La fotografia in Sardegna 1854-1939 (I)

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Lo sguardo esterno 1854-1939

LA FOTOGRAFIA IN SARDEGNA

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LA FOTOGRAFIA IN SARDEGNA Lo sguardo esterno 1854-1939

ISBN 978-88-6202-035-0

9 7 8 8 8 62 0 2 0 35 0

In copertina: V. SELLA, Perfugas da occidente

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Collana STORIA DELLA FOTOGRAFIA IN SARDEGNA Grafica e impaginazione Ilisso Edizioni Grafica copertina Aurelio Candido Stampa Lito Terrazzi Referenze fotografiche Archivio Fratelli Alinari, Firenze: V. Alinari, nn. 207-231 Archivio Cesare De Seta, Napoli: G. Pagano, nn. 449-464 Archivio Ilisso, Nuoro: M.L. Wagner, nn. 189-190; B. Stefani, nn. 431-448; V. Aragozzini, nn. 392, 395, 405-406, 413, 416; G. Ferrari, p. 20 Archivio Rainer Pauli, Münic: C. Delius, nn. 290-297 Archivio Storico del Comune, Iglesias: G. de Fernex, pp. 16-17; C. Polozzi, p. 21; V. Besso, nn. 53-72; V. Aragozzini, nn. 391, 393-394, 396-404, 407-412, 414-415, 417-430 Accademia Nazionale dei Lincei, Biblioteca Corsiniana, Roma: C. Pascarella, nn. 163-188 The British School at Rome, Biblioteca, Roma: P.P. Mackey, nn. 84-103 Biblioteca Reale, Torino: É. Delessert, nn. 1-40; V. Besso, nn. 41-52; E. Canè, nn. 73-83 Bildarchiv Preußischer Kulturbesitz, Berlin: B. Lohse, nn. 360-390 Die Photographische Sammlung/SK Stiftung Kultur, Köln: A. Sander, p. 25, nn. 246-268 Fondazione Sella, Biella: E. Sella, nn. 104-130; V. Sella, nn. 131-161; C. Sella, n. 162 Università di Torino, Istituto dell’Atlante Linguistico Italiano (Archivio ALI), Torino: U. Pellis, nn. 298-339 Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma: L. Morpurgo, nn. 269-289 The National Geographic Image Collection, Washington D.C.: C.W. Wright, nn. 232-236; C. Adams, nn. 237-245 Università di Berna, Istituto di Filologia Romanza (Archivio AIS), Berna: M.L. Wagner, nn. 191-206 Università di Parma, Centro Studi e Archivio per la Comunicazione, Parma: V. Villani, nn. 340-359

Un sentito ringraziamento è rivolto a istituzioni e studiosi che a vario titolo hanno collaborato e reso possibile la realizzazione di questo volume: Fratelli Alinari Fondazione per la Storia della Fotografia, Firenze, nelle persone delle dott.sse Monica Maffioli e Francesca Ambrosi Archivio di Stato, Nuoro, nella persona del direttore dott.ssa Angela Andrea Orani Archivio Storico del Comune, Iglesias, nelle persone del direttore dott.ssa Antonina Maiorana e delle dott.sse Daniela Cirronis e Carla Usai Biblioteca Corsiniana dell’Accademia Nazionale dei Lincei, Roma, nelle persone del presidente dott. Giovanni Conso, del direttore dott. Marco Guardo e della dott.ssa Enrica Schettini Piazza Biblioteca The British School at Rome, Roma, nelle persone del direttore dott.ssa Valerie Scott e del responsabile dell’archivio dott.ssa Alessandra Giovenco Biblioteca Reale, Torino, nelle persone del direttore dott.ssa Clara Vitulo e della dott.ssa Antonietta De Felice Bildarchiv Preußischer Kulturbesitz, Berlin, nelle persone del direttore dott. Hanns-Peter Frentze e dei dott. Elke Schwichtenberg e Norbert Ludwig Die Photographische Sammlung/SK Stiftung Kultur, Köln, nelle persone del direttore dott.ssa Susanne Lange e del dott. Gabriele Conrath-Scholl Fondazione Sella, Biella, nelle persone del presidente dott. Lodovico Sella, della dott.ssa Angelica Sella e del responsabile del laboratorio fotografico Luciano Pivotto Istituto dell’Atlante Linguistico Italiano dell’Università di Torino, nelle persone del direttore prof. Lorenzo Massobrio e del dott. Matteo Rivoira Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma, nelle persone del direttore dott.ssa Mariarosaria Salvatore, del responsabile del Museo-Archivio di Fotografia Storica dott.ssa Maria Lucia Cavallo, e delle dott.sse Maria Letizia Melone e Deborah Virgili ed inoltre la dott.ssa Mariantonietta Lanzillotti e tutto il personale del laboratorio fotografico dell’ICCD Istituto Superiore Regionale Etnografico, Nuoro, nella persona del direttore generale dott. Paolo Piquereddu The National Geographic Image Collection, Washington D.C., nelle persone delle dott.sse Deborah Li e Gina M. Martin Istituto di Filologia Romanza dell’Università di Berna, nelle persone delle dott.sse Miriam Mannino e Francesca Pettenati Centro Studi e Archivio per la Comunicazione dell’Università di Parma, nelle persone del direttore dott.ssa Gloria Bianchino e del dott. Paolo Barbaro Inoltre, per il prezioso contributo a vario titolo elargito: Maria Francesca Bonetti, Riccardo Campanelli, Pierangelo Cavanna, Cesare de Seta, Daniele Fragapane, Francesco Franco, Enzo Giacobbe, Antonello Mattone, Silvia Paoli, Ulrich Pohlmann, Arturo Carlo Quintavalle, Alessandro Ruju, Serena Stefani, Raffaella Venturi Un particolare ringraziamento per la costante, generosa e attenta assistenza a Rainer Pauli

© 2008 ILISSO EDIZIONI - Nuoro www.ilisso.it ISBN 978-88-6202-035-0


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Indice

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Lo sguardo fotografico dell’Occidente, tra tradizione e modernità Marina Miraglia

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Immagini di Sardegna. Strategie per entrare, e per uscire, dalla modernità Francesco Faeta

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Sardegna contemporanea (1854-1939). Continuità e trasformazioni nella società e nelle identità collettive Maria Luisa Di Felice

I FOTOGRAFI 52 70 86 90 104 122 154 172 188 208 212 220 244 264 274 314 334 360

Édouard Delessert Vittorio Besso Enrico Canè Peter Paul Mackey Erminio Sella Vittorio Sella Cesare Pascarella Max Leopold Wagner Vittorio Alinari Charles Will Wright Clifton Adams August Sander Luciano Morpurgo Charles Delius Ugo Pellis Vittorio Villani Bernd Lohse Vincenzo Aragozzini (Fototecnica Crimella)

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Bruno Stefani Giuseppe Pagano Nota aggiuntiva Marina Miraglia

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Bibliografia generale


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G. DE FERNEX, Monteponi, Cungiaus, il guardiano, 1904-09 G. DE FERNEX, Monteponi, ascensori, 1904-09 G. DE FERNEX, Monteponi, minatore, 1904-09 G. DE FERNEX, Monteponi, minatore, 1904-09 G. DE FERNEX, Monteponi, Cungiaus, 1904-09 G. DE FERNEX, Monteponi, 1904-09 G. DE FERNEX, Monteponi, selezione del minerale, 1904-09 G. DE FERNEX, Monteponi, carico del minerale, 1904-09 G. DE FERNEX, Monteponi, carico del minerale, 1904-09 G. DE FERNEX, Monteponi, carico del minerale, 1904-09

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GIOVANNI FERRARI, Ingurtosu, pozzo Ingurtosu, 1876 GIOVANNI FERRARI, Ingurtosu, piazza cantina, 1876 CARLO (?) POLOZZI, Monteponi, 1875 CARLO (?) POLOZZI, Monteponi, 1875 CARLO (?) POLOZZI, Monteponi, 1875

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più caratteristici e distintivi, là dove il compito della fotografia è quello di collocarli in una ben precisa situazione spazio-temporale. La fotografia infatti, come osserva Scheuermeier per l’AIS,117 ricollega in maniera più diretta e immediata «l’oggetto al suo mondo, mostra lo strumento nelle mani dell’uomo, rendendone chiaramente visibili il modo dell’impiego e le dimensioni», in un’implicita e maggiore autonomia rispetto al testo cui le xilografie sono, invece, legate quasi senza soluzione di continuità.118 Contro lo sguardo oggettivante dei due linguisti, Luciano Morpurgo, nell’accesa referenzialità dei propri soggetti popolari, lascia chiaramente trasparire «l’innamoramento per il soggetto [che] gli faceva superare le cognizioni alquanto semplici di etnografia per un contatto immediato con la gente e cioè nel senso moderno della scoperta fotografica, della documentazione diretta, ma con tensione drammatica, in una grandiosità monumentale nella partizione sapiente della luce e dell’ombra».119 Più che noto è infatti il suo interesse antropologico sul doppio e irriducibile versante del proletariato urbano e del mondo contadino delle campagne, colto soprattutto attraverso le fotografie dei contadini ciociari ed abruzzesi, ripresi, negli anni, nel corso delle processioni religiose del pellegrinaggio di Vallepietra a Monte Autore,120 mentre, grazie ad una recente pubblicazione, altrettanto conosciuto è un suo lavoro in Palestina (1927), già oggetto di una monografia di Almagià del 1930.121 Il suo soggiorno in Sardegna del 1928, anch’esso caratterizzato da uno spiccato interesse antropologico è, invece, del tutto inedito, pur se facilmente inseribile nelle coordinate di lettura già attivate dalla critica e dalla storiografia. Il filo ininterrotto che lega le immagini sarde a quelle prodotte prima e dopo è l’interesse umano per l’altro da sé, un interesse e una partecipazione, ma anche un desiderio di conoscenza che lo avevano spinto ad essere, viaggiatore del Mediterraneo, prevalentemente in Paesi della costa, allo scopo di coglierne e catturarne, con la camera, abitudini di vita, usanze e costumi, modi di atteggiarsi, di essere e di presentarsi. Nutrito al referenzialismo delle cartoline illustrate, interessato, con l’esperienza Cirio, al sovrapporsi di verità e verosimiglianza della produzione pubblicitaria, in opposizione a forme e strutture linguistiche che potessero indulgere al pathos e al sentimento, oppure all’appello simbolista del Liberty e della fotografia pittorialista – di cui pure aveva subito le lusinghe, per l’amicizia con il giovane Ravaioli –, Morpurgo si mostra aggiornato rispetto ai nuovi orientamenti della fotografia successiva alla fine del primo conflitto mondiale, così come si erano definiti, in riferimento al quadro culturale generale, nell’occasione tutta interna alla situazione italiana della Prima Esposizione Internazionale di Fotografia, Ottica, Cinematografia, tenuta a Torino nel 1923.122 Nella complessità degli elementi che vi confluirono, di particolare rilievo era senz’altro il legame esplicito che veniva a crearsi fra cinema – che aveva già costituito elemento privilegiato della sua formazione e dei suoi interessi – e fotografia, binomio indissolubile che andava imponendosi come centrale nell’ambito della comunicazione di massa; contemporaneamente, nella catena mediale che andava sempre più definendosi, altrettanto forti erano anche i rapporti di cinema e fotografia da un lato e ricerca scientifica, mondo industriale e finanziario dall’altro. L’esposizione, suddivisa nei tre gruppi principali e dichiarati nella propria testata, era infatti organizzata, all’interno di questi gruppi, in diverse classi. Il primo raggruppamento, dedicato alla fotografia, era caratterizzato, oltre che dalla presenza delle opere dei più noti fotografi dell’epoca, da altre scansioni di carattere culturale e scientifico, vale a dire: una mostra retrospettiva dedicata alla storia della fotografia; fotografia e industria; fotografia e applicazioni scientifiche; materiali fotografici; proiezioni; letteratura, scuole, associazioni e giornalismo fotografico. Mentre l’ottica costituiva un gruppo unitario e senza ulteriori divisioni, con principio analogo a quello adottato per il primo gruppo, anche il cinema, nello scalare delle sue classi, prendeva in considerazione le possibili e significative ricadute nei campi attigui della propaganda, della stampa e del mondo finanziario.


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In questo clima culturale di riferimento, aperto alla modernità internazionale e cui attinsero anche Vittorio Villani, Bruno Stefani, Vincenzo Aragozzini e Mario Crimella per le loro fotografie industriali, Morpurgo approfondì la tendenza di sempre per un reportage, diretto e senza retorica, disinvolto e al tempo stesso impegnato nella promozione di nuove strategie linguistiche, molto prossimo al fotogiornalismo per le sequenze narrative delle immagini. La solidità dell’impegno era spesso sostenuta dalla forza concettuale di un progetto, volto insieme all’indagine geografica e alla documentazione delle varie popolazioni del Mediterraneo, così come era avvenuto in Palestina con il viaggio compiuto insieme al geografo umano Almagià, che ricorda le analoghe esperienze americane alla conquista del West, caratterizzate dall’intervento congiunto di geografi, geologi e cartografi, affiancato a quello di uno o più fotografi; contemporaneamente la sua parallela attività di editore veniva a legare, ancora una volta, la parola scritta all’immagine. Nel viaggio in Sardegna, che si colloca immediatamente a ridosso di quello in Palestina, Morpurgo ripropone moduli di lettura e di interpretazione iconica molto prossimi a quelli sperimentati con successo l’anno precedente in Palestina; egli riprende infatti, a Fonni, in provincia di Nuoro, la

coralità popolare della festa della settimana successiva a quella della Pentecoste, con ardite inquadrature d’insieme e dall’alto, ma anche con immagini che ne isolano i diversi protagonisti; coppie di sposi in abito tradizionale e a cavallo, volti ed espressioni, colti nella spontaneità di un attimo fuggente che spesso tengono in non cale la qualità della luce o la scarsa leggibilità del controluce che egli correggeva poi in fase di stampa con accorgimenti tecnici in genere riferiti dalla critica a un presunto impegno pittorialista. Come molti altri fotografi continentali, egli – indagando, più di altre realtà, quelle di Villagrande, Zuri, Seui, Desulo, Fonni, Tonara e Aritzo – sembra concentrare la propria attenzione sull’identità della Sardegna più interna, quella del Nuorese di Grazia Deledda e di Ballero, con uno sguardo che possiamo ricollegare all’incontro intellettuale con il pensiero di De Nino, mediato attraverso Michetti, uno sguardo che punta l’interesse sul popolo e il popolare e che attraversa costantemente tutta la sua produzione fotografica. La continuità e la centralità dell’intenzione antropologica viene, del resto, ribadita e chiaramente espressa nel 1930, anno in cui Morpurgo presenta a Trento, in occasione del I Congresso di Arti e Tradizioni Popolari, una Proposta per una vasta raccolta delle nostre tradizioni popolari,123

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quartieri che, grazie agli interventi, beneficiavano di nuove infrastrutture (la rete elettrica), e un porto ben attrezzato all’interno del quale si elevavano i silos di recente costruzione. Considerato il padre della ritrattistica moderna tedesca, Sander, esponente di spicco della cultura prenazista, nel 1927 soggiornò per tre mesi in Sardegna, insieme allo scrittore Ludwig Mathar. Il suo vasto reportage sardo – circa 500 fotografie – era riconducibile al programma di catalogazione della società contemporanea, tracciato dal Gruppo degli artisti progressisti di Colonia, di cui Sander faceva parte. Stimolato da un forte interesse per l’identità sarda, colta in alcune emblematiche testimonianze artistiche e nei ritratti di gente comune realizzati nell’entroterra, Sander ritraeva prevalentemente i soggetti sardi che potevano entrare nella “categoria” sociale dei contadini. La sequenza fotografica, sfrondata da qualsiasi indulgenza oleografica, restituiva un’immagine compatta delle campagne: gruppi di persone e soggetti singoli in costume, ritratti in processione, sulla porta di casa, nelle attività quotidiane, a fianco di un asino, su un cavallo, accanto a un aratro, a un carro. L’intento era insieme descrittivo e cognitivo: descrivere e conoscere con la fotografia un mondo e le sue logiche interne, prima che la “civiltà” lo modificasse. Ne emergeva indirettamente un impegno nell’ambito della storia sociale. Un pari intento inventariale, seppure suscitato da altre ragioni scientifiche, motivava anche le indagini fotografiche di Max Leopold Wagner e Ugo Pellis, mirate a supportare lo studio della linguistica e della cultura materiale in Sardegna. La fotografia creava una corrispondenza puntuale tra parole e cose o soggetti fotografati, funzionale alla realizzazione di due progetti di lavoro: quello di Wagner per l’Atlante linguistico Italiano e della Svizzera retroromanza,82 e quello di Pellis per l’Atlante Linguistico Italiano.83 Queste raccolte fotografiche – realizzate dal primo nel 1905-06 e ancora nel 1926-27, dal secondo nel 1932-35 – costituiscono una rilevante fonte storica nello specifico ambito di riferimento scientifico, e, più in generale, nel contesto storiografico della Sardegna novecentesca, tra quegli studi che portarono alla riscoperta dell’identità sarda.84 Tra le testimonianze prevaleva l’interesse per l’uomo, per l’«autoctonia e la “diversità” dei sardi», per la Barbagia in particolare che, secondo Wagner, rappresentava l’unica vera Sardegna.85 La cura nel supportare il lavoro scientifico con la documentazione fotografica faceva assumere alle immagini uno spessore oggettivante che altre serie documentarie non possedevano. Dall’esame di questo materiale si palesava un quadro antropologico scientificamente connotato delle comunità sarde: lo sguardo affondava nelle relazioni esistenti tra città e campagna, negli elementi fondamentali e minuti della vita sociale ed economica, in un’età che costituiva uno spartiacque tra tradizione e modernità, e che pareva minacciare l’esistenza del ricco e composito patrimonio culturale delle comunità. Dinanzi a questa evenienza, le ricerche dei linguisti non intendevano porsi astoricamente, ma raccogliere e catalogare le testimonianze, prima che andassero perdute. L’età giolittiana A metà del secolo, Delessert aveva esordito con immagini prive di figure umane; il secolo, invece, si chiudeva con una significativa serie di ritratti, quelli dei più temibili esponenti della “zona delinquente” (di lombrosiana memoria) e di alcune “belve umane”. I primi, anonimi, rappresentavano un buon numero di banditi, incarcerati dopo anni di latitanza, i secondi, eseguiti dal tenente Oddone e da S. Magnanelli, mettevano in mostra Tommaso Virdis e i fratelli Serra Sanna, a capo di una banda tra le più temute della Sardegna, uccisi il 10 agosto 1899 dalle forze dell’ordine a Morgogliai, tra Oliena e Orgosolo.86 Lo scontro completava l’azione disposta dal governo Pelloux che, organizzata nel clima repressivo di quegli anni, dopo la visita dei sovrani a Cagliari e Sassari,87 portava all’arresto di centinaia tra banditi e favoreggiatori.88 Fu una «lotta sorda e palese, […] combattuta nel nome dell’umanità e della giustizia», ricordava Giulio Bechi in Caccia grossa, un diario di guerra e di costume scritto nel ricordo dei giorni trascorsi alla ricerca dei banditi.89

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A molti, come all’ufficiale fiorentino, la Sardegna pareva uno “strano paese”, ancora avvolto nel suo passato. «C’è chi va nella Cina, nel Congo, nelle Pampas, […] per veder nuove genti e nuove cose – osservava Bechi –, e non si sogna neppure che a poche ore da noi, in questo nostro Tirreno, vi è un mondo tanto diverso da quello in cui viviamo, sì che […] si esclama: – Ma è Italia? È Europa questa?».90 Era una terra che concentrava “maraviglie” naturalistiche e “varietà” umane: nell’arco di una giornata, considerava Bechi, «si cambia di popolo, di lingua, di vesti, di razza, come si cambia di contrada». Così ai pastori dalle chiome spioventi, mai esplorate dal “morso del pettine”, facevano da contraltare meravigliose donne, “vestite come fate”; e di fronte al “sorriso di Carloforte” stava “il più lacrimevole lembo di Sardegna” – Sant’Antioco –, «un intero popolo, più di trecento esseri, che vivono, uomini e bestie, nelle viscere di un monte, in oscuri e fetidi antri»91 – i “trogloditi” di Vittorio Angius – ritratti anche da Alinari nella loro cavernosa quotidianità.92 La Sardegna appariva una terra di miserie che al suo popolo non faceva presagire la strada del progresso, e, avvolta nel “romanticismo morboso” e nei “pregiudizi secolari”, non attirava i colonizzatori, indirizzati verso la Patagonia nonostante avessero “una Patagonia vera in casa”.93 Rappresentata allora entro i paradigmi della “singolarità” e dell’“irriducibile unicità”, la cultura tradizionale della Sardegna oggi si definisce piuttosto nella sua “specificità”: una “grande densità e compattezza” di tratti “culturali di tipo folklorico” che trova giustificazione nella “penuria” e nella “discontinuità di rapporti con l’esterno” – spiega l’antropologo Giulio Angioni –, circostanze immutate per secoli che hanno permesso all’isola «dei lunghi processi di elaborazione, di lenta trasformazione e di continuità culturale, indubbiamente caratteristici, nonostante le pur importanti e decisive ondate acculturative e le rotture storiche anche violente».94 Il mito della sardità attirava Bechi e molti altri in viaggio per l’isola, tappa stabilmente inclusa nel Tour dalla fine dell’Ottocento. Diversi anni dopo, nel 1923, anche a David Hebert Lawrence accadeva di osservare la “strana magia” della regione, di rafforzare l’idea di tanta “peculiarità”: la Sardegna era «rimasta fuori dal tempo e dalla storia».95 Eppure, tra le pagine del suo Sea and Sardinia emergevano le tracce di importanti cambiamenti, quelli che attiravano meno i viaggiatori, incuriositi, ancora, dall’insolito, dal persistere di una civiltà tanto arcaica alle porte di casa. A Cagliari, tra strade umide e puzzolenti, vicoli stretti e bui, Lawrence coglieva i segni del “nuovo”: i mutamenti attuati dal sindaco Ottone Bacaredda (al Comune, con brevi intervalli, dal 1890 al 1921), le brecce tra le mura abbattute, il bastione di Saint Remy, la rinnovata via Roma tra caffè e folti ciuffi d’alberi, il mercato coperto, ma anche il tram a vapore, le linee ferroviarie delle Reali e delle Secondarie, ritratte come simboli della modernità avanzante; in campagna – una Cornovaglia dove «qua e là […] contadini lavorano nel paesaggio deserto»96 – l’assenza delle grosse mandrie di bestiame, requisite durante la grande guerra, i contadini vestiti del panno grigio-verde fornito durante lo stesso conflitto, e a Mandas, in un bar, un oste socialista, convinto di riconoscere in Lawrence un agente bolscevico. Un paese tra il vecchio e il nuovo, tra una balia vestita con il “meraviglioso” costume tradizionale e i suoi padroni borghesi, seduti al tavolino di un caffè, in posizioni naturali e umane non ancora pregiudicate dall’inasprirsi delle lotte sociali.97 I racconti di Bechi e di Lawrence rappresentano le quinte di un palcoscenico aperto – tra città e mondo agro-pastorale, modernità e tradizione – sulla Sardegna giolittiana, quella che registrò i cambiamenti più marcati,98 e portò alla ribalta una rinnovata e popolosa Cagliari – una città, guidata da Bacaredda, alla ricerca di un’identità borghese dove, accanto agli entusiasmi di una più vivace attività politica e intellettuale, si apprezzavano i segni di uno sviluppo manifatturiero, favorito dalla legislazione speciale99 – in una regione che, controllata da un giolittiano di ferro come Francesco Cocco Ortu, vedeva l’affermazione di altri e nuovi soggetti politici e sociali. Il gruppo radicale-repubblicano, attivo soprattutto a Sassari (ma poi anche a Tempio, Alghero, Ozieri e Nuoro); i cattolici dell’Unione Popolare, promotori di importanti rivendicazioni anche in ambito scolastico;100


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una classe operaia moderna e organizzata che da Iglesias si allargava a Sassari, Cagliari e Tempio; un Partito Socialista che nel distretto minerario si poneva alla guida delle organizzazioni dei minatori, sottoposti ad uno sfruttamento senza pari.101 Lavori edili e di bonifica, ferrovie e opere pubbliche, il volto dell’isola si faceva più moderno, ma, in persistente discontinuità territoriale e in assenza di un programma complessivo di sviluppo, erano quasi esclusivamente i nuclei urbani e l’alta borghesia ad approfittare delle opportunità offerte; il resto della regione conosceva la modernizzazione in modo intermittente, spesso anzi la subiva. Latitava una vera classe dirigente locale, illuminata e scevra dai condizionamenti. Non mancavano, certo, i centri di potere, concentrati a Cagliari e Sassari, ma le iniziative politiche ed economiche di maggiore spessore erano gestite dal continente, come di là dal mare venivano i capitali e le risorse finanziarie di più rilevante consistenza. Tra i protagonisti ora spiccavano le grandi banche miste, la Commerciale Italiana e il Credito Italiano, e i loro fiduciari, per primo l’ingegnere Giulio Dolcetta, amministratore delle società che formavano la holding controllata dalla Commerciale, impegnata ad attuare le principali iniziative promosse dalla legislazione speciale e ad accaparrarsene le ingenti somme stanziate.102 L’opposizione socialista, viva sin dagli ultimi anni dell’Ottocento, ebbe modo di incidere concretamente nell’isola solo dopo il varo della nuova legge elettorale, quando, nel biennio 1913-14, con le prime elezioni a suffragio allargato, il partito si affermava in diversi Comuni del SulcisIglesiente (tra questi Iglesias, Fluminimaggiore, Gonnesa, Carloforte e Calasetta) dove, per la prima volta, erano eletti dei sindaci socialisti, e riusciva a insediare alla Provincia i consiglieri Corsi, Pintus, Pomata, Battelli e Figus. In Parlamento giungeva, invece, Giuseppe Cavallera, padre del socialismo sardo, fondatore nel 1897 della lega dei battellieri di Carloforte, tra le prime organizzazioni sindacali dell’isola.103 Prima di allora non erano mancate le manifestazioni di dissenso, che dalle zone minerarie avevano interessato l’isola per le aggravate condizioni di vita e di lavoro. Minatori, proletariato urbano, contadini poveri si opponevano alla violenza di un processo da cui erano oppressi e si organizzavano in leghe di resistenza per chiedere miglioramenti salariali e un progresso dai tratti più umani e civili. Nel 1904 le proteste dei minatori, pagati con salari insufficienti a fronteggiare l’aumentato costo della vita, culminarono nell’eccidio di Buggerru, al quale seguì il primo sciopero generale proclamato in Italia. Sulla scia di quanto avveniva anche in altre parti della penisola, l’aumento dei prezzi e il peso dei dazi comunali furono la causa scatenante dei moti popolari scoppiati due anni dopo a Cagliari, guidati dalle sigaraie e dai ferrovieri che, nel 1907, davano vita alla locale Camera del lavoro. Dalle piazze gremite la popolazione si accaniva contro i simboli della modernità e dell’oppressione: le forze dell’ordine da un lato, dall’altro gli stabilimenti industriali, i tram e i casotti daziari. La rivolta contagiava il Goceano e il Logudoro dove si era sviluppata l’industria casearia: i contadini poveri protestavano per il rincaro dei viveri (della ricotta innanzitutto, base della loro alimentazione), reclamavano la terra da coltivare (dai proprietari destinata al più redditizio pascolo) e si scagliavano contro i caseifici, responsabili del loro impoverimento. Tra Cagliari, Iglesias e il resto dell’isola, furono posti sotto processo più di mille imputati; furono necessari due anni per le relative sentenze che videro molti assolti, numerose condanne, poi ridotte o condonate.104 Dinanzi a tanto fermento Giolitti decideva di nominare una Commissione che indagasse sulle condizioni degli operai delle miniere sarde. Presieduta dal senatore Salvatore Parpaglia, la Commissione parlamentare d’inchiesta pubblicò la propria relazione nel 1911, dopo due anni di lavoro. Il quadro era desolante per le prevaricazioni di cui erano vittime gli operai, tanto nei posti di lavoro quanto nelle cantine (gli spacci controllati dalle società minerarie). I turni massacranti, le precarie condizioni igieniche, i salari distribuiti irregolarmente, le multe frequenti, il ricatto del cottimo, la miseria degli alloggi, l’incidenza delle malattie e degli infortuni erano solo alcuni dei motivi che rendevano drammatica la loro esistenza.

Molte le osservazioni dei commissari e i richiami affinché si alleviasse quella pesante condizione; rari gli interventi, se non quelli più impellenti per ridurre i soprusi e abolire il truck system, il sistema che consentiva ai minatori di acquistare a credito presso le cantine con la detrazione diretta dalla busta paga.105 Negli anni antecedenti la grande guerra le condizioni dell’isola si erano di nuovo aggravate: scarse le annate agricole, complessa la ripresa dell’industria estrattiva. La crescita dell’esodo migratorio e l’ampia partecipazione dei sardi alla guerra in Libia rendevano evidente il disagio economico e sociale da cui era afflitta la regione. Solo nel 1915 veniva meno la solitudine capitalistica delle miniere con l’avvio dei lavori per la costruzione della grande diga sul Tirso, prima pietra del progetto elettro-irriguo. Le speranze enfatizzate da Cocco Ortu, che tanto si era adoperato per la legislazione speciale, sembravano venir meno. In un clima politico ormai teso dal confronto che avrebbe portato all’ingresso in guerra, a Roma, nel 1914, si apriva il I Congresso regionale sardo, l’ultimo atto dell’età giolittiana, il primo a stilare un bilancio della legislazione speciale. Cinque giornate d’intenso dibattito che lasciarono sul tappeto molte e gravi questioni – analfabetismo e disoccupazione, tra le principali –, tornate alla ribalta alla fine del conflitto.106 Il ventennio fascista La Sardegna è un vecchio paese rurale. Essa presenta paesaggi antichissimi, che – diversamente da altre regioni del Mediterraneo – non sono stati modificati quasi per niente […]. Un elemento dà loro una straordinaria uniformità: la nudità degli orizzonti – per l’assenza di alberi coltivati – che segnala il predominare della pastorizia. […] Un altro elemento caratteristico si impone, ed è l’arcaismo dell’organizzazione umana, dell’artigianato, dei costumi, della lingua, delle tradizioni dell’agricoltura, della pastorizia e dell’ospitalità.107

Con queste penetranti parole Maurice Le Lannou, nell’isola tra il 1931 e il 1937, faceva luce su alcuni aspetti della Sardegna e avviava un’indagine che aveva come principale oggetto di studio due categorie sociali al centro della secolare storia sarda: i pastori e i contadini. La ricerca ruotava intorno a quattro aspetti fondamentali: le condizioni naturali e storiche della regione, i paesaggi e le attività rurali, le trasformazioni contemporanee. In un percorso che attraversava la natura e la storia dell’isola, Le Lannou partiva dall’analisi degli habitat, trattava dei prodotti dell’agricoltura e della pastorizia, delle bonifiche e della popolazione, non senza affrontare i temi riguardanti la vita rurale, le peculiarità della vita pastorale, le caratteristiche di case e villaggi. Intervallavano l’esposizione le immagini che descrivevano la geografia dell’isola, tra gli altopiani e le vallate ritratti in ampie prospettive, i paesaggi e la flora più tipici, le lande e i pascoli, le testimonianze artistiche e archeologiche più significative, le tipologie degli insediamenti, dei villaggi e delle case, l’allevamento transumante, le coltivazioni tradizionali, gli uomini e le donne nei loro contesti sociali, la modernizzazione portata dalle bonifiche. Non suscitate da interessi artistici, queste immagini, pur funzionali a comprovare le tesi sostenute – soprattutto a proposito delle costanti e dei dinamismi presenti nella storia e nella realtà dell’isola –, non si limitavano a documentare i postulati del geografo, ma spaziavano oltre quelli, per offrirci un ulteriore punto di vista sulla Sardegna novecentesca. A sorprendere lo studioso, autore di un saggio profondamente innovatore, erano ancora le “persistenze”. Tra antichi paesaggi, continuavano a connotare la regione le estese superfici incolte, gli scarsi insediamenti, il modesto sviluppo delle realtà urbane, l’inesistente vita marinara, la limitata attività industriale, gli “arcaismi” dei tipi umani, degli utensili e dei modi di vita. Persistenze che già Wagner – anni prima – aveva fissato nel suo repertorio fotografico, dove campeggiavano, tra le altre testimonianze, un pastore affiancato dai rudimentali attrezzi per la lavorazione del formaggio, un contadino con un “monumentale” aratro e una famiglia su un carro tradizionale (figg. 205-206, 192). «I sardi – precisava in sintesi Le Lannou – vivono e lavorano ancora secondo costumi d’una sorprendente

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GIOVANNI FERRARI, Ingurtosu, pozzo Ingurtosu, 1876 GIOVANNI FERRARI, Ingurtosu, piazza cantina, 1876 CARLO (?) POLOZZI, Monteponi, 1875 CARLO (?) POLOZZI, Monteponi, 1875 CARLO (?) POLOZZI, Monteponi, 1875

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più caratteristici e distintivi, là dove il compito della fotografia è quello di collocarli in una ben precisa situazione spazio-temporale. La fotografia infatti, come osserva Scheuermeier per l’AIS,117 ricollega in maniera più diretta e immediata «l’oggetto al suo mondo, mostra lo strumento nelle mani dell’uomo, rendendone chiaramente visibili il modo dell’impiego e le dimensioni», in un’implicita e maggiore autonomia rispetto al testo cui le xilografie sono, invece, legate quasi senza soluzione di continuità.118 Contro lo sguardo oggettivante dei due linguisti, Luciano Morpurgo, nell’accesa referenzialità dei propri soggetti popolari, lascia chiaramente trasparire «l’innamoramento per il soggetto [che] gli faceva superare le cognizioni alquanto semplici di etnografia per un contatto immediato con la gente e cioè nel senso moderno della scoperta fotografica, della documentazione diretta, ma con tensione drammatica, in una grandiosità monumentale nella partizione sapiente della luce e dell’ombra».119 Più che noto è infatti il suo interesse antropologico sul doppio e irriducibile versante del proletariato urbano e del mondo contadino delle campagne, colto soprattutto attraverso le fotografie dei contadini ciociari ed abruzzesi, ripresi, negli anni, nel corso delle processioni religiose del pellegrinaggio di Vallepietra a Monte Autore,120 mentre, grazie ad una recente pubblicazione, altrettanto conosciuto è un suo lavoro in Palestina (1927), già oggetto di una monografia di Almagià del 1930.121 Il suo soggiorno in Sardegna del 1928, anch’esso caratterizzato da uno spiccato interesse antropologico è, invece, del tutto inedito, pur se facilmente inseribile nelle coordinate di lettura già attivate dalla critica e dalla storiografia. Il filo ininterrotto che lega le immagini sarde a quelle prodotte prima e dopo è l’interesse umano per l’altro da sé, un interesse e una partecipazione, ma anche un desiderio di conoscenza che lo avevano spinto ad essere, viaggiatore del Mediterraneo, prevalentemente in Paesi della costa, allo scopo di coglierne e catturarne, con la camera, abitudini di vita, usanze e costumi, modi di atteggiarsi, di essere e di presentarsi. Nutrito al referenzialismo delle cartoline illustrate, interessato, con l’esperienza Cirio, al sovrapporsi di verità e verosimiglianza della produzione pubblicitaria, in opposizione a forme e strutture linguistiche che potessero indulgere al pathos e al sentimento, oppure all’appello simbolista del Liberty e della fotografia pittorialista – di cui pure aveva subito le lusinghe, per l’amicizia con il giovane Ravaioli –, Morpurgo si mostra aggiornato rispetto ai nuovi orientamenti della fotografia successiva alla fine del primo conflitto mondiale, così come si erano definiti, in riferimento al quadro culturale generale, nell’occasione tutta interna alla situazione italiana della Prima Esposizione Internazionale di Fotografia, Ottica, Cinematografia, tenuta a Torino nel 1923.122 Nella complessità degli elementi che vi confluirono, di particolare rilievo era senz’altro il legame esplicito che veniva a crearsi fra cinema – che aveva già costituito elemento privilegiato della sua formazione e dei suoi interessi – e fotografia, binomio indissolubile che andava imponendosi come centrale nell’ambito della comunicazione di massa; contemporaneamente, nella catena mediale che andava sempre più definendosi, altrettanto forti erano anche i rapporti di cinema e fotografia da un lato e ricerca scientifica, mondo industriale e finanziario dall’altro. L’esposizione, suddivisa nei tre gruppi principali e dichiarati nella propria testata, era infatti organizzata, all’interno di questi gruppi, in diverse classi. Il primo raggruppamento, dedicato alla fotografia, era caratterizzato, oltre che dalla presenza delle opere dei più noti fotografi dell’epoca, da altre scansioni di carattere culturale e scientifico, vale a dire: una mostra retrospettiva dedicata alla storia della fotografia; fotografia e industria; fotografia e applicazioni scientifiche; materiali fotografici; proiezioni; letteratura, scuole, associazioni e giornalismo fotografico. Mentre l’ottica costituiva un gruppo unitario e senza ulteriori divisioni, con principio analogo a quello adottato per il primo gruppo, anche il cinema, nello scalare delle sue classi, prendeva in considerazione le possibili e significative ricadute nei campi attigui della propaganda, della stampa e del mondo finanziario.


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In questo clima culturale di riferimento, aperto alla modernità internazionale e cui attinsero anche Vittorio Villani, Bruno Stefani, Vincenzo Aragozzini e Mario Crimella per le loro fotografie industriali, Morpurgo approfondì la tendenza di sempre per un reportage, diretto e senza retorica, disinvolto e al tempo stesso impegnato nella promozione di nuove strategie linguistiche, molto prossimo al fotogiornalismo per le sequenze narrative delle immagini. La solidità dell’impegno era spesso sostenuta dalla forza concettuale di un progetto, volto insieme all’indagine geografica e alla documentazione delle varie popolazioni del Mediterraneo, così come era avvenuto in Palestina con il viaggio compiuto insieme al geografo umano Almagià, che ricorda le analoghe esperienze americane alla conquista del West, caratterizzate dall’intervento congiunto di geografi, geologi e cartografi, affiancato a quello di uno o più fotografi; contemporaneamente la sua parallela attività di editore veniva a legare, ancora una volta, la parola scritta all’immagine. Nel viaggio in Sardegna, che si colloca immediatamente a ridosso di quello in Palestina, Morpurgo ripropone moduli di lettura e di interpretazione iconica molto prossimi a quelli sperimentati con successo l’anno precedente in Palestina; egli riprende infatti, a Fonni, in provincia di Nuoro, la

coralità popolare della festa della settimana successiva a quella della Pentecoste, con ardite inquadrature d’insieme e dall’alto, ma anche con immagini che ne isolano i diversi protagonisti; coppie di sposi in abito tradizionale e a cavallo, volti ed espressioni, colti nella spontaneità di un attimo fuggente che spesso tengono in non cale la qualità della luce o la scarsa leggibilità del controluce che egli correggeva poi in fase di stampa con accorgimenti tecnici in genere riferiti dalla critica a un presunto impegno pittorialista. Come molti altri fotografi continentali, egli – indagando, più di altre realtà, quelle di Villagrande, Zuri, Seui, Desulo, Fonni, Tonara e Aritzo – sembra concentrare la propria attenzione sull’identità della Sardegna più interna, quella del Nuorese di Grazia Deledda e di Ballero, con uno sguardo che possiamo ricollegare all’incontro intellettuale con il pensiero di De Nino, mediato attraverso Michetti, uno sguardo che punta l’interesse sul popolo e il popolare e che attraversa costantemente tutta la sua produzione fotografica. La continuità e la centralità dell’intenzione antropologica viene, del resto, ribadita e chiaramente espressa nel 1930, anno in cui Morpurgo presenta a Trento, in occasione del I Congresso di Arti e Tradizioni Popolari, una Proposta per una vasta raccolta delle nostre tradizioni popolari,123

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73. Miraglia 1993a. 74. Falzone del Barbarò, Tempesta 1979. 75. Miraglia 2005b. 76. Miraglia 2005a. 77. Amendola 1978. 78. Faeta, Miraglia 1987. 79. Settimelli 1976. 80. Faeta, Miraglia 1988. 81. Fano 1901. 82. Loria 1912. 83. Fra le varianti obiettivo e obbiettivo, qui come altrove è scelta la seconda, in riferimento all’etimologia del termine da oggettivo, usato nella più precoce letteratura fotografica. 84. Fiorentino 2008, pp. 11-17; pp. 49-75. 85. La ruota piena, che secondo l’iconografia pittorica, troverebbe la sua più recente raffigurazione in un dipinto di Giuseppe Haiman del 1869, sopravvive dunque molto più a lungo, nell’iconografia fotografica. Sui vantaggi e gli svantaggi della ruota piena rispetto a quella a raggi, sulle sue particolarità costruttive, si veda A. Mattone, Le origini della questione sarda. Le strutture, la permanenza, le eredità, in Berlinguer, Mattone 1998, pp. 3-129 (pp. 54-55). 86. Il riferimento è alla tradizione pittorica in generale e, in particolare, a quella incisoria per le cui problematiche e la relativa bibliografia rinvio a Moltedo 1991; Miraglia 2004b. 87. È da segnalare che, con ogni probabilità, il suo paesaggio più noto, quello del Golfo Aranci, è da ascrivere al 1920-21, epoca cui risale un terzo e breve viaggio sardo (cfr. biografia) per la realizzazione di immagini integrative, utili ad illustrare il volume Il paesaggio italico della Divina Commedia, realizzato con la propria cura. A questo proposito si veda M. Miraglia, Vittorio Alinari e il paesaggio pittorialista, in Quintavalle, Maffioli 2003, pp. 253-263. 88. Il termine è preso in prestito, anche per la sua definizione concettuale, da Vitali 1961. 89. Così titola Pagano una sezione delle proprie fotografie in cui l’attenzione principale non è rivolta ai referenti, ma alla nuova realtà visuale e formale, dischiusa dalla fotografia. 90. Salgado 1994, pp. 314-319 (Gold, Serra Pelada, Brasil). 91. Rinvio, per i precedenti incisori del costume e dell’abito, al già citato Piloni 1961 (cfr. in particolare pp. 11, 18, 31), segnalando in particolare: B. Pinelli, Raccolta di costumi italiani i più interessanti, Roma, 1828; la pubblicazione in fascicoli mensili, da legare in volume, Baldassarre 1840; Bresciani 1850; Bresciani 1861; Dalsani 1878 (con tavole in cromolitografia); Vuillier 1893; Corona 1896; Costa 1898 (anche questi in cromolitografia); si veda pure Putzulu 1968. Preciso che il motivo per cui cito qui il diario di Vuillier dipende dal fatto che vi figurano settanta xilografie, tratte da fotografie (quasi certamente) dello stesso autore e da lui tradotte in disegni, adoperati poi da Barbant per le relative incisioni. Rinvio ancora a Alziator 1963; Naitza, Delitala, Piloni 1990 (con splendidi acquerelli e tempere). 92. Si veda Pilia 1980. Un ruolo analogo a quello della cartolina illustrata svolge in questo periodo la stampa illustrata che va man mano pubblicando, come ricorda Piloni (1961), non solo avvenimenti della cronaca, ma anche numerosi apparati iconografici riguardanti il costume e gli abiti popolari. 93. Rinviando alla biografia di Vittorio Alinari, si ricorda che il pittore e disegnatore Giulio Spadolini accompagnò il fotografo nel suo viaggio sardo. 94. Brigaglia 1971, passim; in particolare, p. 20. 95. Bechi 1997. 96. Niceforo 1897. 97. Per le medesime coperture pseudoscientifiche dello Stato nel Mezzogiorno italiano, rinvio a Lombardi Satriani 1974, p. 137 s. 98. Si vedano in Viaggio in Sardegna 2003 (figg. pp. 154159) le fotografie che li raffigurano, eseguite dal tenente Oddone e da Magnanelli, nonché l’anonima galleria di ritratti, raffiguranti individui geneticamente sospetti, con ogni probabilità “briganti” ripresi in carcere, secondo le

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disposizioni del Ministero dell’Interno alle Prefetture del Regno del 1883, anno in cui Agostino Lay Rodriguez, in base alla presentazione di una sua richiesta, ricevette incarico di iniziare l’operazione “segnaletica” dal carcere giudiziario di Cagliari; analoghe richieste furono presentate anche da Evaristo Mauri, Raffaele Lay Loi e Raffaello Canzani (Maccioni 1982-83, vol. 3, pp. 110-111). 99. Ho recentemente trattato questa problematica, cui avevo già lavorato dal 1984, nel saggio M. Miraglia, Fotografia e brigantaggio nella Lucania dell’800. L’inaugurazione di un paradigma, in Mirizzi (senza indicazione dell’anno; in corso di stampa). 100. Hobsbawm 1974. 101. Per Bartolomeo Pinelli, rinvio alle serie incisorie (ambedue presso l’Istituto Nazionale per la Grafica di Roma), Usi e costumi di Roma e dintorni. Episodi del brigantaggio (50 stampe, inv. n. 610); L’Arciprete Pellegrini persuade la banda Gasparrone a consegnarsi alla giustizia (inv. 615). 102. Paulis 2001, pp. 24-30; Altea, Magnani 1998, pp. 1520. Allo stesso periodo coerentemente risalgono gli apparati iconografici, raffiguranti soprattutto abiti e tradizioni popolari, di Bazzi 1889. 103. Mattone, Le origini della questione sarda …, in Berlinguer, Mattone 1998, pp. 44-45. 104. Mattone, Le origini della questione sarda …, in Berlinguer, Mattone 1998, p. 45. 105. Anche per quanto riguarda la vegetazione e il patrimonio della fauna sarda, esistono precedenti incisori, per i quali si rinvia, ancora una volta, a Piloni 1961 (pp. 7, 15, 19, 21). 106. S. Mannuzzu, Finis Sardiniae (o la patria possibile), in Berlinguer, Mattone 1998, pp. 1223-1244 (pp. 12301231). 107. Bordini 1984. 108. L’espressione fra virgolette costituisce il titolo di una recente mostra a cura di Lodovico Sella (Sella 2006). Il volume contiene un mio saggio (Miraglia 2006b) da cui ho tratto alcune coordinate di lettura per questo scritto. 109. Mi riferisco a ben noti dipinti dell’autore, come La croce sulla montagna e Monaco sul bordo del mare, riprodotti, insieme ad altre opere, ugualmente utili per un confronto, in Montagna 2003. 110. Michals 1997, pp. 58-59. 111. Favrod 2003, p. 28, e bibl. ivi cit. 112. Per la personalità di Cesare Sella (1889-1971) e per il suo rapporto con la fotografia, rinvio a Fabi, Macchieraldo 1998, pp. 114-127. 113. Scheuermeier 1943; si ricorda la traduzione italiana di P. Scheuermeier, Il lavoro dei contadini. Cultura materiale e artigianato rurale in Italia e nella Svizzera italiana e retoromanza, a cura di M. Dean, G. Pedrocco, Milano, Longanesi, 1980. 114. Scheuermeier 1963, p. 294. 115. Il corrispondente italiano è “parole e cose”. 116. Karl Jaberg e Jakob Jud per l’AIS, nonché Matteo Giulio Bartoli e Giuseppe Vidossi per l’ALI. Sui risvolti che caratterizzano il dibattito linguistico italiano in relazione alla Sardegna, a partire da Giovanni Spano, fondatore della dialettologia sarda, si rinvia a G. Paulis (La lingua sarda e l’identità ritrovata, in Berlinguer, Mattone 1998, pp. 11991221), saggio che ricollega le diverse posizioni degli studiosi alle vicende dell’Unità d’Italia, al regionalismo e al concetto stesso di unità nazionale. 117. Cit. da Dean, Pedrocco 1980, p. XXII. 118. Miraglia 1981b; per questo scritto, mi sono ampiamente avvalsa del mio saggio in detto catalogo. 119. Bertelli 1979, p. 122. 120. Di Nola, Grossi 1980. 121. Per la doppia indicazione bibliografica, si rinvia alla biografia dell’autore. 122. Torino 1923. 123. Di Nola, Grossi 1980, p. 12. 124. Moholy-Nagy 1987. 125. I termini “riproduzione”, “produzione”, più volte ricorrenti in questo scritto, ripresi nel 1929 (vedi nota precedente) da Moholy-Nagy, erano stati già da lui adoperati come titolo (“Reproduktion-Produktion”) di un articolo,

pubblicato in De Stijl il 7 luglio 1922. L’imporsi della nuova visione fotografica, che per il famoso autore costituisce uno standard di verità ottica, opposto agli errori della visione umana, porta a precisare con maggiore consapevolezza le possibilità aperte alla fotografia quando essa si allontana dalla semplice “riproduzione”, per rivolgersi a nuove direzioni “produttive”. 126. A.C. Quintavalle, Tempo dell’archivio, archivio del tempo, in Quintavalle, Barbaro 1980. 127. Falzone del Barbarò 1991. 128. Per il concetto di immagine ibrida, vedi Alinovi, La fotografia …, in Alinovi, Marra 1981, pp. 16-23. 129. Per l’organizzazione del lavoro minerario e per la nascita di Mussolinia e di Carbonia, rinvio a L. Marrocu, Il ventennio fascista (1923-43), in Berlinguer, Mattone 1998, pp. 631-713 (pp. 675-704). 130. P. Barbaro, Introduzione alle schede e schede critiche, in Quintavalle, Barbaro 1980, pp. 1-179 (pp. 1-4; 23-37). Mi sono ampiamente avvalsa del contributo di Barbaro così come di quello di Quintavalle che, prima di me, hanno studiato la fotografia d’industria e il caso particolare di Villani. 131. Per le coordinate storiche di lettura di Stefani, rinvio a Campari 1976; Cavanna 2003; si veda pure nel medesimo volume la biografia dell’autore a p. 257. Brevi cenni su Stefani sono contenuti anche in Zannier 1978; Zannier 1984. 132. Salgado 1994. 133. Nell’ambito di questa famosa rivista torinese, ampiamente distribuita in tutta Europa, erano state più volte pubblicate le fotografie di Stefani nel periodo 1931-34; si vedano, in Luci ed ombre, Riflessi (1931, tav. XVIII), Alta Tensione (1932, tav. X), Raganelle (1932, tav. XXVIII), Al mare (1932, tav. XXIX), Cure materne (1933, tav. VI), Alla Mostra del Rayon (1934, tav. VIII). Per la rivista in generale e per il clima culturale in cui si inserisce, rinvio a Costantini, Zannier 1987. Per una più approfondita analisi del periodo, attraverso lo sguardo di un unico fotografo, quello di Francesco Agosti, si consulti anche Miraglia, Favrod, Bonetti, Agosti 1998. 134. Marrocu, Il ventennio fascista …, in Berlinguer, Mattone 1998, pp. 697-704. 135. Scarse sono le notizie su Mario Crimella, anch’egli pubblicato da Luci ed ombre (cfr. nota 133), rivista nella quale si vedano le immagini apparse nel quinquennio 1924-28 e cioè: Sera sul Naviglio (1924, tav. XVII), Versi d’amore (1925, tav. XXXIII), Il pittore Rossano (1926, tav. L), Ritratto (1927, tav. XLV), Hellade (1928, tav. XXX). 136. Per le coordinate di riferimento storico alla nascita del fotogiornalismo, rinvio a Freund 1976. 137. Le immagini di questi due fotografi furono pubblicate sul National Geographic Magazine (cfr. The National Geographic Magazine 1916 e 1923); si rinvia anche alla scheda Nota aggiuntiva, a conclusione di questo volume. 138. Barthes 1980, pp. 35-36. 139. Sander 1929. 140. Benjamin 1966, pp. 57-78. 141. Atget 1930. 142. I corsivi sono nel testo cui si fa riferimento; cfr. Benjamin 1966, p. 73. 143. Faeta, Nelle Indie di quaggiù …, in Faeta 2006a, pp. 26-27. 144. Benjamin 1966, pp. 61-62. 145. De Seta 1979; per le coordinate storiche e culturali di lettura delle fotografie di Pagano si vedano in particolare i saggi di C. De Seta, Introduzione (pp. 5-12), di A. La Stella, Archittettura rurale (pp. 12-18) e di M. Miraglia, Forme (pp. 132-154). 146. Per Moholy-Nagy e il Bauhaus rinvio a Costantini 1993. 147. Pagano 1938. 148. Pagano, Daniel 1936, p. 7; ora in La Stella, Archittettura …, in De Seta 1979, p. 12. 149. Mannuzzu, Finis Sardiniae …, in Berlinguer, Mattone 1998. 150. Mannuzzu, Finis Sardiniae …, in Berlinguer, Mattone 1998, p. 1243.


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Immagini di Sardegna. Strategie per entrare, e per uscire, dalla modernità* Francesco Faeta

Come ha opportunamente notato Ugo Fabietti, nella sua introduzione all’edizione italiana di uno di essi, due testi hanno particolarmente contribuito ad affinare l’apparato ermeneutico dell’antropologia culturale e sociale e degli studi culturali nell’ultimo trentennio: il primo è Orientalism di Edward Said, il secondo è Time and the Other di Johannes Fabian.1 Si tratta, in realtà, di due testi profondamente diversi tra loro, il primo in buona misura anticipatore e fondatore di quella tendenza critica cui abbiamo progressivamente dato il nome di cultural studies, il secondo, più interno al campo antropologico ma fortemente intriso di sapere filosofico, unificati tuttavia dal chiaro e argomentato sostegno di una tesi di fondo: lo sguardo che l’Occidente ha rivolto su tutte le realtà geografiche, politiche, culturali, sociali e religiose esterne a esso o poste al suo margine, attraverso la tecnica dell’allontanamento nello spazio o nel tempo, attraverso la fittizia unificazione delle differenze e l’appiattimento dentro un’indistinta nozione di lontananza, ha obbedito all’esigenza di fondo di contribuire a costruire, o a rafforzare, la propria identità.2 «Quando la moderna antropologia», ricorda a esempio Fabian, puntando il dito su quello che dovrebbe essere il più sofisticato e rispettoso sistema di rappresentazione dell’alterità, «iniziò a costruire il proprio Altro in termini di topoi implicanti distanza, differenza e opposizione, il suo intento era soprattutto quello, o perlomeno anche quello, di costruire uno Spazio e un Tempo ordinati – un cosmo – in cui potesse dimorare la società occidentale, piuttosto che quello di “comprendere le altre culture”, che è apparentemente la sua vocazione».3 Che si tratti di immagini letterarie, prodotte dalle pratiche artistico-visive, documentarie o scientifiche (e, in particolare, delle scienze sociali) insomma, tutte hanno concorso a edificare l’identità occidentale, nella prospettiva dell’assoggettamento, del dominio e dell’egemonia colonialista e imperialista di una parte del mondo, relativamente minoritaria, sulle altre. Più in particolare Said, il quale ricorda che «l’orientalismo è […] un fenomeno culturale e politico, e non soltanto una mera astrazione»,4 sostiene che i sistemi di conoscenza occidentale si sono tradotti in un processo complessivo di allontanamento nello spazio e di indifferenziazione culturale, premessa di un generalizzato approccio esotico, mentre Fabian argomenta come l’Altro sia stato, attraverso le scienze sociali, costantemente distanziato nel tempo, rispetto all’osservatore occidentale, primitivizzato, posto in una condizione che, con termine felice, egli definisce di allocronia. Alcuni studiosi, e chi scrive tra loro, come meglio argomenterò più avanti, hanno provato ad applicare il concetto, e l’armamentario, teorico-metodologico relativi all’orientalismo ai rapporti intercorrenti tra parti a sviluppo ineguale dello stesso Paese, nell’ottica critica della fondazione, o del rafforzamento, dello Stato nazionale e dell’affermazione, al suo interno, delle borghesie dominanti. Per quel che concerne il nostro Paese, dove in anni non lontani si è diffuso un filone di studi di politica dediti all’elaborazione della nozione di colonia interna,5 a esempio, appare legittimo, alla luce di alcuni concreti saggi, ipotizzare un orientalismo interno, che a tratti curiosamente (e contraddittoriamente) coincide con il meridionalismo, il quale assolve alla funzione di legittimare sul piano europeo e occidentale il nuovo Stato e di rafforzare l’egemonia, anche e soprattutto culturale, delle sue classi dominanti, e delle sue élite, soprattutto legate all’aristocrazia, prima, e alla borghesia imprenditoriale, dopo, del Nord.6 Nella prospettiva interpretativa qui lapidariamente evocata le immagini, e tra queste, soprattutto tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, la fotografia, hanno avuto un’importanza centrale. Non ca-

sualmente nel suo essenziale ma stimolante Dictionnaire culturel de l’Orientalisme, Christine Peltre dedica una voce importante alla fotografia.7 Dal canto suo Claude Lévi-Strauss riconosce a più riprese il processo di primitivizzazione che la fotografia, anche la sua fotografia, compie sui gruppi umani che l’antropologo ha la ventura d’incontrare.8 Nel complesso, articolato, stratificato campo della rappresentazione – un campo che attende ancora di essere indagato con mezzi adeguati in prospettiva antropologico-sociale – le immagini fotografiche si sono affermate con una loro indiscutibile e indiscussa forza, ponendosi innanzitutto come concreta prova dell’esistenza di un immaginario condiviso, ponendosi poi come conferma di una svolta moderna nell’elaborazione di tale immaginario. Per il lungo lasso di tempo che ho ricordato (e oltre…) la fotografia ha consentito, tra le altre sue funzioni sociali magistralmente individuate da Pierre Bourdieu,9 di rappresentare agli occhi delle borghesie nazionali euro-americane, o dei ceti popolari emergenti, la diversità sociale, vuoi che essa assumesse le forme della devianza e della delinquenza, vuoi che assumesse gli aspetti della patologia mentale (vera o presunta che fosse) e della marginalità sociale, vuoi infine che si incarnasse nella diversità etnica.10 La fotografia ha avuto, insomma, tra i suoi compiti storici, quello di identificare il diverso e renderlo esemplarmente visibile agli occhi di coloro che si riconoscevano, aspiravano a riconoscersi o erano coattamente indotti a riconoscersi, in un comune progetto di fondazione dello Stato-nazione e di sua espansione imperialistica e coloniale. Esemplarmente visibile, ho scritto, ovvero riconoscibile, in base a modelli paradigmatici di conoscenza, concretati in stereotipi rappresentativi e in convenzioni visive, che a loro volta fondavano, pur con gli opportuni ammodernamenti, su una lunga tradizione iconografica, come in questa stessa sede, e in altre, non ha mancato di notare Marina Miraglia.11 Come ho anticipato poche righe sopra, ho sperimentato una delle ipotesi critiche qui ricordate (la costruzione di un immaginario “orientale” interno, segnato dai tratti evidenti dell’esotismo, ambiguamente collegato con il complesso ideologico del meridionalismo), esaminando alcuni repertori di immagini che illustravano varie zone del Mezzogiorno (e, in particolare, la Lucania demartiniana), nel secondo dopoguerra, epoca di forte affermazione delle tendenze neorealiste che a me sono sembrate del tutto omogenee rispetto alla costruzione in oggetto.12 Nel pormi, dunque, di fronte al corposo repertorio di immagini presenti in questo libro, che illustrano con larga attendibilità lo sguardo europeo e, soprattutto, italiano relativo alla Sardegna, tra gli anni Cinquanta dell’Ottocento e gli anni Trenta del Novecento, avevo pensato di applicare all’isola il modello ermeneutico sperimentato nel Mezzogiorno continentale e in Sicilia. Avevo pensato, in breve, che sarebbe stato possibile rinvenire una cifra orientalista anche nelle immagini relative all’isola remota dell’Italia e avere conferma, con ciò, di una funzione in qualche modo univoca della fotografia nel processo di costruzione dell’identità nazionale. Così non è stato, tuttavia: le immagini sarde, per lo meno quelle del lasso di tempo considerato (la sensazione è che con l’avvento del neorealismo e con il secondo dopoguerra le cose possano essere alquanto diverse, ma ciò andrà attentamente verificato), dicono altre cose e devono essere analizzate, dunque, in una diversa ottica critica. Non che una componente orientalista non sia presente, come vedremo, ma non costituisce, a mio avviso, caratteristica dominante. Ho scritto di una funzione univoca della fotografia della Sardegna e, tout court, di immagini sarde. E qui occorre effettuare una prima precisazione.

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3. É. DELESSERT, Sassari, giardini di San Pietro, 6 maggio 1854

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4. É. DELESSERT, Sassari, 6 maggio 1854 5. É. DELESSERT, Sassari, 6 maggio 1854 6. É. DELESSERT, Sassari, la storica porta Sant’Antonio, 6 maggio 1854 7. É. DELESSERT, Sassari, cattedrale, prospetto laterale, 6 maggio 1854 8. É. DELESSERT, Sassari, cattedrale, facciata, 6 maggio 1854 9. É. DELESSERT, Sassari, cattedrale, ingresso principale, 6 maggio 1854 10. É. DELESSERT, Sassari, vista dal palazzo Palazzo Ducale, antico palazzo Vallombrosa, 6 maggio 1854 11. É. DELESSERT, Sassari, fontana del Rosello, facciata anteriore, 6 maggio 1854 12. É. DELESSERT, Sassari, fontana del Rosello, facciata posteriore, sullo sfondo la storica porta del Rosello, 6 maggio 1854

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137. V. SELLA, Alghero, localitĂ I Piani, tenuta Sella & Mosca, 1917

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434. B. STEFANI, Montevecchio, 1938 ca.

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462. G. PAGANO, Sardegna, 1939

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463. G. PAGANO, Portoscuso, 1939

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132. V. SELLA, la baja di Golfo Aranci dal Figarolo, 1915 133. V. SELLA, Golfo Aranci, 1915

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423-424. V. ARAGOZZINI, Montevecchio, lo spaccio alimentare, 1938

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425. V. ARAGOZZINI, Montevecchio, lo spaccio dei tessuti e delle scarpe, 1938 426. V. ARAGOZZINI, Montevecchio, il dopolavoro, 1938

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