Carlo Bavagnoli Sardegna 1959

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CARLO BAVAGNOLI

Sardegna 1959 L’Africa in casa

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sardegna 1959 L’Africa in casa

ISBN 978-88-6202-062-6

9 788862 020626

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Il presente volume è stato realizzato in occasione della mostra

Carlo Bavagnoli Sardegna 1959 L’africa in casa

tenutasi a Loculi nella casa-museo Sa domo de sas artes e de sos mestieris e inaugurata l’8 agosto 2010 con il contributo di

COMUNE DI LOCULI

UNIONE DEI COMUNI VALLE DEL CEDRINO

Grafica Ilisso Edizioni Stampa Longo Spa

Ringraziamenti Mario e Giovanna Maria Cambedda; Tonia Tomainu; Brigida Murru; Giovanni Branchitta; Luisa Delussu; Nino Cuccu; Giovanni Corda; Lina Ruggiu Un ringraziamento particolare a Maria Corda, Gonaria Ruiu e Pasqualino Cucca, per la preziosa e puntuale collaborazione

© 2010 ILISSO EDIZIONI - Nuoro www.ilisso.it ISBN 978-88-6202-062-6

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Indice

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Baronia 1959 Gino Satta

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Catalogo

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Schede Salvatore Novellu

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Carlo Bavagnoli, un reporter italiano a Life Salvatore Novellu


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resistenza ai processi di trasformazione. Sempre più confinate nel tema della «miseria culturale», inestricabilmente connesse, seppure in modi complessi e variabili, alla dominazione di classe, le forme culturali proprie delle classi subalterne tendono a divenire le «superstizioni», «compagne costanti della miseria», che ritroveremo nell’inchiesta de L’Espresso.17 L’inchiesta parlamentare Ma l’antecedente più diretto dell’indagine de L’Espresso – come peraltro a me esplicitamente riferito da Carlo Bavagnoli – è rappresentato dai lavori della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla miseria in Italia e sui mezzi per combatterla. Voluta e presieduta dall’on. Ezio Vigorelli (PSLI), la Commissione fu istituita dalla Camera dei Deputati il 12 ottobre 1951, nominata otto mesi dopo, e procedette a ritmi forzati per tentare di concludere i lavori prima della fine della I Legislatura (8 maggio 1948-4 aprile 1953).18 Pur lamentando continuamente la limitatezza del tempo e la scarsità dei dati a loro disposizione, i commissari e i diversi collaboratori coinvolti produssero relazioni, indagini tecniche e studi monografici che analizzavano le condizioni – allora quasi sconosciute nelle loro dimensioni reali – nelle quali vivevano le «classi misere», la parte più povera dei cittadini italiani.19 Prevalentemente concentrate nel sud, nelle aree marginali o nelle grandi aree metropolitane,20 le «classi misere» (o «classi povere», come vengono altrimenti denominate in una oscillazione terminologica che riflette più profonde incertezze teoriche e conflitti politici interni alla Commissione) venivano identificate attraverso l’incrocio tra i dati relativi al reddito disponibile, e una serie di indicatori indiziari relativi ai consumi e alle condizioni di vita, in particolare per quanto riguarda l’abitazione (qualità e livello di affollamento), l’alimentazione (frequenza di consumo di carne, zucchero e vino) e il vestiario (condizioni delle calzature). Dalla relazione dell’indagine tecnica di Maria Cao-Pinna, emerge un quadro preoccupante sulla povertà in Italia: circa un quarto delle famiglie vivono in case sovraffollate (con oltre 2 persone per stanza) e 870.000 in case con più di 4 persone per stanza o in «abitazioni improprie» (cantine, soffitte, magazzini, baracche, grotte); «oltre 870.000 famiglie non consumano né carne, né vino, né zucchero; oltre 1.000.000 di famiglie consumano quantità minime di zucchero e vino e niente carne», mentre «3 milioni e 200 mila famiglie non raggiungono un tenore alimentare che si possa considerare discreto»; «580 mila famiglie dispongono solo di calzature in condizioni misere o miserrime».21 Le famiglie «misere» e quelle «disagiate» costituiscono all’incirca un quarto delle famiglie italiane, ma sono concentrate in grandissima parte nel sud e nelle isole, dove quasi la metà dei nuclei familiari vivono in condizioni di miseria o di grave disagio economico, mentre sono quasi assenti al nord.22 Una conclusione sconcertante che richiamava da vicino, come notava sarcasticamente un articolo di stampa comparso nel dicembre 1953 a commento della diffusione

L’Espresso, a. V, n. 21 del 24 maggio 1959, con la sesta puntata dell’inchiesta L’Africa in casa, pp. 16-17

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Per molti altri intellettuali, soprattutto sardi, invece, la «questione culturale» si pone nel dopoguerra in termini più articolati e complessi, non interamente riconducibili al problema dell’«arretratezza» economica. In particolare nella seconda metà degli anni ’50, all’interno dei dibattiti sul Piano di Rinascita o nelle discussioni che si organizzano intorno alla rivista Ichnusa di Antonio Pigliaru, la «questione sarda» assume dimensioni che vanno al di là dell’«arretratezza» e dell’«isolamento», e viene letta in relazione a più ampi quadri interpretativi, dove la specificità culturale non è qualificabile come «ignoranza», e dove sono chiaramente percepiti i rischi di una modernizzazione pensata in base a una visione interamente economicista dello sviluppo.39 La miseria e lo sguardo È necessario, a questo punto, trarre alcune indicazioni dalla ricognizione fatta finora, soffermandosi sulla natura estremamente ambigua del tema della “miseria”. Se c’è una cosa che mi sembra emerga con sufficiente chiarezza, è che esso costituisce, negli anni ’50, un quadro interpretativo all’interno del quale è possibile elaborare discorsi sulle diseguaglianze tra diverse realtà territoriali e tra diversi gruppi sociali. Un quadro interpretativo costruito su una serie di opposizioni classificatorie, talvolta implicite, che contrappongono Nord/Sud, città/campagna, razionale/irrazionale, contemporaneo/ arcaico, moderno/tradizionale, cui è estremamente difficile sottrarsi e che accomuna anche visioni politiche radicalmente differenti. Il mondo contadino meridionale (esso stesso un prodotto di queste opposizioni classificatorie) si trova a essere definito, all’interno di questo quadro, in base a visioni del mondo, ideologie, discorsi propri di gruppi sociali che individuano in esso una forma determinata di alterità. La “miseria” si presenta come un ambito discorsivo nel quale sono messe in relazione la povertà materiale di una parte della popolazione e una particolare alterità culturale, per lo più concepita in termini esotizzanti e arcaizzanti. Nel suo operare, la “miseria” schiaccia l’alterità (istituita all’interno dello stesso ambito discorsivo) sulla condizione di povertà materiale e la inserisce all’interno di una retorica modernizzatrice che le assegna un unico destino: l’estinzione. Si tratta di uno sguardo esterno che è costantemente a rischio di “naturalizzare” il suo oggetto, di “ridurlo alla fame” (se mi si passa il doppio senso), non riuscendo spesso a scorgere in esso altro che il “bisogno”, la “mancanza” di beni materiali o immateriali dati per intrinsecamente desiderabili. Incapace di cogliere in quel mondo – o in quei diversi mondi – ordini e preferenze culturali, quello sguardo si rivela anche singolarmente insensibile rispetto alla propria natura particolare, occultandosi gli ordini e le preferenze culturali di cui è esso stesso espressione. Per meglio chiarire mi sembra utile soffermarmi brevemente sul caso emblematico della cultura alimentare. 14

I consumi alimentari costituiscono, a ragione, uno degli indicatori più utilizzati per stabilire l’ampiezza della “miseria” diffusa nel Meridione. Sono privilegiati, in particolare, i consumi di alcuni prodotti costosi, che risultano correlati con le condizioni economiche, primo tra tutti la carne, e la «miseria» viene individuata in relazione alla scarsa o scarsissima frequenza del consumo di carne. I caratteri culturali del regime alimentare dei contadini meridionali sono così occultati dietro un indicatore, il consumo di carne, che assume il valore di metro “naturale” della buona alimentazione e, per assenza, di misuratore della “fame”. La dieta fondamentalmente vegetariana e l’eccezionalità del consumo della carne (tradizionalmente confinato alle occasioni festive, specie per la carne bovina), sono trasformate in conseguenze immediate della scarsità materiale e indicatori, per chi le legge dal di fuori, della “fame” delle popolazioni rurali.40 Le caratteristiche di un particolare regime alimentare, con le sue contrapposizioni tra i cibi ordinari e i cibi della festa, tra i cibi dei poveri e quelli dei ricchi, con i suoi complessi equilibri costruiti negli stretti ambiti delimitati dalla scarsità materiale, sono interpretati sotto il segno della mancanza assoluta, secondo uno schema tradizionale che considera la carne come la «pietra angolare di una buona nutrizione» (secondo l’espressione di Alfredo Niceforo).41 La “fame di carne” e la contrapposizione tra l’alimentazione carnivora dei ricchi e quella vegetariana dei poveri – essi stessi elementi di quel particolare regime alimentare – sono così naturalizzati, presi per indicatori dal valore assoluto. È in questo quadro interpretativo (inconsapevolmente condizionato) che il consumo del pane come alimento principale – nel caso della Sardegna per giunta un pane “secco” – accompagnato da “erbe” o formaggi, assume il carattere della prova inconfutabile della “fame” che affligge le popolazioni rurali. Con ciò non voglio dire che non vi fosse povertà (anche estrema) né che il regime alimentare non fosse fortemente condizionato dalla scarsità materiale (fino al limite della denutrizione), cose che sono ampiamente documentate, ma che il dispositivo naturalizzante della “miseria” rende difficile scorgere nell’osservato altro che la proiezione, in negativo, dei valori propri degli osservatori. Nella sua “miseria”, in altre parole, il mondo contadino è reso muto, incapace di esprimersi, o capace di parlare solo con le parole che gli vengono suggerite da osservatori che ne misurano “arretratezze”, “arcaismi”, desideri e bisogni in relazione all’immaginario proprio di una incombente società dei consumi. Il discorso sulla “miseria” filtra, dunque, le immagini della povertà diffusa nel meridione e le organizza all’interno di una retorica della “modernizzazione”. Combattere la miseria non è solo combattere la povertà, ma combattere le forme “psicologiche” (più che culturali) che la accompagnano, cioè combattere l’alterità individuata nel mondo contadino, la sua “arretratezza”, il suo “isolamento”, la sua “arcaicità”, la sua “ignoranza”, come abbiamo visto in modo esemplare nel caso dello studio


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che la Commissione parlamentare d’inchiesta dedica alla Sardegna. L’Africa in casa Nella primavera del 1959, quando L’Espresso, al suo quinto anno di vita, riprendeva il tema iniziando la pubblicazione di una serie di reportage sulle «condizioni di miseria africana che sussistono nel mezzogiorno», la situazione era per molti aspetti profondamente diversa da quella dell’immediato dopoguerra e anche da quella in cui, pochi anni prima, si era svolta l’inchiesta parlamentare. Sopiti, con le elezioni del 18 aprile 1948, gli entusiasmi e le speranze di una radicale rifondazione dello Stato e della società che avevano animato le forze uscite vittoriose dalla lotta di liberazione e repressi i conflitti sociali che avevano caratterizzato i primi anni della vita repubblicana, la piena «restaurazione capitalistica» era ormai consolidata42 e il Paese stava entrando in quella fase che è stata chiamata del «miracolo economico» (1958-63): il PIL cresceva a ritmi del 5-6% l’anno, l’industria era in piena espansione, nuovi beni di consumo cominciavano a diffondersi tra fasce sempre più ampie della popolazione, i modi «di lavorare e di vivere, di consumare e produrre, di pensare e di sognare degli italiani» si stavano radicalmente modificando.43 Presentata dal periodico come «una nostra indagine sul mezzogiorno», «frutto d’alcuni rilievi giornalistici effettuati da un gruppo di redattori dell’Espresso in Sicilia, Lucania, Calabria, Campania, Sardegna», l’inchiesta avrebbe voluto mostrare ai lettori l’altra faccia del «miracolo economico», richiamando l’attenzione del Paese (o perlomeno dei lettori, presumibilmente urbani e borghesi, di un settimanale d’opinione) sulle scandalose condizioni di vita in cui sopravvivevano le popolazioni rurali di larga parte d’Italia, anche nell’intento di rendere conto delle ragioni che spingevano molti meridionali a «scappare verso nord», verso le promesse di benessere dell’Italia industriale e moderna che lì si andava costruendo. È probabilmente per questo motivo che l’inchiesta giornalistica presenta, rispetto a quella parlamentare che l’ha preceduta, e almeno in parte ispirata, molte continuità ma anche alcuni significativi slittamenti. In primo luogo, essa si concentra maggiormente sulla netta e intollerabile divisione che sembra opporre tra loro due diverse Italie: la prima, «l’Italia del benessere», «la quale è oggi una specie di Benelux inclusa [sic] nel triangolo TorinoVenezia-Roma»; la seconda, «l’Italia miserabile», «l’Italia che non cambia», di cui il resto del Paese s’accorge di quando in quando, nei momenti più drammatici della storia nazionale, ma che poi, una volta distolta l’attenzione, «torna ad essere prigioniera del proprio secolare isolamento».44 In secondo luogo, questa «Italia miserabile» è molto più chiaramente individuata in base alla contrapposizione Nord/Sud: se l’inchiesta parlamentare di pochi anni prima includeva nella sua geografia della miseria in Italia le valli alpine, il «Delta padano» o le grandi aree urbane (anche del centro e del nord, come Roma e Mila-

no), l’indagine dell’Espresso identifica in modo molto più evidente e diretto il tema della miseria con la tradizionale «questione meridionale». In ultimo è il tema dell’isolamento, dell’arretratezza, dell’immobilità che sembra tornare a costituire, ancor più che nell’inchiesta parlamentare, la chiave di lettura privilegiata della miseria meridionale. L’inchiesta fu pubblicata in sei puntate (“capitoli” li chiamano i redattori) tra il 26 aprile e il 31 maggio del 1959. L’Africa in casa, una volta introdotti i temi, descriveva con toni molto drammatici la miseria diffusa nelle campagne siciliane; “Le quattro casbah di Palermo” rivolgeva lo sguardo verso la città, ritrovando nella pur diversa realtà urbana condizioni di miseria non meno scandalose; “Il cielo non si mangia”, aveva per oggetto il degrado e la povertà estrema dell’altra grande metropoli del sud, Napoli; “Le tribù dell’Aspromonte”, ritornava in ambito rurale, eleggendo le montagne calabresi a simbolo del drammatico isolamento delle aree più marginali; “I servi pastori” – quello che ci riguarda più da vicino – si occupava della Baronia e della peculiare miseria della Sardegna agro-pastorale; chiudeva l’inchiesta “Gli stregoni di Valsinni”, dove era affrontata l’“arretratezza” della Lucania attraverso il tema delle «superstizioni», che l’articolo definiva «compagne costanti della miseria».45 All’indagine partecipava un nutrito gruppo di cronisti e un altrettanto nutrito gruppo di fotografi,46 in una collaborazione che, se da un lato affidava alla parola scritta il compito di delineare e narrare l’oggetto dell’inchiesta, dall’altro attribuiva alla fotografia un importante ruolo di documentazione e un notevole spazio nella composizione delle pagine. L’inchiesta fa, infatti, un uso esteso delle immagini per rendere visibili le condizioni di «miseria africana» descritte negli articoli. Come si può intuire già a partire da titoli, sottotitoli e occhielli degli articoli che ne sintetizzano i contenuti, la miseria è presentata dai redattori dell’Espresso in termini non solo molto drammatici ma decisamente “esotici”. Il Sud è «l’Africa in casa», è afflitto da una «miseria africana», le sue città degradate sono «casbah» (“Le quattro casbah di Palermo”, ma anche “La casbah di Napoli”, che compare nell’occhiello sopra il titolo del terzo capitolo), mentre le popolazioni rurali sono «tribù», che vivono in «tucul», e tra le quali sopravvivono le più assurde «superstizioni» e permangono le arcaiche figure dei «servi» e degli «stregoni». In una sorta di automatismo lessicale, la differenza individuata nel mondo contadino meridionale viene descritta attraverso termini che lo qualificano contemporaneamente come «esotico» e come «arcaico», allontanandolo nello spazio e nel tempo attraverso il riferimento a quell’altrove assoluto che era, e per certi versi ancora è, nell’immaginario europeo l’Africa.47 La costruzione, attraverso il tema della «miseria africana», di un Meridione radicalmente altro, ricorre a un repertorio di immagini consolidate, che rivela continuità di lungo periodo, spesso al di là della consapevolezza o della volontà di coloro che le usano.48 Proprio la figura 15


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considerevoli. Si formano due rivoli, uno il … Santamaria, che dopo dieci miglia di corso nella valle dei due monti paralelli al Montalbo, passa tra Irgoli e Onifai e si versa nel Cedrino; l’altro il Rio-pietroso, che nasce alle falde del monte che comunemente dicono d’Irgòli. Il Cedrino limita il territorio alla parte di austro. Questo, se le pioggie sieno molto copiose, ridonda e allaga tutto il piano della valle con grandissimo guasto de’ seminati e con interruzione delle relazioni fra i paesi delle due sponde» (V. Angius, Città e villaggi della Sardegna dell’Ottocento [1833-56], vol. II, a cura di L. Carta, Nuoro, Ilisso, 2006, p. 656, s.v. Irgoli). «La zona della Baronia, grande pressappoco come un terzo dell’agro pontino, si trova a nord-est di Nuoro. È una piccola piana con delle colline ai margini e attraversata da un fiume, il Cedrino, che un anno sì e uno no la devasta con le sue piene. Questo straripare periodico del Cedrino è fra le cause principali del basso tenore di vita degli abitanti. Infatti, ad ogni stagione, oltre un quarto del raccolto agricolo rischia d’andare perduto; appena il fiume si gonfia, la campagna circostante, che è posta in leggera pendenza rispetto agli argini viene quasi interamente allagata e i sacrifici di un’annata vanno immediatamente dispersi: spariscono, travolti dalla corrente, i seminati d’orzo e di grano appena spuntato, mentre l’erba per i pascoli invernali viene coperta di sabbia e detriti; tutta l’economia della zona si restringe alle colline sassose e piene d’arbusti che circondano la piana e che non basterebbero nemmeno per i bisogni d’una tribù di selvaggi» (L’Espresso, a. V, n. 21, Roma, 24 maggio 1959, p. 16). L’immagine permette di individuare, sulla sinistra, il rione Santo Stefano ancora in fase di edificazione, al centro lo svettante campanile della chiesa parrocchiale intitolata a San Nicola e sulla destra la chiesa di Sant’Antioco. Pubblicata anche in: La fotografia in Sardegna. Lo sguardo esterno. Gli anni del Dopoguerra, Nuoro, Ilisso, 2009, pp. 340-341. 39-43. Irgoli, 1959 negativi b/n, 24 x 36 mm Lo scatto, come i successivi, mostra il luogo in cui gli abitanti di Irgoli erano costretti ad attingere l’acqua in seguito al crollo del ponte Santa Maria e alla conseguente interruzione della condotta idrica. Varia la tipologia dei contenitori adoperati che spazia dalle tradizionali brocche in terracotta ai fiaschi in vetro. In questa sequenza di immagini è possibile riconoscere, tra gli altri, Giacomina Porcu e Anna Angioi-Mele, a sinistra, Antonio Carta, al centro, e Luisa Porcu, di profilo, in piedi a destra (foto 39); da destra, Sebastiana Forense, Peppina Loche, Bonaria Golonai, Giovanna Tracis e Giovanna Floris (foto 41); da sinistra, Peppina Loche, Michela Luche, Remedia Pinna e, in secondo piano, Michela Burrai; sulla destra Giovanna Tracis e Bonaria Golonai nell’atto di riempire la brocca (foto 42); Antonio Carta, al centro; in primo piano, Michela Mula, a sinistra, e Giovanna Sale, a destra (foto 43). Antonio Carta all’epoca lavorava per la fabbrica di acque gassate impiantata in paese, subito dopo la seconda guerra mondiale, da Antonio Loche: sullo sfondo, si intravede il motocarro Ape Piaggio e il relativo carrello carico di damigiane piene d’acqua, materia prima necessaria alla preparazione delle bibite. La foto n. 42 è pubblicata anche in: Progresso Fotografico, n. 12 (dicembre 1980), p. 40; La fotografia in Sardegna. Lo sguardo esterno. Gli anni del Dopoguerra, Nuoro, Ilisso, 2009, p. 338.

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44. Irgoli, 1959 negativo b/n, 24 x 36 mm

52. Onifai, 1959 negativo b/n, 24 x 36 mm

Perfetta immagine di chiusura della sessione fotografica dedicata a Irgoli, la fotografia mostra le donne che, fatto il bucato e riempite le brocche d’acqua, rientrano in paese, recando ognuna il proprio contenitore sul capo.

Benedetta Amaranto e la piccola Giovannina Sale.

45-46. Onifai, 1959 negativi b/n, 24 x 36 mm La chiesa di Santa Croce, risalente alla seconda metà del XVII secolo, è ubicata nel cuore del centro storico di Onifai, in prossimità dell’attuale palazzo comunale. I due scatti consentono di apprezzarne rispettivamente una vista di scorcio e una frontale, nella quale è visibile anche il piazzale antistante. La facciata, sormontata da un piccolo campanile a vela aperto mediante un’unica luce, attualmente è resa asimmetrica dall’unico contrafforte addossato al lato sinistro, mentre all’epoca dello scatto risultava in perfetto equilibrio, grazie al bilanciamento offerto da un secondo contrafforte speculare, sulla destra. Nell’edificio religioso, sin dall’epoca della sua fondazione, ha sede l’omonima confraternita. «La chiesa maggiore è dedicata al martire s. Sebastiano, protettore contro la pestilenza, e governasi da un solo prete sotto la giurisdizione del vescovo di Nuoro. Le chiese minori sono denominate una dalla s. Croce che è uffiziata da una confraternita, la seconda dalla Vergine di Loreto, la terza dalla Vergine delle Grazie, la quarta da s. Georgio (che si fa servire a cemitero), la quinta da s. Antonio di Padova» (V. Angius, Città e villaggi della Sardegna dell’Ottocento [1833-56], vol. II, a cura di L. Carta, Nuoro, Ilisso, 2006, p. 1007, s.v. Onifai). 47. Onifai, 1959 negativo b/n, 24 x 36 mm Lo scatto è stato eseguito lungo il largo San Giorgio, di fianco alla chiesa della Madonna di Loreto, della quale si possono osservare i contrafforti addossati al fianco destro. Le due bambine, di rientro dalla fontana, sono le piccole Antonina ed Emidia Stazio. 48. Onifai, 1959 negativo b/n, 24 x 36 mm Nel vico San Giorgio, l’uomo ritratto sulla destra è Giorgio Lai. 49. Onifai, 1959 negativo b/n, 24 x 36 mm La donna ritratta nell’atto di lavare i panni davanti alla propria abitazione, ubicata nel vico San Giorgio, è Maria Manca. All’epoca, antistante alla maggior parte delle abitazioni era collocata una pietra rialzata che veniva utilizzata appunto per fare il bucato, servendosi dell’acqua portata in loco dalle fontanelle pubbliche. Pubblicata anche in: La fotografia in Sardegna. Lo sguardo esterno. Gli anni del Dopoguerra, Nuoro, Ilisso, 2009, p. 326. 50. Onifai, 1959 negativo b/n, 24 x 36 mm Remedia Segundu, con i figli Sebastiano, Paolino e Andrea Chessa, in posa davanti alla loro abitazione. 51. Onifai, 1959 negativo b/n, 24 x 36 mm Michelangela Carrone e il piccolo Antonio Giovanni Lai.

53. Onifai, 1959 negativo b/n, 24 x 36 mm Matteo Floris (a destra) e Salvatore Loche. 54. Onifai, 1959 negativo b/n, 24 x 36 mm Salvatore Vedele (a sinistra) e Isidoro Lai, ritratti all’interno del caseggiato scolastico appena ultimato (cfr. foto 104). 55-57. Onifai, 1959 negativi b/n, 24 x 36 mm I tre scatti mostrano alcune fasi delle interviste effettuate a personaggi locali dal redattore dell’Espresso, Livio Zanetti, all’interno del bar di proprietà di Mariantonia Manca. Tra gli altri, alla destra dell’intervistato, Giovanni Antonio Piras, Giovanni Santo Podda, Giovanni Antonio Vedele, Giovanni Podda, Francesco Vedele e Sebastiano Manca (foto 55); Giovanni Podda (foto 56); nonché il sindacalista Giovanni Antonio Loche, meglio conosciuto come Totoi (foto 57). 58. Bosa, 1959 negativo b/n, 60 x 60 mm Scatto realizzato dall’interno di un’abitazione che si affaccia su una delle vie di Sa Costa (cfr. foto 69, 110, 114). Pubblicata anche in: La fotografia in Sardegna. Lo sguardo esterno. Gli anni del Dopoguerra, Nuoro, Ilisso, 2009, p. 343. 59-60. Bosa, 1959 negativi b/n, 24 x 36 mm I due scatti mostrano una panoramica parziale della città di Bosa e della valle del Temo visti da via Ultima Costa. I piccoli protagonisti sono rispettivamente Felle Carta (foto 59), e lo stesso con i fratelli Giommaria (a sinistra) e Salvatore (foto 60), ritratti sui gradini della cosiddetta Iscala ’e sa rosa, quella orientale delle due principali scalinate in trachite rossa che mettono in collegamento le varie vie parallele che compongono il rione Sa Costa. La gradinata ad ovest, invece, è comunemente denominata Iscala ’e s’ainu. 61. Bosa, 1959 negativo b/n, 24 x 36 mm Lo sfondo è uno scorcio di via Ultima Costa, la più alta tra quelle che costituiscono il rione medioevale di Sa Costa. Centro storico della città, si compone di una serie di strade parallele, collegate tra loro da gradinate, che si dipanano lungo il crinale sud-occidentale del colle di Serravalle adattandosi al suo profilo tronco-conico. Alla sommità del colle sorge il castello edificato, secondo lo storico Giovanni Francesco Fara, nel 1112 (per quanto recenti studi pospongano la datazione al 1270) dai marchesi di Malaspina, originari della Lunigiana. Il materiale utilizzato per la pavimentazione delle vie di questo quartiere è costituito dai caratteristici ciottoli locali. L’anziana donna in primo piano è Giovanna Pintore (cfr. foto 109). In fondo, Vincenza Secchi (di spalle), con le figlie Caterina (a destra) e Pietrina Pinna (al centro), e la piccola Luisella Corda.


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62. Bosa, 1959 negativo b/n, 24 x 36 mm Questo scatto è realizzato in via Montenegro, comunemente definita Moroidda (cfr. foto 118). L’anziano signore in primo piano è Pietro Cocco; alle sue spalle, Antonangelo Fadda. Sulla destra un gruppo di donne, una delle quali impegnata nella tipica lavorazione del filet: Maria Pane con le piccole Maria (a sinistra) e Fernanda Stara (a destra), sedute; Filomena Usai, vestita di nero, in piedi. Sulla destra il piccolo Tonio Ruggiu e, in fondo, la madre Anna Pilu. «Numerose le piazzette e gli slarghi a corte, spazi che svolgono un ruolo di prosecuzione all’aperto della vita familiare e sedi dove ancora oggi si lavora, mediante telai, il noto “filet di Bosa”, caratteristico ricamo con figure e simboli tradizionali che in passato occupava senza distinzioni tutte le donne bosane» (Sardegna, Milano-Roma, Touring Club Italiano-La Biblioteca di Repubblica, 2005, [L’Italia, n. 16], p. 463). 63. Bosa, 1959 negativo b/n, 24 x 36 mm Uno dei pochi interni domestici realizzati a Bosa da Bavagnoli; come negli scatti effettuati in Baronia, anche in questo caso le pareti ospitano oggetti e utensili di uso quotidiano, dai cesti in asfodelo, tipici della Planargia, alla cartella della scuola, dalla madia per impastare la farina al piano per la lavorazione del pane, quest’ultimo trasformato occasionalmente in mensole. Sul pavimento due brocche per l’acqua, recipienti e stoviglie varie. 64. Bosa, 1959 negativo b/n, 24 x 36 mm Questa immagine, come le foto 58, 67 e 69, è esplicativa della tipologia edilizia a due o a tre piani, caratteristica delle abitazioni del rione Sa Costa: un vano al piano terra con pavimento scavato nella nuda roccia, la cui unica luce è data dalla porta d’ingresso, e un piccolo ambiente sotto la scala che conduce al piano superiore, quest’ultimo, in genere adibito a cucina, è accessibile anche dalla strada parallela posta a monte; nell’eventuale secondo piano trova spazio la camera da letto. Fanno capolino alle pareti vari elementi di cestineria di tipica fattura planargese. «Al castello si sale partendo dal tratto sommitale della già percorsa via Carmine, lungo un tracciato – descritto qui sotto – che penetra nel rione Sa Costa, nucleo di formazione tardomedievale che conserva nell’impianto planimetrico marcati caratteri di integrità, mentre il tessuto edilizio, di tipo povero, è essenzialmente il risultato di un lungo processo di stratificazioni e sostituzioni. I vicoli acciottolati che ne costituiscono la trama, collegati da scale in trachite rossa, seguono le curve altimetriche del colle. Le abitazioni, disposte verticalmente, in genere con una stanza per piano e con singolari – e malsani – vani sotto roccia, hanno due ingressi a piani sfalsati, dalla strada a valle e da quella a monte; la cucina è normalmente all’ultimo piano, con il tipico forno per la preparazione del pane. Insieme a modeste decorazioni in trachite, alcuni prospetti hanno architravi scolpiti con bassorilievi e datati a età spagnola» (Sardegna, in L’Italia, n. 16, MilanoRoma, Touring Club Italiano-La Biblioteca di Repubblica, 2005, [L’Italia, n. 16], p. 463). 65-68. Bosa, 1959 negativi b/n, 24 x 36 mm / 60x60 mm Uno dei nuclei familiari bosani che ha maggiormente

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destato l’attenzione di Bavagnoli è certamente quello dei Masala (cfr. foto 112, 115-116). Nel primo scatto della serie sono ritratti i fratelli Barbara (in primo piano), Pietro e Maria; nel secondo, ancora Barbara, Giovannina Carboni e Pasqualina Naitana (di spalle); nel terzo, da sinistra, Barbara con in braccio Tonio, Maria, Margherita e, sui gradini della scala, Pietro e Rosa; nel quarto, ancora Barbara con in braccio Tonio, Maria, Rosa e Margherita. La foto n. 67 è pubblicata anche in: C. Bavagnoli, Immagini anni ’60, Parma, Grafiche STEP, 1992, p. 92; C. Bavagnoli, L’Archivio. Fotografie, libri dal 1954 al 1995, Parma, Grafiche STEP, 2000, p. 128 (in entrambe le pubblicazioni, lo scatto è attribuito, erroneamente, al nucleo realizzato in Baronia); foto 67-68 in: La fotografia in Sardegna. Lo sguardo esterno. Gli anni del Dopoguerra, Nuoro, Ilisso, 2009, pp. 344-345. 69. Bosa, 1959 negativo b/n, 60 x 60 mm

Ancora un’immagine ripresa in via Ultima Costa; la donna impegnata a fare il bucato è Tetta Spanu. Contrariamente a quanto visto negli scatti relativi ad Onifai (cfr. scheda 49), a Bosa, per lavare i panni si utilizzava una tinozza in legno piena d’acqua, dotata di un piano sul quale strofinare gli indumenti, visibile davanti all’ingresso di numerose abitazioni. Pubblicata anche in: La fotografia in Sardegna. Lo sguardo esterno. Gli anni del Dopoguerra, Nuoro, Ilisso, 2009, p. 346.

SCHEDE CATALOGO

77. Loculi, 1959 negativo b/n, 24 x 36 mm Ritratto del piccolo Giorgio Secci di Loculi, pubblicato dall’Espresso in copertina al numero 17 del 26 aprile 1959 e riferito erroneamente a Irgoli (cfr. scheda 1).

Antonietta Masala ritratta, insieme a uno dei nipoti (cfr. foto 58, 110, 114), all’interno della propria abitazione. Rispetto ad altri edifici del rione Sa Costa documentati da Bavagnoli (cfr. scheda 64), questo si differenzia per alcuni elementi strutturali quali un ulteriore vano oltre a quello d’ingresso (quest’ultimo comunemente denominato sa sala e caratterizzato, in questo caso, da una pavimentazione in lastre di pietra e da un’apertura sulla sinistra, che potrebbe dare accesso ad un’altra camera o più verosimilmente ad un armadio a muro); il vano in fondo, anch’esso pavimentato in pietra, è illuminato, oltre che dalla luce elettrica, da una piccola finestrella sulla parete; vi è riposta, inoltre, sa mesa ’e suighere, il tavolo in legno per la lavorazione del pane.

La piccola Angela Maria Ruiu.

70. Bosa, 1959 negativo b/n, 60 x 60 mm

81. Loculi, 1959 negativo b/n, 24 x 36 mm

Rione Sa Costa.

Angelina Chessa e, in secondo piano, la piccola Franceschina Chessa.

71. Bosa, 1959 negativo b/n, 24 x 36 mm Il ritratto, ambientato in un interno domestico, raffigura Angela Deriu con in braccio uno dei figli. Ricco il campionario di oggetti disposti all’interno della stanza: il lavamano con i relativi accessori, la borsa per l’acqua calda, un grande canestro – comunemente denominato canistedda –, una grattugia, mestoli e stoviglie in ferro smaltato, panni vari. 72. Bosa, 1959 negativo b/n, 24 x 36 mm

78. Loculi, 1959 negativo b/n, 24 x 36 mm Il piccolo Pietro Antonio Sini. 79. Loculi, 1959 negativo b/n, 24 x 36 mm La piccola Maria Lucia Chessa (cfr. foto 24). 80. Loculi, 1959 negativo b/n, 24 x 36 mm

82. Loculi, 1959 negativo b/n, 24 x 36 mm Petronilla Ruiu. 83. Loculi, 1959 negativo b/n, 24 x 36 mm In primo piano, Pietro Cancedda; in secondo piano, Antonino Sini (a destra) e Michele Luche; in fondo, Pietro Cambedda (cfr. foto 8). 84. Loculi, 1959 negativo b/n, 24 x 36 mm

La donna sull’uscio di casa, impegnata nella nettatura del grano con l’aiuto della figlia Rosaria, è Angela Carta. Tipici i due sgabelli in sughero.

Il piccolo Simone Luche e Maria Grazia Chessa.

73-74. Bosa, 1959 negativo b/n, 24 x 36 mm

85. Loculi, 1959 negativo b/n, 24 x 36 mm

Due scatti ambientati nel rione Sa Costa, entrambi animati da bambini che giocano.

Antonina Puggioni (cfr. foto 23) e, a destra, Pasqualina Fois (cfr. scheda 13).

75. Bosa, 1959 negativo b/n, 24 x 36 mm

86. Loculi, 1959 negativo b/n, 24 x 36 mm

Carmelo Fois. Pubblicata anche in: La fotografia in Sardegna. Lo sguardo esterno. Gli anni del Dopoguerra, Nuoro, Ilisso, 2009, p. 347.

Pietra Mulas (cfr. scheda 31) con in braccio il fratello Cosimo.

76. Bosa, 1959 negativo b/n, 24 x 36 mm

87. Loculi, 1959 negativo b/n, 24 x 36 mm Il piccolo Pasquale Flore (cfr. foto 27, 36).

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Carlo Bavagnoli, Stati Uniti, 1965 (foto Don Cravens, Getty Images)


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Carlo Bavagnoli, un reporter italiano a Life Salvatore Novellu

Carlo Bavagnoli nasce a Piacenza il 5 maggio 1932. Completati gli studi classici, nel 1951 si iscrive alla facoltà di giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Milano iniziando contemporaneamente una collaborazione giornalistica con il quotidiano La Notte. È il dopoguerra, l’epoca in cui il mitico bar Jamaica di via Brera diviene il crocevia della vita culturale e artistica del capoluogo lombardo. In questo piccolo locale, si confronta sulla fotografia e stringe profonda amicizia con tutta una serie di personaggi i quali, di lì a poco, come lui, diverranno personalità di spicco del panorama fotografico italiano: Mario Dondero, Ugo Mulas e Alfa Castaldi. Per loro, la frequentazione del Jamaica, oltre che una scelta ideologica era anche una questione di opportunità lavorative. Come ricorda lo stesso Dondero, in un’intervista rilasciata ad Antonio Ria: «Del gruppo di amici che frequentavano il Jamaica, soltanto Carlo Bavagnoli, una carriera brillantissima fra Epoca e Life, ed io, certamente con minore risalto, non abbiamo deviato da una linea di fedeltà tenace al fotogiornalismo. Alfa Castaldi e Ugo Mulas, prima che il male li portasse via, esplorarono invece con grandi esiti altre strade. Oltre ad essere stati entrambi degli amici straordinari, con cui abbiamo vissuto insieme per anni, sono stati autentici protagonisti della fotografia. Ugo, conquistato dal mondo degli artisti; Alfa, passato armi e bagagli alla fotografia di moda, in cui ha espresso il suo grandissimo talento. Se si fosse potuto scrutare in ciascuno di noi con uno strumento immaginario che rileva le vocazioni o più semplicemente con un’indagine psicologica approfondita, sarebbe probabilmente risultato che Carlo Bavagnoli ed io nutrivamo una netta preferenza per quel tipo di fotografia che ha come supporto privilegiato le pagine dei giornali, anziché il gusto della speculazione filosofica attraverso la sperimentazione fotografica, come Ugo Mulas, o l’ascesi lirica di certe immagini di Alfa Castaldi nel campo avveniristico e sofisticato della moda». Un altro amico e protagonista di quegli anni, è lo scrittore grossetano Luciano Bianciardi, autore della Vita agra, romanzo che ben descrive quel mondo e quelle atmosfere, col quale Bavagnoli alloggiò in una camera nella vicina via Solferino, nei pressi del bar Jamaica, di fianco a quella ove risiedevano gli stessi Mulas e Dondero. Nel suo romanzo, Bianciardi dedica diverse pagine ricche di aneddoti al fotografo piacentino. Gli esordi Una delle prime esperienze lavorative, Bavagnoli, ma anche Mario Dondero e Alfa Castaldi, la ebbe, nei primi

anni Cinquanta, con l’agenzia fotogiornalistica Interpix, che forniva le immagini alle maggiori testate milanesi, dal Corriere della Sera all’Europeo, da Epoca a Settimo Giorno. Per questa si occupava allo stesso tempo di cronaca, costume e reportage. Sin da allora, preferisce lavorare utilizzando la luce ambiente, tecnica di ripresa che caratterizzerà gran parte della sua produzione, l’unica in grado di consentirgli una naturale restituzione delle atmosfere. Contemporaneamente inizia a collaborare con le principali riviste dell’epoca, indagando vari aspetti della Milano dell’epoca: le prove, alla Scala, per la Traviata interpretata da Maria Callas e diretta da Luchino Visconti, e quelle di Leonard Bernstein per la Sonnambula; i primi insediamenti di immigrati meridionali alla periferia di Milano; il quartiere degli artisti a Brera; la cerimonia di consacrazione dei Cavalieri del Santo Sepolcro. Cinema Nuovo, diretta da Guido Aristarco, pubblica i suoi primi “fotodocumentari” – un nuovo genere di giornalismo nel quale

“Via della Passarella”, fotodocumentario pubblicato in Cinema Nuovo, novembre 1954

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la narrazione avviene per immagini –, ne è un chiaro esempio “Via della Passarella”, del novembre 1954, sette pagine nelle quali condensa la giornata tipo di una ballerina d’avanspettacolo. Nel 1955, Pietro Bianchi, direttore dell’Illustrazione Italiana gli affida un reportage sulla cittadina emiliana di Cento. I giornali Trasferitosi definitivamente a Milano, nella primavera del 1955, poco più che ventenne, è assunto nello staff della rivista Epoca dall’allora direttore Enzo Biagi. A luglio riesce a intervistare il segretario del Partito Comunista e futuro leader sovietico, Nikita Krusciov, e a ottenere da questo il permesso di recarsi in Russia nei mesi seguenti, per due reportage su Leningrado e Mo-

sca che Epoca pubblicherà rispettivamente nel novembre del 1961 e nell’aprile del 1963. Pochi mesi dopo viene trasferito nella redazione romana del giornale. Nella capitale, parallelamente al lavoro commissionatogli dal settimanale, come ai tempi della Interpix, continua a svolgere un personale lavoro di ricerca. Per almeno un biennio, si dedica ad un’approfondita documentazione del quartiere popolare di Trastevere, la vera anima di Roma, un’anima fatta di gente comune che trascorre la propria esistenza per strada, tra gatti e panni stesi ad asciugare al sole, trattorie e locali di ritrovo. Queste fotografie segneranno una svolta nella sua attività professionale e saranno alla base di un proficuo e duraturo rapporto di collaborazione con la rivista americana Life. Già a Brera aveva conosciuto David Douglas Duncan, fotografo del magazine americano, rimanendo affascinato dalle sue foto della guerra di Corea; ma è Phil Kunhardt, l’allora vicedirettore di Life, nel corso di un soggiorno romano (il fondatore di Life, Henry Luce, marito dell’allora ambasciatrice americana a Roma, Claire Boothe Brokaw, era solito invitare nella capitale i suoi redattori per delle riunioni di lavoro), a scoprire e acquistare alcune delle sue foto su Trastevere esposte alla libreria “Al ferro di cavallo” in via di Ripetta, quattro delle quali pubblicate sulla rivista il 20 gennaio 1958, all’interno della rubrica “Speaking of pictures”, col titolo “A huge laugh busting loose”. La collaborazione col magazine americano provoca immediatamente l’interruzione dei rapporti con Epoca. Inizia allora a lavorare, come free lance, per Il Gatto Selvatico, rivista dell’ENI diretta da Attilio Bertolucci, per la quale si occuperà di fotografia industriale e di costume. Qualche anno più tardi, nel ’63, sarà lo stesso editore di Epoca, Arnoldo Mondadori, a richiamarlo a lavorare per lui e a pubblicare Gente di Trastevere, uno dei primi esempi di libro fotografico in Italia. Nel 1970, quando Federico Fellini si appresta a girare Roma, chiederà proprio al fotografo di accompagnarlo nei sopralluoghi preparatori al film, alla ricerca di atmosfere e personaggi caratteristici del rione. La riedizione di Gente di Trastevere. 1960, pubblicata nel 1996, si aprirà a sua volta con una lunga intervista dello stesso Bavagnoli al regista riminese. La Sardegna Nel marzo del 1958, Life gli affida il primo incarico importante: deve recarsi per la prima volta in Sardegna, ad Orani, per un reportage su Costantino Nivola, giunto nel suo paese natale per eseguire la decorazione della facciata della chiesa di Nostra Signora d’Itria e per una mostra di scultura lungo le vie del paese. Bavagnoli documenta i vari stadi della realizzazione dell’opera, dalla stesura dell’intonaco, operata con l’aiuto dei muratori locali, all’incisione, su questo, da parte dell’artista, dei propri graffiti. Nivola, inoltre, espone lungo le strade dei vicinati di Sa Itria, Gusei e Su Rosariu, tutta una serie di piccole sculture realizzate in pietra e cemento, suscitando la curiosità e lo stupore dei suoi compaesani. Ne deriva, anche in questo caso, un’accurata documentazione

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alla pagina precedente: Copertina di Epoca, a. XII, n. 582 del 26 novembre 1961, contenente il reportage di Bavagnoli su Leningrado Copertina di Epoca, a. XIV, n. 654 del 7 aprile 1963, contenente il reportage di Bavagnoli su Mosca a lato: Roma, Trastevere, 1958-59

delle varie fasi dell’allestimento, dalla creazione vera e propria delle opere, ai ritratti dei visitatori l’esposizione che sorridono mentre le osservano meravigliati, sforzandosi di penetrare il significato di quelle forme inconsuete, sospese a mezz’aria sui loro supporti metallici. Gli ultimi scatti dedicati a Nivola, in quel viaggio a Orani, sono concernenti alla realizzazione della tomba della madre e del fratello Giuseppe, nel cimitero del paese. Il corpus di negativi relativi al reportage oranese e costituito da trecento scatti, duecentosedici realizzati su pellicola 35 mm (Ilford HP3 Hypersensitive Panchromatic e Ilford FP3 Fine Grain Panchromatic) e ottantaquattro su pellicola 6x6. Sulla traccia della commissione parlamentare d’inchiesta sulla miseria in Italia, istituita tra il 1952 e il 1953 – «col compito di condurre una indagine sullo stato attuale della miseria, al fine di accertare le condizioni di vita delle classi povere e il funzionamento delle istituzioni di assistenza sociale» –, nella primavera del 1959, L’Espresso, diretto da Arrigo Benedetti, decide di condurre un’indagine sul Mezzogiorno, affidandone la realizzazione ad alcuni tra i suoi giornalisti più conosciuti, tra i quali Nicola Caracciolo, Livio Zanetti ed Eugenio Scalfari, mentre la parte fotografica sarà curata, tra gli altri da Enrico Sarsini e Carlo Bava-

gnoli. Quest’ultimo sarà inviato in Sardegna, a Loculi, Irgoli e Onifai, in Baronia, e si recherà anche a Bosa, in Planargia; sarà inoltre in Sicilia, a Palma di Montechiaro. La prima puntata dell’inchiesta L’Africa in casa, soprattitolata “Perché scappano verso Nord”, fu pubblicata in apertura al numero del 26 aprile 1959. Per l’immagine di copertina, la redazione scelse uno degli scatti realizzati da Bavagnoli, il ritratto del piccolo Giorgio Secci di Loculi (foto 77). Altre due fotografie concernenti Loculi illustrarono la sesta puntata dell’indagine, dal titolo “I servi pastori”, sul numero 21 del 24 maggio 1959. Le immagini in questione raffigurano, nello specifico, un gruppo di famiglia in interni, i Fois-Chessa, (scatto simile alla foto 13), e due bambine che riposano su una stuoia, le piccole Gonaria Puggioni e Antonina Serra (foto 25), tutti di Loculi. L’ampio reportage, costituito da circa cinquecento scatti su pellicola 35 mm (Ilford HP3 Hypersensitive Panchromatic e Ilford FP3 Fine Grain Panchromatic), oltre a una quarantina su pellicola 6x6, non si limita ad analizzare l’ambito baroniese ma sposta la sua attenzione anche verso altre realtà, come Bosa, diverse sotto tutti i profili, contestuale, storico, urbanistico e architettonico. La narrazione è svolta evitando la facile retorica della miseria e della sofferenza, stereotipata di norma in immagini

alla pagina seguente: Numero speciale di Life del 23 dicembre 1966, dedicato alla fotografia. Bavagnoli, ritratto in copertina insieme agli altri fotografi del magazine americano, è presente all’interno con il fotoracconto “A boy’s world of Naples”, già pubblicato sei anni prima Quattro immagini tratte dal volume Cara Parma pubblicate dal prestigioso quotidiano londinese The Times il 29 settembre 1962

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