’occupazione italiana è divenuta un potente mezzo di propaganda. L’autrice del libro, Stefania Del Monte, analizza il ruolo fondamentale che lo staging della memoria ha avuto sulla formazione dell’identità nazionale libica, soffermandosi soprattutto sulla relazione tra memoria, storia e identità, e su come il regime sia riuscito a influenzare tale processo. L’approccio ambiguo usato dal dittatore nella sua politica e il ricorso continuo a riti e simboli hanno profondamente contribuito a diffondere un senso di alienazione nella società libica. In tal senso, Il Libro Verde di Muammar Gheddafi e I Giardini della Notte dello scrittore Ahmed Fagih costituiscono fonti inesauribili per lo studio della manipolazione della memoria nella Libia postcoloniale. La caduta del regime ha tuttavia segnato un’inversione di tendenza: l’artista che forse più di ogni altro rappresenta il rinnovato rapporto con la memoria è lo scultore Ali Wak Wak, un ex oppositore del regime che trasforma materiale di guerra appartenente al periodo coloniale e alla recente rivoluzione (proiettili, granate, armi o parti di esse) in figure inneggianti alla vita e alla libertà. Staging Memory mostra, quindi, una memoria plasmata e rappresentata per mezzo di un film o di un’opera filosofica, di un’intervista televisiva o di
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un documentario, di una scultura o di un romanzo, un racconto della stessa memoria fatto a più voci e da differenti punti di vista. Un’ulteriore riflessione va riservata al legame – emerso più volte in questo studio – tra manipolazione della memoria e potere politico. La storia è spesso raccontata dai vincitori e dai privilegiati che la manomettono e poi la restituiscono al futuro d’accordo con chi detiene il potere politico: la memoria dunque diventa testimonianza distorta di eventi osservati dall’unica postazione ritenuta possibile. Dall’acuta analisi condotta da Del Monte scaturisce la proposta di introdurre nelle scuole italiane lo studio del colonialismo per provare a modificare l’atteggiamento mentale della “Brava Gente” che ancora tenta di nascondere o rinnegare i misfatti del periodo coloniale e, per la stessa via, educare le nuove generazioni al rispetto per la cultura e per il passato dei popoli colonizzati. Al contempo, in questa delicata fase storica, la nuova Libia potrebbe beneficiare di una revisione del periodo dell’occupazione, libera dall’influenza del regime; l’eredità coloniale potrebbe quindi diventare uno strumento per costruire un sistema egalitario e relazioni internazionali fruttuose. Il popolo libico ha bisogno di pace e stabilità, e questa potrebbe essere la via migliore per accelerare la rinascita del paese dopo secoli di sofferenze. Per maggiori informazioni o per contattare l’autrice, visitare il sito www.stefaniadelmonte.com
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