il N° 4 - MARZO 2016
Guitto
Rivista dell’Associazione Culturale Il Guitto
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Le balie, figlie della Ciociaria
Alatri, la città dei ciclopi
I misteri del castello di Fumone
L’inverno del 1956 La nevicata del secolo nei racconti dei fumonesi
EDITORIALE
Un anno di (da) Guitto di Elisa Potenziani Era l’8 dicembre 2014. Un lunedì festivo che sanciva l’inizio del periodo natalizio e che noi scegliemmo per presentare, nella sala consiliare del Comune di Fumone, il nostro progetto al quale avevamo dato un nome emblematico: “Il Guitto”. I guitti, è bene rammentarlo, erano quei ciociari che, fin dal XVI secolo, in cerca di un avvenire migliore migravano verso l’Agro Romano e l’Agro Pontino oppure verso le grandi città italiane, con Roma in testa, e verso centri europei: guitto significa dunque “nomade, spiantato”, ma la sua figura conserva tutto il fascino del pioniere, del coraggioso, dell’uomo artefice della propria sorte. - Pag. 2
di Mariano D’Agostini
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ono passati sessant’anni dalle ondate di gelo e di neve che si susseguirono nei mesi di febbraio e marzo del 1956. L’evento è passato alla storia come la più grande nevicata del ventesimo secolo. Gli ultimi mesi del 1955 erano stati più miti della media, ma alla fine del gennaio del ‘56, nei giorni “della merla”, si ebbero in Europa temperature eccezionalmente rigide dovute ad un’ondata di freddo proveniente dalla Scandinavia, spinta da un fortissimo vento di tramontana. Contemporaneamente si formò una vasta depressione sul mar Mediterraneo che, costantemente alimentata dall’aria artica, sviluppò continue perturbazioni a carattere nevoso che dal mare attraversavano l’Italia riversandovi cospicue quantità di neve: un fenomeno simile, dall’inizio del secolo, si era verificato con tale violenza solo nel 1929. Per tutto il mese di febbraio, in Italia, si ebbero temperature siberiane: -20°C sulle Alpi, -15°C nella pianura padana, si innalzarono di qualche grado a Firenze (-11), a Roma (-7), a Napoli (-5). A L’Aquila per tutto il mese di febbraio il termometro non superò mai gli 0°C. Il 2 febbraio, giorno della Candelora, e i giorni seguenti su buona parte dell’Italia le precipitazioni erano oramai nevose. Specialmente nelle notti del 7, 9, 12, 18 e 19 il Lazio e gran parte delle regioni meridionali furono colpite da forti tormente: intorno al 25 febbraio sembrava tutto finito, complice un lieve rialzo termico, ma il 10 e 12 marzo, per un brusco abbassamento delle temperature, si ebbero le ultime abbondanti nevicate. - Pag. 2
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segue da pag. 1 - Il susseguirsi di quelle tempeste di neve aveva paralizzato
completamente l’Italia centro-meridionale mettendo in seria difficoltà un Paese ancora alle prese con le ferite della Guerra, il quale si basava su un’economia essenzialmente agricola, con scambi di beni piuttosto limitati e con una ricostruzione industriale ancora in corso. Furono molti i paesi montani rimasti isolati dove i soccorsi non potevano arrivare: Fumone fu uno di essi. Per i fumonesi fu uno dei periodi più difficili degli ultimi decenni, per il freddo, per la carenza di cibo, per la mancanza di mezzi adatti a spazzare la neve. Con le strade impraticabili, i rifornimenti non potevano arrivare e ben presto iniziarono a scarseggiare le scorte nei negozi. Si andò avanti con le riserve domestiche: per fortuna, infatti, nel Paese vigeva ancora un’economia contadina per cui la maggior parte delle famiglie aveva un pollaio e, in casa, patate, farina, formaggio, olio, vino e la carne dei maiali macellati nel mese di gennaio. Durante i mesi di febbraio e marzo i fumonesi mangiarono polenta e pietanze a segue da pag. 1 - Oggi l’esser guitto
è, per noi, più un habitus mentale che una condizione sociale, in definitiva un modo di conoscere il mondo. Il nostro intento era principalmente quello di creare una rivista che scandagliasse vari aspetti di Fumone, dalle tradizioni alle festività religiose, all’attualità, al folclore, agli argomenti di carattere storico, dedicando particolare attenzione all’architettura, all’archeologia e al paesaggio inteso come bene culturale. Siamo riusciti a mantenere una tiratura di mille copie a colori e del numero di giugno, in vista dell’estate, ne abbiamo stampate cinquecento in più: abbiamo scelto di percorrere anche la via del cartaceo nella convinzione che esso permetta alle sensazioni, ai ricordi, alle cose nuove di sedimentarsi nella mente stimolando in misura maggiore la carica emozionale che solo una lettura fatta nei tempi giusti può suscitare. Gli argomenti vengono scelti sulla base delle attitudini, del vissuto e degli interessi personali di ogni componente della redazione, per sua natura “inclusiva”, che tende ad accogliere la partecipazione di chiunque possa e voglia dare il suo contributo alla rivista in termini di conoscenza e documentazione. La rivista è stata distribuita in molti luoghi di Fumone e dei centri limitrofi inoltre è consultabile presso l’Archivio di Stato di Frosinone, nelle biblioteche comunali di Alatri e Ferentino, nell’Istituto di Storia e di Arte del Lazio meridionale (Isalm) di Anagni e, a Roma, nella biblioteca Nazionale, in quella della casa editrice Edilazio, nella biblioteca della Fondazione Marco Besso, in quella Provinciale, nella Biblioteca del Centro Re-
gionale di Documentazione, nella Biblioteca della Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio e dei Beni Culturali. Naturalmente ci proponiamo di raggiungere anche altre biblioteche e istituti di cultura per lasciare una traccia tangibile del nostro lavoro. Pubblichiamo ogni numero on line, sui social network più popolari e sulla piattaforma issuu, inoltre ogni numero viene inviato ai contatti email della nostra mailing list, appositamente creata e in continuo aggiornamento: oltreoceano seguono Il Guitto molte famiglie che, discendenti di emigranti fumonesi, mantengono un legame affettivo con il paese di origine dei propri avi. Cogliamo l’occasione per annunciarvi la realizzazione del sito internet: ilguitto.wordpress.com attraverso il quale potrete contattarci, recuperare i numeri de Il Guitto, rimanere aggiornati sulle nostre attività, leggere contenuti extra. La rivista partecipa anche a un progetto più ampio di valorizzazione che investe il centro storico di Fumone, ma anche il paesaggio, i siti archeologici e i sentieri storici compresi nel territorio comunale: l’obiettivo è quello di incentivare la pratica virtuosa del turismo culturale in una terra, la Ciociaria, potenzialmente turistica ma ancora poco conosciuta. Vogliamo sentitamente ringraziare tutti coloro che ci seguono con interesse, che ci sostengono in vari modi e con vari mezzi, che ci offrono spunti di riflessione; ringraziamo anche chi collabora alle nostre ricerche e alle nostre attività e ringraziamo soprattutto coloro che si lasciano intervistare donandoci materiale prezioso… i ricordi!
base di pane e (pochissime) proteine animali. Ci si scaldava con la legna e anche quella ben presto si dovette razionare. Le stradine del centro storico si erano riempite di neve tanto che i primi piani delle case si raggiungevano direttamente dalle finestre o da scale ricavate sulla neve ghiacciata. L’amministrazione comunale radunò gli uomini che si erano resi disponibili e li organizzò in squadre che agivano sotto la direzione del vigile urbano (che i fumonesi chiamavano “la guardia”) Sisto Mastromoro: alcune ripulivano i tetti per evitare che essi crollassero sotto il peso eccessivo della neve; altre ripulivano i vicoli all’interno dei quali venivano ricavate delle trincee dove poter passare, mentre fuori dalle mura le strade si tenevano agibili fino al cimitero. Intorno al 20 febbraio nei vicoli si era accumulata così tanta neve che si cominciò a trasportarla con le carriole fuori dalle mura e nelle piazze di Porta Romana e della “Portella” si formarono cumuli di neve che rimasero fino all’inizio dell’estate.
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Nelle campagne di Fumone, ai comuni disagi avvertiti anche dai residenti del centro, si sommò il problema della mancanza di cibo per gli animali da stalla e da pascolo: i foraggi freschi erano rimasti sotto la neve e ben presto iniziarono a scarseggiare le scorte di fieno e mangimi; fu allora di grande aiuto uno dei prodotti più comunemente usati dai contadini: la paglia. Essa, riposta in covoni durante l’estate, di solito fungeva da lettiera per gli animali da stalla, ma, in quel frangente, venne usata come foraggio e, con molta parsimonia, poteva anche essere bruciata per scaldarsi. La sera, prima di chiudere la porta di casa, ci si assicurava di aver rientrato la pala che al mattino seguente sarebbe risultata indispensabile per uscire e iniziare la pulizia di piazzali e tetti. Come spesso avviene nel caso di calamità, nei momenti di sofferenza e carestia, tra i fumonesi si rafforzarono i sentimenti di unione e di amicizia e, con una sorta di solidale mutuo soccorso, ci si divideva cibo e foraggio per gli animali; l’attenzione maggiore era rivolta alle famiglie con vecchi e bambini per le quali arrivava sempre un po’ di latte e qualche ceppo di legna. Da piccolo sentivo spesso mio padre parlare della nevicata del ‘56 con i clienti del negozio di famiglia: uno degli aneddoti che mi è rimasto
più impresso quando, con un tono tra il serio e lo scherzoso, gli adulti raccontavano le eroiche imprese di quell’inverno, era quello della carovana di asini da soma organizzata per trasportare rifornimenti al negozio. Le scorte erano terminate, le famiglie avevano finito le riserve ed erano arrivate a mangiare le ultime galline, quando si seppe che la strada provinciale per Ferentino era di nuovo percorribile. Mio padre riuscì a far arrivare un camion con le provviste fino al “casino rosso” (contrada La Mola) e da lì, caricando gli asini di alcuni suoi amici e clienti, riuscì a rifornire il negozio facendo tirare un sospiro di sollievo a tutti gli abitanti della contrada “Casette”. Dopo il 20 marzo fu tutto finito: iniziò a fare più caldo e la neve piano piano si sciolse, ma nei luoghi in cui non batteva il sole la neve rimase fino a giugno. Il 1956 è ricordato dai fumonesi come l’anno dall’inverno più duro ma anche quello dei raccolti più abbondanti: il grano rigoglioso e le piante piene di frutti come in quell’anno non si erano mai visti e mai più si videro. Si ringraziano per gli utili racconti: Paolino Cialone, Nello Caponera e Umberto Caponera.
APPUNTAMENTI 2016 28 MARZO: trekking urbano nel centro storico di Fumone 25 APRILE: escursione al lago di Canterno e passeggiata archeologica in località “Le Carceri” 4 GIUGNO: trekking urbano attraverso l’antico sentiero che dalle pendici di Monte Fumone conduce nel cuore del borgo medievale (*le date possono subire variazioni. Per info contattateci a: info.ilguitto@gmail.com)
Stefano: 347 7853772 - Elisa: 339 2211568
il Guitto - Rivista di cultura fumonese e ciociara Direttore: Elisa Potenziani - Direttore artistico: Francesco Caponera Hanno collaborato a questo numero: Alberto Bevere, Lamberta Caponera, Mariano D’Agostini, Giuseppe Gatta, Cecilia Giovannetti, Matteo Petitti, Alessandro Potenziani
www.ilguitto.wordpress.com - info.ilguitto@gmail.com facebook: www.facebook.com/ilguittodifumone Codice IBAN: IT97 F076 0114 8000 0102 7118 502
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Le balie, figlie della Ciociaria di Cecilia Giovannetti
In Ciociaria una particolare attività svolta dalle donne era il baliatico: quelle che avevano partorito o che erano prossime al parto potevano andare in città o ricevere in casa un bambino altrui per allattarlo. Le origini di tale attività risalgono al baliatico assistenziale che si sviluppò all’interno delle strutture caritative, come gli orfanotrofi, ovvero all’interno di istituzioni pubbliche specializzate, dal punto di vista sanitario e sociale, per il ricovero e l’assistenza di bambini abbandonati e bisognosi di cure. Successivamente si sviluppò il fenomeno del baliatico privato: si poteva affidare il neonato ad una balia di campagna che lo allattava a casa propria per restituirlo ai genitori quando lo svezzamento era completato oppure ospitando la balia stessa in casa, abitudine che andò affermandosi sempre più all’inizio del XIX secolo presso le famiglie facoltose, via via che la borghesia scopriva il ruolo della moglie come rappresentante dello status sociale del marito. Diveniva così naturale destinare parte delle risorse economiche a dispensare la moglie sia dalle fatiche fisiche che dalla “perdita di tempo” che l’allattamento comportava. Rinomate in tutta Italia, le balie ciociare furono particolarmente ricercate dalle più conosciute e stimate famiglie. In gran parte di umili origini, le donne ciociare per ovviare alla morsa della miseria e guadagnare un po’ di denaro erano disposte a lasciare la propria famiglia e il proprio figlio. Il loro aspetto fisico era robusto, sano, vigoroso, fiero e forte perché temprato dai duri lavori nei campi, di conseguenza il loro latte era molto apprezzato: dolce, bianco, giustamente denso, ricco di anticorpi e di sostanze nutritive, frutto della semplice e sana alimentazione e dell’aria pura che si respirava nelle nostre campagne. Era detto “l’oro bianco”. Inoltre l’abbondanza di latte veniva associata, nell’immaginario popolare, alla voluminosità e alla turgidezza dei seni, caratteristica tipica delle ciociare. Divenire balia significava per la donna migliorare la propria
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condizione personale: esse venivano “rivestite” con un corredo composto dalle sei alle dodici unità, il quale comprendeva indumenti intimi, vestiti da casa, grembiuli, pettorali ricamati pieni di trine; indossavano cuffie e gioielli, soprattutto coralli, pietre portafortuna per conservare il latte buono e abbondante. Le balie non vivevano come donne di servizio: spesso mangiavano a tavola con i “signori” che così potevano controllare che assumessero un’alimentazione adeguata per mantenere un buon latte, un “latte tranquillo”, come veniva definito. Si trattava di uno stravolgimento enorme: le balie conducevano una vita agiata, occasione che non avrebbero mai più avuto e che avrebbe rappresentato solamente una particolare parentesi nella loro dura esistenza. Il baliatico, però, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento fu ampiamente discusso e molto criticato. Le balie, infatti, lasciavano i loro figli in campagna, facendoli nutrire da altre donne, pagate a metà prezzo, che non avevano la possibilità di spostarsi. Osteggiate dalla chiesa cattolica che le accusava di abbandonare i propri figli per il gusto del “di più”, indubbiamente conducevano uno stile di vita più comodo, a contatto con realtà e consuetudini fino ad allora ignorate, ma è pur vero che il lavoro di balia era un lavoro “amaro” che tante lacrime faceva versare. Dice una di loro: «Piangevo sempre, quando partivo perché lasciavo il sangue del mio sangue, piangevo, quando tornavo, perché riprendevo a fare il duro lavoro della contadina». Storie di maternità, ma anche storie di sofferenza e a tal riguardo è significativa la novella di Pirandello, “La Balia”, in cui la protagonista, Annicchia, costretta a fare la balia per ragioni economiche, viene punita dal marito che l’accusa di essere una madre snaturata in quanto il proprio figlio legittimo è venuto a mancare. Anche la scrittrice fumonese Lucia Cocchi, autrice del libro “Ricordi d’infanzia – Fumone”, nel capitolo “Tante madri per un figlio” descrive questa triste realtà e, andando indietro nel tempo, lo stesso Montaigne afferma di aver visto i bambini dei contadini, lontani dalle loro madri, attaccati alle mammelle delle capre per nutrirsi. Il fenomeno del baliatico interessò molti paesi e città della Ciociaria (Alatri, Veroli, Fumone, Sora, Arce) da cui iniziò un cospicuo movimento migratorio di molte donne che dai piccoli centri rurali si spostarono nelle grandi città per intraprendere questo lavoro. Per contattare le balie si usavano mediatori privati: al sindaco e alla levatrice (la “mammana”), si chiedevano garanzie sulla correttezza della persona candidata al lavoro ed era la “mammana” stessa che le metteva in contatto con la sede di Roma, cui le famiglie facevano riferimento. Per quanto riguardava il salario, il contratto del baliatico era una faccenda di esclusiva competenza maschile: il padre del bambino e il marito della balia (il “balio”) si accordavano sul prezzo; il lavoro durava dai 12 ai 16 mesi e il salario era sicuramente ottimo, anche 3 o 4 volte superiore a quello di un uomo (nel 1940 oscillava intorno alle 400 lire). Al loro arrivo in famiglia vi era un medico che verificava lo stato di salute della balia, secondo le regole dettate dalle leggi sanitarie. Angelo Maramao, autore del libro “Terra di Balie”, scrive: «Era diffuso, nella nostra regione, la scelta al tocco, pratica che consisteva nel far
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Roma. La balia fumonese Rita Rocelli in una foto del 1958.
sedere più balie in una stanza buia per sottoporle al palpeggiamento del seno da parte della padrona, la quale, alla fine, sceglieva la più idonea». Era diffusa anche “la prova dell’unghia” o “del vetro”: bisognava far cadere una goccia di latte sull’unghia del pollice o su un pezzetto di vetro inclinato e, in base alla velocità dello scorrimento e alla traccia lasciata, si deduceva la consistenza del latte. Il fenomeno delle balie, intorno agli anni ‘60, scomparve definitivamente a seguito del miglioramento delle condizioni sociali e dei nuovi prodotti alimentari come il latte in polvere che hanno scritto la parola fine all’affascinante storia delle balie.
Fonti e riferimenti bibliografici Gente di Ciociaria, cur. U. Iannazzi – E. M. Beranger, Isola del Liri 2007, pp. 426-449. L. Cocchi, Ricordi d’infanzia – Fumone, Alatri 1992 A. Maramao, Veroli, “terra di balie”: 1800-1950, Veroli 1998 L. Pirandello, Novelle per un anno, Milano 1985
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Il restauro della chiesa della Madonna della Stella a Porciano. Un volto nuovo per il santuario mariano di Matteo Petitti
Su una collina in prossimità delle sponde meridionali del lago di Canterno, nel territorio del Comune di Ferentino, sorge il santuario dedicato alla Madonna della Stella, noto luogo di spiritualità da secoli frequentato dagli abitanti dei paesi circostanti. L’intitolazione deriva dall’immagine di Maria che si venera al suo interno e che proviene da un antico saluto rivolto alla Madre di Dio, invocata come stella del mare: “Ave Maris Stella”. L’immagine mariana venne dipinta direttamente sulla roccia di una grotta sotto il costone roccioso del Monte Porciano, ma a metà del XVIII secolo, con l’edificazione del nuovo santuario, venne asportata e qui posta alla sommità dell’altare maggiore. Il 14 Settembre 2014, in occasione della festa annuale, il santuario è stato riaperto ai fedeli dopo un accurato restauro architettonico e pittorico avvenuto sotto la direzione dell’arch. Felice D’Amico in stretta collaborazione con il rettore del santuario Mons. Angelo Pilozzi, lavori ai quali ha contribuito anche la Regione Lazio: questa data però non è che l’ultima tappa di una lunga storia che affonda le sue radici nei secoli precedenti. Le origini del santuario sono avvolte nel mistero e molti sono gli eventi miracolosi tramandati oralmente dai fedeli. Non esistendo fonti storiche che aiutino a ricostruire la vicenda dell’edificazione del santuario del-
la Madonna della Stella, bisogna affidarsi ad una cronaca anonima del XVIII secolo in cui sono raccolti gli eventi miracolosi raccontati dai pastori e dai contadini che frequentavano abitualmente quel luogo: in essa, ad esempio, è riportato il caso di una giumenta travolta dalla piena di un fiume che fu salvata in seguito all’invocazione della Vergine fatta dal suo proprietario. Si conoscono però documenti ufficiali che danno certezza dell’esistenza di questo luogo, della sua frequentazione e della sacralità dell’icona in questione: i più antichi sono due decreti, uno del 28 maggio e l’altro del
24 giugno 1622, prodotti dal capitolo della cattedrale di Ferentino con i quali si autorizzò la venerazione della Madonna della Stella. Negli anni successivi l’accresciuta devozione degli abitanti del posto spinse il Capitolo ad emanare un nuovo decreto, datato 24 giugno 1692, con cui venne incaricato il canonico don Giuseppe Infussi a raccogliere e ricevere le offerte per la fabbrica di una piccola chiesa che potesse meglio accogliere i fedeli in pellegrinaggio e meglio custodire la sacra immagine. Le offerte vennero depositate presso il monte di pietà di Acuto e il 12 novembre 1693,
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con contratto della Cancelleria episcopale di Anagni, il vescovo Mons. Bernardino Masseri convenne la costruzione della chiesa per 240 scudi, da lui benedetta l’8 settembre 1695. La notte dell’8 dicembre 1722 una pioggia torrenziale provocò la frana della rupe che sovrastava la piccola chiesa distruggendola e seppellendo sotto le rovine l’eremita–custode Frà Antonio, ma l’icona della Madonna rimase intatta. Questo evento ebbe un così forte impatto emotivo sui fedeli che si decise di costruire una nuova chiesa, in un luogo più adatto, ma comunque prossimo al sito originario; questo luogo venne identificato con quello dell’attuale collocazione. L’iniziativa di costituire una nuova fabbrica con il sostegno dei fedeli, fu del canonico don Massimo Terrinoni, vicario foraneo di Anticoli (l’attuale Fiuggi), il quale incaricò l’architetto Domenico Beltrami della realizzazione del progetto e della direzione dei lavori: tra gli operai che vi parteciparono rileviamo dalle fonti la presenza di tale Sebastiano da Fumone, di cui per ora non sappiamo altro. La prima pietra fu benedetta dall’arciprete don Domenico Gerolami nel 1774 con l’autorizzazione di Mons. G.B. Filippini Tenderini, vescovo di Anagni. Il nuovo santuario venne consacrato nel 1778. Nel 1872 il santuario raggiunse la conformazione attuale grazie soprattutto alla cura che del luogo ebbe l’allora custode Raimondo de’ Ranieri. Nel corso di tutto il XX secolo vi furono diversi interventi che arricchirono e impreziosirono il santuario frutto, spesso, delle donazioni dei fedeli tra i quali è d’obbligo ricordare Renzo Barbera, noto imprenditore palermitano e presidente del Palermo Calcio dal 1970 al 1980, la cui storia si intrecciò con quella del santuario nel corso del secondo conflitto mondiale. Nel 1943 il Barbera era infatti un giovane ufficiale dell’esercito italiano che dopo l’8 settembre venne catturato dalle pattuglie tedesche nell’Italia centrale: durante un trasferimento di detenuti riuscì a scappare trovando rifugio proprio dentro il santuario e, grazie anche all’aiuto della popolazione porcianese, si salvò. Pochi anni dopo il “Presidentissimo”, così verrà poi rinominato dai sostenitori della squadra del Palermo, tornò al santuario in compagnia della madre, la sig.ra Maria, ed elargì, soprattutto per volere di quest’ultima, il denaro necessario al rifacimento del pavimento
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centrale che ancora oggi è presente. Al 2014 risalgono gli importanti interventi di restauro sia architettonico che pittorico di una portata ancora maggiore rispetto a quelli succedutisi nell’ultimo secolo. Sotto il primo profilo si è operata principalmente la sistemazione degli spazi esterni mediante la realizzazione del sagrato in prossimità dell’entrata principale, la valorizzazione degli spazi verdi circostanti e, infine, la costruzione di un locale contiguo alla sagrestia destinato ad accogliere gli ex-voto dei fedeli. Dal punto di vista pittorico, invece, si è proceduto al rifacimento delle pareti sia interne che esterne utilizzando materiali biosostenibili, come l’intonaco a calce naturale e la tinteggiatura a calce, e alla ripulitura dei diversi stucchi che negli anni sono stati sovrapposti alla decorazione del santuario. Grazie a quest’ultimo intervento di ristrutturazione e restauro, sicuramente necessario, è stata restituita la giusta dignità ad un luogo, quello del santuario della Madonna della Stella, da secoli custode dell’antica immagine mariana dipinta in questo scrigno sacro posto nel verde della campagna anticolana e
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venerata dagli abitanti di Porciano, Ferentino Fumone, Trivigliano e Fiuggi. *Si ringraziano per la loro disponibilità l’arch. Felice D’Amico e Mons. Angelo Pilozzi
Fonti e riferimenti bibliografici
F. Cardinali, T. Cardinali, Porciano. Storia e tradizione, Porciano - Ferentino 1999. C. D’Amico, Fiuggi anticolana, Alatri 1972. F. D’Amico, Il santuario della Madonna della Stella. Una storia di fede tra racconti, cronache e realtà, Frosinone 2015.
Sitografia
M. Pintagro, L’8 settembre di Barbera. Una storia di gratitudine, http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/ repubblica/2009/03/14/settembre-di-barbera-una-storiadi.html, ultima consultazione 16 febbraio 2015
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Viaggiare in Ciociaria: Alatri, la città dei ciclopi di Elisa Potenziani con foto di Alberto Bevere
«Allorquando mi trovai dinanzi a quella nera costruzione titanica, conservata in ottimo stato, quasi non contasse secoli e secoli, ma soltanto anni, provai un’ammirazione per la forza umana assai maggiore di quella che mi aveva ispirata la vista del Colosseo» (F. Gregorovius, 1821-1891) La città di Alatri sorge a circa 7 km da Fumone. Le sue origini si fanno risalire agli Ernici, popolazione preromana che dapprima avversò Roma, ma nel corso del V secolo a.C. divenne sua alleata e nel 90 a.C. fu elevata a Municipio. Fu sede vescovile fin dall’età costantiniana e centro di una delle più antiche comunità cenobitiche dell’Occidente. Nel periodo delle invasioni barbariche e, in particolare, dopo l’assedio e il successivo saccheggio ad opera degli ostrogoti guidati da Totila nel 543, la città rafforzò le proprie strutture difensive per fronteggiare i Longobardi prima e i Saraceni poi. Dalla seconda metà del XII secolo divenne libero comune e, da sempre fedele alla Chiesa, raggiunse l’apice dello sviluppo politico e culturale nel secolo successivo durante il quale furono costruiti eleganti palazzi civili e importanti monumenti religiosi. Nel corso del XIV secolo, trovandosi la sede pontificia ad Avignone, Alatri cadde sotto il controllo dei conti di Ceccano subendo una notevole riduzione dell’autonomia comunale per l’intervento del cardinale Albornoz. La successiva signoria durazzesca (1408-1414), quella viscontea (1434) e il dominio spagnolo nel 1556 stravolsero a tal punto la comunità cittadina da indurre il vescovo diocesano Ignazio Danti ad intraprendere, tra il 1583 e il 1586, un’importante opera di riorganizzazione della vita religiosa, modello per le iniziative sociali messe in atto dall’amministrazione civile nei due secoli successivi. Passato il turbolento periodo rivoluzionario e napoleonico, la restaurazione del governo pontificio nel 1815 sancì il ritorno a una relativa tranquillità politica che fu accompagnata da un miglioramento delle condizioni economiche durante i primi anni dell’Unità nazionale. Decisivo fu, infine, il vasto programma di risanamento politico e sociale intrapreso dalla città all’indomani della fine della Seconda Guerra mondiale, i cui effetti incisero in modo determinante sulla formazione dell’odierna fisionomia cittadina. Iniziando la visita alla città da viale Duca d’Aosta si arriva in piazza Santa Maria Maggiore dove in epoca romana sorgeva il foro, cuore della vita cittadina. Su di essa si affacciano importanti monumenti religiosi e civili: il palazzo Conti Gentili (antico stabile duecentesco, sulla cui facciata campeggia orologio solare realizzato nel XIX secolo da Padre Angelo Secchi), la chiesa degli Scolopi (realizzata tra il 1734 e il 1745), la chiesa di Santa Maria Maggiore (il cui assetto attuale è riconducibile al XIII secolo) e, al centro, sorge la Fontana Pia realizzata nel 1870 su progetto dell’architetto Giuseppe Olivieri e dedicata a Pio IX in segno di riconoscenza per il cospicuo contributo finanziario elargito per la costruzione di un nuovo acquedotto. Dietro il Palazzo Conti Gentili si trova la piccola chiesa di Santo Stefano, edificata attorno all’anno Mille, ristrutturata nel 1284 dal cardinale Gottifredo di Alatri e più volte rimaneggiata: oggi si presenta nella veste settecentesca.
Senza dubbio il luogo più affascinante della città di Alatri rimane l’Acropoli: il complesso megalitico – che in passato alimentò la credenza che fossero stati dei giganti a realizzarla – viene fatto risalire agli Ernici e la sua costruzione fissata intorno al VII secolo a.C. L’opera poligonale racchiude una vasta area sopraelevata che si estende per 19.000 mq al centro dell’abitato cittadino: essa, secondo alcuni studiosi, sarebbe orientata astronomicamente e la sua forma poligonale sembrerebbe rievocare la costellazione dei Gemelli; inoltre l’Acropoli, per la sua posizione privilegiata, ha svolto fin dalle origini la duplice funzione di luogo sacro e presidio difensivo. Il paramento murario è sorprendente per la dimensione dei monoliti impiegati e per il fatto che tra di essi sia assente qualsiasi tipo di materiale legante. Suggestive sono le due porte: la Porta Maggiore, dislocata sul lato meridionale, è di proporzioni monumentali e presenta un architrave monolitico lungo 4 metri il cui peso si aggira attorno alle 27 tonnellate; la Porta Minore, sul lato opposto, presenta un angusto corridoio ascendente e tre falli scolpiti sull’architrave, simboli ancestrali di fertilità. Lungo le mura si aprono tre nicchie le quali probabilmente contenevano statue di divinità tutelari. Sulla sommità dell’Acropoli, al di sopra di un luogo di culto pagano, sorge la cattedrale di San Paolo: all’interno della chiesa è conservata la
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celebre reliquia dell’Ostia incarnata, una particola eucaristica divenuta miracolosamente carne umana tra la fine del 1227 e l’inizio dell’anno successivo, episodio non dissimile da quello avvenuto in altre località d’Italia come Lanciano e Bolsena. Ancora all’interno della cinta urbana si incontra la chiesa di San Francesco eretta, insieme al vicino convento, dall’Ordine francescano nella seconda metà del Duecento il cui interno è stato poi rimaneggiato in epoca barocca: essa conserva la preziosa reliquia
del mantello di san Francesco che il santo assisiate donò alla città nel 1222 e, in un’intercapedine del chiostro, un dipinto molto particolare che raffigura “Cristo nel labirinto”, finora un unicum e per il quale, relativamente alla struttura del labirinto, sono stati invocati gli esempi della cattedrale di Chartres e di Lucca. Rimangono ancora da visitare all’interno del centro storico la chiesa di San Silvestro (X secolo) con la cripta di IX secolo e il Palazzo Gottifredo che, realizzato nel XIII secolo per volere del nobile Gottifredo Raynaldi,
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cardinale protodiacono e ricco feudatario alatrense, accoglie oggi il Museo Civico dove sono esposte importanti testimonianze archeologiche di epoca etrusca, romana e medievale. Al di fuori delle mura cittadine si trovano la chiesa della Maddalena, una pieve medievale edificata nei pressi di un antico lebbrosario e la badia di San Sebastiano, un complesso monastico sorto su un piccolo colle a oriente del centro cittadino che nel 528 ospitò Benedetto da Norcia durante il viaggio da Subiaco a Montecassino e nella seconda metà del XIII secolo accolse l’Ordine delle damianite di Santa Chiara. Nella campagna di Tecchiena, una frazione di Alatri, si trova la grancia ovvero una vasta costruzione rurale edificata nella seconda metà del XVII secolo da padri certosini, utilizzata fino agli inizi del Novecento come granaio dagli stessi monaci della vicina certosa di Trisulti e che accoglie al proprio interno ambienti di carattere residenziale e una piccola chiesa.
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Segreti e misteri del Castello di Fumone Vicende che hanno segnato la storia del borgo medievale di Giuseppe Gatta
Varcando Porta Romana si entra in uno scenario storico a dir poco incredibile. Sede d’arte e mito, il borgo millenario di Fumone si è trovato sempre al centro di vicende storiche di rilevanza notevole. Camminando tra i vicoli del centro storico rimasto intatto nei secoli, si giunge nel cuore del borgo dove è ubicato il Castello Longhi De Paolis. Fortezza militare mai espugnata, il maniero è passato alla Chiesa nel corso del Medioevo svolgendo la funzione di prigione fino a quando, nel XVI secolo la famiglia Longhi acquistò il castello ormai fatiscente. Dopo l’ingresso, le luci affievolite dal rosso sangue delle pareti conducono al “pozzo delle vergini”. Questo pozzo è legato alla pratica dello jus primae noctis, diffusa nel Medioevo: a Fumone il diritto venne rivendicato da uno dei proprietari del Castello e le donne appena sposate dovevano trascorrere la loro prima notte di nozze con il signore dimostrando di essere vergini oppure, in caso contrario, sarebbero state gettate nel pozzo e condannate quindi ad un’atroce tortura perché si dice che sul fondo fossero collocate lame affilate. Non è questa la sola peculiarità che contribuisce ad avvolgere il Castello in un alone di mistero: l’intrigante storia delle sette sorelle tiene banco ancora oggi tra turisti increduli e curiosi di tutte le età. Risale alla metà del 1800 la storia del marchese Gaetano Longhi e di sua moglie Emilia Cajetani i quali, già genitori di sette figlie femmine, ebbero un ottavo figlio: il tanto desiderato erede che chiamarono Francesco. Il bambino, unico discendente maschio della famiglia, avrebbe ereditato il Castello e gli altri possedimenti territoriali alla morte dei genitori estromettendo le sorelle le quali decisero di scongiurare il pericolo avvelenando il fratellino giunto ormai all’età di tre anni con piccole dosi di arsenico. Il dolore della madre fu atroce. Emilia Cajetani infatti, dopo la morte del figlio, fece ritoccare di nero tutti i dipinti del castello e fece perfino imbalsamare il corpicino del bambino in modo da averlo sempre lì con sé, tuttora conservato in una delle stanze del Castello. A questa storia e ad altri episodi cruenti sarebbe da ricondurre la presenza dei fantasmi nel Castello di Fumone: tra di essi sembra esserci quello della duchessa Emilia Cajeta-
ni che ogni notte esce a cullare il piccolo Francesco. Il maniero è inoltre noto per essere stato luogo della morte del papa che rinunciò alla tiara. Ci troviamo tra il 1295 e il 1296 e parliamo di Celestino V, rinchiuso per volere del suo successore, Bonifacio VIII, in un’angusta prigione del Castello di Fumone – tuttora visibile – dove morì il 19 maggio 1296. Anche se l’ipotesi più accreditata rimane quella della morte naturale (Celestino V aveva infatti raggiunto la veneranda età di ottantasei anni), c’è ancora chi sostiene che sia stato assassinato, forse con un chiodo conficcato nel cranio. Ma il Castello non è stato solo luogo di atro-
cità e morte, offre anzi una vasta gamma di suggestioni tra cui va annoverato sicuramente il giardino pensile, definito «la terrazza della Ciociaria», che si estende su due livelli: ricavato dall’abbattimento delle torri d’avvistamento alla fine del Seicento, fu ricoperto con terra di castagno proveniente da Fiuggi. La sua estensione sfiora i 4.000 mq e da qui, a più di 800 metri sul livello del mare, si può ammirare un panorama mozzafiato sulla Valle del Sacco. E poi ci sono le stanze del piano nobiliare la cui fisionomia è fortemente caratterizzata dai tratti ancora evidenti dell’originaria fortezza militare: un luogo suggestivo che vale la pena assaporare.
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il Guitto
Via Provinciale d’Accesso n.61 Fumone
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Dal Volubro a Fumone L’antico rivellino del castrum Fumonis di Alessandro Potenziani
La principale via di accesso al castello di Fumone, nel Medioevo era una derivazione della via Latina che dalla piana di Anagni si inerpicava a mezzacosta sul Monte Maino fino a raggiungere, nei pressi di un’antica icona religiosa dedicata alla Madonna dell’Arringo, uno spiazzo proprio sotto il Monte Fumone (Fig.1): questo luogo è detto Volubro, voce dialettale ancora oggi in uso che indica un invaso d’acqua generatosi per l’accumulo di acque piovane in corrispondenza di una piccola depressione del terreno. Da alcune testimonianze si apprende che da questo luogo si ricavava la creta utilizzata per realizzare vari manufatti. Per la vicinanza dell’icona mariana vigeva inoltre l’assoluto divieto di lavare ed imbiancare i panni «a pena di cinque solli», come si evince dagli statuti comunali del 1536. Dal Volubro ha inizio uno stradello stretto e ripido per questo un tempo denominato Via del Paradiso il quale permette di raggiungere il centro storico di Fumone lungo il versante meno scosceso del monte; questo tratto di strada rappresentava una sorta di rivellino, ovvero un percorso fortificato per raggiungere l’ingresso al castello. Tali percorsi fortificati si riscontrano particolarmente nei castelli posti sulle alture. In effetti, salendo, ci accorgiamo che il viottolo è delimitato, dal lato del monte, da un muro in pietra a secco e, sul lato opposto si individuano facilmente una serie di casette rustiche, alcune della stessa epoca delle costruzioni del castrum, altre più recenti le quali, un tempo unite da un muro continuo, costituivano
Fig. 2. Fumone - via della Croce (già via del Paradiso) nei pressi dell’”Ospedale di Sant’Antonio”. In primo piano la croce che segna il bivio (anni Venti del Novecento). Tratta da: Hernicus (pseudonimo di G. Marchetti-Longhi), Castel Fumone ed il suo “piccolo santuario celestiniano”, a cura dell’Istituto di Storia e di arte del Lazio Meridionale, Roma 1968.
Fig. 1. Fumone – Immagine del Volubro negli anni Trenta del Novecento. Sulla destra l’inizio di via del Paradiso; sullo sfondo il monte e il castello di Fumone (collezione A. Potenziani)
una sorta di passaggio obbligato e controllato per chi si dirigeva fino al castello. Gli edifici più antichi presentano elementi costruttivi che si ritrovano all’interno del castrum di Fumone come ad esempio le mura costruite con blocchi ben squadrati e sovrapposti in file parallele, le porte ad arco a tutto sesto o a sesto acuto, feritoie e finestre incorniciate da pietre poste simmetricamente. Tali elementi evidenziano il carattere difensivo di questi edifici che rappresentavano degli avamposti militari.
Dopo aver percorso circa 300 m dal Volubro la strada piega verso sinistra: proprio in questo punto vi è la piccola chiesa della Madonna degli Angeli, cappella privata della nobile e più antica famiglia ancora presente a Fumone, quella dei Cocchi. La chiesa fu eretta nel 1743 per volere di Anna Maria Cocchi probabilmente per preservare l’affresco, forse preesistente, rappresentante la Beata Vergine che tiene fra le braccia Gesù Bambino con due angeli che sorreggono la corona della Vergine, il tutto incorniciato da stucchi di pregevole fattura. Papa Pio VI, con la Bolla “del Perdono” da lui stesso emanata il 13 novembre 1783, investì questo luogo di culto dell’indulgenza plenaria. Quasi sempre le icone campestri erano collocate ai bivi di strade di importanza fondamentale, infatti, proprio da questo punto, un viottolo scosceso scende lungo il versante destro di Monte Fumone fino a congiungersi con l’antica strada che collegava Ferentino ad Alatri: anche l’icona che sorgeva in corrispondenza di questo bivio fu inglobata nella piccola chiesa detta della Madonna delle Grazie. Ma torniamo al percorso che conduce a Fumone. Superata la chiesa della Madonna degli Angeli, si arriva nel punto in cui la strada antica è tagliata da quella moderna: da qui si prosegue verso destra fino ad arrivare ad un incrocio di strade più complesso, contraddistinto dalla presenza di un’antica croce in legno posta su un basamento in pietra (Fig. 2). Uno stradello sulla destra portava ad un edificio absidato, in via della
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Croce, che potrebbe corrispondere alla chiesa in contrada Santa Croce menzionata in alcune fonti, successivamente trasformata in abitazione. Un’altra strada, sempre a destra della croce, era chiamata via di Sant’Angelo e portava alla chiesa abbaziale omonima di cui oggi non rimane più traccia (sull’argomento si veda l’articolo relativo alle pp. 6-7 nel n. 0 de “Il Guitto”). A sinistra della croce, invece, la strada prosegue fino alla posterula principale del castrum, posta a sud, in direzione di Napoli, e perciò chiamata un tempo Porta napoletana, oggi non più esistente e detta comunemente “portella”. Proseguendo verso nord inizia l’ultimo tratto rettilineo che, costeggiando le mura del borgo, giunge davanti all’antico accesso al castello in direzione di Roma e per questo chiamata Porta romana. Lungo quest’ultimo tratto si rileva, sulla sinistra, la presenza di due costruzioni medioevali, un tempo più estese, che nell’Ottocento appartenevano ai beni della pia istituzione detta “Ospedale di Sant’Antonio” ed erano adibite a luoghi di ristoro e alloggio per i poveri e per i viandanti diretti a Fumone. È molto probabile che, anche in epoca medioevale, tale struttura assolvesse a questa funzione. Sulla destra, invece, un moderno e poderoso muro in cemento ha sostituito un muro medioevale con funzione difensiva nell’ultimo tratto di strada, prima di giungere al torrione che fiancheggia l’ingresso di Porta romana. Nel tratto compreso tra l’“Ospedale di Sant’Antonio” e il muro che sostiene il piazzale antistante l’ingresso al borgo, gli archeologi I. Biddittu e A. Luttazzi, durante indagini di ricerca svolte agli inizi degli anni Novanta del Novecento, hanno rilevato la presenza di tratti di mura in opera poligonale di prima maniera che andrebbero interpretate come terrazzamenti o contrafforti di protezione: tali murature
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indurrebbero dunque a ipotizzare l’esistenza su quest’altura di un più remoto oppidum con funzione di controllo sulla strada che collegava i centri di Alatri e Ferentino da cui, forse, dipendeva direttamente.
Fonti e riferimenti bibliografici C. Bianchi, Statuta et Ordinamenta Castri Fumonis, Frosinone 1986. I. Biddittu, A. Luttazzi, Ricerche sulla rocca di Fumone (Nota preliminare), in Latium 9 (1992), pp. 233-236. L. De Carolis, Fumone l’ultimo eremo di Celestino V, Sgurgola 1996. G. Marchetti-Longhi, Pervetusa Fumonis arx, la Rocca di Fumone in Campania ed i suoi feudatarii, in Archivio della Società Romana di Storia Patria 47 (1924), pp. 189-320. Idem, Ultime vicende e trasformazioni della Rocca di Fumone, in Bollettino della Sezione di Anagni della Società Romana di Storia Patria 2 (1953), pp. 135-183. Hernicus (pseudonimo di G. Marchetti-Longhi), Castel Fumone ed il suo “piccolo santuario celestiniano”, a cura dell’Istituto di Storia e di arte del Lazio Meridionale, Roma 1968. C. Urban, Fumone, in Lazio medievale, 33 abitati delle antiche diocesi di Alatri, Anagni, Ferentino, Veroli, Roma 1980, pp. 29-40.
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CIOCIARA di Lamberta Caponera
Aranchenn’ p’ la via c’ na tina n’ capo che s’appiccia a gli sòlo, razzicchi la muntagna. A ogn’ pass’ la vesta nera t’ va d’ là i d’ qua ‘ccom’ si ballassi. Gl’ curpett’ t’ stregni la vita, i pett’ ‘ncurniciato dagli curagli. La tina è pesant’, ma tu ritta ritta la porti c’ la grazzia d’ na regina. Sott’ la croglia i capigli so niri ‘ccom’ agl’occhi ch’ rimiran’ luntan’ la ment’ è ‘rcolma d’ pensieri. A ch’ pensi cummà? Alla vita tribulata ch’ fai, agl’ ‘nnamurat’ luntano o sulament’ alla giurnata d’ lavor’ funita? Aranchenn’ p’ la via c’ na tina n’ capo, razzicchi la muntagna, a ogn’ pass’ la vesta nera t’ va d’ là i d’ qua ‘ccom’ si ballassi.
Gentile concessione di Agnes Preszler (www.ritrattista.eu). Copia da “La moissenneuse” di W. A. Bouguereau
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