La fotografia in Sardegna 1960-1980 (III)

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LA FOTOGRAFIA IN SARDEGNA

Lo sguardo esterno 1960-1980

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LA FOTOGRAFIA IN SAR D EG N A Lo sguardo esterno 1960-1980

ISBN 978-88-6202-067-1

9 788862 020671

In copertina: M. SIN-PFĂ„LTZER, Sardegna, 1960

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Collana STORIA DELLA FOTOGRAFIA IN SARDEGNA

Da oltre dieci anni la Ilisso Edizioni ha maturato un vivo interesse nei confronti della fotografia; all’interno di questo vasto universo, ha coltivato specificatamente e con maggiore attenzione quegli aspetti volti a documentare le molteplici sfacettature della cultura isolana. È così iniziata, da parte di un gruppo di studiosi afferenti alla casa editrice, una scrupolosa quanto appassionata ricerca che ha interessato gli archivi e le raccolte pubbliche e private, rilevando spesso occasionali e sorprendenti scoperte, affatto ipotizzate nella prefigurazione iniziale dell’indagine. Per i ricercatori, e fin dai primi esiti, è emersa la specificità delle immagini realizzate da fotografi esterni che – fuori dalle dinamiche culturali interne alla Sardegna – componevano un ritratto dell’Isola dal quale risulta una inedita descrizione-narrazione. Si è quindi voluto considerare il lavoro realizzato a diverso titolo dalla schiera dei fotografi che, a cominciare dalla metà dell’Ottocento fino a contare le esperienze più recenti, hanno fatto tappa in Sardegna. La consapevolezza oramai acquisita del panorama offerto dalla fotografia – mosaico sempre più ampio le cui tessere, variamente disegnate dalla molteplicità dei temi e dalla pluralità delle firme, vanno a occupare ciascuna il proprio posto – guida il lavoro del gruppo che, in forma assolutamente consequenziale, è arrivato a prendere su di sé l’onere della non facile cura del secondo e del presente volume, l’ultimo della trilogia.

Un sentito ringraziamento è rivolto a quanti, a vario titolo, hanno collaborato e reso possibile la realizzazione di questo volume e in particolare: Ella Baffoni; Giovanni D’Onofrio (Biblioteca Nazionale Centrale Firenze); Catia Gabrielli; Luciano Papa; Katia Tenenbaum; Raffaella Venturi. Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione-ICCD (Roma) nelle persone del responsabile del Museo/Archivio di Fotografia Storica (MAFoS) Maria Lucia Cavallo; Deborah Virgili; Gabriella Zucchetti (Biblioteca ICCD). Museo delle Arti e delle Tradizioni Popolari (Roma): nella persona del direttore Stefania Massari e Marisa Iori, funzionario antropologo.

Grafica e impaginazione Ilisso Edizioni Grafica copertina Aurelio Candido Stampa Lito Terrazzi Referenze fotografiche Agenzia Giornalistica Fotografica, Roma: A. Mordenti, nn. 139-147 Anzenberger/Contrasto, Roma: F. Giaccone, nn. 148-173 Archivio Fratelli Alinari, Firenze: I. Zannier, nn. 130-134 Archivio Giancolombo/Contrasto, Roma: Giancolombo, nn. 32-38 Archivio Ilisso, Nuoro: M. De Biasi, nn. 110-118; T. D’Amico, nn. 174-212 Biblioteca Nazionale Centrale, Firenze: A. Serfati, pp. 39-41 Foto Olympia, Roma: J. Ciganovic, nn. 24-31 Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma: S. Papa, nn. 84-96, 98, 100-101, 105, 108 Magnum Photos/Contrasto, Roma: H. Cartier-Bresson, nn. 39-56; B. Barbey, nn. 57-60; F. Scianna, nn. 135-138 Museo delle Arti e Tradizioni Popolari, Roma: A. Rossi, p. 29; S. Papa, nn. 97, 99, 102-104, 106-107, 109 Renate Siebenhaar, Frankfurt (courtesy Siebenhaar Art Projects, Königstein/Ts): P. Donzelli, pp. 15, 18-19, 21 Sono di proprietà degli autori le immagini di: G. Berengo Gardin, nn. 119129; P. Di Paolo, nn. 61-65; F. Faeta, pp. 30-33; L. Carmi, nn. 66-83; M. Sin-Pfältzer, nn. 1-23; U. Liprandi, p. 42.

© 2010 ILISSO EDIZIONI - Nuoro www.ilisso.it ISBN 978-88-6202-067-1

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Indice

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Lo sguardo esterno, 1854-1980 Marina Miraglia

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L’isola del dissenso. La Sardegna nelle strategie documentarie, tra modernità e postmodernità Giacomo Daniele Fragapane

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Una lontananza inessenziale. Fotografie della Sardegna, 1960-1980 Francesco Faeta

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Sardegna contemporanea e industrializzazione: sviluppo e squilibri Maria Luisa Di Felice

I FOTOGRAFI 46 72 82 94 120 126 134 150 170 182 198 204 212 222 246

Marianne Sin-Pfältzer Josip Ciganovic Giancolombo Henri Cartier-Bresson Bruno Barbey Paolo Di Paolo Lisetta Carmi Sebastiana Papa Mario De Biasi Gianni Berengo Gardin Italo Zannier Ferdinando Scianna Adriano Mordenti Fausto Giaccone Tano D’Amico

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Bibliografia generale


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tendenza, e ai suoi rapporti con il contesto generale, che occorre dunque riferirsi per far emergere le differenti posizioni. Lasciatesi alle spalle le sperimentazioni e le forzature formali del modernismo internazionale, prese le distanze dalla vocazione intimistica, psicologistica e poetizzante (o, nei casi migliori, implicitamente surrealista) dell’umanesimo sociale d’inizio secolo, il reportage si delinea infatti tra gli anni Sessanta e i Settanta come un genere compatto e unitario, tecnologicamente avanzato, inserito all’interno di una filiera produttiva ben organizzata e coordinata a livello internazionale.8 In fondo esso in questa fase rappresenta – come il western rispetto al cinema hollywoodiano del periodo classico – “il genere fotografico per eccellenza”. L’accenno al cinema non è casuale. Per molti versi infatti le trasformazioni che investono la fotografia trovano riscontro, e talvolta, come nel caso esemplare del documentario,9 si intrecciano profondamente con quelle che nello stesso periodo ridefiniscono il linguaggio, le forme narrative e il sistema dei generi cinematografici. Se già nel decennio precedente (ad esempio, per rimanere in Sardegna, con Patellani, Lattuada, De Martiis) ci eravamo imbattuti in sporadiche interferenze tra i due ambiti, ora possiamo constatare come non solo questa convergenza prosegua nella medesima direzione, ma tenda a intensificarsi notevolmente proprio in rapporto ad alcuni orientamenti che, parallelamente, emergono nel panorama cinematografico. Non è certo questo il luogo per delineare un quadro anche lontanamente esauriente delle profondissime modificazioni che si determinano al cinema negli anni Sessanta e Settanta del Novecento (argomento su cui peraltro esiste una bibliografia sterminata). Per quanto riguarda il nostro discorso è però utile rilevare come, soprattutto in Italia, esse riguardino largamente l’approccio dei cineasti al paesaggio e al territorio: alla narrazione delle identità e marginalità locali, all’indagine delle contraddizioni che, con il boom economico, ogni giorno di più si scatenano tra il “locale” e il “globale”. Sotto questo aspetto, come scrive Sandro Bernardi, «nel cinema italiano, o almeno in una parte di esso, quella che si appropria dell’eredità neorealista e la prosegue in una ricerca epistemologica, […] il paesaggio […] diventa spesso un luogo vasto, opaco, in cui l’azione e a volte anche i personaggi rischiano di perdersi; una soglia appunto in cui si intravedono i limiti della cultura e della conoscenza […]. È qui che il gioco dei punti di vista messi in atto dal cinema diventa essenziale per illustrare la sovrapposizione, la coesistenza di immagini e di culture, la molteplicità di centri e di prospettive che esistono e agiscono simultaneamente».10 Se a riguardo, nei confronti della produzione cinematografica degli anni Quaranta e Cinquanta, avevo segnalato nella fotografia italiana una capacità fuori dal comune di «anticipare temi che di lì a poco sarebbero esplosi nell’immaginario nazionale»,11 adesso mi sembra che nei due decenni successivi questa situazione si ripresenti sostanzialmente invertita. Senza neanche entrare nel merito delle vicende, dei personaggi, delle logiche narrative che lo connotano, va sottolineato come sia lo stesso “sguardo” del nuovo cinema italiano, nelle sue opere più dirompenti e innovative (nei film di Fellini, Antonioni, Pasolini, Rossellini ecc.) a procedere sinergicamente con tutta la complessa geografia di “nuove ondate” di autori francesi, inglesi, americani, brasiliani, tedeschi che irrompono sulla scena in questo periodo di profonda evoluzione dei linguaggi visivi. In sostanza ciò che, varcata la soglia degli anni Sessanta, si verifica nel panorama cinematografico, anche a seguito della deflagrazione del paradigma neorealista – secondo la nota tesi proposta da Gilles Deleuze –, è una generale riconfigurazione dei modelli di costruzione visiva del reale, o il determinarsi di «un aldilà del movimento», di «un’analitica dell’immagine, che implica una nuova concezione del sezionamento […]. Anche mobile, la cinepresa non si accontenta più certe volte di seguire il movimento dei personaggi, o altre volte di compiere lei stessa movimenti di cui questi non sono che l’oggetto, ma in tutti i casi subordina la descrizione di uno spazio a funzioni del pensiero. Non si tratta della semplice distinzione tra soggettivo e oggettivo, reale e immaginario, si tratta al contrario della loro indiscernibilità, che doterà la cinepresa di un ricco insieme di funzioni e comporterà una nuova fun-

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zione del quadro e delle reinquadrature. Si avvererà […] una coscienza-cinepresa non più definita dai movimenti che è in grado di seguire o di compiere, ma dalle relazioni mentali in cui può entrare […] secondo le funzioni di pensiero di un cinéma-vérité che, come dice Rouch, significa piuttosto verità del cinema».12 Come vedremo, in particolare vagliando il ruolo assolutamente centrale che in questo periodo assume la figura di Henri CartierBresson, il problema del movimento, o del nesso tra movimento e «istante decisivo», si rivela determinante anche per la fotografia, nonché per l’evoluzione di quella singolare formazione di compromesso tra le ragioni della “realtà” e le ragioni della “fenomenologia del vedere” che caratterizza lo stile documentario (o l’estetica documentaria) dell’epoca. L’ideologia bressoniana dell’«istante decisivo» procede esattamente in questa direzione, e sotto questo aspetto rappresenta nel modo più esemplare la “logica culturale” di questa fase di transizione. La si può inoltre a sua volta considerare come un compromesso o una transizione tra l’estetica formalista classica del primo Novecento e lo scarto fenomenologico della modernità: tra le ragioni intrinseche della forma fotografica e quelle, storiche e culturali, dell’ermeneusi di un “reale” che sempre più, per usare le parole di Bateson, si manifesta in una dimensione di “complessità”, in una compresenza di versioni molteplici del mondo e delle relazioni intersoggettive.13 Ma qual è la radice di questo intreccio tra questioni di ordine estetico e questioni di ordine epistemologico? In che modo, per quanto riguarda le strategie della visione fotografica, emerge questa nuova logica culturale? E in che misura essa rappresenta, in relazione alla situazione italiana, un compromesso tra spinte innovative e contraddizioni rimaste irrisolte? Le risposte possibili sono, ovviamente, molteplici. Nel tentativo di svincolarmi da una lettura determinista o meramente storicistica di questa mutazione, e per tentare invece di delineare in una prospettiva il più possibile dialettica lo scenario su cui si stagliano le immagini qui pubblicate, mi trovo ora costretto a tornare indietro sui miei passi. Cercherò di farlo nel modo più rapido, indicando solo qualche traiettoria fondamentale per fissare dei punti di riferimento. Nel precedente scritto rilevavo come alla metà degli anni Cinquanta la scena fotografica internazionale, in particolar modo nell’ambito del reportage e della fotografia di impianto documentaristico, fosse caratterizzata da alcuni episodi destinati a ridisegnarne drasticamente l’identità in senso “moderno”. I due eventi coevi, entrambi datati 1955, della grande mostra al MoMA curata da Edward Steichen, “The Family of Man”, e della pubblicazione del libro su New York di William Klein (cui in genere la storiografia accosta la prima edizione, datata 1958, delle fotografie americane realizzate tra il ’55 e il ’56 da Robert Frank), rappresentano tradizionalmente quelli che potremmo definire i due opposti versanti – la pars construens e la pars destruens – della crisi del regime visuale fotorealista classico. È più che nota, dunque la sorvolerò appena, la lettura che propone Susan Sontag (che però non cita il libro d’esordio di Klein ma la retrospettiva newyorkese di Diane Arbus avvenuta nel 1972) riguardo a questa cesura storica. A differenza della «pia edificazione dell’antologia fotografica di Steichen»,14 scrive, nelle fotografie di Arbus «i soggetti si rivelano spontaneamente. Non esistono momenti decisivi. L’opinione di Arbus, secondo la quale la rivelazione di sé è un processo continuo e uniforme, è un altro modo di affermare l’imperativo whitmaniano: trattare tutti i momenti come se avessero un’eguale rilevanza. Come Brassaï, Arbus voleva che i suoi soggetti fossero il più possibile coscienti, consapevoli dell’atto al quale partecipavano».15 Tralasciando l’allusione all’estetica di Cartier-Bresson (che per motivi che si chiariranno a breve considero piuttosto pretestuosa) ciò che mi sembra più rilevante per il prosieguo del nostro discorso è la contrapposizione evidenziata da Sontag tra una logica tesa a «edificare», ovvero a tradurre in immagini, in rappresentazioni esemplari un’idea evidentemente precostituita dei soggetti fotografati, e una logica preoccupata al contrario di instaurare con essi, “spontaneamente”, un qualche genere di rapporto o cooperazione. L’innesto, su un terreno perlopiù storico ed estetico, di un problema di ordine invece strettamente teorico-metodologico, inerente non tanto al genere di rappresentazioni visive prodotte dai fotografi, quanto al genere di


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P. DONZELLI, Costa Paradiso, ginepro, 1960

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fotografia mi sembra abbia avuto la funzione di biunivoca macchina temporale. Dentro una costante tendenza a dipingere l’isola con marcati tratti esotici, ad allontanarla nello spazio, a orientalizzarla (per ricordare il quadro critico esperito da Edward Said),10 essa ha contribuito a disegnare, alternativamente, scenari d’arcaismo o di modernità, entrambi dotati di un notevole grado di arbitrarietà rispetto alla realtà economico-sociale e culturale coeva, entrambi funzionali però alle logiche di rapporto tra Occidente e sue aree coloniali o periferiche e, più in particolare, alle dinamiche della contrapposizione tra Stato nazionale italiano e colonia e tra gruppi tradizionalisti e modernizzatori, all’interno di quest’ultima, legati alle diverse fazioni che dal rapporto coloniale originavano. Più tardi, nel periodo che va dall’immediato secondo Dopoguerra al 1960, anche per via della forte influenza, diretta e indiretta, del Neorealismo italiano, mi è sembrato di aver individuato una forte tendenza all’allontanamento della Sardegna nel tempo. La creazione di un’immagine esotica si è avvalsa assai meno di un dispositivo spaziale, come avveniva per regioni più interne alle dinamiche politiche nazionali, quali la Lucania o la Sicilia, pesantemente orientalizzate, e assai più di un dispositivo temporale, teso a creare un’immagine arcaica, immobile, primordiale e primitiva, dell’isola. Rammentando una poetica immagine dello scrittore isolano Giuseppe Dessì, mi sembrava di poter affermare che la fotografia, certamente con eccezioni, tendesse a far scivolare l’isola fuori del tempo.11 Tutto ciò è utile rammentare, sia pur in forma sintetica, perché il lettore e l’osservatore del presente volume possano orientarsi e ricondurlo nell’alveo di una più ampia ipotesi critica. Occorre, però, aggiungere qualcosa di più specificamente mirato alla lettura delle immagini qui presenti. Dirò subito che dentro il processo di costruzione di tali immagini, così come dentro le ragioni storico-visive e storico-fotografiche che ad esse presiedono, non mi inoltrerò affatto. Lo fa con un taglio teorico convincente, e con ampiezza di riferimenti critici, Fragapane nel saggio presente in questo volume, cui rinvio. Ho l’impressione, dunque, che un certo sguardo sulla Sardegna, così come l’ho sopra riassuntivamente tratteggiato, negli anni Sessanta-Settanta del secolo scorso, ancora permanga. Alcuni autori qui rappresentati, per altro, avevano già frequentato l’isola e l’avevano fotografata in anni precedenti (lo stesso Franco Pinna, Mario De Biasi, Marianne Sin-Pfältzer). Lo stile con cui portano avanti la loro raffigurazione non muta in modo particolarmente significativo, mi sembra. La maggior parte degli autori continua a guardare il luogo con un netto privilegiamento delle sue forme esotiche e arcaiche d’espressione culturale, anche se la presa del discorso orientalista e primitivista, sia sul pubblico interno, sia su quello esterno, va complessivamente diminuendo (va diminuendo, però, come dirò più avanti, per via di una sua perdita d’essenzialità, di funzione, non per una sopraggiunta maturità dei registri visivi e rappresentativi che consenta la restaurazione di una coevità, così come di una contiguità spaziale, dentro le coordinate di una Storia comune). Altri autori, invece, affrontano temi legati alla realtà contemporanea (il principe Karim Aga Khan e il suo elitario consorzio, l’albergo dell’ESIT, le fabbriche e gli stabilimenti, gli scioperi e le manifestazioni), ma nel fare ciò proiettano, mi sembra, le loro convinzioni, tutte esterne all’ambiente nativo, molto ideologicamente plasmate, sopra un contesto sostanzialmente estraneo. Con uno strano effetto di caducità e di estraneità: come se le loro immagini, in effetti, non fossero affatto sarde, ma mera proiezione sul territorio locale di miti e riti continentali, italiani, europei, occidentali; e il riguardarle ora, trascorso del tempo, in chiave di insularità, ovvero di specificità regionale sarda, suona del tutto stonato. Molte di queste immagini sembrano parlare di una realtà generale, rubricabile sotto il termine di modernizzazione (e del diuturno combattimento tra arcaismo e innovazione, assai simile sotto ogni cielo, in epoca di altalenante decolonizzazione e neocolonialismo; mi sovvengono le immagini algerine, dei primi anni Sessanta, di Pierre Bourdieu, a esempio).12 Il tempo che continua a prevalere, dunque, è il tempo arcaico, del giunco e del legno (dei maestri d’ascia), del sughero, della capra, della pietra, della senescenza di uomini e cose, delle vetuste navicelle della Tirrenia, che

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congiungono madre patria e colonia, dei bambini poverissimi e delle donne avvolte negli scialli scuri, dei pastori di Orgosolo, dei barracelli di Oliena, dei pescatori degli stagni di Cabras. Riguardando il volume, e confrontandolo con quelli precedenti, il lettore sarà colpito dalla ricorrenza di soggetti e luoghi, di cui emblema pungente (nel senso barthesiano del termine) può essere la parete laterale della chiesa del Rosario di Orosei, con le sue tre croci penitenziali immanenti sullo slargo, con i suoi maschi giovani e anziani in attesa e in colloquio, ripresa da Giancolombo nel 1961, da Henri Cartier-Bresson nel 1962, da Mario De Biasi nel 1975. In realtà la fotografia italiana ed europea sulla Sardegna (in questa terza antologia non figurano autori americani) non cambia perché, malgrado molto andasse cambiando il mezzo (che ancor più cambierà nei decenni a venire), non muta il modo di porsi della società e della cultura rispetto all’isola. Non vi sono approcci nuovi (né, del resto, una nuova committenza, che comincerà a operare nel periodo di cui ci occupiamo, ma darà i suoi frutti più tardi)13 attraverso cui guardare la realtà sarda, e la fotografia tende a ripetere stancamente forme e modelli degli anni precedenti, soffermandosi su quanto più facilmente può colpire un pubblico occidentale, sempre più coinvolto nella prospettiva turistica con cui l’isola tende a essere osservata. In effetti, però, se non muta il modo di guardare la Sardegna, muta alquanto l’isola, in anni di forzata e complessa modernizzazione. Due scenari mi sembra, in questa prospettiva, si staglino con maggiore evidenza, sullo sfondo dell’occhiuto sguardo coloniale italiano (che permane; una volta erano i pastori del Supramonte che impensierivano, più recentemente anche gli operai di Ottana o di Porto Torres e gli studenti politicizzati che protestano contro le basi NATO alla Maddalena): da un lato quello connesso con lo sviluppo turistico-industriale dell’isola; dall’altro quello legato alla sua afferenza a un orizzonte di senso politico di tipo terzomondista.14 Sul primo scenario non indugerò a lungo. Sono sin troppo noti gli investimenti errati e maldestri, l’affossamento delle industrie estrattive e la pesante opzione petrolchimica, la reiterata subalternità della residuale pastorizia per via della completa espropriazione dei meccanismi di commercializzazione delle risorse, l’infrastrutturazione frettolosa e approssimativa, rispondente più alle logiche di relazione delle clientele locali con le forze politiche nazionalmente rappresentate che a reali esigenze di crescita, di sviluppo, di connessione. Sono sin troppo note l’opera di cementizzazione selvaggia e di degenerazione dell’habitat isolano, specialmente quello costiero, la sistematica distruzione delle risorse naturali che è stata operata a partire proprio dagli anni Sessanta, i nuovi disequilibri tra zone dell’isola che gli interventi eterodiretti provocarono. Industrializzazione e turismo richiamano ovviamente fotografia, ma pongono repentinamente i fotografi a contatto con l’esiguità e la pochezza delle imprese, con realtà inadeguate e contraddittorie, che mal si prestano a essere celebrate e, talvolta, persino narrate. Negli anni Sessanta e Settanta si va in Sardegna anche perché l’isola è in via di sviluppo, lungo le direttive che ho testé rammentato. Ma andandovi, ci si ritrova delusi dal nuovo e indotti a ripiegare sul vecchio, riprendendo le fila di un discorso che è divenuto, a suo modo, “tradizionale”. Sul secondo scenario, invece, vorrei soffermarmi maggiormente. Vigeva uno slogan, negli anni che vanno dal 1968 in avanti, che campeggiava sulle pareti delle aule universitarie italiane come sui muri di cemento delle nuove costruzioni isolane, che echeggiava nei cortei e nelle assemblee di movimento: «La Sardegna sarà la Cuba del Mediterraneo». Giangiacomo Feltrinelli, il suo discusso rapporto con Graziano Mesina, il suo sostegno intellettuale e materiale alla causa della rivoluzione sarda,15 sullo sfondo di una vasta insubordinazione che si esprimeva nelle forme radicali e violente del sequestro di persona e della violenza interpersonale, i gruppi politici indipendentisti (quelli riuniti attorno alla figura di Antonio Simon Mossa, il circolo “Città-Campagna” di Cagliari, diretto da Eliseo Spiga e da Antonello Satta, il gruppo che si ispirava all’ottocentesco movimento Su connottu, di Paskedda Zau), che poggiavano su un’aperta rivendicazione delle basi etniche e linguistiche dell’identità sarda (a foras sos


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A. ROSSI, Orosei, santuario della Madonna del Rimedio, ex-voto, 1972

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Frutto delle scelte della CASMEZ, tale trapianto favorì specialmente la petrolchimica di Rovelli, grazie alle forme clientelari sviluppate tra impresa, politica e finanza. Questo modello d’industrializzazione causò una “modernizzazione disgregante”, distorsioni nello sviluppo produttivo e nella gestione degli investimenti statali, ma anche l’affermazione di una classe dirigente, legata alla grande borghesia industriale e finanziaria, sempre più vocata all’incetta e all’amministrazione delle risorse pubbliche.30 Il secondo Piano di rinascita propose obiettivi e procedure alternativi, ma lo sforzo di sostenere le forze endogene dello sviluppo, i programmi di settore e i progetti obiettivi, fallì: all’«apparente unità di consensi», non corrisposero nella fase operativa la necessaria unità politica e la dovuta determinazione.31 Negli anni Settanta, intricati e numerosi problemi facevano vacillare la fragile economia sarda. Le ragioni risiedevano sia nel contesto internazionale, nelle crisi petrolifere di respiro mondiale, sia in quello regionale, dove, accanto al naufragio del nuovo Piano di rinascita, tornavano alla ribalta queA. SERFATI, Orgosolo, il gioco delle carte, ante 1964

stioni da tempo irrisolte. Basterà ricordare le vicende delle miniere di Carbonia:32 subentrata nella gestione del bacino carbonifero nei primi anni Sessanta, l’Enel ne disponeva la chiusura, provocando l’ennesima crisi occupazionale, che si tentava di ammortizzare con l’attivazione della supercentrale del Sulcis e con la creazione del polo dell’alluminio a Portovesme. Non fu meno drammatico il destino di Ottana, che per la DC nuorese e per Pietro Soddu, tra i leader dei “giovani turchi”, rappresentava il riequilibrio localizzativo degli investimenti, mentre per l’opposizione e i sindacati era il risultato della battaglia intrapresa per rompere la stagnazione delle zone interne. Ottana doveva rappresentare una svolta, restò invece una “cattedrale nel deserto”, il teatro di un’ulteriore sconfitta. Qui si fronteggiarono alcuni dei leader dell’industria italiana, pubblica e privata: Nino Rovelli (padrone della SIR-Rumianca, proprietario dei quotidiani locali L’Unione Sarda e La Nuova Sardegna, appoggiato dall’IMI, dalla DC di Andreotti e da Mancini nel PSI) e Eugenio Cefis (a capo prima dell’ENI poi della Montedison, sostenuto da Mediobanca, dai dorotei e fanfaniani e dal socialista De Martino). Entrambi avviarono ambiziosi programmi d’investimento e l’occupazione di migliaia di lavoratori nell’industria delle fibre artificiali, ma che, scoppiata la cosiddetta “guerra chimica” per la conquista dei finanziamenti pubblici, provocò l’ennesimo disastro: il tracollo della SIR-Rumianca (1978) – sopraffatta dai debiti contratti con l’IMI e il CIS – e la crisi del petrolchimico di Porto Torres, dopo che ai danni di Rovelli fu avviata un’inchiesta giudiziaria per truffa aggravata (dicembre 1977).33 Sul finire del decennio, si aprì, profonda, la crisi che interessò i più importanti stabilimenti industriali; si approfondiva ulteriormente quella grave emergenza che ancora, e a lungo, avrebbe travagliato l’isola, nonostante già allora fosse evidente che l’industrializzazione non aveva imboccato la via auspicata, mentre l’agricoltura segnava il passo e la popolazione attiva era ulteriormente diminuita. Dinamismi, conflittualità, occasioni mancate Nel giugno 1969 più di tremila orgolesi invadevano pacificamente la vallata di Pratobello contro l’occupazione dei pascoli, destinati al poligono militare. Da Pratobello il malessere delle zone interne tornava prepotente alla ribalta e Adriano Mordenti ne immortalava eloquenti gesti e volti. Il reportage si animava proprio dove la sollevazione prendeva forma: stavolta non facevano breccia le gesta dei banditi, ma la non violenza espressa da una comunità decisa a far valere i propri diritti, per nulla intimidita dallo spiegamento militare. Nel 1965 la protesta pacifica delle zone più disagiate aveva già conquistato la cronaca con la marcia del sindaco di Ollolai, Michele Columbu, che al grido di «la miseria non si amministra», aveva attraversato l’isola per protesta contro l’inerzia burocratica della Regione. Nell’estate del 1968, l’opinione pubblica era scossa dal gesto dei pastori che, in mobilitazione, avevano portato le loro greggi al centro di Cagliari. L’interno dell’isola sollecitava tempestive soluzioni per i problemi dei pascoli e della disoccupazione: in autunno, si scioperava in Baronia; nel Goceano e in Barbargia si chiedevano provvedimenti per i senza lavoro; a Orgosolo si occupava il Comune per quattro giorni, e al presidente della Giunta regionale Giovanni Del Rio s’inviava una lettera perentoria per chiedere il rispetto delle proposte orgolesi sulla gestione del Comune e della zona.34 Affollate assemblee di piazza e municipi occupati segnavano la vita di molti centri. Nei circoli di paese si organizzavano le proteste: giovani, operai, artigiani e pastori, uniti fra loro volevano fare piuttosto che dire – così si leggeva sui manifesti del circolo giovanile di Orgosolo –, si confrontavano sui temi cari al movimento studentesco del ’68,35 non di rado sensibili alle teorie terzomondiste, ma soprattutto alle tesi neosardiste. Di ritorno dalla Bolivia, Giangiacomo Feltrinelli fu colpito dalla capacità eversiva delle iniziative e ipotizzava persino una rivolta animata dai pastori. Si adoperò per incontrare alcuni intellettuali sardi e pubblicò un lavoro di Eliseo Spiga Sardegna. Rivolta contro la colonizzazione che, stampato con lo pseudonimo di Giuliano Cabitza, ebbe molta eco anche fuori dell’isola.36 Le ipotesi di Feltrinelli non andarono in porto, il neosardismo invece non si spense,

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A. SERFATI, Oliena, il gioco della tombola, ante 1964

si radicò sull’humus generoso della “costante resistenziale” – nell’idea dell’atavico scontro tra culture, l’una esterna e dominatrice, l’altra interna e subalterna, ma sempre «resistente» –, e nella possibilità di sviluppare un’autonomia intesa come esaltazione della cultura, della lingua, dell’integrità ambientale, dell’identità sarda. A forme di radicale opposizione si rifacevano i gruppi anticolonialisti che, come riportava una eloquente scritta su un muro della chiesa della Pietà di Oliena, immortalato da Lisetta Carmi (fig. 79), contestavano la DC, colpevole di sostenere Rovelli, simbolo del colonialismo industriale. Non di meno trovavano adesione le ragioni degli antimilitaristi, contrari alle basi nucleari degli USA e all’impianto nell’isola di Santo Stefano di una struttura per sommergibili a propulsione nucleare, segretamente pattuito tra i governi italiano e statunitense. Le dimostrazioni contro i pericoli d’inquinamento nucleare, nell’agosto 1976 culminarono con le manifestazioni che ai giovani antimilitaristi non violenti unirono la gente della Maddalena, in un connubio efficacemente esplorato dall’obiettivo di Fausto Giaccone. Non meno tumultuose e drammatiche le vicende di una nuova classe operaia, formata nell’ambito della grande industria, coinvolgevano tutta la società sarda, tra quanti erano direttamente implicati negli alterni destini della chimica e della petrolchimica e quanti, sul fronte della politica e del

governo regionale, avrebbero dovuto fronteggiare e risolvere gli squilibri sociali ed economici effetti della recente industrializzazione. Al petrolchimico, interessato da accese contestazioni e proteste che guadagnavano l’attenzione dell’opinione pubblica, giunse Tano D’Amico. Attento a operai che si affrancavano dall’originaria condizione di contadini e pastori, il fotografo ne coglieva tra sguardi e gesti i cambiamenti, accanto alla soddisfazione per la dignità e i diritti conquistati, al risoluto impegno nelle rappresentanze di fabbrica, all’inquietudine e alla speranza per l’esito delle lotte. La testimonianza di D’Amico, articolata tra movimento operaio e studentesco, giungeva in Sardegna quando il processo di sindacalizzazione nei poli di sviluppo incominciava a dare i suoi frutti. Superati di recente gli ostacoli posti dalle aziende alla formazione delle rappresentanze operaie – alla SIR la prima Commissione interna nasceva alla fine degli anni Sessanta –, per i lavoratori del petrolchimico l’intrapresa attività sindacale comportò in primo luogo il superamento della condizione vissuta da quanti, provenienti dal mondo agro-pastorale e selezionati per l’estraneità a qualsiasi militanza, erano stati oggetto di ripetuti gesti intimidatori, come quello che, nel 1962, aveva portato al licenziamento di sei operai intervenuti a un’assemblea delle ACLI.37 Gli ultimi anni Sessanta furono quindi determinanti per la crescita di una nuova e combattiva classe lavoratrice che, con il contributo dei militanti sindacali e politici esterni alla

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Marianne Sin-Pfältzer (Hanau 1926)

Marianne Sin-Pfältzer nasce ad Hanau, nei pressi di Francoforte, il 12 aprile 1926, terzogenita di Bernhard Heinrich, medico pacifista e fervente antinazista (più volte nei guai con la Gestapo e con l’Unione dei Medici Tedeschi per l’esercizio della professione a favore di pazienti ebrei), e Emilia (Milly) Körner. Giovanissima, come la prassi dell’epoca impone, partecipa al programma di indottrinamento della gioventù hitleriana sebbene la percezione del malumore del padre, la deportazione di molti pazienti di quest’ultimo e di alcuni amici di famiglia di religione ebraica, ben presto le apra gli occhi su quanto sta accadendo in Germania. Lei stessa è tenuta sotto stretta sorveglianza e, al fine di avere garantita l’incolumità, prosegue gli studi in collegio. Nel marzo del 1945 l’abitazione di famiglia è distrutta nel corso di un bombardamento da parte degli alleati. Nel 1947, in seguito alla morte del padre a causa di un incidente d’auto, la madre è costretta ad aprire un piccolo atelier fotografico per offrire ai figli la possibilità di studiare. Terminato il liceo, incerta sul percorso professionale da intraprendere – le sue inclinazioni oscillavano tra musica e artigianato –, arriva casualmente in Sardegna: intorno al 1950, il fratello Wolfgang, all’epoca studente a Roma, le invia una lettera nella quale riferisce che una famiglia residente nell’isola ricerca con urgenza un’educatrice. Senza esitare si mette in viaggio per La Maddalena, dove prende subito servizio. Sei mesi più tardi, allo scadere del permesso di soggiorno, rientra in Germania, portando con sé le poche fotografie realizzate con una piccola Agfa Isolette donatale dalla madre alla partenza. Nel 1952 si iscrive al Bayerische Staats Lehranstalt für Photographie di Monaco che, dopo appena un anno, deve abbandonare per motivi finanziari. Trascorre sei mesi a Parigi, dove affina la propria formazione a stretto contatto con i fotografi Carry Hess, Willi Maywald e Florence Henri, e subito dopo intraprende la libera professione. Contemporaneamente inizia a maturare la decisione di tornare in Sardegna per approfondirne la conoscenza e documentarne la cultura arcaica. Torna nell’isola nel 1953: ha con sé una Rolleicord 6x6 e molti dei suoi spostamenti avvengono in autostop, situazione che facilita il contatto con gli abitanti del luogo. Durante un viaggio a Oliena conosce l’editore cagliaritano Guido Fossataro, il quale, avendo in programma l’edizione di un volume sulla Sardegna (Sardegna quasi un continente, opera che sarà data alle stampe nel 1958, con testi di Marcello Serra e un apparato iconografico costituito da fotografie della Sin-Pfältzer, di Mario De Biasi e di vari fotografi sardi), la invita a collaborare al progetto. A causa delle difficoltà riscontrate nel corso degli spostamenti, riparte per la Germania per procurarsi un’automobile. Nel 1955 è di nuovo nell’isola, questa volta in compagnia del fotografo Dieder Renner, conosciu-

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to presso l’editore Heering (alcune immagini di Renner riprese in Sardegna nel corso di quel viaggio sono pubblicate, insieme agli scatti della SinPfältzer e di Toni Schneiders, in Photo Magazin, aprile 1960). Socia dal 1958 del BJV, Bayerische Journalisten-Verband, l’associazione tedesca dei fotogiornalisti, affida la distribuzione delle proprie immagini alle agenzie Pontis-Photo, per la Germania, e Roger-Viollet, per la Francia. I suoi scatti relativi alla Sardegna sono pubblicati su vari giornali, Photoblätter, Kunst und Handwerk, Hör Zu, Photo Magazin, Ford Revue, Retina Revue, Ihre Freundin, Klick, Deutsche Goldschmiede Zeitung, Postverlagsort; numerose, inoltre, le campagne pubblicitarie curate per aziende di primo piano quali Agfa, Perutz, Kodak, Braun e Hohner. Nell’ottobre del 1958, a Cagliari, presso l’Associazione Amici del Libro, Società Nazionale Dante Alighieri, allestisce un’esposizione di immagini della Sardegna che subito dopo trasferisce a Roma, prima all’Associazione dei Sardi “Il Gremio” (febbraio 1959), quindi negli spazi del salone della biglietteria della stazione Termini (marzo 1959). Tra il mese di giugno e l’agosto del 1959 prepara un altro allestimento, “Schmuck einer Insel”, presso la Deutsches Goldschmiedehaus di Hanau, in occasione del quale affianca alle fotografie un’esposizione di gioielli e oggetti di artigianato della Sardegna. Seguono: “Sardinien im Bild”, nei locali della Brunnenkolonnade di Wiesbaden (1959); “Sardinien”, presso il Bayer Landesgewebeanstalt di Norimberga (1960); una proiezione di diapositive alla McGraw Kaserne Special Services Library a Monaco (1960); “Photographische Studien”, presso lo Staatliche Landesbildstelle di Amburgo (1961) e un’ulteriore esposizione all’Internationales Freundschaftsheim di Bückeburg (1961). Nel 1963 l’editore fiorentino Vallecchi ripubblica il volume di Marcello Serra, Mal di Sardegna (la prima uscita risale al 1955), illustrato dalle fotografie della Sin-Pfältzer, oltre che, tra gli altri, di Mario De Biasi e Josip Ciganovic. Nel 1964 va in stampa Sardinien, edito a Starnberg da Josef Keller (in Francia esce invece per i tipi di Clairefontaine a Losanna), un’antologia delle immagini sarde accompagnate da brani tratti da Sea and Sardinia di David Herbert Lawrence e da note di Bernard Brandel. L’anno successivo, Hallwag pubblica a Berna Fred und Peter, racconto fotografico a sfondo antirazziale del quale sono protagonisti due bambini, uno bianco e uno nero. Negli stessi anni progetta senza fortuna una collana di libri per l’infanzia i cui soggetti principali sono gli animali; nel 1969 vede la luce, per l’editore Werner Dausien, Stummel, racconto fotografico incentrato sulla figura di un bassotto, fedele compagno della fotografa in tanti viaggi in Sardegna. Dal 1969, anno della fondazione, al 1985 è membro del BFF, Bund Freischaffender Foto-Design, al quale fanno capo i fotografi indipendenti tedeschi,

e della Europhot, l’associazione europea dei fotografi professionisti. Dopo aver visitato la maggior parte dei paesi europei, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta compie numerosi viaggi in giro per il mondo: Hawaii (1966), Stati Uniti (1965, 1969), Russia (1967), Ceylon (Sry Lanka), India, Filippine, Haiti (1969) e Costa d’Avorio (1979). Tra i mesi di dicembre e gennaio del 1970 allestisce di nuovo la mostra “Sardinien”, questa volta all’Institut für Auslandsbeziehungen di Stoccarda. Nella primavera del 1976 viene derubata dell’intera attrezzatura da ripresa, circostanza che la porterà ad abbandonare progressivamente la fotografia e a mettere a frutto il proprio estro creativo in una nuova modalità espressiva che esula dalle apparecchiature tradizionali: il Foto-batik, tecnica originale consistente nella realizzazione di matrici per la stampa su tessuto a partire da negativi fotografici raffiguranti dettagli di motivi vegetali, animali e riprese macro generiche, elaborate, ingrandite e duplicate in laboratorio, e infine stampate su pellicole tipografiche. Con questa tecnica realizza campioni di tessiture che espone alla fiera del design “Indigo”, a Lille, nel 1979-81 e nel 1984, riscuotendo un grande successo e allacciando rapporti di collaborazione con diverse industrie tessili, in qualità di designer. Nel 2001, negli spazi del Historisches Museum Hanau Schloss Philippsruhe, ad Hanau, allestisce una retrospettiva dal titolo “Marianne Sin-Pfältzer 1951-2001: Photographie, Fotodesign, Foto-batik”. L’ultimo grande evento espositivo, intitolato “Luoghi di metamorfosi”, si tiene nel 2003 negli spazi del Museo Civico di Villanovaforru, in provincia di Cagliari, con la proposta di una ricca serie di macrofotografie. Diverse sue immagini costituiscono l’apparato iconografico d’epoca dei volumi Pani, Tessuti, Ceramiche della collana dedicata alla cultura materiale della Sardegna, edita dalla Ilisso Edizioni. Il repertorio di negativi, provini a contatto e vintage prints, di proprietà dell’autrice, si trova attualmente in deposito presso l’archivio fotografico della Ilisso Edizioni di Nuoro. Il corpus di immagini riguardante la Sardegna, realizzato tra il 1953 e la prima metà degli anni Settanta, risulta essere uno dei più consistenti e articolati mai prodotti sull’isola: pochi i paesi non censiti e rare le attività non documentate. Vastissimo, infine, il catalogo dei ritratti, suo genere d’elezione, riferibili a personaggi noti della cultura e dell’arte sarda nonché a persone comuni, delle quali raramente si è fatta sfuggire i volti più interessanti.

Bibliografia Ceramiche 2007; Novellu 2009a; Pani 2005; Serra 1958; Serra 1963; Sin-Pfältzer, et al. 1964; Tessuti 2006. Intervista inedita realizzata da S. Novellu a Marianne SinPfältzer tra l’estate del 2007 e l’autunno del 2010.


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1. M. SIN-PFĂ„LTZER, Porto Torres, 1961

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12-13. M. SIN-PFÄLTZER, Cagliari, l’arrivo in città della regina Elisabetta II d’Inghilterra, 1961

14. M. SIN-PFÄLTZER, Sardegna, 1960

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Josip Ciganovic (Serbia 1922-Barcellona 1985)

Di Josip Ciganovic-Omcikus (questo è il nome completo che compare sul timbro a secco apposto sul verso delle sue stampe fotografiche) la letteratura specialistica restituisce scarsissime notizie biografiche, rendendo pressoché impossibile ricostruirne in maniera completa ed esaustiva il percorso formativo e le varie fasi dell’attività fotografica. Le poche tracce emerse collocano i suoi natali in una non meglio precisata località della Serbia nel 1922 e ci informano che si dedica alla fotografia dopo aver abbandonato gli studi di medicina. Di contro, rimane un nutritissimo corpus di opere editoriali dalle quali risulta evidente che nel corso della lunga attività il campo nel quale si è espresso al meglio è stato la fotografia di genere turistico. Tra i primi anni Cinquanta e la fine degli anni Settanta opera a lungo in Italia, con sede a Roma, appoggiandosi per la distribuzione delle proprie immagini alle agenzie Foto Olympia e Fotocelere. A metà degli anni Cinquanta è in Sardegna, come testimonia la fotografa tedesca Marianne Sin-Pfältzer (la quale conserva un nitido ricordo di un loro incontro avvenuto a Sassari nel 1955, in occasione della Cavalcata Sarda). Nell’isola collabora con vari enti, tra i quali l’ENAPI (Ente Nazionale Artigianato e Piccola Industria), e soprattutto l’ESIT (Ente Sardo Industrie Turistiche), per i quali documenta vari aspetti della regione, con particolare riferimento a quelli più propriamente etnografici ed archeologici. Sin dalla prima metà degli anni Cinquanta si segnala ripetutamente la sua presenza a Barcellona: il 28 dicembre 1954, il quotidiano La Vanguardia Española riporta un annuncio in evidenza nel quale la Agrupacion Fotografica de Cataluña presenta una proiezione di 120 diapositive a colori originali del proprio socio Josip Ciganovic-Omcikus, dal titolo “Çerdeña Turistica” (p. 14); l’evento, questa volta col titolo “Visiones de Çerdeña”, viene riproposto l’11 gennaio 1955 all’Istituto Italiano di Cultura della città (La Vanguardia Española, p. 12); due giorni dopo la medesima testata (p. 14) informa che il giornalista Josip Ciganovic-Omcikus, da anni residente in Italia, ha proiettato un cospicuo numero di diapositive a colori relative alla Sardegna, illustrandone le bellezze naturalistiche, gli abiti tradizionali, le consuetudini e le feste – l’iniziativa ha consentito di scoprire aspetti poco noti di una terra che nel corso dei secoli ha avuto importanti relazioni con la Spagna e ha dunque riscosso un grosso successo –; il 18 gennaio dell’anno successivo riporta la notizia di una conferenza dal titolo “Visiones de Italia” (p. 17) tenuta all’Istituto Italiano di Barcellona – in collaborazione con la delegazione locale del Ministero Italiano per il Turismo – dal «signor Josip Ciganovic-Omcikus di Roma», in occasione della quale sono state proiettate delle diapositive delle bellezze naturalistiche e di alcuni capolavori dell’arte italiana, con particolare riferimento alla Sicilia, alla Toscana, a Venezia, alle Dolomiti e ai laghi della Lombardia.

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Nel 1963 l’editore fiorentino Vallecchi ripubblica il volume di Marcello Serra, Mal di Sardegna (la prima uscita risale al 1955), illustrato, tra gli altri, dalle fotografie di Ciganovic, di Marianne Sin-Pfältzer e di Mario De Biasi. Uno tra i suoi referenti più importanti è stato certamente il Touring Club Italiano, per il quale ha lavorato alla documentazione delle varie regioni della penisola sia per il periodico Le Vie d’Italia che per la collana Attraverso L’Italia. Nuova serie edita nel 1970 (si tratta della seconda serie di Attraverso l’Italia. Illustrazione delle regioni italiane, pubblicata dallo stesso TCI nel 1954); all’interno dell’apparato iconografico del XXIII volume, dedicato alla Sardegna, sono inserite alcune sue fotografie. Nello stesso 1970, l’Editrice Sarda F.lli Fossataro da alle stampe la seconda edizione (la prima risale al 1958) di Sardegna quasi un continente, opera curata da Marcello Serra e illustrata tra gli altri dalle fotografie della Sin-Pfältzer, di De Biasi e da un cospicuo numero di scatti contrassegnati come “foto ESIT”, il cui artefice con buona probabilità è lo stesso Ciganovic, che firma anche l’immagine di copertina. Tra le pubblicazioni da lui illustrate si ricordano: Urbino e il Montefeltro, con testo di P. Carpi, Roma, Lea, 1965; R. Biscaretti di Ruffa, Il Museo dell’automobile Carlo Biscaretti di Ruffa, Roma, L’editrice dell’automobile, 1966; Gomera y Hierro en color, León, Everest, 1973; La Palma en color, León, Everest, 1973; Tenerife en color, León, Everest, 1973; Gran Canaria en color, León, Everest, 1973; Mallorca en color, León, Everest, 1973; Marbella en color, con testi di J.M. Vallâes Fernandez, León, Everest, 1975; El Generalife y sus jardines, con testi di F. Prieto-Moreno, León, Everest, 1976; Albarracin y su serrania, con testi di J. Albi, F. Cantâin, León, Everest, 1976; Torremolinos-Benalmadena en color, León, Everest, 1977; FuengirolaMijas en color, con testi di J.M. Vallâes Fernández, León, Everest, 1977; El Pirineo Aragones, con testi di A.G. Sicilia, S.B. Aparicio, León, Everest, 1979. Trasferitosi definitivamente in Spagna intorno alla prima metà degli anni Settanta, muore a Barcellona il 21 aprile 1985 e i suoi funerali vengono celebrati nella chiesa ortodossa della città, secondo quanto si apprende dal necrologio apparso il 24 maggio sulle pagine del quotidiano La Vanguardia (p. 20).

Bibliografia Ceramiche 2007; Serra 1958; Serra 1963. Interviste inedite realizzate da S. Novellu a Marianne SinPfältzer tra l’estate del 2007 e l’autunno del 2010 e a Maria Lai nell’autunno del 2010.


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24. J. CIGANOVIC, Aritzo, primi anni ’60

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35. GIANCOLOMBO, Orosei, chiesa del Rosario, 1961

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51. H. CARTIER-BRESSON, Orosei, 1962

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52. H. CARTIER-BRESSON, Dorgali, sabbiature nella spiaggia di Cala Gonone, 1962

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137. F. SCIANNA, Orgosolo, macellazione, 1969

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Adriano Mordenti (Roma 1946)

Adriano Mordenti nasce a Roma il 22 gennaio del 1946. Sin da bambino coltiva la passione per la musica, «mia nonna era diplomata in pianoforte e in casa avevamo un pianoforte a coda Steinway & Sons […] mi avvicinai al jazz e la notte iniziai a suonare nei bar e nei primissimi locali alternativi della capitale. Comprai un sassofono e casualmente conobbi Steve Lacy, che aveva suonato con Thelonius Monk, […] studiai poi con Baldo Maestri, celebre sax alto dell’orchestra Ritmi Moderni della Rai, e suonai con Marcello Melis, Massimo Urbani, Bruno Tommaso e altri». Anche il suo approccio alla fotografia avviene in giovanissima età (le prime macchine utilizzate erano una Lubitel 6x6 e una Exa II 35mm, sostituite più tardi dalla Pentax). Nel 1962, a soli sedici anni, è già cronista e fotoreporter per L’Unità, diretto all’epoca da Mario Alicata e Luigi Pintor, quotidiano per il quale lavorerà fino al 1967. Contemporaneamente collabora con il settimanale Vie Nuove diretto da Anton Giulio Bragaglia e con L’Astrolabio diretto da Ferruccio Parri. Le fotografie da lui realizzate nel dicembre del 1964 durante le manifestazioni di protesta contro la visita in Italia del leader congolese Moise Ciombé (Moïse Kapenda Tshombé), principale antagonista di Patrice Lumumba e mandante, nel 1961, del suo omicidio, sono state utilizzate in un’interrogazione parlamentare come unica prova documentaria su quei fatti (stessa sorte avranno gli scatti relativi agli scontri del 27 maggio del 1966 all’Università La Sapienza a Roma, culminati con la morte dello studente di architettura Paolo Rossi). Pur di consentire la pubblicazione di alcune sue immagini relative alle cariche della polizia contro dimostranti inermi viene interrotto uno sciopero in corso dei lavoratori tipografici. Nel 1966 è tra i fondatori dell’Associazione Italiana Reporters Fotografi (AIRF), all’interno della quale sarà eletto rappresentante per il Lazio, e si reca a Firenze durante la terribile alluvione. Nel 1967 parte per il Medio Oriente, durante la cosiddetta “Guerra dei sei giorni” tra Israele ed Egitto; gli scatti relativi al conflitto appaiono sui più prestigiosi periodici internazionali, Time, Newsweek, Paris Match e Life. Subito dopo, mentre in Grecia è in corso il colpo di stato dei Colonnelli, è l’unico fotografo a documentare la protesta dei prigionieri politici nel carcere Averoff ad Atene. Ancora nel 1967 è invitato a entrare a far parte dello staff della Team Editorial, diretta da Franco Lefevre, agenzia della quale farà parte sino al 1977, pubblicando regolarmente sulle maggiori testate italiane e straniere; numerosi, ad esempio, gli inserti a colori realizzati per L’Espresso. Nel giugno del 1969 documenta la rivolta della popolazione di Orgosolo contro l’occupazione militare di tremila ettari di pascolo nella vallata di Pratobello, dove lo Stato intendeva allestire un poligono di tiro. Il reportage, che evoca con straordinaria efficacia la durezza degli scontri, mostrandone da en-

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trambi i punti di vista le fasi più concitate, gli vale il Premio Grazia Deledda e l’incarico da parte del Comune di Nuoro della documentazione fotografica del proprio territorio. Nello stesso anno, la galleria Il Diaframma di Milano, la prima galleria fotografica aperta in Italia a opera di Lanfranco Colombo, organizza a Roma (dove aveva inaugurato una sede in via Santo Stefano del Cacco) una sua mostra intitolata “Occhio non vede, cuore non duole”. Ancora nel 1968 è in Sicilia, a Gibellina, in occasione del terribile terremoto; nel 1969 andrà in Giordania per un reportage sui campi di addestramento palestinesi; nel 1974 in Portogallo, durante la Rivoluzione dei garofani; nel 1977 in Spagna, per le prime elezioni democratiche, queste immagini appariranno sulle pagine di Time e Newsweek. Numerosi i viaggi in Unione Sovietica, «le fotografie di costume realizzate per le strade di quel paese erano piuttosto richieste in Italia, c’erano giornali come Mondo Nuovo, Vie Nuove, Rinascita, Noi Donne, L’Europeo, Epoca, Il Mondo, che facevano a gara per averle». Tra i servizi più interessanti realizzati a Mosca, l’autore ama ricordare quello su Lili Brik, il grande amore del poeta Majakovskij, «all’epoca dimenticata da tutti ma mantenuta dal regime come spiegazione ufficiale del suicidio del poeta, che come ben sappiamo non era dovuto a questioni amorose», apparso poi all’interno del volume Con Majakovskij. Intervista di Carlo Benedetti, pubblicato a Roma da Editori Riuniti, nel 1978. Dalla fine degli anni Sessanta collabora stabilmente con La Stampa di Torino e, dal 1969, dopo un’aspra vertenza intercorsa tra la categoria dei fotoreporter e l’Associazione Italiana degli Editori, è il terzo fotografo in Italia ad aver avuto accesso all’Ordine dei Giornalisti. Alcune sue foto, sugli avvenimenti del ’68-69, sono richieste dal Museo d’Arte Moderna di Amsterdam. Nel 1973, inviato dell’Espresso insieme a Paolo Mieli, segue la guerra del Kippur. Nel 1975 cura il volume Come eravamo. Documenti fotografici per una storia delle lotte studentesche a Roma (1966-1972), edito a Roma da Savelli, una raccolta di fotografie dello stesso Mordenti e di Massimo Vergari commentate da un testo di Rosanna Fiocchetto. L’anno successivo realizza per l’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) numerosi servizi sulle attività dell’Ente. Nel 1977, assieme ad altri colleghi e a Simonetta Scalfari De Benedetti, fonda l’agenzia AGF, attraverso la quale collabora con le maggiori testate italiane e straniere; esegue inoltre reportage per il CNEN (Comitato Nazionale per l’Energia Nucleare), l’ENEA (Ente Nazionale per le Energie Alternative), l’Ansaldo, la Presidenza del Consiglio e il Poligrafico dello Stato. Nel 1980 il governo del Mozambico gli affida alcuni corsi di formazione professionale nella Scuola di giornalismo di Maputo, nell’ambito dei quali prepara due serie di lezioni, una sulle “Tecniche della mistificazione nel reportage a tesi predeterminata” e l’altra relativa alla “Composizione fotografica”, entrambe adottate stabilmente nei programmi delle scuole di giornalismo del Mozambico e dell’Angola. Durante lo stesso anno tiene, per conto dell’Associazione dei fotoreporter africani, una conferenza sulla scuola fotogiornalistica del Mondo, il prestigioso settimanale culturale diretto da Mario Pannunzio. Inizia, inoltre, un rapporto di collaborazione con Il Messaggero, il cui ufficio grafico era diretto,

ancora per poco, da due grafici d’eccezione come Piergiorgio Maoloni e Pasquale Prunas. Nel 1982 progetta e coordina per conto del Comune di Roma un audiovisivo dal titolo La magia nella vita quotidiana e una multivisione, ovvero una proiezione di immagini accompagnata da brani musicali, dedicata ai Luoghi magici romani, con testi di Alfonso Di Nola, Gabriele La Porta e del rabbino Riccardo Disegni. Sempre per il Comune di Roma cura la progettazione e la parte fotografica di quattro audiovisivi e di una multivisione sulle minoranze etniche nella capitale. Nel 1989 inviato dal Venerdì di Repubblica insieme al giornalista Bernardo Valli, realizza un reportage sull’Arabia Saudita. Nel 1991 segue la Guerra del Golfo da Gerusalemme e realizza un servizio (foto e testo) sugli ebrei di origine araba in Israele che diverrà un numero monografico del Venerdì di Repubblica; due anni dopo realizzerà un reportage sulle ferrovie americane per conto di Finmeccanica. Nel 1996, in occasione dell’anniversario della morte dello studente Paolo Rossi, nelle sale del Palazzo delle Esposizioni di via Nazionale a Roma, viene allestita una retrospettiva delle immagini da lui realizzate negli anni Sessanta; nel 1997 è insignito del prestigioso Premio Presidente della Repubblica per i reportage sugli zingari romani. È, inoltre, il primo non-zingaro premiato al Concorso Artistico Internazionale “Amico Rom” da parte dell’Associazione Nazionale Thèm Romanó. Nel 1997 parte per la Cina, dove, per conto di Finmeccanica, realizza un servizio sulla condizione delle minoranze etniche. Nel 1998 un altro riconoscimento: il Premio Saint Vincent per un reportage (foto e testo), pubblicato dal Venerdì di Repubblica, sulla quotidianità all’interno di un commissariato romano, quello del Viminale, «che operava in uno dei contesti più complessi della capitale». Nel 2006 l’editore romano Avagliano pubblica il volume di Giovanni Russo Israele in bianco e nero. Conversazione di Arrigo Levi e intervista a Vittorio Dan Segre, il cui apparato iconografico è costituito dagli scatti in bianco e nero di Mordenti. Nel mese di febbraio dello stesso anno si inaugura nel foyer del Goethe-Institut di Roma “Zeugen/Testimoni. Frammenti dopo il lager”, un evento espositivo all’interno del quale è stata presentata una serie di ritratti dei sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti, da lui realizzati durante gli anni Novanta. Le immagini sono accompagnate dalle testimonianze che la psicologa Anna Segre e la sociologa Gloria Pavoncello hanno raccolto direttamente dai superstiti o dai loro familiari. Nel mese di aprile del 2008, la rivista MicroMega organizza al Parco della Musica di Roma una sua mostra sugli eventi del 1968, intitolata “Valle Giulia e dintorni. Una storia romana”. Attualmente si occupa quasi esclusivamente di musica.

Bibliografia Fofi 1990, p. 113; Lucas, Agliani 2004, p. 20; Portelli 1999, pp. 49, 52, 336; Settimelli 1969, p. 181. Intervista inedita realizzata da S. Novellu ad Adriano Mordenti nell’autunno del 2010.


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139. A. MORDENTI, Orgosolo, Pratobello, rivolta popolare contro l’occupazione militare delle terre, giugno 1969

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Tano D’Amico (Filicudi 1942)

Tano (Gaetano) D’Amico nasce a Filicudi, nelle Isole Eolie, il 29 luglio 1942. L’approccio con la fotografia avviene durante l’adolescenza quando il padre gli regala una Ferrania Rondine, piccola fotocamera di produzione italiana per pellicola 4,5x6, con la quale si diletta a realizzare istantanee di famiglia. Conseguita la maturità classica presso il Liceo Beccaria di Milano, nel 1961 si iscrive alla Facoltà di Scienze Politiche, che frequenta fino al 1965; nel 1967 si trasferisce a Roma mentre entra nel vivo la protesta del movimento studentesco. Dopo una iniziale vicinanza ai gruppi di dissenso di area cattolica, alla fine degli anni Sessanta si avvicina a Potere Operaio, movimento politico della Sinistra extraparlamentare, fondato nel 1967 e scioltosi nel giugno 1973, e all’omonimo organo di informazione. Quando, nel 1972, il giornale muta il proprio nome in Potere Operaio del lunedì e inizia a pubblicare con regolarità, i compagni di movimento gli chiedono di documentare col mezzo fotografico gli avvenimenti seguiti dalla testata. Il primo servizio da inviato lo conduce in Sardegna, all’epoca coinvolta da un imponente sviluppo dell’industria petrolchimica, sorta a metà degli anni Sessanta nell’area di Porto Torres. È il 1972 e nelle immagini riprese ai cancelli e all’interno degli stabilimenti, nelle mense aziendali e durante le trasferte dei pendolari, si possono leggere chiaramente i segni della trasformazione generazionale di cui si faceva protagonista una parte della società sarda che proprio in quel momento si avviava a mutare la propria condizione agropastorale e a rivolgersi all’industria. Un’immagine del reportage fu pubblicata in prima pagina sul primo numero apparso in edicola di Potere Operaio del lunedì. Nel corso della propria attività seguirà da vicino le vicende del movimento studentesco e di quello femminista, le lotte di operai e minatori, e più tardi le comunità zingare della capitale, con immagini che – come ama sottolineare – «vanno ben oltre il clichè della violenza». Documenta, inoltre, la vita all’interno delle carceri, delle caserme e dei manicomi, senza trascurare le lotte per la casa e gli aspetti più drammatici della disoccupazione: «Le mie immagini cercano di restituire dignità a coloro i quali la dignità è stata tolta». Numerosi i rapporti di collaborazione con la carta stampata: oltre a Potere Operaio del lunedì, lavora in parallelo con Lotta Continua, dal suo nascere al suo morire; le sue immagini appaiono sul Manifesto, Il Messaggero, Il quotidiano dei lavoratori, Noi donne, Quotidiano donna e Il Mondo «nella fase successiva alla gloriosa direzione di Mario Pannunzio, all’epoca in cui a selezionare le fotografie da mandare in pagina era il grande reporter Calogero Cascio». Passando in rassegna i fogli dei suoi provini a contatto e osservandolo mentre descrive gli scatti che gli sono più cari salta subito all’occhio quale sia il vero oggetto del suo interesse: la gente comune, i volti, gli sguardi, i gesti, raccontati e descritti sempre dalla prospettiva ravvicinata di chi si pone, con

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atteggiamento discreto e sensibile, nelle condizioni di ascolto e comprensione, e con la sottile capacità di coglierne espressioni e sentimenti nella massima naturalezza. Questa dunque la caratteristica principale del suo lungo lavoro, formulato ancora oggi esclusivamente nella sintesi del bianco e nero, filtrato attraverso le lenti delle sue Leica, fedeli compagne di viaggio e testimoni di quella che ama definire «la bellezza umana nel disagio sociale». Nel 1972 è in Irlanda, a Belfast, durante la guerra civile; agli inizi del 1973 trascorre un mese in Grecia, dove iniziano ad avvertirsi i primi segnali di cedimento del regime dei Colonnelli – «la gigantografia di uno scatto realizzato ad Atene, intitolato “gli alunni della speranza”, nel quale si vedono gli studenti sul tetto dell’università, esposta dall’alto di una gru, fece da cornice al Festival dell’Unità di Roma» –; a partire dai primi anni Sessanta si reca diverse volte in Spagna, dove nel 1974 documenta i festeggiamenti per il Primo Maggio a Barcellona, celebrati in un clima tesissimo dovuto alla recrudescenza del regime Franchista, destinato a volgere presto al termine; ancora nel 1974, viene inviato da Lotta Continua in Portogallo, durante la Rivoluzione dei garofani; a partire dal 1975 sarà più volte in Palestina e poi ancora in Libano, Somalia e Bosnia. Nel 1980 è nuovamente in Sardegna, prima a Ottana, per seguire la crisi della Anic Fibre e le rivendicazioni sindacali contro la minaccia della cassa integrazione, e poi a Nuoro, in occasione di una imponente manifestazioni di piazza all’interno della quale confluirono tutti i diversi comparti dell’industria sarda in crisi. Tornerà nell’isola due anni dopo, questa volta a Orgosolo, per seguire da vicino le problematiche del lavoro femminile e quelle giovanili legate alla trasformazione del mondo agropastorale e documentare diversi momenti del vissuto quotidiano. Nella seconda metà degli anni Novanta insegna Storia della Fotografia, presso l’Istituto Europeo di Design a Roma. Numerosi gli eventi espositivi a lui dedicati: tra questi si ricorda “Una Storia di donne” allestito nel 2008 presso il circolo culturale Madriche a Nuoro; attraverso le sue immagini sono state illustrate diverse pubblicazioni, opuscoli e libri fotografici, tra i quali: Se non ci conoscete. La lotta di classe degli anni ‘70 nelle foto di Tano (Roma), Edizione Cooperativa Giornalisti Lotta Continua, 1977; È il ‘77 (Roma), I Libri del No, 1978; Con il cuore negli occhi. Fotografie dell’Italia quotidiana 1972-1982, a cura di D. Mormorio, E. Toccacieli, Roma, Edizioni Kappa, 1982; Una Storia di Pace. Immagini di una cultura contro la violenza e la guerra, introduzione di A. Schwarz, Roma, Libri Alfabeto, 1984; Amiata. Gli uomini e le miniere del Monte Amiata nelle fotografie di Tano D’Amico (Roma), Stampa Alternativa, 1986; Zingari. Fotografie di Tano D’Amico (Roma), Marcello Baraghini Editore-Nuovi equilibri, 1988; Palestina, un popolo (Roma), L’Alfabeto Urbano-Edizioni Associate, 1988; Le eternànee di Franco Pinna – Tazio Secchiaroli – Tano D’Amico. Il Phaos contro il Chaos (Roma), Associazione Culturale

Tam Tam, 1989; Pantera. Fotografie di Tano D’Amico, Roma, Edizioni Stampa Alternativa-Nuovi Equilibri, 1990; Ricordi, Roma, Fahrenheit 451, 1992; Leoni cavalli gabbiani. Fotografie di Tano D’Amico, Roma, Datanews, 1995; Settantasette. Fotografie di Tano D’Amico, Roma, Supplementi al Manifesto, 1997; Gli anni ribelli 1968-1980, introduzione di G. De Luna, Roma, Editori Riuniti, 1998; Disagio metropolitano, presentazione di P. Badaloni, prefazione di S. Bonadonna, a cura di A.M. Costantini, R. Gallia, foto di T. D’Amico, Roma, Regione Lazio-Tipografia del Genio Civile, 2000; Il Giubileo nero degli zingari, Roma, Editori Riuniti, 2000; Una storia di donne. Il movimento al femminile dal ‘70 agli anni no global. Fotografie di Tano D’Amico, Napoli, Edizioni Intra Moenia, 2003; La dolce ala del dissenso. Figure e volti oltre i cliché della violenza. Fotografie di Tano D’Amico, Napoli, Edizioni Intra Moenia, 2004; ’70, gli anni in cui il futuro incominciò, Roma, Liberazione, 2007; Camera oscura: immagini da Rebibbia, Roma, Arcisolidarieta. Associazione Ora d’aria, 1998; Volevamo solo cambiare il mondo. Romanzo fotografico degli anni ‘70 di Tano D’Amico, Napoli, Edizioni Intra Moenia, 2008.

Bibliografia Lenman 2008, vol. I, p. 209, s.v. D’Amico, Tano; Lucas, Agliani 2004, p. 32. Intervista inedita realizzata da S. Novellu a Tano D’Amico tra la primavera e l’autunno del 2010.


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174. T. D’AMICO, Porto Torres, stabilimento SIR, 1972

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