Copertina e plancia Bavagnoli Orani:Sovraccoperta e plancia Bavagnoli
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Taglio x plancia
Taglio x plancia Taglio x sovraccoperta
CARLO BAVAGNOLI
Costantino Nivola Ritorno a Itaca
Taglio x sovraccoperta
Costantino Nivola Ritorno a Itaca
ISBN 978-88-6202-061-9
9 788862 020619
Taglio x sovraccoperta Taglio x plancia
Taglio x sovraccoperta Taglio x plancia
Bavagnoli Orani 1958:Bavagnoli Orani 1958
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Il presente volume è stato realizzato in occasione della mostra
Costantino Nivola Ritorno a Itaca foto di Carlo Bavagnoli
tenutasi a Orani nelle vie del centro storico dal 7 maggio al 30 settembre 2010 per iniziativa di
FONDAZIONE NIVOLA
FONDAZIONE COSTANTINO NIVOLA
COMUNE DI ORANI in collaborazione con Fondazione Banco di Sardegna
Grafica Ilisso Edizioni Stampa Longo Spa
© 2010 ILISSO EDIZIONI - Nuoro www.ilisso.it ISBN 978-88-6202-061-9
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Indice
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Costantino Nivola Marisa Volpi
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L’esperienza di Nivola a Orani tra arte ambientale e arte pubblica Maria Luisa Frongia
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Orani 1958. Le immagini di Bavagnoli raccontano Nivola Rita Ladogana
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Tavole
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Catalogo
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Ricordi per una biografia Rita Ladogana
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L’esperienza di Nivola a Orani tra arte ambientale e arte pubblica Maria Luisa Frongia
Più che un ritorno a Itaca di un novello Ulisse, l’eroe omerico, rientrato in patria tra perigliosi inganni e dure lotte per la riconquista del suo regno, della casa e della sposa Penelope, insidiata da pretendenti superbi, quello di Costantino Nivola a Orani nel marzo del 1958 dovrebbe essere considerato la storia di un nostos, un ritorno vittorioso come quello di Giasone. Come il mitico personaggio che riconquista la sua Iolco portando in patria la ricchezza del Vello d’oro, così l’artista porta in dono nel suo paese la ricchezza della sua cultura. Nella sua personalità convivevano ormai due elementi importanti e da lui ritenuti indispensabili per l’operare nel campo dell’arte: l’abilità creativa e l’esperienza dell’intellettuale. Nivola scriveva, infatti, in appunti manoscritti: «Art is in a trial with the complicity, as artist an intellectual» descrivendo in un rapido e suggestivo disegno, due figure dedite allo studio e al lavoro manuale.1 Per merito del patrimonio di conoscenze tecniche e scambi di competenze culturali acquisiti in terra americana, che egli considerava la sua seconda patria,2 saprà, infatti, dare vita a un precedente unico nello sviluppo artistico di un fenomeno che solo più tardi, negli anni Settanta, verrà codificato in Italia come arte pubblica. La sua formula innovativa consisteva nell’intervento in spazi non istituzionali, spesso all’aperto, fuori dal chiuso delle strutture tradizionalmente deputate, quali musei e gallerie, acquistando una sua ben precisa identità e autonomia, storicizzata dagli studiosi di arte contemporanea.3 Nivola era ben consapevole della funzione dell’arte pubblica e del diverso ruolo che l’artista assumeva nel momento in cui lavorava nella libertà del suo studio e in quello nel quale era chiamato ad esprimersi in un pubblico progetto, nell’esecuzione del quale doveva attenersi non solo a considerazioni di natura «aesthetic, but also of an ethical, social and economic nature. He must make a serious attempt to achieve a harmonious relationship between his work and the architectural and social environment», scriveva in appunti nei quali ricorre numerose volte il termine public. Appunti dei quali poi si servirà per le sue lezioni presso le Università di Harvard, Berkeley, Columbia,4 ma che soprattutto erano l’esplicitazione dei suoi solidi principi di artista che lavorava prevalentemente in ambito pubblico, legato, pertanto, anche a responsabilità morali le quali, pur non vincolando la sua creatività, dovevano limitarlo nell’eccesso di sperimentazioni non finalizzate all’operazione.5 La sua esperienza si era consolidata nel tempo e aveva avuto la sua applicazione in alcuni importanti interventi a New York, in collaborazione con architetti affermati, quali quello nello
showroom Olivetti del 1953, nel giardino della lussuosa casa Loewy al n. 1025 della Quinta Strada del 1955, nella Public School 33 di Brooklyn del 1956, nella William E. Grady Vocational High School, sempre a Brooklyn, del 1957 e a Hartford nel Connecticut, nella facciata del palazzo della Mutual of Insurance Company del 1957-58.6 Nivola crea, per solennizzare il suo rientro nel paese che gli aveva dato i natali, una forma innovativa di esposizione a cielo aperto delle sue opere, da consumarsi nell’arco di poche giornate,7 facendole interagire col tessuto morfologico di Orani, ma soprattutto con la «microrealtà locale»,8 i suoi concittadini, i quali non conoscevano le espressioni originali della sua arte, maturate e consolidate in America dove ormai Antine viveva e lavorava, con sempre rinnovati successi di pubblico e di critica, dal 1939. Era ben consapevole che le forme neocubiste delle sue sculture, prive di riferimenti ad una realtà riconoscibile, ma esclusivamente ritmate da un’alternanza di pieni e di vuoti, da assemblaggi di volumi, prima scomposti, poi rimontati in una unitarietà monolitica, non rispondevano alle aspettative degli Oranesi. La sua arguzia inventiva, però, sorretta dalle sue capacità e dalla lunga esperienza nell’interagire con un pubblico, il più diverso, la conoscenza della Sardegna e in particolare degli abitanti della Barbagia, chiusi in un mondo quasi impermeabile alle novità che provenivano dall’esterno, lo sostenevano nell’inventare una coreografia dinamica e coinvolgente per quelle sculture, quasi «esseri extramondani … invasori giunti da chissà quale pianeta», come le definisce nella lucida e coinvolgente lettura critica dell’opera di Nivola, in questo volume, la inconfondibile “penna” di Marisa Volpi, illustre maestra dell’arte contemporanea. Costantino Nivola prendeva, così, possesso dello spazio, in una forma di arte totale, in una sorta di spettacolo teatrale dove la scenografia era costituita dalle quinte dei muri delle antiche case, l’illuminotecnica era quella dettata dalle variazioni naturali di luci e di ombre, gli attori si inveravano in forme speciali, di sintesi, costruite con materiali tradizionali, pietra, calce, cemento, con l’aiuto di uomini del paese. Comprimari, dunque, con Nivola nella loro realizzazione e perciò autorizzati a lavorare anche con l’immaginazione e a rendere concreto ciò che era astratto, umanizzandolo, suggerendo agli spettatori increduli, rimandi a persone e cose della vita di tutti i giorni. L’artista, colto e moderno, penetrava e conquistava così l’animo e la fiducia di compaesani ingenui e semplici nei confronti dell’arte, sollecitando la loro interpretazione espressiva delle forme, al fine di intensificarne la potenza suggestiva, senza rinunciare al suo metodo di lavoro e alla traduzione
Costantino Nivola, manoscritto con disegno a penna, Archives of American Art, Smithsonian Institution, Washington
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Bavagnoli Orani 1958:Bavagnoli Orani 1958
Il Cardinale Eugenio Tisserant, decano del Sacro Collegio durante il Concilio Ecumenico Vaticano II, Roma, San Pietro, 1962
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Per quanto riguarda Orani, rimangono da analizzare, infine, le immagini del terzo nucleo individuato, che comprende i ritratti e le sequenze narrative della cena e della festa con i compaesani. Fuori dal contesto della mostra e dallo scenario della chiesa, dove prevale il dialogo in relazione alle opere, Nivola è rappresentato nell’intimo legame con la gente e i luoghi della sua terra d’origine: raramente lo scultore è in pose frontali e il perimetro del campo si allarga per introdurre nella scena i dettagli del contesto. Una pratica che ritorna nei numerosi ritratti realizzati a Roma nei primi anni Sessanta, quando Bavagnoli pubblica sulla rivista Il Gatto Selvatico, diretta dall’amico poeta Attilio Bertolucci.29 Un significativo esempio è costituito dal reportage su Pier Paolo Pasolini, nel quale il ritratto diventa l’espediente per raccontare l’approdo del regista alla realtà delle borgate romane.30 La dimensione di una convivialità festosa è testimoniata, invece, nelle immagini del pranzo e del ballo: sono gli scatti dai quali traspare maggiormente il sentimento di amicizia che ha unito Bavagnoli a Nivola negli intensi, seppur brevi, giorni trascorsi in paese. Nivola mangia, beve, suona la fisarmonica e balla; Bavagnoli riprende, dando la sensazione di essere pienamente coinvolto nell’atmosfera gioiosa di quell’ultimo atto
del suo reportage. Immagini che non possono non far pensare a certe situazioni fotografate a Roma nelle trattorie di Trastevere. Carlo Bavagnoli è il fotografo del racconto. Quello umano, denso di storia. Dal quale egli stesso in primo luogo deve saper ricavare emozioni. E allora, anche quando sarà chiamato, nel 1962, a testimoniare la dimensione spettacolare del Vaticano, durante le cerimonie del Concilio Ecumenico, tra le sue più celebri immagini non mancheranno i ritratti intimisti e psicologici di personaggi eminenti del mondo clericale, nei quali la rigidità delle pose e la fermezza degli sguardi raccontano una storia di grande severità morale.31 «A me piaceva fotografare la vita. Quel vivere che ti da qualcosa. Fotografare vuol dire saper vedere e la fotografia è un prolungamento della tua persona, come le tue dita: non deve mai essere diversa da te». Bavagnoli sarà di nuovo a Orani nel 1959 quando, durante la realizzazione del reportage in Baronia, noleggia una macchina per tornare nel paese di Costantino Nivola. Il fotografo e lo scultore, invece, avranno occasione di incontrarsi altre due volte nel corso della loro vita: durante un party organizzato dalla redazione americana di Life e, per caso, al Museo Gugghenheim di New York.
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Note
1. Le citazioni riportate nel testo sono tratte da una intervista fatta a Roma a Bavagnoli da chi scrive il 23 marzo 2010. 2. Le prime sperimentazioni risalgono al 1939, quando Federico Patellani pubblica i “fototesti” sul Tempo. O. Del Buono, “Scrivere con la Laica: Federico Patellani”, in Fotografia e fotografi a Milano dall’Ottocento ad oggi, a cura di A.L. Parlotti, Milano 2001, pp. 116-118. Per un approfondimento sullo sviluppo della stampa illustrata si veda U. Lucas, M. Bizziccari (a cura di), L’informazione negata. Il fotogiornalismo in Italia, 1945-1980, Bari, Dedalo libri, 1981. 3. Al di là delle molteplici sfumature e degli innumerevoli volti che assume il fenomeno del Neorealismo, dalla fisionomia assai complessa, si possono individuare, senza correre il rischio di cadere in facili semplificazioni, le tendenze portanti che lo contraddistinguono, ossia il rapporto diretto e critico con il reale e l’esigenza ormai indeclinabile dell’“impegno” verso una società che si avvia a un profondo mutamento del proprio assetto, in quel vasto e assai tortuoso panorama della ricostruzione della nuova Italia democratica. «Il neorealismo in Italia … è sorto come espressione di una profonda frattura storica, quella crisi che fra il 1940 e il 1945 con la guerra e la lotta antifascista, investì, sconvolse fino alle radici e cambiò il volto dell’intera società italiana. Il neorealismo si nutrì, quindi, innanzitutto di un nuovo modo di guardare il mondo, di una morale e di un’ideologia nuove che erano proprie della rivoluzione antifascista». C. Salinari, La questione del realismo, Firenze 1960, p. 40. Per un approfondimento sulle questioni del Neorealismo in ambito fotografico si veda U. Lucas e T. Agliani in “L’immagine fotografica 1945-2000”, in Storia d’Italia. Annali 20. L’immagine fotografica 19452000, a cura di U. Lucas, Torino, Einaudi, 2004, pp. 3-47. 4. Il progetto si basava su una concezione della fotografia documentaria essenzialmente propagandistica, volta a commuovere e a destare le coscienze sui problemi sociali che travagliavano le zone rurali nel periodo della riforma del New Deal. «In Europa … le fotografie tendevano all’esaltazione o alla neutralità. Gli americani, meno convinti della permanenza di una qualsiasi organizzazione sociale, ed esperti della “realtà” e dell’inevitabilità del cambiamento, hanno fatto più spesso della fotografia partigiana. Si fanno più spesso foto non solo per mostrare ciò che bisognerebbe ammirare, ma per rivelare ciò che occorre affrontare, deplorare … e correggere. La fotografia americana comporta una connessione più sommaria e meno stabile con la storia; e un rapporto, insieme più ottimistico e più predatorio, con la realtà geografica e sociale». S. Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, Torino 2004, p. 56. Sulla storia della fotografia documentaria si veda O. Lugon, “L’estetica del documento”, in Storia della fotografia, a cura di A. Gunthert, M. Poivert, Milano 2008, pp. 357-423. 5. F. Faeta, Fotografi e fotografie. Uno sguardo antropologico, Milano 2006, pp. 9-19. 6. Il bar Jamaica era un vivo centro culturale nella Milano del secondo Dopoguerra. Tra le pareti dello storico locale ci si incontrava per divertirsi, ma anche riflettere e discutere, in un continuo agitarsi di nuove idee e nuove prospettive nell’Italia appena uscita dalla Liberazione. Nel gruppo dei fotografi, insieme a Bavagnoli, c’erano anche Ugo Mulas e Mario Dondero; tra gli artisti ricordiamo il giovane Pietro Manzoni, Pietro Consagra e Lucio Fontana, e tra i poeti Giuseppe Ungaretti e Salvatore Quasimodo. 7. Di particolare interesse per lo studio degli anni milanesi di Bavagnoli sono i ricordi di Ugo Mulas, fortemente coinvolto nelle ricerche di gruppo con i fotografi del bar Jamaica: «Pensavo che i fotografi fossero soprattutto i fotoreporter, cioè questi uomini muniti di apparecchio fotografico che hanno come compito quello di documentare quello che succede nel mondo e di lasciare questi documenti per la storia». A.C. Quintavalle, “Conversazioni con
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Ugo Mulas”, in Ugo Mulas. Immagini e testi, Parma 1973, p. 23. Le fotografie di Bavagnoli risalenti al periodo milanese sono pubblicate in C. Bavagnoli, L’archivio. Fotografie, libri dal 1954 al 1995, Parma 2000; quelle di Mulas in Ugo Mulas. La scena dell’arte, catalogo della mostra, a cura di P. Castagnoli, C. Italiano, A. Mattirolo, Milano 2007. 8. Tra le riviste italiane che nei primi anni Cinquanta promossero lo sviluppo del fotoracconto ispirandosi alla rivoluzione fotografica della stampa americana e agli esempi europei del Bauhaus è il Politecnico di Elio Vittorini, uscito con il primo numero a Milano nel 1945. Vittorini sostiene l’importanza primaria dell’accostamento tra le foto: «Era nell’accostamento tra le foto anche le più disparate ch’io riottenevo o tentavo di riottenere un valore più o meno estetico e un valore illustrativo o documentario: nell’accostamento tra le foto: nel riverbero di cui una foto si illuminava da un’altra…». E. Vittorini, “La foto strizza l’occhio alla pagina”, in Cinema Nuovo, 33, 15 aprile 1954. Le discussioni intorno all’utilità documentaria della serie risalgono agli anni Trenta e interessano sia l’ambito statunitense che quello europeo. Per un approfondimento sul significato e sullo sviluppo della serie nella fotografia documentaria si veda O. Lugon, Lo stile documentario in fotografia. Da August Sander a Walker Evans, Milano 2008, pp. 272-283. 9. C. Bavagnoli, Gente di Trastevere, prefazione di A. Baldini, Milano, Mondadori, 1963. La seconda edizione del libro risale al 1996 e contiene l’intervista di Bavagnoli a Federico Fellini, che nel 1970 gli chiede di accompagnarlo per Trastevere alla ricerca di ambienti e personaggi per il film Roma al quale stava lavorando. C. Bavagnoli, testiintervista di Federico Fellini, Gente di Trastevere 1960, Parma 1996. 10. Nel testo della presentazione tenuta in occasione della ristampa del volume nel 1996 Angelo Guglielmi, allora direttore della terza rete RAI, afferma: «Carlo con queste fotografie vuole mostrare e non dimostrare» e se il libro fosse stato scritto da un «fotografo ideologico avrebbe trovato occasione per denunciare la povertà e il degrado in cui viveva la gente di Roma oppure l’occasione per esercitazioni folkloristiche e di colore». La citazione è tratta da C. Bavagnoli, L’archivio cit., pp. 30-31. Si veda anche l’articolo di F. Scianna, “Seduzione di uno sguardo che ama le cose nella Roma di Carlo Bavagnoli”, pubblicato in Photo nel 1997 e integralmente riportato in C. Bavagnoli, L’archivio cit., p. 32. 11. Per un approfondimento sulla storica libreria romana si veda A. De Donato, Via Ripetta 67. “Al ferro di cavallo”: pittori, scrittori e poeti nella libreria più bizzarra degli anni ’60 a Roma, Bari 2005. 12. Life, 20 gennaio 1958, pp. 12-13. Nel numero del 3 giugno del 1963, dopo l’uscita del volume edito da Mondadori, la redazione di Life pubblica in 14 pagine il reportage su Trastevere, secondo la formula ormai da tempo diffusa nella stampa periodica statunitense del photo-essay (racconto in immagini). 13. “Introduction”, in Life the fifty first years, 1936-1986, United States of America, 1986. L’idea che sta alla base di Life è essenzialmente quella di far passare la fotografia «dalla funzione accessoria di commento e appendice esemplificativa degli articoli a quella centrale di supporto informativo diretto; l’articolo invece retrocede, riducendosi a semplice didascalia delle immagini, che si suppone parlino da sole all’intelligenza del lettore», scrive G. Gozzini nella sua Storia del giornalismo, Milano 2000, p. 213. 14. Sia il reportage su Danilo Dolci che quello su Costantino Nivola non vennero pubblicati. «Life era così», ricorda Bavagnoli, «ti inviavano a fare un servizio nel quale investivano molto denaro e poi si poteva anche decidere, in base alle esigenze del momento, di non pubblicarlo». 15. Gjon Mili, nato in Albania e trasferitosi negli Stati Uniti nel 1923, inizia a lavorare per Life nel 1938 fotografando un’ampia gamma di soggetti: dagli artisti all’atto di fondazione delle Nazioni Unite, agli esperimenti di ripresa stroboscopia. 16. Le fotografie di Trastevere sono state realizzate tra il 1957 e il 1960, tutte in formato 35 mm.
17. B. Zevi, “Le capiscono i contadini di Orani”, in L’Espresso, novembre 1958. 18. R. Barthes, La camera chiara, Torino 1980, p. 115. 19. W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino 1966, pp. 62-67. 20. Per un approfondimento dei temi si veda La Sardegna, a cura di M. Brigaglia, Cagliari 1988. 21. Si tratta dell’inchiesta “L’Africa in casa” che L’Espresso pubblica a partire dal 26 aprile del 1959. Al reportage in Baronia è dedicato lo studio di Gino Satta, in corso di pubblicazione per Ilisso di Nuoro, ricostruzione approfondita della complessità del contesto nel quale si inserisce il lavoro di Bavagnoli. Alcune immagini, tratte dal reportage del 1959, sono pubblicate anche in La fotografia in Sardegna. Lo sguardo esterno. Gli anni del Dopoguerra, Nuoro, Ilisso, 2009, pp. 326-341. 22. Il livello di elaborazione degli scatti rivela un interesse per la definizione di una “situazione fotografica” contenente una serie di dettagli informativi finalizzati a una restituzione del contesto culturale rappresentato. Sul concetto di situazione fotografica e più in generale per l’approfondimento sull’evoluzione della etnografia visiva si vedano F. Faeta, Strategie dell’occhio. Saggi di etnografia visiva, Milano 2003, p. 105 e F. Faeta, Fotografi e Fotografie cit. 23. A.C. Quintavalle utilizza il termine “testimone” in riferimento al ruolo di Ugo Mulas nella realizzazione dei suoi reportage sull’arte. A.C. Quintavalle, “Mulas dall’oggetto al fenomeno”, in A.C. Quintavalle, Messa a fuoco: studi sulla fotografia, Milano 1983, pp. 196-238. Ho utilizzato il termine in quanto mi è parso particolarmente pertinente per evidenziare il ruolo documentario della fotografia d’arte di Bavagnoli. 24. Nel bassorilievo della Mutual Insurence Company of Hartford, ad Hartford, realizzato nel 1957 con la tecnica del sand-casting, l’artista appone la firma «Costantino Nivola, scultore, muratore, manovale». 25. Life dedicava grande spazio all’arte contemporanea come testimoniato dalla pubblicazione costante di articoli che hanno svolto un ruolo importante nella affermazione e diffusione delle correnti artistiche emergenti. Basterebbe soltanto citare il servizio dedicato a Jackson Pollock che, già nel 1949, viene indicato come il più importante pittore vivente negli Stati Uniti. “Jackson Pollock. Is he the greatest living painter in the United Stated”, in Life, 8 agosto 1949. 26. Sul reportage si veda R. Krauss, “La fotografia come testo: il caso Namuth/Pollock”, in R. Krauss, Teoria e storia della fotografia, Milano 1996, pp. 86-96. 27. “Sculture Alfresco in Spoleto”, in Life, 7 settembre 1962, pp. 79-84. 28. Si tratta dell’opera 5,600 Cubicmeter Package, un impacchettamento d’aria alto 85 metri presentato a Documenta 4 di Kassel nel 1968. Il servizio di Bavagnoli è pubblicato su Life nel numero del 6 settembre 1968, pp. 78-79. 29. “Ritratti”, in Progresso fotografico, numero monografico dedicato a Carlo Bavagnoli, a cura di A. Colombo, A. Piovani, Milano, Editrice Progresso, n. 12, dicembre 1980, p. 20. 30. Dal reportage è stato realizzato il cortometraggio “L’occhio di Bavagnoli” pubblicato nei contenuti extra del DVD prodotto dalla Feltrinelli, La voce di Pasolini, a cura di M. Sesti e M. Cerami, Milano 2006. 31. Bavagnoli fotografa il Vaticano nel 1962, a partire dall’apertura del Concilio avvenuta l’11 ottobre. Nel giugno del 1963 gli viene commissionato il servizio sui funerali del papa Giovanni XXIII, occasione nella quale realizza il celebre scatto con il catafalco del Papa e la scultura della Veronica sullo sfondo, ottenuto con la tecnica della doppia esposizione. L’immagine è pubblicata nel numero di Life del 21 giugno 1963, p. 54. Ai dettagli sulla doppia esposizione Life dedica una nota del direttore editoriale Gorge P. Hunt nel numero del 24 luglio del 1964, nella quale si fa riferimento anche ad altri servizi nei quali Bavagnoli ha sperimentato l’innovativa tecnica.
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2. Preparazione delle sculture per la mostra in strada, Orani, 1958
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3. Trasporto delle sculture per la mostra in strada, Orani, 1958
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7. Mostra in strada, vicinato di Santa Rosa, Orani, 1958
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8. Mostra in strada, Su Rosariu, Orani, 1958
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19-20. Annuncio della mostra in strada, Su Rosariu, Orani, 1958
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28. Vicinato di Sa Itria, Orani, 1958
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29. Vicolo del Re, vicinato di Gusei, Orani, 1958 30. Vicinato di Gusei, Orani, 1958
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31-32. A casa della sorella Paola, Orani, 1958
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38. Vicinato di Gusei, Orani, 1958 39. Via Lorenzo Stara, angolo via Amsicora, Orani, 1958
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40-41. Nel cortile della casa di Antonia Silvas, Orani, 1958
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26. Mostra in strada, Su Rosariu, Orani, 1958. Antoni Salvai “Carrapreda”.
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29. Vicolo del Re, vicinato di Gusei, Orani, 1958. Michela Mastio con Michelino Silvas (figlio della sorella Paola).
32. A casa della sorella Paola, Orani, 1958. Nicola (padre dell’artista); Michelino, Gigi, Nicola e Gonario Silvas (figli della sorella); Paola. Sulla parete il ritratto di Paola eseguito da Nivola.
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30. Vicinato di Gusei, Orani, 1958. In primo piano Gonaria Silvas con in braccio Michelino Silvas (figlio della sorella Paola); a sinistra Tonia Rosa Nieddu. 27. Mostra in strada, Su Rosariu, Orani, 1958. Sono riconoscibili: 1 Edoardo Lodi; 2 Nicola (padre dell’artista); 3 Michele Sale (becchino); 4 Antiocu Zichi; 5 Angelinu Sanna “Turdiu”; 6 Giginu Zichi “Biserre”.
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33. Vicinato di Gusei, Orani, 1958. Sono riconoscibili: 1 Rosaria Balvis; 2 Gianni Porcu; 3 Gigina Ziranu; 4 Nicolosa Ziranu; 5 Tonia Rosa Nieddu; 6 Anna Balvis; 7 Paolina Cosseddu; 8 Tina Silvas (figlia della sorella Paola); 9 Mena Porcu; 10 Gonaria Cavada; 11 Carmelo Cavada; 12 Grascia Pinna; 13 Caterina Fadda; 14 Giorgina Ernesti; 15 Rosa Molinari; 16 Taniella (Daniela) Pinna.
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28. Vicinato di Sa Itria, Orani, 1958. Sono riconoscibili: 1 Innossente (Innocenzo) Balvis; 2 Zoseppe Puddu; 3 Agostinu Pischedda; 4 Angelinu Pinna; 5 Antoni Pinna; 6 Andria Deriu; 7 Peppe Morittu; 8 Antoni Bruno.
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31. A casa della sorella Paola, Orani, 1958.
34. Vicinato di Gusei, Orani, 1958. Sono riconoscibili: 1 Grascia Pinna; 2 Caterina Fadda; 3 Giorgina Ernesti; 4 Rosa Molinari; 5 Taniella (Daniela) Pinna.
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38. Vicinato di Gusei, Orani, 1958.
35. Vicinato di Gusei, Orani, 1958.
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39. Via Lorenzo Stara, angolo via Amsicora, Orani, 1958. A fianco al carro Cosimo Cheri.
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36. Vicinato di Gusei, Orani, 1958. Sono riconoscibili: 1 Gianni Porcu; 2 Rosaria Balvis; 3 Nannina Ziranu; 4 Gigina Ziranu; 5 Pauledda Nieddu; 6 Tonina Balvis; 7 Gonaria Cavada; 8 Tina Silvas (figlia della sorella Paola); 9 Paolina Cosseddu.
37. Vicinato di Gusei, Orani, 1958. Gonario Silvas (figlio della sorella Paola).
40-41. Nel cortile della casa di Antonia Silvas, Orani, 1958.
42-44. Allestimento delle sculture per la tomba di famiglia, Orani, 1958. Orto di casa della sorella Paola in via San Paolo.
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65. Realizzazione del graffito sulla facciata della chiesa di Nostra Signora d’Itria, Orani, 1958.
68. Realizzazione del graffito sulla facciata della chiesa di Nostra Signora d’Itria, Orani, 1958. A sinistra Gigi Silvas (figlio della sorella Paola). 1
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71. Il graffito sulla facciata della chiesa di Nostra Signora d’Itria, Orani, 1958. Sono riconoscibili: 1 Battista Ziranu; 2 Salvatore Marteddu; 3 Angelinu Bertocchi (cugino dell’artista); 4 Michele Sale (becchino).
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66. Realizzazione del graffito sulla facciata della chiesa di Nostra Signora d’Itria, Orani, 1958. Sono riconoscibili: 1 Gigi Silvas (figlio della sorella Paola); 2 Juvannedda (Giovannina) Cossu (figlia della sorella Salvatorica); 3 Gonaria Ziranu; 4 Nicolosa Masala.
69. Durante i lavori per il graffito sulla facciata della chiesa di Nostra Signora d’Itria, Orani, 1958. Al centro Tonino Urru. 72. Il graffito sulla facciata della chiesa di Nostra Signora d’Itria, Orani, 1958. All’angolo della chiesa Michele Sale (becchino).
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67. Realizzazione del graffito sulla facciata della chiesa di Nostra Signora d’Itria, Orani, 1958. Sono riconoscibili: 1 Bovore (Salvatore) Nieddu; 2 Gigi Silvas (figlio della sorella Paola).
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70. Durante i lavori per il graffito sulla facciata della chiesa di Nostra Signora d’Itria, Orani, 1958. A sinistra Nunzio Nivola; a destra Bovore (Salvatore) Nieddu.
73. Il graffito sulla facciata della chiesa di Nostra Signora d’Itria, Orani, 1958. Coseme (Cosimo) Manconi.
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77. Pranzo di fine lavori, vicinato di Sa Itria, Orani, 1958. Magazzino del signor Pietro Zichi. Da sinistra: Umberto Bruno; Salvatore Mureddu; Angelinu Satta.
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74. Il graffito sulla facciata della chiesa di Nostra Signora d’Itria, Orani, 1958. Sono riconoscibili: 1 Juvanna (Giovanna) Nivola; 2 Juvannedda (Giovannina) Cossu (figlia della sorella Salvatorica); 3 Paola (sorella dell’artista); 4 Tina Silvas (figlia della sorella Paola); 5 Angelina Soro (figlia della sorella Gonaria) mentre portano il pranzo di fine lavori.
80. Festa conclusiva, vicinato di Sa Itria, Orani, 1958. Sono riconoscibili: 1 Juvannedda (Giovannina) Cossu (figlia della sorella Salvatorica); 2 Umberto Bruno; 3 Chicca (figlia del fratello Antonio); 4 Gonario Bertocchi; 5 Gigi Silvas (figlio della sorella Paola); 6 Angelina Soro (figlia della sorella Gonaria). 2
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78. Pranzo di fine lavori, vicinato di Sa Itria, Orani, 1958. Magazzino del signor Pietro Zichi. 1 Chischeddu (fratello dell’artista); 2 Nicola (padre dell’artista); 3 Umberto Bruno; 4 Salvatore Mureddu; 5 Angelinu Satta; 6 Peppe (figlio del fratello Chischeddu); 7 Tonino Cosseddu.
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81. Festa conclusiva, vicinato di Sa Itria, Orani, 1958. Sono riconoscibili: 1 Angelinu Bertocchi (cugino dell’artista); 2 Paola (sorella dell’artista); 3 Chicca (figlia del fratello Antonio); 4 Bovore (Salvatore) Silvas (marito della sorella Paola).
75. Il graffito sulla facciata della chiesa di Nostra Signora d’Itria, Orani, 1958.
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76. Pranzo di fine lavori, vicinato di Sa Itria, Orani, 1958. Magazzino del signor Pietro Zichi, di fronte alla chiesa di Sa Itria. 1 Chischeddu (Francesco, fratello dell’artista); 2 Nicola (padre dell’artista); 3 Angelinu Satta; 4 Salvatore Mureddu; 5 Peppe (figlio del fratello Chischeddu); 6 Umberto Bruno.
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79. Pranzo di fine lavori, vicinato di Sa Itria, Orani, 1958. Magazzino del signor Pietro Zichi. Costantino Nivola con il padre Nicola e Umberto Bruno.
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82. Festa conclusiva, vicinato di Sa Itria, Orani, 1958. Sono riconoscibili: 1 Tanielle (Daniele, figlio del fratello Antonio); 2 Angelina Soro (figlia della sorella Gonaria); 3 Paola (sorella dell’artista); 4 Torquato Sulis.
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Carlo Bavagnoli, Stati Uniti, 1965 (foto Don Cravens, Getty Images)
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Ricordi per una biografia* Rita Ladogana
Carlo Bavagnoli, nato a Piacenza nel 1932, dopo i primi studi in giurisprudenza a Milano, agli inizi degli anni Cinquanta, si dedicò alla fotografia. Tra gli incontri che avrebbero modificato il suo percorso, particolarmente significativo era stato quello con David Douglas Duncan, il grande fotografo americano reduce dall’esperienza del reportage di guerra in Corea nel 1950. Il giovane Bavagnoli era stato colpito dalle immagini del conflitto, soprattutto per il messaggio umano nelle espressioni di dolore, intimamente vissute a scapito di una spettacolarità dall’impatto più immediato, esibita sovente nella crudezza di scene fortemente drammatiche. Frequentò il gruppo dei giovani aspiranti fotografi che solevano incontrarsi nel bar Jamaica di via Brera, raccontato da Luciano Bianciardi nel romanzo La vita agra, edito da Bompiani nel 1962. Tra i racconti autobiografici di utopie e illusioni, trovano posto nelle sue pagine anche quelle dedicate al fotografo piacentino, che con lo scrittore divideva la camera nella pensione di via Solferino, poco distante dal Jamaica, diventato nella storia il “bar delle Antille”. Nella stanza accanto alloggiavano altri due giovani colleghi, Mario Dondero e Ugo Mulas; a quest’ultimo si deve la testimonianza dell’amicizia tra Bianciardi e Bavagnoli, grazie a un suggestivo scatto di quegli anni. Tra il 1953 e il 1954, cominciarono le peregrinazioni di Bavagnoli assieme a Mulas e a Dondero, alla ricerca di nuovi stimoli tematici per il loro lavoro. Prediligevano le periferie degradate con le baracche degli emigrati meridionali; la zona più frequentata, come lui ricorda, era quella del «quartiere Porto di Mare, oggi noto come Porta Romana, spesso ritratto durante le ore notturne, quando i pochi incontri erano quelli con gli spazzini al lavoro. Si andava a fotografare non usando mai il flash: era un modo per metterci alla prova, sperimentando una tecnica che richiedeva tempi lunghi e buone capacità». C’era la voglia di “raccontare” un luogo, senza condizionamenti, concentrandosi su pochi soggetti con il proposito di approfondirne la conoscenza. Il punto di riferimento imprescindibile per questi giovani erano le riviste più qualificate in quel momento a livello internazionale. Carlo Bavagnoli amava soprattutto Life, quasi una “finestra sul mondo”, che spesso gli veniva procurata dal giornalista Franco Berutti, «un grande appassionato delle riviste americane, allora impegnato nella collaborazione col periodico Settimo Giorno». Sulla traccia di queste prime esperienze, il fotografo continua a rimanere legato alla logica di una restituzione fedele della realtà e al gusto per un discorso narrativo come in “Via della Passarella”, pubblicato nel 1954 sul Cinema Nuovo di Guido Aristarco. Era questa tra le riviste italiane che nei primi anni Cinquanta, dopo l’esempio del Politecnico di Elio Vittorini, promossero, condizionate dal confronto con il linguaggio filmico, la sperimentazione del “fotoracconto”. Bavagnoli fa emergere dal servizio, intitolato “Senza Uscita”, la giornata di Ambra, giovane ballerina di avanspettacolo. Ne segue i passi, come se la cogliesse di sorpresa, nel percorso della sua vita quotidiana, dagli esercizi delle prime ore del mattino fino alla frequentazione dei locali notturni, ricomponendo una durata e un contesto precisi: nessuna immagine appare paradigmatica o
sottolineata da quella intonazione populista allora diffusa. Emerge, invece, la ricostruzione del racconto, articolato in una sequenza di numerosi frammenti capaci di restituire, attraverso il dialogo delle immagini, una visione fedele e unitaria di un brano di vita vissuta. La tecnica del racconto per immagini, ossia la “fotostoria”, ritorna nei servizi per Epoca, realizzati quando Bavagnoli fu assunto, nella primavera del 1955, dalla redazione del settimanale creato cinque anni prima dalla Mondadori, impiego che comportò il suo trasferimento a Roma. Era allora codirettore Enzo Biagi, col quale egli trovò subito una grande intesa: «A Epoca non c’era nessun tipo di controllo ideologico e politico e prevaleva la tendenza a proporre sempre cose innovative». Agli anni del suo impegno con il giornale, tra il 1955 e il 1958, risalgono anche due importanti lavori, frutto di ricerche personali destinate a segnare profondamente il suo percorso: il ritratto della città di Parma e il reportage su Trastevere. Il primo confluì nel volume Cara Parma, edito a Milano da Amilcare Pizzi nel 1961, opera che inaugura una serie di libri fotografici realizzati da Bavagnoli sino alla fine degli anni Settanta. Raccolta molto suggestiva di immagini attraverso le quali egli racconta la città, la sua storia, la sua gente. Parma, luogo sublime col quale nacque da subito un profondo legame, ancora oggi vivo nelle sue parole, quando ricorda l’amicizia con il poeta Attilio Bertolucci che per la prima volta lo portò a scoprire la città, nel 1957. Il secondo si concretizzò nel volume Gente di Trastevere, pubblicato da Arnoldo Mondadori nel 1963: «Andavo in giro per il quartiere a fotografare con l’idea di fare un libro. Gli scatti nascevano spontaneamente scoprendo le cose piuttosto che seguendo uno schema preordinato. Così fotografare diventava molto più appagante». «Era la fine del 1957, quando alcune immagini di Trastevere, esposte alla libreria “Al ferro di cavallo” a Roma, furono notate da Claire Boothe, ambasciatrice americana a Roma e moglie di Henry Luce, il fondatore di Life. Poco tempo dopo, nel gennaio del 1958, le mie fotografie vennero pubblicate sulla rivista». Le immagini di Luisa Pierotti, la romana ritratta al tavolo di una trattoria trasteverina mentre esplode in una contagiosa risata, segnarono l’inizio del lungo percorso di Carlo Bavagnoli a Life, unico fotografo italiano ad essere entrato nello staff della testata. Era il concretizzarsi di un sogno, poter vivere personalmente l’esperienza in quel mondo dal quale aveva tratto ispirazione fin dal suo primo approccio alla fotografia. «Dopo la prima pubblicazione mi commissionarono subito alcuni lavori prova e mi mandarono a fare uno stage alla redazione di New York. Poi per due mesi ho seguito il fotografo Dmitri Kessel durante il reportage sui mosaici di Ravenna: fu per me un’esperienza fondamentale». Bavagnoli lavorava con ritmo molto intenso negli anni precedenti l’assunzione stabile a Life, avvenuta nel 1964, continuando a pubblicare su riviste italiane, quale per esempio Il Gatto Selvatico di Attilio Bertolucci, e proponendo servizi che potevano suscitare l’interesse della redazione americana. «Mi trovavo a Napoli per un altro lavoro, nel 1959, quando mi colpi-
rono fortemente alcune scene: il protagonista era un ragazzino di colore che riceveva, rispetto ai suoi coetanei, molte più attenzioni per la sua diversità. Nacque allora la voglia di fare un “fotoracconto” che proposi a Life, in quel momento particolarmente sensibile alle problematiche razziali: il lavoro venne pubblicato in nove pagine nel 1960». Un reportage nel quale il fotografo ricorre spesso all’uso della sequenza a camera fissa, aumentando il grado di oggettività nella ricostruzione delle scene. Fin dagli esordi, Carlo Bavagnoli si trovava immerso in una dimensione che poco aveva in comune con il mondo del fotogiornalismo italiano, come egli stesso chiarisce: «A Life mi sentivo totalmente libero: avevamo una grande autonomia e mai nessun fotogramma veniva alterato. Ciò che contava maggiormente erano l’alto livello di professionalità e la forza delle immagini, non come in Italia, dove le fotografie che si pubblicavano erano spesso dichiarazioni politiche». «Henry Luce fondò Life nel 1936 proponendola come rivista d’immagini che si differenziava da Time, considerata l’espressione del giornalismo universitario un po’ snob. Chi lavorava per Life era gente della campagna, gente motivata e inquadrata. Erano chiamati “Square farms”, contraddistinti, per così dire, da una “solidità contadina”. Era un modo di lavorare che faceva sentire i fotografi i veri protagonisti: ci affidavamo unicamente allo sguardo libero sui fatti del mondo». Non dimentica il giorno in cui alla redazione arrivarono le immagini di My Lai, il massacro dei civili uccisi dai soldati statunitensi: «Avevano una forza incredibile e si decise di pubblicarle in America allo scopo di lanciare un segnale chiaro contro l’assurdità della guerra». Nel 1962 arrivò per Bavagnoli l’importante commissione del servizio sull’apertura del Concilio Vaticano II e l’anno successivo quello sui funerali di Papa Giovanni XXIII: in questa occasione realizzò le foto per le quali soprattutto è ricordato nella storia di Life, come le vedute spettacolari dall’alto all’interno di San Pietro o il celebre scatto che rappresenta il sarcofago del Pontefice e la scultura della Veronica sullo sfondo, ottenuto con la doppia esposizione, che allora andava sperimentando: «Ho usato la tecnica le prime volte ai funerali del Papa e durante il servizio per la campagna elettorale di Goldwather, sovrapponendo il volto del politico alla città, come se volesse dominarla. Si procede esponendo inizialmente soltanto una parte del negativo e proteggendo dalla luce, in genere con nastro adesivo nero, la parte restante, che si vuole esporre successivamente. L’effetto ottenuto è l’unione in un unico fotogramma di due elementi che nella realtà risultano su piani differenti». Le immagini sono accompagnate da una nota del direttore editoriale di Life, Gorge P. Hunt, che mette in evidenza le sperimentazioni del linguaggio fotografico di Bavagnoli ed esalta il risultato del reportage sulla convention del senatore americano per l’originalità dello sguardo di un fotografo non americano. Alla pubblicazione dei servizi in Vaticano, comprese le copertine dell’ottobre del 1962 e del luglio del 1963, seguì l’ingresso stabile nello staff dei fotografi di Life e il suo nome iniziò a comparire in tutti i numeri della rivista fino al 1972, per quasi dieci anni, accanto ad altri di indiscussa fama e talento, quali
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