La fotografia in Sardegna. Gli anni del dopoguerra (II)

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LA FOTOGRAFIA IN SAR D EG N A Lo sguardo esterno

Gli anni del Dopoguerra


Collana STORIA DELLA FOTOGRAFIA IN SARDEGNA

Da oltre dieci anni la Ilisso Edizioni ha maturato un vivo interesse nei confronti della fotografia; all’interno di questo vasto universo, ha coltivato specificatamente e con maggiore attenzione quegli aspetti volti a documentare le molteplici sfacettature della cultura isolana. È così iniziata, da parte di un gruppo di studiosi afferenti alla casa editrice, una scrupolosa quanto appassionata ricerca che ha interessato gli archivi e le raccolte pubbliche e private, rilevando spesso occasionali e sorprendenti scoperte, affatto ipotizzate nella prefigurazione iniziale dell’indagine. Per i ricercatori, e fin dai primi esiti, è emersa la specificità delle immagini realizzate da fotografi esterni che – fuori dalle dinamiche culturali interne alla Sardegna – componevano un ritratto dell’Isola dal quale risulta una inedita descrizione-narrazione. Si è quindi voluto considerare il lavoro realizzato a diverso titolo dalla schiera dei fotografi che, a cominciare dalla metà dell’Ottocento fino a contare le esperienze più recenti, hanno fatto tappa in Sardegna. La consapevolezza oramai acquisita del panorama offerto dalla fotografia – mosaico sempre più ampio le cui tessere, variamente disegnate dalla molteplicità dei temi e dalla pluralità delle firme, vanno a occupare ciascuna il proprio posto –, guida il lavoro del gruppo che, in forma assolutamente consequenziale, è arrivato a prendere su di sé l’onere della non facile cura del presente volume, il secondo della trilogia prevista. Con tale responsabilità si è dibattuta una questione saliente: la necessità di circoscrivere la sostanziosa parte della ricerca inerente a questo volume, focalizzando un arco temporale di poco più di un decennio, quello dell’immediato Dopoguerra. Scelta che ha reso possibile, considerata l’entusiasmante messe dei contributi, l’introduzione di un maggior numero di scatti, quasi una sintetica carrellata monografica per ciascuno degli autori.

Le biografie di Reismann e Schneiders sono state redatte da Rainer Pauli, al quale va un particolare ringraziamento per la costante, generosa e attenta assistenza.

Un sentito ringraziamento è rivolto a quanti, a vario titolo, hanno collaborato e reso possibile la realizzazione di questo volume e in particolare: Paola De Martiis, Alessandra Garao, Alfredo Pratelli, Serena Stefani, Raffaella Venturi.

Grafica e impaginazione Ilisso Edizioni Grafica copertina Aurelio Candido Stampa Lito Terrazzi Referenze fotografiche Archivio Fratelli Alinari, Firenze: A. Lattuada, nn. 1-9 Archivio Associazione Iscandula, Cagliari e per cortesia Museo Nazionale di Danimarca: A.F. Weis Bentzon, nn. 133-149 Archivio Ilisso, Nuoro: E. Mari, nn. 123-128; M. De Biasi, nn. 150-178; C. Bavagnoli, nn. 249-272 Edwin A. Ulrich Museum of Art, Wichita State University: S.M. Machlin, nn. 83-99 Fototeca AAMOD / Database Fotoarchivi & Multimedia, Roma: F. Pinna, nn. 61-73 Istituto Luce/Gestione Archivi Fratelli Alinari, Firenze: pp. 40-41 Istituto Superiore Regionale Etnografico, Nuoro: W. Suschitzky, nn. 10-24 Magnum Photos/Contrasto, Roma: W. Bischof, nn. 25-33; D. Seymour, nn. 129-132; K. Taconis, nn. 228-229 Magyar Fotográfiai Múzeum, Kecskemét: J. Reismann, nn. 273-277 Museo Fotografia Contemporanea, Cinisello Balsamo, Milano: F. Patellani, nn. 34-44 Rapho/Eyedea/Contrasto, Roma: J. Dieuzaide, nn. 230-240; G. Viollon, nn. 241-248 Touring Club Italiano/Gestione Archivi Fratelli Alinari, Firenze: F. Maraini, p. 13; J. Ciganovic, p. 17; Camera Press, p. 20; ENIT, p. 28; ETFAS, p. 29; B. Stefani, nn. 45-60 Università di Parma, Centro Studi e Archivio per la Comunicazione, Parma: Agenzia Publifoto, p. 16 Le immagini di E. Boubat, p. 33; P. De Martiis, nn. 74-82; P. Volta, nn. 100-122; F. Roiter, nn. 180-189; M. Sin-Pfältzer, nn. 190-217; T. Schneiders, nn. 218-227; sono di proprietà degli autori o dei rispettivi eredi.

© 2009 ILISSO EDIZIONI - Nuoro www.ilisso.it ISBN 978-88-6202-057-2


Indice

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Lo “stile documentario” nella ripresa del secondo Dopoguerra Marina Miraglia

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Arcaismi/modernismi. La Sardegna nella fotografia del secondo Dopoguerra Giacomo Daniele Fragapane

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“Scivolare fuori dal tempo”. Immagini della Sardegna del secondo Dopoguerra Francesco Faeta

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Sardegna contemporanea e autonomistica. Malessere sociale, tradizione e volontà di progresso Maria Luisa Di Felice

I FOTOGRAFI 46 56 72 82 96 112 126 136 154 178 186 192 210 244 256 282 294 298 310 320 348

Alberto Lattuada Wolfgang Suschitzky Werner Bischof Federico Patellani Bruno Stefani Franco Pinna Plinio De Martiis Sheldon M. Machlin Pablo Volta Edoardo Mari David Seymour (Chim) Andreas Fridolin Weis Bentzon Mario De Biasi Fulvio Roiter Marianne Sin-Pfältzer Toni Schneiders Kryn Taconis Jean Dieuzaide (Yan) Georges Viollon Carlo Bavagnoli János Reismann

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Bibliografia generale


parametri così discreti e di difficile individuazione da condannare e penalizzare lo “stile documentario”, rendendolo addirittura invisibile o di non facile riconoscimento, fino alla sua più recente ripresa, negli anni Sessanta, da parte dei rappresentanti del New Document e della New Topographers e, oggi, più immediatamente apprezzabile anche quando si manifesta a livelli minimi di significazione. La FSA aveva riempito, in altre parole, lo spazio neutro della fotografia documentaria, con il compito pratico e socialmente utile di far conoscere «attraverso le immagini, al Congresso e al grande pubblico, i problemi di un mondo rurale duramente colpito dalla crisi».5 Come indicano anche le immagini selezionate in questo volume, non diversamente si orientano il reportage e il fotogiornalismo postbellici di matrice sociale che si propongono di descrivere, nella maniera più semplice e quindi atta a sensibilizzare l’utente dell’immagine, la vita delle classi più svantaggiate dal punto di vista economico e sociale in uno scivolamento concettuale e in un’accezione riduttiva e divergente che aveva già da tempo portato Newhall, nel capitolo della sua storia dedicato al “documentario” e alla FSA, a definire, per primo il genere con l’aggettivo “umanista” in luogo di “documentario”6 e ciò, con l’intento decisamente lusinghiero di sottolineare il nuovo corso di una fotografia realistica ed impegnata sul piano delle problematiche sociali. La medesima opzione era stata emblematicamente avanzata anche da Steichen7 che, personaggio carismatico della cultura fotografica del momento, fu tra i pochi autori della vecchia guardia che si fosse seriamente impegnato a traghettarla verso la modernità. Accanito sostenitore e promotore dei contenuti della tendenza “umanista”, proprio in quegli anni (1955), aveva non a caso organizzato la grande e famosa mostra The Family of Man,8 articolata in varie sezioni, tutte concordemente dedicate ad esaltare le tensioni eterne della spiritualità umana e i più importanti momenti della sua esistenza. Vita, morte, riti di passaggio da una ad un’altra condizione sociale, lavoro e amore, interpretati nella loro universalità avrebbero dovuto esprimere, nel desiderio e nella volontà del curatore, l’invito ad un abbraccio collettivo fra tutte le classi sociali e fra le diverse etnie dell’intero pianeta; l’assunto di Steichen – che auspicava un’utopica palingenesi, in grado di riscattare e ricucire le lacerazioni profonde della guerra – tendeva a visualizzare l’empatia whitmaniana, «la concordia nella discordia, l’unità nella diversità» e a veicolare questo messaggio d’amore e di fratellanza fra i popoli, facendo leva sulle capacità formalizzanti della fotografia. L’inattualità ormai divenuta congenita delle idealità proposte come modello veniva però apertamente denunziata dalla diversità degli stili dei numerosi autori coinvolti nell’iniziativa, tanto più che, come ebbe a sottolineare Barthes e come più recentemente ha ribadito Sontag, “The Family of Man” negava «il peso determinante della storia, delle differenze, delle ingiustizie e dei conflitti che esistono realmente e che nella storia hanno le loro radici»,9 approdando ad un’implicita esaltazione di determinate condizioni umane che, lungi dal definirsi come universali, finiscono per essere essenzialmente generiche ed astratte. Com’è noto, la distanza maggiore fra Neorealismo e fotogiornalismo postbellico da un lato e il “documentario” dall’altro, consiste essenzialmente nelle modalità della rappresentazione che a loro volta, in Italia, fanno riferimento a modi diversi di rappresentare e vivere l’emarginazione del nostro Mezzogiorno a seconda delle ideologie di appartenenza; quella borghese e conservatrice, poco propensa a conoscere realmente la dinamica sociale e quella di una borghesia intellettuale, illuminata e sensibile agli aspetti della vicenda nazionale contemporanea.10 Come giustamente osserva Faeta contrapponendo il Neorealismo al realismo etnografico, il Neorealismo «avvalora un’immagine oleografica, esotica, tutto sommato orientalista […], stereotipata […] e fortemente ritagliata del Mezzogiorno»,11 mentre, all’opposto, il “realismo etnografico” – che qui secondo la terminologia interna alla storia della fotografia definisco “documentario” – si muove fuori di ogni interpretazione topica della realtà sociale indagata, allo scopo di conoscerla realmente, nella speranza e nell’eventualità di poter intervenire su di essa, modificandola. Il tutto in uno

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stile che bandisce ogni trucco ad effetto e le forzature pietistiche, e quasi strazianti, della povertà, dell’emarginazione, del luogo comune orientalista e dei suoi conseguenti schemi rappresentativi, consistenti nell’idillio bozzettistico della “fotografia di genere” e nella sua tendenza a ridicolizzare o a banalizzare sistematicamente la marginalità sociale, immiserendo le singole individualità nella formula garbata ed elegante, ma totalmente astratta, della macchietta e del soggetto tipico. Il linguaggio si mantiene impersonale, ostile alla narrazione e alla propaganda, vocato alla ripresa dei fatti e dei contesti di marginalità socialmente negati, costantemente teso nello sforzo mimetico della nitidezza e del referenzialismo, intesi nella loro valenza morale e come garanzia di impegno nelle modalità di analisi dei contesti osservati e dei livelli descrittivi e comunicativi relativi e conseguenti. È evidente che per la sottigliezza analitica e aristocraticamente distante dei propri intenti e, soprattutto, per il suo parlare discreto e nient’affatto prevaricatore, il “documentario” non possedesse nessuno dei requisiti atti alla comunicazione di massa che funziona solo se fa ricorso a un linguaggio che, come quello del potere, sia decisamente più spettacolare e gridato. In seno alla fotografia colta e a livello internazionale nasceva spontanea, sotto la spinta di questa impasse, una serie di interrogativi sulla natura dello stile “documentario” e sulle ipotetiche funzioni che esso avrebbe potuto assumere; ci si chiedeva se dovesse essere applicato o meno ad una sola tematica; se i suoi scopi – ammesso che ne avesse – dovessero essere di tipo scientifico e classificatorio o, piuttosto, applicandosi al sociale, dovessero tentare di plasmare la pubblica opinione e, ancora, se il valore estetico fosse o meno un suo elemento accessorio o imprescindibile. Tutte queste questioni generali ruotavano però soprattutto intorno al problema di dove si dovesse porre la frontiera tra “fotografia documentaria” e documentazione fotografica, un quesito allora attuale e di non facile soluzione, perché determinato da quella circostanza temporale dello screditamento dello stile documentario che si collocava proprio fra gli anni Quaranta e Sessanta e che nel frattempo aveva fatto sì che i metodi realistici d’indagine del “documentario” facessero tutt’uno con l’interesse alla documentazione classica. Non deve destare dunque meraviglia o essere considerato come elemento di arretratezza culturale il fatto che le nostre fotografie sarde si bilanciano fra Neorealismo e “documentario”, mantenendosi in bilico su quel filo sottile di demarcazione che Sander, fra i pochi, era riuscito a superare con la forza estetica delle proprie immagini, in particolare in quella fusione imprevedibile dell’ossimoro arte/documento che è stata riconosciuta come la tensione ultima e più alta del “documentario” non solo, ma anche della natura stessa della fotografa in epoca industriale e postindustriale. Nell’ambito dell’antropologia visuale, un esempio della mancata demarcazione fra giornalismo e “documentario” – che invece di combattersi si alleano fra loro nel regime della documentazione classica – è offerto dal caso di Cagnetta che usa, per il proprio lavoro su Orgosolo, fotografie di Pablo Volta, di Plinio De Martiis e di Sheldon M. Machlin, solo all’apparenza, fra loro perfettamente omologabili e intercambiabili per intenti, linguaggio ed esiti, ma in effetti decisamente molto distanti fra loro.12 Cagnetta, nolente o volente, consapevole o meno di queste differenze, forse addirittura non in grado di coglierne la determinante incidenza nell’analisi etnografica e nella lettura della contemporaneità, le usò indistintamente, indicando implicitamente che egli vi si riconosceva, come se lui stesso le avesse scattate. Lo studioso si comporta, e penso non avrebbe potuto essere altrimenti, non diversamente da De Martino che, nelle sue ricerche sul campo in Lucania e Basilicata, aveva utilizzato accanto alle immagini documentarie, partecipi ed umanissime, di Arturo Zavattini,13 quelle sotto molti aspetti difformi di Pinna e di altri le cui forme linguistiche molto risentono di quelle di un fotogiornalismo avanzato e che ha ormai perso i contatti con le prime declinazioni del Neorealismo e con le sue più precoci tensioni documentarie. Possiamo avvicinare ai caratteri formali e alla sensibilità antropologica di Arturo Zavattini – così come ci viene restituito da Francesco Faeta che ne ha condotto un’analisi esemplare – il lavoro di Sheldon M. Machlin, un fotografo professionista americano, impegnato non solo sul versante del


fotogiornalismo, ma anche su quello industriale, applicazione che dovette accrescere in lui la propensione verso un tipo di fotografia analiticamente descrittiva, impersonale e archivistica, apparentemente poco formalizzata, che si era ampiamente alimentata alla matrice documentaria. Le sue immagini di Orgosolo infatti, come quelle dedicate da Fridolin Weis Bentzon allo studio etnografico delle launeddas, mentre recuperano tutti gli aspetti dell’empatia sentimentale tipica del versante umanista, conservano contemporaneamente intatti diversi valori del versante documentario in un equilibrio decisamente forte, tipico degli orientamenti degli anni Cinquanta ed estremamente idoneo a servire da supporto agli intenti di un realismo etnografico seriamente impegnato. Egli si avvicina alle cose, all’uomo e agli spazi del terreno indagato, senza pregiudizi precostituiti e, mentre si mantiene lontano dal significare nell’immagine qualsiasi sorta di giudizio, osserva e documenta con occhio imparziale e discreto, pur se con un interesse umano sempre vigile e partecipe. Il suo scopo sembra essere unicamente quello di demandare ad altri il compito critico, cui nel frattempo, con i suoi materiali di ricerca, di studio e di rilevamento diretto sul campo, offre una base documentaria ricca, complessa, sufficientemente esaustiva e generosa di spunti. L’uso della posa, secondo la migliore tradizione documentaria dell’insegnamento di Sander, lo aiuta a mantenersi lontano da ogni tentativo di prevaricare, nella ritrattistica, l’altro da sé che, anzi, viene costantemente chiamato ad interagire con lui che, dietro la camera, cerca di dare voce ad un rapporto dialettico fra ceti sociali e culture diverse. Il suo rispetto per le persone incontrate, uomini, donne, bambini, si esprime, ad altissimo livello antropologico, nella decisione di riprenderli negli spazi abituali della loro quotidianità – la casa e i luoghi canonici di incontro del paese di Orgosolo – i soli ritenuti idonei, non solo a informare sul territorio, ma soprattutto a mettere a proprio agio i soggetti della sua ritrattistica in modo che possano non assumere pose o espressioni artefatte e divenire, con lui, protagonisti attivi della ripresa. La vicinanza e il rispetto della subalternità apprezzabile nel suo lavoro, nelle fotografie di Pablo Volta e in quelle di Plinio De Martiis, appaiono negati o perlomeno appannati; più di ogni altro elemento vi contribuisce, nel caso di Volta, il contrasto, spettacolare e forzato, di un bianco nero che si sovrappone costantemente ai referenti e alla loro voce, anche quando oggetto

della ripresa è la banalità di una quotidianità di paese che rimane apprezzabile all’attenzione di un buon osservatore, unicamente per la sua conclamata centralità nello studio delle scienze umane che, come si sa, attribuiscono particolare importanza ai più piccoli scarti fra manifestazioni della cultura subalterna ed egemone, in quanto utili e proficue chiavi interpretative di una cultura materiale di difficile accesso. Alla sospensione di giudizio di Machlin, Plinio De Martiis – militante del PCI, raffinato intellettuale, gallerista e straordinario conoscitore dell’arte contemporanea –, forse per la mancata comprensione delle coordinate sociali e culturali delle classi più umili e dell’incidenza che questo fattore avrebbe esercitato sul divenire della storia contemporanea italiana, sostituisce, come poco più sopra ho sottolineato tracciando le linee generali del periodo, l’adozione delle posizioni rappresentative più prossime al fotogiornalismo maturo. Se dunque alla vigilia del primo conflitto mondiale la chiave “orientalista” costituisce ancora – come sottolinea Faeta – una strategia per entrare e uscire dalla modernità, nel Dopoguerra i giochi si chiudono con l’adozione definitiva e quasi totale del suo stereotipo; sulla Sardegna e i suoi problemi, sulle sue lacerazioni interne, l’immaginario iconico che viene sempre più radicandosi è quello della stasi, dell’immobilità, dell’impossibilità di agganciare qualsiasi dinamica storica; l’isola e gli isolani, anche per l’arcaicità dei costumi e dell’economia, essenzialmente agricola e pastorale, vengono ineluttabilmente posti fuori del tempo. Del resto, se le correnti del primo Novecento si erano proposte ed imposte con forza dirompente e spesso con tratti fra loro divergenti se non contrapposti, esse avevano comunque condiviso ed espresso la fiducia ottimista e la certezza che il pensiero e la sua fondamentale, coerente, unità potessero costruire ed offrire una via salvifica al Collettivo. Ora, appena varcata la metà del secolo, anche se il fenomeno avrà piena e deflagrante estrinsecazione solo negli anni Ottanta, questa utopia muore e tutti i valori della vita sociale iniziano ad avere motivazioni e spinte esclusivamente individualiste; anche quando le strutture logiche e le strategie collettive dell’immagine si organizzeranno in una dimensione collettiva, esse, in effetti, non cambieranno di segno, anzi permarranno sempre e direttamente rapportabili alle radici archetipe del Singolo.

Note 1. Valtorta 2008a, p. 123. 2. Lugon 2008. Oltre la misura indicata dalle citazioni in nota, mi sono ampiamente avvalsa di questo studio recente per la stesura del mio breve saggio, anzi posso dire che esso sia nato proprio dalla lettura del contributo francese. 3. Barthes 1985. 4. Valtorta 2008b, p. 153. 5. Lugon 2008, p. 17. 6. L’indicazione bibliografica è presa da Lugon 2008, p. 12. 7. Steichen 1938. 8. Per la ricostruzione e il giudizio su questa esposizione,

mi sono avvalsa del mio Miraglia 2001, pp. 111-119 (Il Neorealismo e gli anni Cinquanta); ho utilizzato la parte iniziale del medesimo volume per sviluppare i concetti qui contenuti nelle conclusioni. 9. Sontag 1978, p. 29. 10. Faeta 2006b, p. 105. 11. Faeta 2006b, p. 106. 12. È noto (si veda anche la relativa bibliografia) che le immagini di De Martiis costituirono soltanto orientamento iconografico di riferimento agli studi di Cagnetta, ma non furono usati per le pubblicazioni dell’antropologo.

13. Faeta 2006a. A questo e al saggio su Treccani poco più su citato, ampiamente sfruttati anche da Tatiana Agliani e Uliano Lucas per il loro bel libro dedicato a Volta (Agliani, Lucas 2007), l’autore, studiando i corpora fotografici di Treccani e Zavattini, ha già affidato (e qui riprende) il proprio pensiero sulle differenze fra Neorealismo e realismo etnografico, visti nell’ambito del tema dell’orientalismo per il quale si vedano anche Faeta 2005b e il successivo Faeta 2008. Per quanto riguarda le moderne coordinate metodologiche per un’azione fotografica sul campo, che sia antropologicamente corretta, rinvio infine a Faeta 1995.

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Nel giro di pochi anni, in forme che spesso seguirono le vie avventurose di committenze occasionali, di incontri fortuiti, di necessità dettate dall’urgenza di testimoniare o ricostruire, ci si trovò a dover colmare il vuoto lasciato all’improvviso dall’implosione dell’iconografia di regime: di un immaginario pervasivo quanto anonimo, fatto di «architetture svettanti in scorci diagonali dal basso verso l’alto, qualche “balilla” con lo sguardo “proteso verso il futuro”, una squadra di ginnasti allo stadio…»:8 di un modello di rappresentazione fotografica claustrofobicamente compresso entro logiche che, in Italia forse ancor più che nella Germania hitleriana,9 per anni avevano lavorato in modo sistematico – con un’ostinazione pienamente consapevole del potere delle immagini all’interno della moderna società di massa – allo svuotamento di ogni potenzialità ermeneutica, di ogni complessità dialettica dello sguardo fotografico (e, anche se con qualche falla qua e là, cinematografico),10 irrigidendone moduli espressivi, temi, iconografia, apparati testuali, paralizzandone insomma l’intera filiera produttiva. In questo lasso di tempo si crearono le premesse per un diverso approccio alle mutate realtà sociali e culturali del nostro paese, si posero le basi per gli straordinari, graffianti capolavori cinematografici degli anni del boom economico, e soprattutto – in rapporto al nostro ambito di riflessione – per l’assunzione e la diffusione su larga scala, nei canoni dell’inchiesta giornalistica e in quelli della ricerca antropologica, nel reportage di cronaca e nell’editoria di più alto spessore culturale, di un nuovo “modo di rappresentazione”,11 che rispondeva alle disastrose condizioni economiche e socioculturali in cui si venne a trovare il paese alla fine della guerra, e che connoterà profondamente e a lungo sia la fotografia italiana sia lo “sguardo esterno” sulla penisola. Un paradigma visuale le cui radici, come è noto, risiedono nelle grandi scuole documentariste della prima metà del Novecento: nella fotografia americana degli anni Trenta, in quella realista tedesca, nella tradizione dell’umanesimo francese, rilette alla luce di quella cultura di stampo marxista-gramsciano, politicamente impegnata, perlopiù nelle file del PCI, che in qualche modo rappresenterà per anni il collante della nostra fotografia di documentazione e di reportage. Nel processo di formazione dell’immaginario italiano moderno, gli anni Cinquanta rappresentano in tal senso il momento storico in cui si delineano le direttrici fondamentali dei temi, delle questioni e dei paradossi che esploderanno negli anni a venire. Si tratta di trasformazioni che investono l’intero sistema delle immagini, e lo sguardo della fotografia nel suo complesso: le modalità di rappresentare il passato, il presente e il futuro; la percezione dello spazio e del tempo, del vecchio e del nuovo, dell’estraneo e del familiare, degli eventi storici e dei moti interiori. Al di là dei singoli autori e delle singole immagini, l’impressione generale è che dal Neorealismo in avanti in Italia lo sguardo della fotografia, soprattutto nei campi dell’informazione giornalistica e dell’indagine socio-antropologica, attraversi un graduale percorso di normalizzazione, si faccia via via più compatto, unitario, fino a imporsi come una sorta di “iper-canone” del “fotografico”12 destinato a permanere almeno fino alla cosiddetta svolta postmoderna (che da noi arriva con un ritardo di oltre vent’anni rispetto alle coeve esperienze americane).13 E questo, mi sembra, non vale solo per i fotografi italiani, ma anche per quelli che, provenienti dall’Europa o dagli Stati Uniti, soggiornano e lavorano in Italia: come se lo stesso clima socioculturale del paese fosse in grado di innescare una spontanea immedesimazione nel suo immaginario e nei suoi miti, vincolando lo sguardo a processi quasi automatici di stereotipizzazione che, soprattutto nel primissimo Dopoguerra, andavano a confermare il modello ideologico dell’“altra faccia della medaglia”: di un paese che dietro l’immaginario eroico e trionfale del regime nascondeva ataviche miserie e profondissimi squilibri; di un paese il cui pomposo, rigido modernismo di facciata celava mondi che ancora vivevano in condizioni semi-primitive, ai margini della civiltà, tagliati fuori da ogni barlume di progresso. Sia chiaro: non sto affermando che tutto questo non fosse (anche) profondamente vero; dico semplicemente che, a un tratto, questa nuova verità si fece visibile, emerse alla luce e cominciò a cercare conferme nei processi di costruzione dello sguardo, nei modelli di rappresentazione, nelle logiche narrative.

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Evidentemente tutto ciò non riguarda solo la fotografia, ma chiama in causa in modo altrettanto prepotente l’immaginario cinematografico del periodo. Eppure, malgrado raramente lo si sia affermato – e probabilmente pochi sarebbero disposti a riconoscerlo –, sono dell’idea che la fotografia, in questa fase della storia del nostro paese, rivesta un ruolo preminente, seppure in larga parte inconsapevole, rispetto alle altre forme di rappresentazione visiva. Essa infatti, per ragioni di diffusione socio-economica,14 per la sua capacità di rispondere in modo istintivo e “medio”15 alle diverse tensioni operanti nel sistema delle comunicazioni di massa e nella nascente “società dello spettacolo”, assume in qualche modo la valenza di un indicatore particolarmente sensibile di problemi e tendenze destinati poi a essere immessi nei processi di iconizzazione e narrativizzazione propri del cinema (da cui pure in quegli anni i maggiori fotografi italiani traggono moltissimo), delle arti visive (che invece diventeranno un punto di riferimento imprescindibile per il medium fotografico dal decennio successivo in avanti),16 della televisione (che in Italia arriva nella metà degli anni Cinquanta, ma la cui concorrenza si farà spietata a partire dalla fine dei Sessanta), ponendosi come una sorta di laboratorio epistemologico del visuale moderno: dei processi, dei modelli e degli stereotipi mediante i quali la cultura italiana ha immaginato e rappresentato il progresso e la modernità – e il loro contrario. Lo ripeto: questo non fu il risultato di una precisa, consapevole strategia. Fu semmai lo sviluppo naturale di tensioni troppo a lungo trattenute, che si coagularono in una costellazione di esperienze frammentarie ma in qualche modo convergenti, destinate a fare piazza pulita di una serie di questioni entro cui la fotografia italiana, in particolare quella di area fotoamatoriale, si era asfitticamente ripiegata per anni, e che tornano innumerevoli volte nelle dispute tra “contenutisti” e “formalisti”, nelle diatribe intorno al binomio arte/documento, in quelle sulla “giusta” tecnica fotografica, sui buoni soggetti da ricercare o sui corretti equilibri tra luci e ombre – che, come rileva Zannier, finirono per edificare «l’immagine di un’Italia elegiaca, piena di pecore e di ruscelletti, o di vecchi rugosi e con una gran barba in controluce».17 Ciò che ne emergerà sarà un’idea di fotografia, potremmo dire, per la prima volta nel nostro paese sufficientemente condivisa, e una pratica fotografica, per quanto ancora quasi del tutto artigianale, professionalmente organizzata e in grado di rispondere alle esigenze di un mercato editoriale in grande e rapida espansione.18 Sintetizza bene i termini della questione Marina Miraglia rilevando come in Italia gli anni Cinquanta rappresentarono per la fotografia il «momento storico e culturale in cui la caduta dei regimi totalitari dell’Occidente europeo, il venir meno dell’urgenza della guerra e la fine del secondo conflitto mondiale consentirono l’esplosione piena, definitiva e deflagrante di tutti quei nodi problematici di rottura rispetto alle idealità ottocentesche che erano state già elaborate nel periodo fra le due guerre».19 Nodi che investirono innanzitutto le modalità di raccontare il reale, di interpretarne le criticità, di elevarne taluni frammenti al rango di icone della modernità incipiente o, al contrario, di un passato in rapida via di estinzione. Il modello dominante di questa “nuova fotografia”, destinato a perdurare a lungo – in Italia ben oltre la fine degli anni Sessanta – suggellando la scissione definitiva tra il mondo della fotografia amatoriale e il mondo dei fotografi professionisti, sarà, come si è detto, quello del (neo)realismo, declinato nelle diverse forme dell’inchiesta giornalistica: di denuncia, di viaggio, di indagine etnografica o sociale, ma anche, più semplicemente, di cronaca o di costume. La costellazione di eventi, nazionali e internazionali, entro cui si giocano gli sviluppi principali della fotografia italiana degli anni Cinquanta, sembra insomma ruotare sistematicamente attorno al macro-modello del reportage (ammesso che si tratti di un modello univoco: affermazione in verità tutta da dimostrare, e che anzi appare più che forzata, ma che per ragioni di comodo, provvisoriamente, voglio prendere per buona). Non è il caso, per evidenti motivi di spazio, di affrontare in dettaglio le vicende della fotografia italiana del periodo successivo alla Liberazione; vale però la pena di ricordarne alcuni importanti snodi – come è stato fatto per


F. MARAINI, Ulassai, ante 1953

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considerazione anche le fotografie di scrittori, registi, pittori: la Sardegna è stata, in realtà, meta di tale suggestione, per i motivi che ho sin qui illustrato, da essere visitata da un numero molto elevato di persone che ne hanno lasciato traccia fotografica, del lavoro di alcuni dei quali non si ha ancora esatta contezza. Risulta assai difficile ridurre a una cifra critica nettamente (e univocamente) individuabile i tanti fotografi stranieri le cui immagini sono qui antologizzate. Essi provengono da contesti nazionali, da scuole, da esperienze formative e professionali diversi e, fatto molto importante, visitano la Sardegna per motivi dissimili. Mentre è più agevole disegnare un’etnografia dei contesti intellettuali e dei campi di interazione sociale e politica nei quali furono coinvolti i fotografi italiani, il medesimo tipo di analisi appare assai problematica (e, se compiuta, rischiosa) nel breve spazio di questo scritto, su una più vasta scala occidentale (europea e americana). Wolfgang Suschitzky, per fare qualche esempio, ha alle spalle una formazione mittleeuropea, che vira però poi decisamente verso la Gran Bretagna, e un’esperienza di cineasta; esegue fotografie nell’isola con due intenti molto diversi: il primo, professionale, legato alla documentazione della campagna antimalarica dell’ERLAAS (l’Ente Regionale per la Lotta Anti-Anofelica in Sardegna), il secondo, amatoriale, legato a una sua del tutto libera scelta d’interesse. Ancor più decisa è l’impronta mittleeuropea di Werner Bischof, che porta nell’elaborazione delle sue immagini lo stile assai netto che gli viene dall’esperienza formativa della Neue Sachlichkeit, maturata con il maestro Hans Finsler e a contatto con René Burri; il suo interesse, per la Sardegna, tuttavia, è alquanto occasionale, pur se sviluppato nell’ambito di una scuola altamente professionale quale quella dell’agenzia Magnum. Le determinazioni che spingono Georges Viollon verso la Sardegna non sono del tutto chiare, anche se la sua formazione nell’ambito della cosiddetta corrente umanista francese, e le sue frequentazioni di Robert Doisneau e di Willy Ronis, possono aiutarci a leggere meglio la sua fotografia. La formazione di Sheldon M. Machlin è statunitense, e il suo bagaglio di esperienze professionali attinge molto agli ambiti istituzionali dell’esercito americano, della Croce Rossa, delle aziende capitalistiche di portata internazionale con cui a lungo lavorò; ma la sua permanenza in Sardegna si colloca a ridosso di un’esperienza antropologica di impronta radicale quale fu, come si è visto, quella di Cagnetta.42 Ancora legata al mondo germanofono, e alla fotografia giornalistica professionale, è la formazione di Marianne Sin-Pfältzer, anche se i suoi lunghi e reiterati vagabondaggi isolani rispondono più alle logiche amatoriali e dell’impegno personale, che a quelle del fotogiornalismo. Anche la formazione di David “Chim” Seymour si compie lungo l’asse ideale Berlino-Parigi, che caratterizzerà tanta parte della grande fotografia internazionale coeva, pure il suo impegno s’inscrive dentro la più ferrea e rigorosa logica giornalistica, essendo tra i membri fondatori della Magnum, ma ancora il suo rapporto con la Sardegna, analogamente a quello di Bischof, è assolutamente episodico. Questa episodicità, tuttavia, nel suo caso, fa da contraltare, per così dire, alla forte e appassionata partecipazione alla vicenda del Mezzogiorno continentale, attraverso l’intensa e duratura frequentazione con Levi e l’assidua attenzione al suo lavoro.43 Formatosi nell’ambito della resistenza europea contro l’occupazione nazista, l’interesse fotografico di Kryn Taconis, le cui esperienze formative sono fortemente debitrici sia dei soggiorni parigini che di quelli americani, si immette nettamente nell’orizzonte giornalistico della grande agenzia internazionale cui altri autori qui ricordati dettero il loro contributo. Jean Dieuzaide (Yan), francese, anch’egli resistente nel suo paese, anch’egli reporter, matura un’esperienza, per cui è giustamente famoso, come fotografo d’arte e architettura, che per altro applicherà in modo non marginale anche in Sardegna; tale esperienza, pur all’interno di un approccio documentario legato al fotogiornalismo, traspare marcatamente nelle sue immagini. Fridolin Weis Bentzon, cui ho dedicato già attenzione in qualità di antropologo ed etnomusicologo, non ha praticamente formazione fotografica e il suo aprentissage è interamente nel campo della musica e del suo studio; ma le sue immagini sono tagliate con uno stile etnografico assai marcato, che ne fa, come vedremo, documenti del tutto particolari.

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Come si comprende, un insieme di esperienze, un insieme di sguardi, assai eterogenei, difficilmente riconducibili nelle maglie di un discorso critico unitario. Ricorrono, con maggior frequenza, vale la pena sottolinearlo, la vicenda resistenziale e la lotta antifascista, le difficoltà legate alla condizione degli Ebrei nell’Europa tra il Trenta e il Quarantacinque, il già ricordato asse Berlino-Parigi, come perno intorno a cui la formazione europea dell’epoca si andava strutturando, l’esperienza di fotoreporter di guerra, la militanza (autentica militanza negli anni in questione) nell’agenzia Magnum, l’esperienza liberatoria e rigenerativa degli Stati Uniti (o più in generale dell’America). Ma, in realtà, l’elemento unificante, in tanta differenza, è costituito proprio dalla Sardegna e dalla costante fascinazione che dal suo habitat promana. Al di là di ciò, permane una grande convergenza tra diverse declinazioni del realismo. L’Italia, lo osserveremo tra breve, si faceva promotrice di particolari forme di realismo. Ma il realismo costituiva, in fotografia, un approccio che sembrava garantire di per sé, in Europa come negli Stati Uniti, in quegli anni, l’identità stessa del mezzo e la sua vocazione escatologica. Dalla nuova oggettività tedesca, alla diffusa esperienza della fotografia di documentazione sociale americana degli anni Trenta, dalla verità dei cineocchi di Dziga Vertov, al cinema etnografico di Robert Flaherty, la cultura visiva occidentale nel suo complesso aveva costruito, lungo un periodo abbastanza esteso della propria storia, una grande coiné comune, legata alla pellicola e alla registrazione ottico-chimica che, nella sua assai ampia modulazione concettuale e stilistica, in questa sede opportunamente richiamata da Daniele Fragapane, si basava sull’identità analogica tra realtà e rappresentazione. Il realismo e il nuovo realismo restano esperienze basilari, e in qualche misura unificanti, nel panorama della cultura visiva occidentale di buona parte della prima metà del Novecento. Il giornalismo internazionale, dopo la seconda guerra mondiale, eredita e sviluppa la vocazione realista della fotografia colta dei decenni precedenti, dotandola di un netto orizzonte etico-politico. Sull’eterogeneità di approcci delle poetiche e delle politiche del realismo internazionale, nel momento in cui si entra in contatto con l’Italia, cala il messaggio del locale Neorealismo (un messaggio, l’ho ricordato in altre sedi, che ha, in ambito fotografico, una vischiosità tematica e, soprattutto, temporale assai marcata: ritengo si possa parlare, nell’ambito della fotografia di argomento sociale, di Neorealismo, malgrado le esperienze nuove che andavano maturando nella fotografia tout-court italiana, sino alla data fatidica – e largamente indicativa – del Sessantotto). È vero, infatti, che a partire già dagli inizi degli anni Cinquanta, numerose esperienze tendevano a strutturare linee di ricerca piuttosto differenziate nell’ambito della fotografia italiana, diverse e per molti versi opposte alle istanze del Neorealismo. È vero che i veneziani circoli La Bussola e La Gondola, Luigi Crocenzi, Mario Giacomelli, Ugo Mulas, per non parlare di quanti iniziavano a sperimentare forme di fotografia concettuale, dopo il mortificante silenzio della sperimentazione in epoca fascista, si muovono in direzioni diverse e alternative, direzioni che troveranno eco, a partire dai primi anni Settanta, anche nelle tardive esperienze della fotografia sociale ed etnografica. Ma sino a quella data, appunto, nell’ambito della fotografia sociale ed etnografica, l’esperienza neorealista resta imperante e schiacciante. La rappresentazione della realtà doveva servire all’emancipazione sociale, con una più o meno accentuata carica di partecipazione politica dei singoli autori; doveva servirsi del bianco e nero, mezzo che meglio suggeriva il tratto povero della realtà ripresa e il carattere ascetico ed escatologico della pratica di osservazione; doveva restituire il segno arcaico delle realtà da trasformare e persuadere circa la sua insostenibilità; doveva essere rapida, prensile, convincente, eclatante, a volte sino alla semplificazione propagandistica. Il mondo popolare e la complessità della condizione politico-sociale nazionale subirono così un vistoso processo di semplificazione e riduzione, il campo stesso della negoziazione tra vecchio e nuovo, tra egemone e subalterno, le numerose zone grigie della realtà sociale e culturale di cui il Paese era pervaso, furono erosi, in favore della restituzione di icone, fortemente relate con una lettura ideologica della vicenda nazionale.


E. BOUBAT, Sardegna, 1954

Le aree del Paese che meglio si prestavano a questa lettura in bianco e nero della realtà, e tra esse la Sardegna, furono rapidamente e durevolmente neorealistizzate. La fotografia, strumento importante nella elaborazione delle configurazioni simboliche del tempo, strumento che si era prestato a fabbricare arcaismo quando questo serviva per giustificare il dominio dei ceti che si facevano portatori di modernità, o a fabbricare modernità quando questa serviva per giustificare il permanere di rapporti sociali sperequati, e arcaicamente connotati, cessò di essere macchina per entrare, e per uscire, a piacere dalla modernità.44 Divenne, per circa un ventennio, strumento univoco per la fabbricazione di un modo arcaico. Le molte immagini che i fotografi italiani di questo periodo realizzarono, nella loro avvertibile differenza semiotica e stilistica, sono unite da questa forte tensione allocronica. La modernità non compare, se non per piccoli cenni, sovente bozzettistici. Le città restano del tutto sullo sfondo e, quando raramente compaiono, sono approdi calligrafici per improbabili odissee popolari o scenari dentro cui transitano figure che provengono dall’arcaico mondo contadino e pastorale (l’acuto studio su di esse, che sarebbe apparso naturale dopo l’analisi della struttura urbana e delle sue connessioni con la modernità di Walter Benjamin, e dopo le straordinarie immagini di Eugène Atget, è del tutto disatteso). Gli infernali gironi del Sulcis, di Carbonia, dell’Iglesiente (al cui interno l’occhio di Sebastião Salgado, avrebbe costruito narrazioni visive di drammatico impatto), resta quasi del tutto obliato (con la vigorosa eccezione di Federico Patellani, che da tale

oblio fa emergere una delle più forti immagini qui raccolte, quella dei due minatori in primo piano di Carbonia). La vita dei ceti medi isolani non è rappresentata. Il turismo, gli aeroporti, le dighe, le scuole popolari, i progetti di intervento e riforma, si noti bene, frutto di dinamiche spesso avventurose, dannose, portatrici di nuova dipendenza per l’isola, e tuttavia esistenti, collocati nel cuore di quella contemporaneità che la fotografia dovrebbe improrogabilmente testimoniare (al di fuori delle immagini relative alla lotta antimalarica, di Suschitzky, alla colonia penale di Castiadas, di Alberto Lattuada, al centro UNLA di Santu Lussurgiu, di Franco Pinna), non esistono in immagine. Come non esiste un fenomeno che fortemente aveva attratto la fotografia sociale di tutti i tempi e di tutti i luoghi, l’emigrazione, le sue partenze, i suoi ritorni, le sue istanze di contemporaneità e di sincronia, il suo carattere moderno. Esistono, invece, le vaste distese deserte, naturali e incontaminate, le spiagge vuote (si ricordi la straordinaria immagine di Bischof, qui riprodotta), i pastori, i contadini, le donne e gli uomini in costume, i gambali, le pelli e i berretti di orbace, i balli tondi e quelli (ricostruiti) dell’argia, le feste religiose e le mascherate di carnevale, i bambini pezzenti, curiosi e indaffarati, le capre, le ceste, le case d’argilla, le festose manipolazioni collettive del pane, le laboriose riunioni di vicinato, i lebbrosi e gli storpi, i nuraghi e le antiche mura, i vicoli disselciati e il fango, i guardiani dello Stato coloniale, con i loro cani e i loro fucili in spalla, i poveri mercati e le povere fiere, (nuovamente) i tucul di paglia, gli orci di creta e le donne alle fontane, gli scialli neri e le indaffarate tessitrici, i mattoni di

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Wolfgang Suschitzky (Vienna 1912)

Wolfgang Suschitzky nasce a Vienna il 29 agosto 1912, da famiglia ebrea. Il padre, editore e libraio progressista, era un autorevole esponente del Partito Socialista. Compiuti gli studi primari e secondari, tra il 1930 e il 1933 studia fotografia alla Graphische Lehr und Versuchsandstalt di Vienna e inizia a esercitare la professione come freelance, utilizzando una Voightländer Bergheil 6x9 donatagli dal padre. Con questo apparecchio si dedica con grande impegno a ritrarre il mondo animale. Nel 1934 si trasferisce ad Amsterdam dove apre uno studio e realizza un’ampia documentazione relativa al quartiere ebraico. Questo reportage sarà esposto per la prima volta nel capoluogo olandese nel 1982. L’anno successivo si stabilisce a Londra; lì prosegue l’attività di freelance e collabora con vari periodici tra cui The Animal and Zoo Magazine. Dal 1937, inizia a lavorare come operatore cinematografico con Paul Rotha – regista e promotore dello sviluppo della scuola documentarista inglese oltre che autore di alcuni testi di storia del cinema –; negli anni firma circa 100 documentari e numerose pellicole per il cinema, per conto dello stesso Rotha, della NBC e di altri produttori. Nello stesso periodo ritrae diversi esponenti della letteratura, della politica e della scienza e realizza un corposo lavoro sui bambini, raccolto nel volume Photographing Children nel 1940 e ristampato nel 1948. Tra il 1940 e il 1942, durante la seconda guerra mondiale, opera come fotografo-medico e subito dopo riprende a collaborare con Rotha a una serie di documentari commissionati dal Ministero dell’Informazione inglese. Nel corso del lavoro svolto in Sardegna, tra il 1948 e il 1950, in occasione della campagna antimalarica organizzata dall’ERLAAS (Ente Regionale per la Lotta Anti-Anofelica in Sardegna, istituito nell’aprile del 1946 col sostegno di varie organizzazioni americane, tra le quali la Rockfeller Foundation), dirige la fotografia del documentario, patrocinato ancora dall’ERLAAS, The Sardinian Project (1948, durata 33 minuti, regia di Jack Chambers), e della relativa versione ridotta, Adventure in Sardinia (1950, durata 20 minuti). Nell’isola esegue inoltre circa 500 scatti fotografici nei quali sono attestate nel dettaglio tutte le fasi della campagna antimalarica. Un altro cospicuo nucleo di immagini riprende luoghi e persone di diverse località della regione, scattate di propria iniziativa e in gran parte pubblicate sul volume dedicato alla Sardegna dal Touring Club Italiano nel 1954, ventesimo della collana Attraverso l’Italia. Illustrazione delle regioni italiane. Nel 1982 la Photographers’ Gallery di Londra gli dedica una retrospettiva. Le immagini di Suschitzky, presenti nelle principali gallerie fotografiche inglesi, sono conservate, tra gli altri, negli archivi della città di Amsterdam, nel Haags Gemeentemuseum della città dell’Aia e alla Texas University di Austin.

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Il nucleo di fotografie relative alla campagna antimalarica ERLAAS, è stato di recente acquisito dall’Istituto Superiore Regionale Etnografico di Nuoro. Un numero limitato di stampe realizzate nell’isola è inoltre presente negli archivi del Touring Club Italiano.

Bibliografia Sardegna 1954; Auer, Auer 1985; Lenman 2008, vol. II, pp. 967, 1131, ss.vv. Scozia; zoo.


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10. W. SUSCHITZKY, Muravera, centro ERLAAS, 1948

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15-16. W. SUSCHITZKY, campagna antimalarica ERLAAS, 1950

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59. B. STEFANI, nei pressi di Birori, ante 1952

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60. B. STEFANI, San Leonardo di Siete Fuentes, ante 1952

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Franco Pinna (La Maddalena 1925-Roma 1978)

Franco Pinna nasce a La Maddalena il 29 luglio 1925 da Pietro, ufficiale dell’esercito, e Maria Pais. Dopo vari cambi di residenza, nel 1935 la famiglia si trasferisce stabilmente a Roma. Nel 1943, in seguito a un diverbio familiare, abbandona gli studi da geometra e la casa paterna. Da questo momento inizia a maturare una consapevolezza politica che lo porterà a intervenire attivamente alla resistenza nei confronti dell’occupazione nazista della Capitale e ad arruolarsi nella PAI (Polizia Africa Italiana), con la quale partecipa alla liberazione. Proprio al momento dell’ingresso in città delle truppe alleate risale il suo primo scatto fotografico. Nel 1949, alla morte del padre, con cui aveva riallacciato i rapporti durante la Resistenza, dovendo provvedere alla madre e ai tre fratelli minori, svolge, con alterne fortune, varie esperienze lavorative. L’anno successivo si iscrive al Partito Comunista Italiano, distinguendosi al suo interno per attivismo e doti organizzative. A Roma, al Baretto di via del Babuino, luogo di ritrovo di giovani artisti squattrinati, conosce Pablo Volta, anch’egli iscritto al Partito e alle prime armi nel fotogiornalismo. Insieme – Pinna in qualità di direttore della fotografia e Volta di operatore alla macchina – partecipano alla realizzazione del cortometraggio di Stefano Ubezio e Pierluigi Martinori, Canto d’estate, ultimato nel 1951. All’interno del Partito incontra Plinio De Martiis e Caio Mario Garrubba, anch’essi alla ricerca di uno sbocco nella fotografia; insieme a loro e con Nicola Sansone e Pablo Volta, nel 1952 dà vita, sul modello della Magnum Photos, alla cooperativa Fotografi Associati, esperienza di breve durata, ma che sarà alla base della cosiddetta “scuola romana” di fotogiornalismo. Nel 1952 consolida inoltre l’amicizia con l’antropologo Franco Cagnetta, all’epoca alle prese con l’“Inchiesta su Orgosolo”, il quale lo indirizza verso Ernesto De Martino, a sua volta impegnato nei preparativi per una spedizione multidisciplinare in Lucania, in cui erano coinvolti anche il musicologo Diego Carpitella, l’antropologa Vittoria De Palma e il critico d’arte Marcello Venturoli. Pinna, inserito nel gruppo come fotografo, realizza con la Rolleiflex circa centocinquanta immagini e un documentario filmato dal titolo Dalla culla alla bara andato disperso. Nell’agosto del 1956 sarà coinvolto da De Martino in una nuova spedizione in Lucania, dove perfezionerà l’utilizzo della sequenza fotografica, della quale si servirà anche due anni dopo, nel Salento. Il progetto demartiniano si concretizzerà nella trilogia Morte e pianto rituale nel mondo antico. Dal lamento pagano al pianto di Maria (Torino, Edizioni Scientifiche Einaudi, 1958), Sud e magia (Milano, Feltrinelli, 1959) e La terra del rimorso (Milano, Il Saggiatore, 1961). Varie immagini di Pinna figurano in ognuna delle tre pubblicazioni. Il terzo volume, dedicato al tarantolismo, contiene tra l’altro la

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documentazione fotografica del rito dell’argia realizzata in Sardegna nel 1959. Il corpus di immagini realizzate con De Martino in Lucania, in Sardegna e nel Salento, è oggetto, tra il 1958 e il 1961, di varie esposizioni. Terminata l’esperienza con De Martino, collabora con Vie Nuove, Noi Donne, Il Mondo e, qualche anno più tardi, con Cinema Nuovo e il Radiocorriere Tv. Tra la fine dell’anno e i primi mesi del 1953 realizza alcuni provini sul set del film La strada di Federico Fellini. In autunno torna in Sardegna per produrre le immagini a corredo dell’articolo di Paolo Pardo, “In Orgosolo atterrita e divisa ho trovato un amico di tutti” (Pardo 1953). In seguito alle abbondanti nevicate dell’inverno 1956, causa di enormi disagi e di decine di morti assiderati nella periferia romana, la federazione locale del PCI mobilita un gruppo di intellettuali, tra i quali Cagnetta e Moravia, perché, insieme ai funzionari del Partito, si rechino nei quartieri di Pietralata, Primavalle e Prenestino, al fine di portare solidarietà ai residenti. Pinna documenta l’evento per Vie Nuove. L’episodio convince Cagnetta a coinvolgere un’équipe di studiosi in un’inchiesta sulla situazione delle borgate, ignorato fino a quel momento dagli organi di informazione. La prima tappa dell’indagine sul campo è al Mandrione, dove Pinna, reporter ufficiale della spedizione, realizza due fotodocumentari, uno dedicato al caratteristico ballo della comunità zingara, l’altro, divenuto un’icona della sua produzione, alla vita delle prostitute locali. Nonostante le ripetute sollecitazioni a Cagnetta da parte dell’editore Giangiacomo Feltrinelli per dare luogo a una pubblicazione che racchiudesse i risultati della ricerca svolta nelle borgate romane, il progetto rimane incompiuto. Ad aprile, in seguito al precipitare degli eventi all’interno dell’ambiente legato al PCI, profondamente segnato dalla rivoluzione d’Ungheria, l’inchiesta viene sospesa – sarà completata nel 1960 da Giovanni Berlinguer e Piero Della Seta –, Pinna lascia il Partito e interrompe i rapporti con la redazione di Vie Nuove. Intanto documenta il set del film Le notti bianche di Luchino Visconti. Tra il 1957 e il 1959, ispirandosi al cognome di una delle famiglie protagoniste della faida che negli anni precedenti aveva insanguinato Orgosolo, firma le immagini pubblicate su Noi Donne con lo pseudonimo di Franco Corraine. Nel 1959 dà alle stampe La Sila (Roma, Lea), il suo primo libro fotografico. In estate è in Sardegna, a Tonara, per documentare il rito dell’argia; realizza inoltre altri due reportage, uno sul corallo (Pinna 1959a) e uno sull’attività di un centro UNLA (Unione Nazionale per la Lotta contro l’Analfabetismo) a Santu Lussurgiu (Pinna 1959b). Inizia a lavorare per L’Espresso, la cui redazione inserisce una delle immagini realizzate in Lucania nel corso dell’inchiesta sulla povertà nel Meridione d’Italia (“L’Africa in casa”), della quale Carlo Bavagnoli aveva curato la parte relativa alla Sardegna. Nel 1960 torna in Sardegna per un servizio sull’omicidio della piccola Elena Cuccu avvenuto a San Priamo, in provincia di Cagliari (Pinna 1960). Nel 1961 esce Sardegna. Una civiltà di pietra (Roma, Lea), volume contenente le fotografie realizzate nell’isola tra l’inverno e la primavera dello stesso anno. Nel 1962 amplia il ventaglio dei suoi referenti anche a Panorama e al Sunday Times.

Nel 1964, sul set di Giulietta degli spiriti, riprende il fertile sodalizio con Fellini, del quale diverrà il fotografo di scena prediletto. Nel 1966, due articoli, uno di Giuseppe Podda (Podda 1966) e l’altro di Michele Tito (Tito 1966), saranno corredati da immagini realizzate in Sardegna da Pinna tra il 1961 e il quinquennio successivo. Nell’estate del 1967 è ad Alghero, sul set di Boom! La scogliera dei desideri, di Joseph Losey, con Elizabeth Taylor e Richard Burton. Nello stesso anno alcune sue riprese realizzate nell’isola tra il 1961 e il 1967 illustreranno l’articolo di Corrado Stajano, “Il pastore sardo passa il mitra al gangster” (Stajano 1967). Nel corso del soggiorno in Sardegna documenta, inoltre, la violenta reazione dello Stato alla recrudescenza del banditismo attuata attraverso il pattugliamento del territorio e innumerevoli posti di blocco stradali, misure messe in campo dalla polizia per rivendicare con forza il controllo della regione. Ancora nel 1967, il 28 novembre, torna nell’isola da Roma appositamente per fotografare una manifestazione di oltre mille pastori recatisi a Cagliari per protestare, davanti al palazzo della Regione, contro il mancato aiuto da parte dello Stato per i danni causati dalla terribile siccità del periodo estivo. Nel 1968 segue le riprese di Satyricon e Block notes di un regista di Fellini. Su invito di Diego Carpitella esegue, dodici anni dopo il primo, un reportage sul campo rom del Mandrione, a Roma. L’anno successivo compie due viaggi in Unione Sovietica. Nei primi anni Settanta segue Fellini sul set di I clowns (1970), Roma (1971), Amarcord (1973), Casanova (1975). Nel frattempo inizia a pubblicare su Vogue (1972), l’edizione italiana di Playboy (1972), L’Europeo (1973), Life (1975), Paris Match (1976) e Domenica del Corriere (1976). Darà inoltre alle stampe alcuni libri dedicati al cinema felliniano come Casanova (1976) e Fellini’s Filme (1977). Nel 1975 la città di Bologna gli dedica la retrospettiva “Lungo viaggio nelle terre del silenzio”. Tra l’estate dello stesso anno e la primavera del 1976, porta a termine, per conto della regione Lombardia, il progetto “Itinerari emiliani”. Muore a Roma il 2 aprile del 1978 in seguito ad un ictus cerebrale. Tra le sue carte verrà ritrovato un cospicuo nucleo di appunti su una mostra che avrebbe dovuto intitolarsi “Biografia mia: 27 anni di fotogiornalimo” e un biglietto nel quale auspica che, con la morte, tutto il suo archivio venga distrutto. Il proposito non viene però rispettato.

Bibliografia Pardo 1953; De Martino 1958; De Martino 1959; Pinna 1959a; Pinna 1959b; Pinna 1960; De Martino 1961; Pinna, et al. 1961; Podda 1966; Tito 1966; Stajano 1967; Cascio 1971; Lucas, Bizziccari 1981; Pinna 1982b; Zannier 1986, p. 297; Pinna, et al. 1996; Dizionario di fotografia 2001, p. 573, s.v. Pinna, Franco; Gallini, Faeta 1999; Lucas, Agliani 2004, pp. 14, 16; Pinna 2004; Lenman 2008, vol. II, pp. 773, 847-848, ss.vv. neorealismo; Pinna, Franco.


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61. F. PINNA, Orgosolo, 1953

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126. E. MARI, Sarule, filatura della lana e tessitura, 1954

182

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157. M. DE BIASI, Aritzo, funerale, 1955 158. M. DE BIASI, Aritzo, attesa del funerale, 1955

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157



161. M. DE BIASI, Sedini, 1955

224

161



207

207. M. SIN-PFÄLTZER, Tonara, processione del Venerdì Santo, 1959

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208. M. SIN-PFÄLTZER, Desulo, funerale di un bambino, 1959


208

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229. K. TACONIS, tra Cagliari e Nora, processione di Sant’Efisio, 1956

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229



269-270. C. BAVAGNOLI, Bosa, interno domestico, 1959

269

344

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al Consiglio regionale”, in Le miniere e i minatori della Sardegna, a cura di F. Manconi, Cagliari, Consiglio Regionale della Sardegna, 1986, pp. 207-231.

De Martino 1958 = E. De Martino, Morte e pianto rituale nel mondo antico. Dal lamento pagano al pianto di Maria, Torino, Edizioni scientifiche Einaudi, 1958.

Cardia 1991 = M. Cardia, “Dalla ricostruzione al piano di Rinascita (1943-1962)”, in Storia della cooperazione in Sardegna. Dalla mutualità al solidarismo d’impresa 1851-1983, a cura di G. Sotgiu, Cagliari, CUEC, 1991, pp. 211-332.

De Martino 1959 = E. De Martino, Sud e magia, Milano, Feltrinelli, 1959.

Cardia 1992 = M. Cardia, La nascita della regione autonoma della Sardegna. 1943-1948, prefazione di E. Rotelli, Milano, Franco Angeli, 1992. Cardia 1998 = M. Cardia, “La conquista dell’autonomia (1943-49)”, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Sardegna, a cura di L. Berlinguer, A. Mattone, Torino, Einaudi, 1998, pp. 717-774.

De Martino 1961 = E. De Martino, La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud, Milano, Il Saggiatore, 1961. De Martino 1967 = E. De Martino, Taranta pugliese e argia sarda. Atti del Convegno di Studi Religiosi Sardi, Cagliari, 1962, Padova, CEDAM, 1967. De Martino 1977 = E. De Martino, La fine del mondo. Contributo allo studio delle apocalissi culturali, a cura di C. Gallini, Torino, Einaudi, 1977.

Carey, Guay 1989 = B. Carey, L. Guay (a cura di), Kryn Taconis. Photojournalist/Photojournaliste, Ottawa, National Archives of Canada, 1989.

Deleuze 1984 = G. Deleuze, L’immagine-movimento (1983, L’image-mouvement), Milano, Ubulibri, 1984.

Cascio 1971 = C. Cascio, Professione fotoreporter, Roma, Fotografare, 1971.

Delogu 1988 = I. Delogu, Carbonia. Utopia e progetto, Roma, V. Levi, 1988.

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