Ciusa Gli anni delle Biennali

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FRANCESCO CIUSA

Gli anni delle Biennali 1907-1928


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Gli anni delle Biennali 1907-1928 a cura di Giuliana Altea Anna Maria Montaldo


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FASI Federazione Associazioni Sarde in Italia

FRANCESCO

CIUSA

Gli anni delle Biennali 1907-1928

VENEZIA, Palazzo Molin Adriatica 3 novembre-16 dicembre 2007

Comitato Promotore

Mostra

Renato Soru, Presidente Regione Sardegna Emilio Floris, Sindaco di Cagliari Massimo Cacciari, Sindaco di Venezia Mario Demuru Zidda, Sindaco di Nuoro Graziano Milia, Presidente Provincia di Cagliari Roberto Deriu, Presidente Provincia di Nuoro Alessandra Giudici, Presidente Provincia di Sassari Antonello Arru, Presidente Fondazione Banco di Sardegna Tonino Mulas, Presidente FASI Maria Vittoria Ciusa Mascolo

Ideata e promossa da FASI (Federazione Associazioni Sarde in Italia)

Catalogo Grafica e selezioni colore Ilisso Edizioni Fotografia Archivio Ilisso ad esclusione delle foto a p. 22 (archivio MAN, Nuoro, foto D. Tore); p. 36 (archivio Accademia di Belle Arti di Carrara); pp. 67-69 (archivio storico delle Arti Contemporanee della Biennale di Venezia); p. 75 (foto S. Ligios) Stampa Fotolito Longo Ringraziamenti ASAC, Lorenzo Carletti, Renato Carozzi, Antonietta e Vittoria Ciusa Mascolo, Pietro Ciusa, Massimiliano Bernardi, Giovanna Bernardini, Maria Giulia Faggioni, Alessio Giannanti, Salvatore Ligios, Annalia Petazzi, Manuela Putzolu, Tore Sanna, Massimo Spiga, Angelo Tilocca

© 2007 ILISSO EDIZIONI www.ilisso.it ISBN 978-88-6202-015-2

Coordinamento Caterina Virdis Cura Giuliana Altea, Anna Maria Montaldo Collaborazioni Giannetta Murru Corriga, Giuseppe Donegà, Paolo Piquereddu, Maria Giovanna Piano, Paolo Sanjust Organizzazione Serafina Mascia Materiali didattici Ifold Allievi Progetto PAN, Programma Parnaso POR Sardegna Segreteria Circolo Culturale Sardo “Eleonora d’Arborea”, Padova Circolo Culturale Sardo “Ichnusa”, Venezia-Mestre Anna Maria Masala, Maria Teresa Deriu, Maria Bonaria Coni Allestimento Roberto Zanon Patrocini e contributi Regione Sardegna, Regione Veneto, Comune di Cagliari, Comune di Venezia, Comune di Nuoro, Provincia di Cagliari, Provincia di Nuoro, Provincia di Sassari, Provincia di Venezia, Fondazione Banco di Sardegna, Tirrenia di Navigazione, Ferpi, ANMLI (Associazione Nazionale Musei Locali e Istituzionali) Prestiti Si ringraziano, per la fattiva collaborazione nel prestito delle opere: Antonella Purpura, Direttore Galleria Comunale d’Arte Moderna di Palermo; Maria Vittoria Marini Clarelli, Direttore Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma; Barbara Tomassi, Responsabile Ufficio Prestiti della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma; Alessandra Giudici, Presidente Provincia di Sassari; Giancarlo Deidda, Presidente della Camera di Commercio di Cagliari; Giorgio Pellegrini, Assessore alla Cultura del Comune di Cagliari; Antonietta e Vittoria Ciusa Mascolo; Pietro Ciusa


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Indice

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Premessa Giuliana Altea, Anna Maria Montaldo

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Francesco Ciusa: gli anni delle Biennali (1907-1928) Giuliana Altea

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Francesco Ciusa: ritorno a Venezia Anna Maria Montaldo

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Catalogo

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Biografia Antonella Camarda

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Appunti inediti di Francesco Ciusa

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Bibliografia schede


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Francesco Ciusa: gli anni delle Biennali (1907-1928) Giuliana Altea

Francesco Ciusa in una foto di fine Ottocento.

Francesco Ciusa si direbbe destinato a rimanere uno di quegli artisti noti per una sola opera. Nel suo caso si tratta de La madre dell’ucciso, con cui ottenne, giovanissimo, un’improvvisa e inaspettata affermazione alla Biennale di Venezia del 1907: un gesso raffigurante una vecchia contadina sarda, accovacciata con le ginocchia strette fra le mani, nell’atto tradizionale della veglia funebre; scultura che, mentre serba traccia dei recenti studi fiorentini dell’autore nella salda costruzione anatomica e in qualche ricordo quattocentesco, deriva dal contrasto tra la posa raccolta e statica e la resa realistica dei dettagli la sua intensità espressiva. Benché da vent’anni a questa parte gli sia stato dedicato più di uno studio monografico,1 è a quell’opera iniziale che si continua a legare il nome dello scultore sardo ogni qual volta lo si citi nell’ambito di ricognizioni più generali dell’arte italiana; e, di conseguenza, si continua a ricondurlo automaticamente a un’espressività di timbro verista che non è se non una delle componenti del suo lavoro,2 e che da un certo punto in poi viene da lui abbandonata quasi del tutto.3 Dopo La madre dell’ucciso, infatti, Ciusa, raccogliendo gli stimoli di un clima figurativo di cui avvertiva intorno a sé il rapido mutamento, ha maturato il suo discorso in direzioni nuove, anche se coerenti con un nocciolo poetico fortemente sentito, che vi era presente fin dall’inizio. Inoltre, se il percorso dell’artista non si arresta dopo il fortunato gesso del 1907, non comincia neppure con questo. Come ricordava Rossana Bossaglia,4 a rigore La madre non costituisce un principio, ma piuttosto un debutto su un palcoscenico di grande visibilità: nel momento in cui si presentava a Venezia, lo scultore aveva infatti lasciato da tre anni l’Accademia, e aveva dunque alle spalle un certo numero di prove autonome,5 di cui almeno il gesso Alla fonte (1904) anticipava per più d’un aspetto La madre.6 Fare di quest’ultima la cifra dell’intero sviluppo di Ciusa è quindi una semplificazione riduttiva e ingiustificata. Ciò non toglie, però, che la fase che si apre con il successo della scultura alla Biennale del 1907 rappresenti il momento centrale della vicenda dell’artista. Da allora in poi e fino alla seconda metà degli anni Venti le sue ricerche trovano accoglienza a Venezia e in altre mostre internazionali e nazionali, e Ciusa, malgrado qualche esitazione che sembra averne a tratti frenato la partecipazione al confronto espositivo, è una presenza attiva sulla scena della scultura. Il periodo tra il 1907 e il 1928, compreso tra la prima e l’ultima sua apparizione alla Biennale – sul quale si incentra questa mostra – è per lui il più fertile di risultati creativi, pur tra difficoltà, diversioni e pause dovute alla situazione periferica in cui si trovava ad operare, e forse anche a un carattere incline all’entusiasmo come a subitanei moti di scoraggiamento.7 In seguito, la sua opera registra più frequenti incertezze e oscillazioni, mentre si rarefanno o scompaiono i lavori d’impegno, fino al silenzio pressoché totale degli ultimi anni. Se questo pattern di carriera “discendente” contribuisce a spiegare la perdurante identificazione di Ciusa con l’opera d’esordio da parte della critica, nel contesto d’origine dell’artista essa è dovuta invece all’investimento simbolico di cui La madre dell’ucciso fu oggetto da parte della cultura sarda d’inizio secolo. In un momento in cui la Sardegna era attraversata da forti spinte di rinnovamento sociale ed economico, e il suo ceto intellettuale si concentrava sull’elaborazione di un nucleo di valori identitari che ne sostenessero il distacco da un passato di soggezione semicoloniale,8 il successo di uno scultore sardo in un importante foro artistico europeo venne visto come l’annuncio di una nuova era per l’Isola, e finì per assumere agli occhi dei conterranei di Ciusa un senso quasi mitico.9 Quando si pensi che 9


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La filatrice, prima del rifacimento degli anni Trenta, da Sardegna, n. 5-6, maggio-giugno 1914. La filatrice, 1908-09 (particolare) gesso, 188 x 52,5 x 44 cm, Cagliari, Galleria Comunale d’Arte.

stessi interessi sociali maturati, oltre che negli ambienti sardi, in quello fiorentino, che lo aveva visto in contatto con artisti come Nomellini, Viani – suo compagno alla scuola libera del nudo –, Sacchetti, Andreotti33 e Pellizza.34 È sintomatico il fatto che quando, cercando uno spunto adatto per Venezia, aveva pensato per un attimo di rinunciare alle predilette scene popolari per un soggetto storico, avesse scelto comunque un brano di storia locale: un gruppo di “sardi venales” (cioè di schiavi sardi in vendita, secondo l’espressione di Cicerone), che gli avrebbe permesso di mostrare, sotto le ridotte vesti di pelli, la propria competenza nel campo del nudo, ma che poi finì per distruggere, optando invece per un’immagine quotidiana e antiretorica, moderna e antica al tempo stesso.35 Peraltro, è noto che nel clima europeo di quegli anni regionalismo e nazionalismo facevano parte di un sentire diffuso, che dettava le stesse categorie di ricezione delle opere d’arte; e mai in modo così chiaro come a Venezia, dove il criterio dell’appartenenza nazionale scandiva il ritmo di cronache e recensioni e, dal 1901, l’allestimento della mostra si articolava per sale regionali.36 Abbastanza curiosamente, la caratterizzazione sarda della Madre dell’ucciso sembra sfuggire nel 1907 ai commentatori, che ne colgono soltanto la connotazione genericamente popolare;37 così come sfuggono, al di là dell’aneddoto, le implicazioni simboliche della scultura, che nell’impianto frontale e simmetrico, nella statica e spoglia solennità della posa intendeva evocare tutto un mondo di violenza e di rassegnazione, di fatalismo e di chiusa ritualità. 12


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Va ricordato, a questo proposito, come l’apprendistato fiorentino avesse visto Ciusa inserito in un ambiente intento a sviluppare in senso moderno le indicazioni del vecchio Fattori verso la rappresentazione della realtà rurale in modi essenziali, arcaici e solenni,38 secondo una coesistenza di proposte realistiche e idealistiche che può aver contribuito a orientare le sue scelte. In questa direzione, in ogni caso, Ciusa muoverà con maggiore chiarezza dopo il 1907; verrà infatti accentuando progressivamente la carica di significazione delle sue opere, sull’onda della crescente marea simbolista di cui la Sala del Sogno alla Biennale era stata sintomo, ma anche in risposta a sollecitazioni che gli venivano dall’ambiente sardo. Nel 1904 Salvator Ruju, poeta sassarese molto vicino a Ciusa, nel salutarne gli inizi aveva segnalato i limiti che gli pareva di scorgere nella sua ispirazione: «Potrà essere artista sano e vigoroso, anche significativo e squisito se amerà la coltura. Grande no: non è un artista poeta e filosofo, non avrà forse mai il senso di ciò che è esteticamente e socialmente universale».39 Con La madre dell’ucciso, Ciusa aveva implicitamente risposto, dimostrando la propria attitudine al ruolo di «poeta e filosofo»; non a caso, proprio a Ruju aveva descritto il gesso come parte di un «poema plastico», I cainiti, «ideazione larga» volta a «illustrare la vita primitiva della sua Barbagia»: «evocazione di una fosca ballata che si allontana sempre più da monte a monte, verso la luce … Mito, leggenda e realtà viva».40 A questo ciclo, che attinge a una riserva di episodi sedimentati nella memoria dai tempi dell’infanzia e narrati nelle note autobiografiche, si legheranno per un ventennio quasi tutte le opere maggiori di Ciusa, incentrate su momenti, sentimenti e valori intesi come fondanti la vita popolare.41 Ancora vicino alla Madre è Il pane, realizzato nella seconda metà del 1907: il tema, che rivestiva una centralità simbolica nella società tradizionale sarda, e in generale nella cultura contadina,42 suggerisce un gesto lento e grave, fermato nella linea ad angolo retto della donna seduta a terra, intenta ad impastare. Esposta agli Amatori e Cultori di Roma,43 la scultura fu bene accolta, ottenendo tra l’altro l’approvazione di Pica,44 ma in Sardegna suscitò perplessità. Il viso assorto, che si accordava all’effetto di arcaismo prodotto dalla posa rigida, fu ritenuto inespressivo, e all’artista venne rimproverato un eccesso di descrittivismo che andava contro gli intenti universalizzanti del lavoro.45 Non sappiamo quanto abbiano pesato questi giudizi. Certo è che Ciusa sentiva profondamente la propria responsabilità nei confronti dell’ambiente locale e del compito che questo gli assegnava, al punto da sacrificargli opportunità che sarebbero state

Il dormiente, 1909 bronzo, 28,4 x 116,4 x 50 cm, Cagliari, collezione privata.

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L’ucciso figura alla Biennale nel Salone internazionale, collocazione onorifica, ma che nel 1922 implica l’inserimento in un contesto un po’ datato sul piano del gusto e fortemente caratterizzato in senso decorativo.97 Il lavoro di Ciusa, comunque, viene notato da pochi: da Raffaele Calzini, che vi coglie un ammorbidimento e un’idealizzazione rispetto al realismo degli inizi,98 e ancora una volta da Sapori, che segnala il ‘ritorno’ dell’artista con qualche enfasi, lamentandone il lungo silenzio interrotto solo da lavori di tono minore. Dell’Ucciso mostra considerazione, ma avanza pure alcune riserve: «La tecnica m’interessa, la faticosa composizione pure; ma l’insieme mi lascia qualche dubbio, che cancellerei volentieri se sapessi il Ciusa occupato in altre opere, nelle quali ho viva fede».99 Occupato, Ciusa lo era, come si è detto. Mentre usciva l’articolo di Sapori, si accingeva a licenziare il bozzetto di un’altra importante scultura, il monumento ai caduti di Iglesias; lavoro di commissione, ma sul quale era riuscito a proiettare valori a lui 20

Monumento ai caduti, 1923-28 (particolare) marmo, Iglesias, piazza Oberdan. Vibrazioni di violino, 1920-23 stucco a marmo, 26,7 x 26,3 x 22 cm. Auguste Rodin, Il pensatore, 1880 bronzo, Parigi, Museo Rodin.


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Deposizione, 1922-26 (particolare) gesso, 62 x 225 x 155 cm, Cagliari, Galleria Comunale d’Arte.

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cari, facendone un’opera profondamente personale. Sull’iniziale spunto rodiniano (dal Penseur deriva la figura del soldato seduto, seminascosta dal non meno rodiniano nudo del soldato morto) si innesta il gruppo della madre col bambino, che rimanda nella posa e nell’espressione dei volti a opere come Il ritorno e Sacco d’orbace.100 Carico di pathos violento e di tensione dinamica pur nella forma chiusa e bloccata, condensa la visione dolorosa che Ciusa aveva dell’esistenza molto più di quanto non celebri la gloria della vittoria e il sacrificio dei caduti; proprio per questo non piacque ai committenti, che richiesero l’aggiunta di una Vittoria, rompendo così l’unità plastica del gruppo. Il lavoro per il monumento di Iglesias si protrae fino al 1927:101 un periodo che, se non vede lo scultore riapparire in una Biennale in cui si era annunciata fin dal 1924 la svolta novecentista,102 è comunque per lui molto intenso, segnato dall’assunzione di ruoli di responsabilità in ambito espositivo (organizza la partecipazione sarda alla Quadriennale torinese del 1923 e alla mostra itinerante sulla nave Italia nel 1924) e soprattutto in quello didattico. Nel 1925 prende infatti la direzione della Scuola d’arte applicata aperta ad Oristano per iniziativa di Paolo Pili, esponente di spicco del fascismo locale, impegnato nella realizzazione, con gli strumenti offerti dal regime, di alcune delle istanze sostenute all’inizio del decennio dal movimento sardista.103 Al di là dell’incarico oristanese, Ciusa sembra esser stato molto vicino al gerarca,104 da cui riceve diverse commissioni. Una di queste è la tomba della famiglia Pili a Seneghe, per la quale lo scultore recupera l’idea della Deposizione già abbozzata nel 1922. Ricollegandosi all’Ucciso per decantarne i sedimenti veristi, crea un’opera che, fondendo l’iconografia della crocifissione con quella del Cristo deposto, si mostra densa di richiami wildtiani nell’estenuazione patetica dei volti, nell’esasperata tensione e nell’avvolgersi manieristico delle superfici.105 Se la Deposizione raggiunge esiti fortemente suggestivi, meno felice sembra l’altro lavoro commissionato da Pili, un monumento al generale Asclepia Gandolfo (1927), regista dell’operazione politica che nel 1923 portò un’ala della dirigenza del partito sardista a confluire nel fascismo.106 Alle prese con un tema non facile, Ciusa concepisce una struttura a forma di prua di nave, ornata da un medaglione col ritratto del Gandolfo e sormontata da un lato da un “genio della Vittoria”, dall’altro da un altorilievo con una coppia di amanti che si baciano, simboleggiante la “Sardegna pacificata”. Allo stesso momento risale il monumento ai caduti di Cabras, un’opera finora sfuggita agli studiosi che si sono occupati dello scultore.107 Ciusa vi tiene conto dell’amara esperienza fatta con i committenti a Iglesias: evitando deliberatamente soluzioni compositive complesse, punta su una singola figura eretta, un soldato appoggiato a uno scudo, con in mano l’inevitabile Vittoria. Tornano qui una serie di elementi presenti nei lavori coevi: il volume compatto della figura, chiusa nel lungo cappotto militare, viene da Sacco d’orbace, il motivo dello scudo, non privo di ricordi rinascimentali (la lieve rotazione richiama il San Giorgio di Donatello), deriva da Iglesias e dal bozzetto del monumento a Gandolfo, mentre soprattutto da quest’ultimo provengono i tratti marcati del viso del milite. L’opera, non del tutto risolta (l’attenzione dello scultore sembra essersi concentrata sulla parte superiore della statua, o forse il bozzetto fu mal tradotto dagli esecutori),108 sfugge però in gran parte alla retorica che inquina tanti monumenti ai caduti, e si mostra fedele alla ricerca di sintesi perseguita da Ciusa in questa fase. 21


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L’esperienza del realismo sociale, declinato da scultori italiani in prevalenza di simpatie socialiste, nella rappresentazione dei diseredati della terra, è presente a Ciusa e ne influenza il lavoro senza però determinarlo. È assente infatti dall’opera sia la vis polemica e il tono di denuncia sia la stucchevolezza pietistica di molte delle sculture di orfani, poverelli e lavoratori dell’epoca. La madre dell’ucciso è un’opera che conserva ancora oggi intatta la sua forza. Per Nereide Rudas «la figura impone due temi universali antitetici: quello della maternità/vita e quello del dolore/morte che si fondono emblematicamente in un’unica esperienza» (Rudas, 1997, p. 127). «La suggestione che esercita proviene dal contrasto tra la posa, rigida e bloccata, e il naturalismo della resa» (Altea, 2004, p. 14), costituendo nello sviluppo dell’artista un momento di trapasso tra realismo e simbolismo (Altea, 1989; Bossaglia, 1990). (A. Camarda)

Esposizioni Venezia, VII Biennale Internazionale d’Arte, 1907; Firenze, Società Promotrice delle Arti, 1908; Cagliari, I Mostra d’Arte Sarda, Istituto Anatomico, 1921; Sassari, I Biennale d’Arte Sarda, Palazzo della Regia Università, 1928; Carrara, I Mostra Celebrativa del Marmo di Carrara, 1934; Cagliari, personale alla Galleria Comunale d’Arte, 1939; Venezia, Mostra d’Arte Moderna della Sardegna, Opera Bevilacqua La Masa, 1949; Roma, Mostra d’Arte Moderna della Sardegna, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, 1950; Cagliari, personale agli Amici del Libro, 1951; Nuoro, personale al Museo della Vita e delle Tradizioni Popolari Sarde, 1974; Milano, Arte e socialità, Palazzo della Permanente, 1979; Nuoro, Miti Tipi Archetipi, Casa-Museo Grazia Deledda, 1989; Roma, L’Italia dei Cento Musei, Castel Sant’Angelo, 2000; Palermo, Da Antonello a De Chirico. La ricerca dell’identità, Albergo delle Povere, 2003; Nuoro, Francesco Ciusa. L’ultimo capolavoro, Ex Tribunale, 2006. Bibliografia Alberti, 1913; Altea, 1989; Altea, 2004; Altea, Magnani, 1995; Atti, 1991; Bossaglia, 1990; Branca, 1974; Branca, 1975; Carta Raspi, 1927; Catalogo, 1999; Cento musei, 2000; De Martino, 1958; Demuro, 1994; “Esposizione di Venezia”, 1907; Greco, 1999; Guidoni, 1907; Imeroni, 1907; “La rivelazione”, 1907; L’Italico, 1907; Lussu, 1951; Marescotti, 1907; Masala, 1907; Montaldo, 2003; Montalto, 1907; Nomellini, Pictor, 1907; “Notizie artistiche”, 1907a; “Notizie artistiche”, 1907b; Ojetti, 1907a; Ojetti, 1907b; Ojetti, 1907c; Pica, 1907; Rudas, 1997; Ruju, 1907; Sari, 1907; Satta, 1910; Uzzani, 1995; Viceversa, 1907.

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Il pane

1907 bronzo, 68,8 x 49 x 105 cm, Cagliari, Camera di Commercio

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La scultura è il primo importante lavoro che Ciusa realizza dopo La madre dell’ucciso. Iniziata a modellare nel dicembre del 1907 (Deffenu, 1972), l’opera rappresenta la figura di una popolana abbigliata con indumenti tipici dell’abito tradizionale isolano, mentre si accinge alla lavorazione del pane: seduta con la schiena curva e le braccia allungate davanti a sé, plasma, con mani energiche e vigorose legate dall’incrociarsi dei pollici, l’impasto appoggiato sulla pala di legno. Il tema, che inevitabilmente ci riporta agli esempi prodotti nell’ambito del verismo sociale di fine Ottocento, assume in Ciusa un significato simbolico profondo, lontano sia dalla semplice documentazione del vero che da un manifesto impulso di denuncia. Accostata più volte per la posa al celebre Proximus tuus di Achille D’Orsi (Altea, 1989; Bossaglia, 1990), Il pane attesta la sua specificità nella tonalità espressiva: il percorso intrapreso dall’artista «mira a superare, per via di un fondamentale idealismo formale di ascendenza classicistica, quell’approccio ravvicinato al soggetto, inteso dai suoi primi maestri nella esteriore identità ottica» (Naitza, 1991b). La scultura si conosce in due versioni in bronzo, realizzate nel 1927 su commissione del Consiglio Provinciale delle Corporazioni di Cagliari, l’attuale Camera di Commercio, una per la nuova sede dell’ente, l’altra per il Padiglione Nazionale dell’Agricoltura della Fiera di Milano; il modello in gesso è andato perduto con certezza dopo il 1923, ossia dopo l’esposizione alla Quadriennale di Torino, nella quale è documentata la presenza del modello originale (Bossaglia, 1990). Dopo una prima, brevissima, esposizione a Nuoro nel 1908 (Burchiello, 1908), l’opera viene inviata a Roma alla Mostra degli Amatori e Cultori di Belle Arti, quindi a Faenza e due anni dopo a Bruxelles. Sebbene non riesca a rinnovare presso la stampa il grande successo del primo capolavoro, Il pane suscita l’attenzione della critica: Vittorio Pica lo loda e lo pubblica sulla rivista Emporium, ritenendolo «per nulla inferiore alle speranze fatte sorgere d’improvviso a Venezia» con La madre dell’ucciso (Pica, 1908); altri lo ritengono opera degna di incoraggiamento, benché ancora non capace di esprimere profondamente i caratteri dell’anima sarda (Butta, 1908); da altri ancora è giudicato lavoro superiore alla Madre per l’impeccabile bravura nella resa dei particolari del costume e delle fattezze del volto, mentre risulta decisamente deludente per il modo in cui viene trattato l’universale tema del pane, costretto nell’ambito di una espressione regionale puramente descrittiva (Pirisi, 1908).

Tuttavia negli intenti dello scultore, dichiarati in un’intervista del 1909, non c’era il proposito di trascendere la dimensione locale, quanto piuttosto la volontà di dar voce al mondo popolare sardo rivelandone l’intima religiosità: secondo le parole di Ciusa, riferite da un cronista, la dignitosa figura di contadina che impasta il pane intendeva dare l’impressione di «una sacerdotessa compiente un rito quasi divino» (Alberti, 1909). Pochi anni dopo la realizzazione della scultura, Mario Berlinguer, scrivendo di Ciusa sulla rivista Sardegna, parla di «misticismo nella passione» e in modo particolare di «espressione mistica» nel Pane, descrive il volto della figura «levigato come quello dei santi, che si offrono all’adorazione dei pellegrini, corrosi di mille baci» e definisce lo scultore come «sacerdote della sua arte» animato «da una commozione ieratica che fonde il suo spirito con quello della stirpe sarda» (Berlinguer, 1914). Con Il pane Ciusa affronta, dopo quello del lutto rappresentato dalla Madre dell’ucciso, un altro momento della vita popolare isolana, puntando a trascendere la dimensione episodica per scoprirne le strutture permanenti, le forme archetipe nascoste (Altea, Magnani, 1995). Il tema del lavoro, trattato anche nella Filatrice, è considerato una pausa di serena meditazione in quella che è stata definita una tragedia ciclica (Ciusa Romagna, 1950), in relazione al «gruppo o poema plastico, I cainiti» cui Ciusa riferiva le sue opere maggiori; ciclo che, iniziato con La madre, avrebbe dovuto «illustrare la vita primitiva» della Barbagia (Ruju, 1907). Al contrario altri hanno letto nel Pane un racconto della tragedia quotidiana, il pane per il marito pastore che non ritorna, una narrazione che trova ispirazione nei ricordi dell’artista fissati nelle pagine autobiografiche: «Ieri da sola e senza aiuto alcuno ho impastato il pane, perché il mio cuore lo trovasse più dolce. Tutto da sola, l’ho impastato! Infornato l’ho in quella fiamma, che mai più vedrà la mia casa … Anche lui hanno sgarrettato, ucciso hanno il cuore di mio figlio. Oh Dio, cosa mi lasci a fare? Cosa sono io, sola su questa terra? Guardatelo sorelle, il pane; impastato da sola, guardatelo sul canestro, sopra la cassa, guardatelo bene il pane della morte». (F. Ciusa, “Pagine autobiografiche”, in Branca, 1974). Ma nel volto della panificatrice si colgono, piuttosto che dolore per la morte, concentrazione e severità nel compimento di un gesto rituale. La posa consueta, domestica assume il carattere di un antico cerimoniale che si ripete immutato nel corso dei secoli. Ciusa individua nel rito il momento centrale dell’esistere collettivo, in cui si attua l’integrazione piena


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Il nomade

1908-09 gesso, 95 x 60 x 46 cm Cagliari, Galleria Comunale d’Arte

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Il gesso è stato realizzato tra il 1908 e il 1909, momento in cui Ciusa da Nuoro si è trasferito a Cagliari. Nel 1983 è stata tratta la copia in bronzo di proprietà del Comune di Cagliari. Il nomade è esposto per la prima volta, insieme alla Filatrice, alla Biennale di Venezia del 1909: Guido Marangoni, nella recensione alla mostra, dichiara lo scultore, «benché promettentissimo», inferiore alle speranze alimentate dal successo della Madre (Marangoni, 1909), mentre critici d’arte di primo piano come Vittorio Pica e Ugo Ojetti non sembrano notare l’opera, ed esprimono apprezzamenti soltanto per La filatrice (Ojetti, 1909; Pica, 1909). La scultura è stata concepita inizialmente a figura intera e deriva il suo aspetto attuale dalla rottura delle gambe, verificatasi nel corso di un trasloco; una testimonianza circa il suo aspetto originario è contenuta in un’intervista del 1909 a Nino Alberti: «Le gambe sono leggermente curve e ben staccate: ho voluto che la figura desse l’impressione del movimento e credo d’esserci riuscito. Intorno a lui soffia un vento impetuoso e lo indicano le volute del manto e delle maniche» (Alberti, 1909). Come si legge nelle pagine autobiografiche redatte da Ciusa negli ultimi anni della sua vita, Il nomade rappresenta un venditore ambulante di scarpe che l’artista aveva conosciuto a Nuoro da bambino: «Veniva qui ogni mese da Orani un uomo con la bisaccia piena di scarpe nuove e aggiustate. Quest’uomo faceva il giro di tutti i paesi del circondario di Nuoro, per poi rientrare ad Orani, riempire di nuovo la bisaccia e ripartire … L’uomo di Orani aveva un’espressione colma di tristezza; gli occhi velati di malinconia, fissi in lontananza, quasi deliranti; viso scarno e zigomoso, capelli lunghi, pochi peli alle due parti del mento e “la mosca”: pareva un’asceta» (F. Ciusa, “Pagine autobiografiche”, in Branca, 1974). L’immagine della quotidianità rimane impressa nella memoria dell’artista che la rappresenta oltrepassando la dimensione episodica e approdando ad una trasposizione in termini mitici: il venditore ambulante personifica l’inquietudine esistenziale, ma anche l’anelito verso il domani, in cui si sublima l’aspirazione verso il riscatto della Sardegna (Altea, Magnani, 1995). Remo Branca, nel sottolineare l’universalità del tema del Nomade, ha scorto nello sguardo e nella tensione nel volto della figura «il concetto stesso dell’uomo che sogna la meta che non raggiunge mai e che nel suo andare ritrova se stesso» (Branca, 1975). Dopo il lutto nella Madre e il lavoro nel Pane e nella Filatrice, Ciusa affronta così un altro aspetto della vita popolare isolana, meno concreto ma non

meno significativo. Muovendosi entro le polarità del realismo e del simbolismo, come molti scultori nel primo decennio del XX secolo, carica l’immagine di significati trascendenti che approdano ad atmosfere di solenne religiosità: egli stesso, in un’intervista del 1909, descrivendo il costume tradizionale indossato dal Nomade, paragona il cappuccio al «piviale d’un celebrante» (Alberti, 1909). L’opera prosegue il cammino intrapreso con La madre dell’ucciso: la stilizzazione, che non preclude una forte caratterizzazione dell’immagine, è riconducibile all’adozione di un preciso schema geometrico e la figura appare racchiusa entro un netto volume piramidale; fortemente accentuata, inoltre, è la ricerca di frontalità e simmetria (Altea, 1989). Nel Nomade, come in tutte le opere degli anni Dieci, è ben visibile la traccia dell’educazione accademica, così come il richiamo agli esempi della grande scultura rinascimentale studiati a Firenze negli anni giovanili, come già ricorda Tavolara nel 1949 in un articolo dedicato all’opera dello scultore (Tavolara, 1949). Il rimando va agli esempi della ritrattistica quattrocentesca e in particolare alla moderna interpretazione del classico nell’opera di Donatello. Ad un primo sguardo l’intensità espressiva del Nomade fa pensare alle sculture per il Campanile di Giotto e, come nei Profeti, ogni elemento del corpo contribuisce a rafforzare l’efficacia comunicativa: la profondità dello sguardo è accentuata dal leggero movimento del capo e probabilmente dalla postura delle gambe, visto che lo stesso Ciusa parla di «andatura fatale di un uomo che ha incerta la via» (Alberti, 1909). Tuttavia nell’opera dello scultore l’urgenza espressiva non genera mai una forzatura o uno stravolgimento di forma, quanto piuttosto un suo irrigidimento. All’interno del lessico classicista, la via dell’intensità perseguita coincide, infatti, con quella della riduzione formale (Altea, 1991), senza mai sconfinare nell’anticlassicismo. (R.P. Ladogana) Esposizioni Venezia, VIII Biennale Internazionale d’Arte, 1909; Cagliari, I Mostra d’Arte Sarda, Istituto Anatomico, 1921; Torino, Quadriennale, Esposizione Nazionale di Belle Arti, Palazzo della Promotrice, 1923; Sassari, I Biennale d’Arte Sarda, Palazzo della Regia Università, 1928; Cagliari, personale alla Galleria Comunale d’Arte, 1934; Venezia, Mostra d’Arte Moderna della Sardegna, Opera Bevilaqua La Masa, 1949; Roma, Mostra d’Arte Moderna della Sardegna, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, 1950; Cagliari, personale agli Amici del Libro, 1951; Nuoro, personale al Museo della Vita e delle Tradizioni Popolari Sarde, 1974; Nuoro, Miti Tipi Archetipi, Casa-Museo Grazia Deledda, 1989.


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Bibliografia Alberti, 1909; Altea, 1989; Altea, 1991; Altea, 2004; Altea, Magnani, 1995; Atti, 1991; Bossaglia, 1990; Branca, 1974; Branca, 1975; Carta Raspi, 1927; Marangoni, 1909; Montaldo, 2003; Ojetti, 1909; Pica, 1909; Tavolara, 1949.


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La filatrice

1908-09 bronzo, 188,8 x 52,5 x 77 cm Cagliari, Palazzo Civico

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Il gesso originale, realizzato tra il 1908 e il 1909, in un periodo di attività straordinariamente fertile, ed esposto insieme a Il nomade alla Biennale di Venezia del 1909, costituisce un approfondimento della poetica di Ciusa, che dopo la drammatica rappresentazione del lutto espressa con La madre dell’ucciso affronta, così come già fatto ne Il pane, il tema della sacralità dell’umile lavoro quotidiano. Ad ispirare l’opera è un episodio che l’artista racconta nelle note autobiografiche, il ricordo ancora vivo della bella ragazza nuorese che ne turbava i sensi, quando, adolescente, la osservava filare al balcone. Salvatora, questo il nome della fanciulla, «si era collocata al sommo del suo spirito come la conocchia sollevata verso il cielo dalle nude e scarne sue braccia. Era lei, più del fuso un fuso! … il viso sollevato al cielo … [la] lana avvolta nella conocchia, con gli occhi ceruli rivolti all’azzurro, la fanciulla si librava nell’infinito quasi in sacro rito» (F. Ciusa, “Pagine autobiografiche”, in Branca, 1974). La scultura, nella quale la ricerca formale si spinge sino ai limiti del virtuosismo e i debiti al linearismo liberty e al Quattrocento fiorentino sono evidenti, acquista la concretezza della realtà e, insieme, la distanza del mito. In sintonia con gli esiti coevi della plastica secessionista – si pensi a Ivan Mesˇtrovicˇ – nella produzione di Ciusa di questi anni si osserva un’accentuazione della nota simbolica, che coesiste con una forte caratterizzazione dell’immagine, anzi proprio da questa trae origine (Altea, Magnani, 1995). La massima essenzialità viene ricercata attraverso una misurata ed elegante composizione dei volumi: l’esile figura della filatrice slancia verso l’alto le braccia che reggono il fuso, creando, con queste e con le ampie maniche, un movimento geometrico nello spazio. Il carattere rituale del gesto, il volto intensamente vero ma impenetrabile come una maschera rivelano – come la critica ha sottolineato – l’accentuazione religiosa che Ciusa ha voluto imprimere al tema del lavoro (Branca, 1975). Segnalata positivamente da Ojetti, che la definì “ottima” pur rilevandone il tono “goticheggiante” (Ojetti, 1909), la scultura non riuscì però a eguagliare il plauso tributato a La madre dell’ucciso. Sarebbe toccato a Remo Branca (1933) sottolinearne il valore anche in rapporto all’opera d’esordio, indicandone nel contempo quel carattere “ellenistico” che, presente anche in altre opere dell’artista, costituirà un “filtro formale” utilizzato per comporre uno dei risultati più personali e suggestivi dell’arte italiana dei primi decenni del ’900 (Naitza, 1991b).


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La prima versione in gesso dell’opera si ruppe durante il trasporto da Sassari (dove era stata esposta nel 1928 alla prima Biennale d’Arte Sarda) a Cagliari; l’artista eseguì quindi una replica dallo stampo originale, in una data collocabile verosimilmente tra il 1933, anno in cui il gesso venne visto ancora a Sassari da Branca, e il 1939. Come risulta dal confronto tra la versione oggi nota e la foto pubblicata da Mario Berlinguer (1914), in questa occasione fu modificata la posizione delle mani. La fusione in bronzo è stata realizzata nel 1983. (M.T. Steri)

Esposizioni Venezia, VIII Biennale Internazionale d’Arte, 1909; Cagliari, I Mostra d’Arte Sarda, Istituto Anatomico, 1921; Torino, Quadriennale, Esposizione Nazionale di Belle Arti, Palazzo della Promotrice, 1923; Sassari, I Biennale d’Arte Sarda, Palazzo della Regia Università, 1928; Cagliari, personale alla Galleria Comunale d’Arte, 1939; Venezia, Mostra d’Arte Moderna della Sardegna, Opera Bevilacqua La Masa, 1949; Roma, Mostra d’Arte Moderna della Sardegna, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, 1950; Cagliari, personale agli Amici del Libro, 1951; Nuoro, personale al Museo della Vita e delle Tradizioni Popolari Sarde, 1974; Nuoro, Miti Tipi Archetipi, Casa-Museo Grazia Deledda, 1989; Roma, Il lavoro che cambia: mestieri tra identità e futuro, Complesso del Vittoriano, 2007. Bibliografia Alberti, 1909; Altea, 1989; Altea, 2004; Altea, Magnani, 1995; Atti, 1991; Berlinguer, 1914; Bossaglia, 1990; Branca, 1933; Branca, 1974; Branca, 1975; Carta Raspi, 1927; Marangoni, 1909; Montaldo, 2003; Naitza, 1991b; Ojetti, 1909.

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Il Golfo degli angeli

1914 ca. stucco a marmo, Ø 41 cm Cagliari, collezione privata

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La figura a bassorilievo della sirena, adagiata con andamento semicircolare sul fondo del piatto è il simbolo del golfo di Cagliari a cui l’opera è intitolata (Bossaglia, 1990). Ascrivibile a tipologie medievali (Romito, 1999), il soggetto della sirena caudata ricorre anche nell’opera di artisti come Duilio Cambellotti, alla cui produzione Ciusa si è probabilmente ispirato. Il motivo della spiga, che corre ritmicamente lungo l’orlo a simboleggiare fertilità e abbondanza, si avvicina nello stile agli stucchi con fasci di spighe retti dalla teoria di putti che l’artista realizza nella Sala dei Consiglieri del Palazzo Civico di Cagliari tra il 1913 e il 1914, andati perduti in seguito ai bombardamenti del secondo conflitto mondiale (Altea, 2004). Nella decorazione del palazzo sono congiunti, così come nel piatto, il campo e il mare, «le due forze gemelle dalle quali attende l’isola la sua rigenerazione» (Alberti, 1915). Dell’opera, della quale si conoscono diversi esemplari tradotti in gesso, stucco a marmo e terracotta con varianti nel trattamento della patina, esistono versioni incassate entro base quadrata. Originariamente sprovvisto di base, il modello in gesso è documentato in una fotografia databile al 1912 che ritrae l’artista insieme all’amico e poeta Sebastiano Satta, morto alla fine del 1914. Il grande piatto decorativo fu esposto per la prima volta nel luglio del 1932 alla personale alla Galleria Miramare di Cagliari; è in questa occasione che Ciusa presentò ufficialmente la “pasta marmorea”, un materiale che gli permise di incrementare qualitativamente la produzione di multipli superando così le difficoltà nella lavorazione tecnica. Il piatto rappresenta certamente un esempio precoce, se non il primo, della produzione seriale dell’artista, il quale di lì a poco, nel 1919, avrebbe fondato a Cagliari la Manifattura SPICA, Società per l’Industria e Ceramica Artistica, contraddistinta anch’essa dal marchio recante il cerchio con spighe di grano, che fino al 1924 avrebbe realizzato scatole, bomboniere, cofanetti, statuette in terracotta policroma ispirati alla tradizione sarda sia nei temi sia nei motivi decorativi. La produzione ceramica non ebbe, nonostante i consensi che valsero all’artista il Diploma d’Onore alla prima Biennale Internazionale delle Arti Decorative di Monza del 1923, i successi sperati sul piano economico e la ditta chiuse dopo breve tempo. Ne Il Golfo degli angeli lo scultore, memore dell’apprendistato fiorentino, guarda alle terrecotte quattrocentesche toscane e ai bassorilievi di Donatello,

unendo alle suggestioni del periodo classico un gusto di sapore secessionista. La volontà di sintesi dell’artista si traduce nell’acquisizione delle eleganti cadenze dello stile ornamentale déco, orientato però al recupero di un lessico geometrizzante e severo che trae origine dal repertorio dell’artigianato tradizionale (Altea, 1991). (G. Aromando)

Esposizioni Cagliari, personale alla Galleria Miramare, 1932; Nuoro, Mostra Regionale di Pittura – Scultura – Bianco Nero, Celebrazioni in onore di Sebastiano Satta nel 50° della morte, 1964-65; Cagliari, Francesco Ciusa. Creazioni degli anni Venti, ExMa’, 1999; Sassari, Cento anni di ceramica, Padiglione dell’Artigianato, 2000. Bibliografia Alberti, 1915; Altea, 1989; Altea, 1991; Altea, 2004; Altea, Magnani, 1995; Atti, 1991; Bossaglia, 1990; Branca, 1974; Branca, 1975; Cuccu, 2000; Francesco Ciusa, 1998; Romito, 1999.


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L’anfora sarda

1926-28 bronzo, 196 x 53,5 x 77,5 cm Cagliari, Palazzo Civico

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Il gesso originale è stato realizzato tra il 1926 e il 1928; il bronzo, invece, è stato fuso nel 1983 ed è di proprietà del Comune di Cagliari. Ciusa lavora a L’anfora sarda ad Oristano, in quello che è per lui un periodo di fervida attività: chiuso il laboratorio di ceramica fondato nel 1919, ha assunto nel 1925 la direzione della Scuola d’Arte Applicata di Oristano che manterrà fino al 1929. L’opera, come già le sculture degli anni Dieci, rispecchia un ricordo dell’infanzia, un’immagine rimasta impressa nella memoria, raccontata dall’artista nelle note autobiografiche: «… la giovane donna si alzò da sedere; la gonna, mezzo slacciata, le cadde a metà delle coscie che, strette pudicamente, sollevavano tutto il loro pieno in avanti, segnando al centro uno stupendo solco che saliva diritto per poi difforcarsi e perdersi sfumando verso l’addome … Prese con la destra, per l’ansa, da sopra una cassa vicina, un’anfora … sul dorso dell’avanbraccio, alla bocca e, sollevando contemporaneamente braccio e avambraccio … in modo tale che il seno si sollevò potente, bevette mentre il bimbo succhiava avidamente. Quel gruppo parve al fanciullo un avvenimento! Quel recipiente di terra gli parve solennemente gorgogliante d’acqua, come per la gioia di dissetare due anime unite in una sola, due creature unite nella gioia di vivere insieme» (F. Ciusa, “Pagine autobiografiche”, in Branca, 1974). Il corpo seminudo della donna che allatta il bambino e contemporaneamente si disseta con l’acqua dell’anfora è di grande impatto visivo: la serenità e insieme il compiacimento della maternità convivono con l’armonia e la pienezza del nudo femminile, che incarna un ideale di fisicità terrestre e si rivela come prodigioso frutto della natura. Nel 1964 Foiso Fois, in un ricordo dello scultore, definiva L’anfora sarda «allegoria della fecondità della nostra terra e della nostra gente» (Fois, 1964). Ciusa, infatti, oltre a voler glorificare uno dei pilastri dell’ethos contadino, identificabile nella maternità, sembra voler alludere a una Sardegna protesa verso l’avvenire, nel suo rigoglio di forze vitali (Altea, 1989). L’opera, esposta alla Biennale di Venezia del 1928, venne accolta dalla critica con molte riserve (Calzini, 1928; Ludio, 1928): poco convincenti apparvero il carnale verismo del nudo, visto come retaggio di modi ottocenteschi, e il decorativismo del panneggio. Il motivo della pieghettatura della gonna, di gusto squisitamente déco, trova riscontro nella Sposina di Nuoro del 1922, uno tra gli esempi più belli della produzione ceramica di Ciusa (Altea, 2004).

In tempi in cui ormai pienamente consolidati erano i dettami novecentisti, e si imponevano i concetti di romanità, di severità e di grandezza, Ciusa risponde al gusto imperante con un’evidente accentuazione del dettato plastico. Tuttavia la ricchezza dei dettagli descrittivi – all’epoca si dubitò che il busto fosse un calco dal vivo (Ludio, 1928) – conferisce alla scultura un’impronta verista, contaminata da accenti simbolisti, allontanandola dagli esiti del naturalismo purista di ascendenza novecentista che, alla fine degli anni Venti, andava pian piano evolvendosi, pur nella grande varietà di atteggiamenti, verso un generale monumentalismo di forme sempre più marcato. Inoltre, se il tema della maternità rimanda agli esempi della tradizione italiana, l’astratto ritmo decorativo della gonna conferisce alla scultura un carattere spiccatamente regionalista, che difficilmente poteva essere accolto con entusiasmo nell’anno in cui la Biennale sopprimeva le sale regionali. Ciusa non abbandona la sua appassionata adesione alla cultura di cui è partecipe e continua a restare fedele al ruolo che si è scelto, di cantore del popolo sardo. Come rilevato unanimemente dalla critica, rispetto alle opere degli anni Dieci, ne L’anfora sarda si legge un’evoluzione nella concezione formale: abbandonate le ricerche di simmetria e frontalità, «la scultura si articola nello spazio mediante una complessità di forme che incarnano gesti e movimenti con nuovo accentuato dinamismo» (Frongia, 2005b). Nel 1950 Ciusa Romagna descrive il busto nudo «vibrante di sensualismo nella sua interna mobilità», ascrivendo l’opera ad una nuova visione edonistica e decadente (Ciusa Romagna, 1950); circa vent’anni dopo, Remo Branca parla di «schema geometrico che si avvolge in piani elicoidali come nell’arte ellenistica» (Branca, 1975). Ciusa mostra un’estrema padronanza del blocco tridimensionale (Bossaglia, 1990), approdando a risultati di innegabile fascino e suggestione: l’opera segna un importante passo nello studio del movimento della figura, che raggiungerà esiti di grande interesse nel Fromboliere, opera ultima dello scultore nuorese. L’anfora sarda, in seguito all’insuccesso di Venezia, annuncia la definitiva scomparsa di Ciusa dalla scena nazionale e una temporanea eclissi da quella locale; dopo l’apparizione alla Biennale d’Arte Sarda del 1928, in cui l’opera viene esposta insieme alle vecchie sculture (Il Neosardo, 1928), inizia infatti per l’artista un breve periodo di allontanamento anche dal contesto artistico sardo. (R.P. Ladogana)


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Esposizioni Venezia, XVI Biennale Internazionale d’Arte, 1928; Sassari, I Biennale d’Arte Sarda, Palazzo della Regia Università, 1928; Cagliari, personale alla Galleria Comunale d’Arte, 1934; Cagliari, personale agli Amici del Libro, 1951; Nuoro, personale al Museo della Vita e delle Tradizioni Popolari Sarde, 1974; Nuoro, Miti Tipi Archetipi, Casa-Museo Grazia Deledda, 1989. Bibliografia Altea, 1989; Altea, 2004; Altea, Magnani, 1995; Atti, 1991; Bossaglia, 1990; Branca, 1974; Branca, 1975; Calzini, 1928; Cardi Giua, 1929; Carta Raspi, 1927; Ciusa Romagna, 1950; Fois, 1964; Frongia, 2005b; Il Neosardo, 1928; Ludio, 1928; Nebbia, 1928; Montaldo, 2003.

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