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MARIO DE BIASI Viaggio dentro l’isola
Copertina De Biasi
M A R I O
DE BIASI Viaggio dentro l’isola
In sovraccoperta: Desulo, chiesa di Sant’Antonio abate, 1955
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Ristampa 2006 Š Copyright 2002 by ILISSO EDIZIONI Nuoro ISBN 88-87825-49-1
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Indice
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Sguardo sulla Sardegna, scambio di sguardi Bachisio Bandinu
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Reportage Alfonso Gatto, Giuseppe DessĂŹ
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Viaggio dentro l’isola
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Catalogo
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Mario De Biasi: nota biografica
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Aritzo, 1955
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Quella nobiltà dell’atto, del portamento e del gesto, proviene da una concezione etica e drammatica della vita. Fierezza che non viene meno neppure nel bisogno più estremo: resistenza e dura meditazione. La figura ieratica della donna con la brocca in testa rivela l’intimità con l’acqua, il ritmo del percorso fonte-casa, la relazione acqua-brocca-cucina. Di grande efficacia espressiva sono le foto di gruppo di donne oranti nella chiesa di Issiria, uno dei rioni di Desulo. Inginocchiate sui banchi esprimono nei volti e nel corpo la tensione della preghiera, lo sguardo del desiderio e della promessa, del timore e della speranza: atto di fede e documento di identità spirituale. Le donne a lato del confessionale conservano segreti, inserrati in una tomba, che a stento rivelano a Dio. È possibile scattare il ritratto di un funerale? La processione di Aritzo ha il pregio della qualità dell’immagine e lo spessore documentario del rito. Quel procedere mesto e maestoso verso il cimitero sancisce il compimento della vita secondo l’inveramento del destino. Tristezza e dignità di un commiato e di un distacco. Il percorso a semiluna persino figurativamente, segna l’arco dell’esistenza. Tutta la comunità ha l’impegno etico della partecipazione come presenza individuale e familiare. Il tragitto è nella scansione del passo leggero delle donne “ecclesiastiche”, e del portamento drammatico degli uomini delle confraternite, bara portata a spalla col seguito della gente: calca pressante di cordoglio. Ogni raffigurazione ritrattistica mostra un resto non economizzabile: ciò che la vita non ha potuto metabolizzare né cancellare nel suo flusso inarrestabile. Ogni superficie (persona, cosa, paesaggio) è marcata “a lettere di fuoco”. Male di vivere e divina indifferenza come scrive il poeta. La metafora più eloquente della invisibilità è la maschera della Sartiglia di Oristano. Impossibile qualsiasi rappresentazione. Su Componidori è uomo e donna, vita e morte, abbondanza e penuria, sfida e propiziazione. Stocco e stella. Sacerdote benedicente e vittima sacrificale. Impossibile il ritratto: non c’è identità da rinchiudere in una cornice. La maschera non è soggetto da vedere, è fuori campo, luce e prospettiva sono interne. Ritmo enigmatico della fissità, non è specchio su cui potersi riflettere. Manca una logica del segno e del ritratto. Nessuna corrispondenza di sguardi. La maschera non ha sguardo e il fotografo non ha punto di vista. Nessuna prospettiva: né primo piano né sfondo.
PAESAGGI Perché in lingua sarda non esistono il termine e il concetto di “paesaggio”? Perché il territorio non è concepito come semplice fatto visivo. Per il pastore del Gennargentu una prospettiva spaziale corrisponde alla misura di un percorso conosciuto dal piede e dal passo. Non si insegue un punto di fuga, si percorre con lo sguardo una linea, punto per punto, secondo una esperienza tattile, olfattiva e uditiva, itinerario della transumanza. Spazio definito da presenze: albero-ombra, fiume-acqua, capanna-rifugio, pascologregge. Su quel territorio si fa confluire un’esperienza di lavoro, di sosta, di transito. Nessuno scenario naturalistico, è natura umanizzata. Anzi, non esiste in sardo la parola “natura” se non per significare il sesso, particolarmente la sessualità femminile procreatrice. “Panorama” è un termine che indica l’ampiezza della visione, guardare tutte le cose ad angolo giro. Per il contadino questo non è atto del guardare, è momento di distrazione: non videt nudda, non è padrone di ciò che vede.
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A partire da questa concezione antropologica risulta del tutto evidente che fotografare un “paesaggio” è impresa difficile. Mario De Biasi, avverte il fascino paesaggistico della montagna e della pianura, del mare e dello stagno, ma non si rifà ad un semplice fatto visivo. Un paesaggio è certamente percezione di forme e prospettive, di luce e colori, ma è anche rilevamento di segni dell’uomo. Relazione natura-cultura. Nelle fotografie di De Biasi coesistono più fuochi: montagna-paese, stagno-rete-pescatore, collina-strada-donna, mare-faro, nuraghe-pendio-uomo. C’è un nesso inscindibile tra paesaggio e ambiente: aspetti fisici e antropici registrano i modi di annessione culturale della natura. Nessuno sfondo pittorico come quadro da fruire e consumare, l’artista più che ad una messa in scena naturalistica mira ad una messa in relazione. L’inquadratura mostra punti e reticoli di una tramatura territoriale, granatura della pietra, gioco dei piani, traiettoria di una linea che si snoda attraverso un campo. In questa lettura musicale compaiono, in filigrana, i segni di un’antropologia del paesaggio che indicano un modo specifico di umanizzare la natura. Né verismo né romanticismo. Non predomina il vago e l’indeterminato ma neppure l’evidenziazione realistica e dimostrativa. Certamente nel paesaggio sardo predominano gli effetti geologici, morfologici e vegetali, ma essi stessi hanno costituito i luoghi dell’abitare lungo la storia. Quell’apparente dominio della natura che narra i tempi stratigrafici delle ere, nasconde in verità una presenza nascosta di segni: ovili e stazzi, sentieri e fonti, muretti a secco e cespugli per confine. Un detto sardo recita: Onzi tuppedda hat oricreddas, ogni cespuglio ha orecchie per ascoltare. In quei luoghi apparentemente disabitati, nulla accade senza che l’uomo ne colga rumori e presenze. Nell’isola delle pietre il paesaggio può apparire statico, quasi bloccato e irrigidito nella sua forma. Ed invece la pietra offre ritmi sonori, pittorici, e morfologici: venature, spaccature, incavi, cromatismi. Basti guardare la differenza di grana, luce e colore tra granito, calcare, porfido e basalto. De Biasi coglie questo linguaggio nella lastra di granito in Gallura, nell’analisi delle pietre del nuraghe di Barumini.
IMMAGINI
Cagliari, spiaggia del Poetto, 1955
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DI UNA COMUNITÀ
La sequenza fotografica di Desulo rappresenta la storia umana e sociale di una comunità. Centro reale e simbolico del libro: dalla culla alla tomba, dalla cerimonia del battesimo al rito funebre. Testimonianza dell’abitare e dei modi della comunicazione sociale. Gli “esterni”, casa e chiesa, vicinato, vicoli e slarghi hanno una forte valenza documentaria al di là di una precisa intenzione dell’autore. Linee di livello, piano delle costruzioni, morfologia architettonica, rapporto fra il costruito e il naturale, ritmo di una curva, inclinazione di una scala, costituiscono una mappatura visiva del borgo e tracciano un incamminamento. Lo scosceso pendio del costone è fermato dalle case, quasi fossero radici e fusti di castagno, linea di stabilità e di resistenza contro il precipitare della linea verticale. È l’aggrapparsi alla terra di albero, casa, uomo. Lo spazio di una fontana, una piazzola sterrata, un porticato, si fanno luoghi di animazione sociale e di scambio delle “nuove”. Tessuto di relazioni tra casa-stalla, uomo-animali, fondaco-cucina, porta-balconcinofalde del tetto. La fotografia rimarca la linea sfalsata dei balconcini, gli intonaci slabbrati dei muri. Copresenza e contemporaneità di architettura, scultura e pittura.
Tra Marghine e Campidano, 1968
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Barumini, l’archeologo Giovanni Lilliu (al centro, con cappello) parla degli scavi, 1955
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che imparò il mestiere da suo padre e che la tenne a battesimo, il cavalier Litterru che somiglia a Churchill. Le bastano le speranze, i ricordi, per vivere a Desulo dove tutti le vogliono bene. Forse un giorno farà l’erborista anche lei, anche lei spedirà a Roche e a Carlo Erba la digitale purpurea. Saboedda vuol dir Sebastiana: Sebastiana Nieddu per l’anagrafe. Ancora più della bellezza, la sua grazia resta. Quest’anno, alla «Cavalcata» di Sassari, gli inglesi le batterono a lungo le mani.
MILLENNI DI PIETRA I VILLAGGI NURAGICI Alfonso Gatto, nella rubrica “L’Italia che non conosciamo”, in Epoca, a.VI, n. 251, 24 luglio 1955.
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Cagliari, luglio In quel pomeriggio di festa, a Barumini salimmo con un torpedone carico di chimici. Li avevamo conosciuti a Nora, tra i ruderi e il mare, ospiti improvvisi di una grande tavolata all’aperto ove venne servito capretto allo spiedo, cotto al modo antico dei pastori. Il giovane archeologo professor Lilliu, rannicchiato sul sedile alle spalle dell’autista, incominciò la lezione. Attraverso il paesaggio che indicava con una mano fuor del finestrino, gli occhi socchiusi dietro le lenti, egli sembrava abituarci al suo modo di veder l’arte e la storia. Quel tempo, mai interrotto, continuava. E anche noi seguivamo i piccoli protosardi che dal mare via via s’allontanavano all’orizzonte, ritirandosi nelle fortezze nuragiche, sugli altopiani, ai confini d’altre valli, nel cuore dell’isola. Dalla solitudine dei millenni, tutti presenti, tutti visibili nella sua parola, i settemila nuraghi della Sardegna sembravano avere non so quale palpito. Erano i crateri di una terra desolata la cui lenta macerazione durava ancora nella memoria di quell’ultimo piccolo abitatore venuto con noi a riportarci nei luoghi della sua infanzia. Una strana impressione di storia giovane, ma insieme la sorpresa di mancare al tempo e d’entrare in un sogno. Gli ultimi chilometri passarono in silenzio: la mano del professor Lilliu al finestrino sembrò salutare i millenari fanciulli che avevano giocato insieme con lui. Quando, fuor dell’abitato di Barumini, in vista del nuraghe «Su Nuraxi», ci ritrovammo intorno al piccolo Lilliu ch’era salito su un muretto a riprender la lezione, sembrammo o fummo veramente l’ultima famiglia scampata alla febbre della «mosca macedda», la mosca apportatrice di malaria e di morte. Il vento ci portava sul volto raffiche di luce, l’oro dei campi inariditi nelle stoppie a perdita d’occhio. Sventolava, sventolava la tonaca nera di un prete chimico e il decano professor Mameli, maestro di generazioni di dottori, diafano e pallido con le mani sul petto, sembrava pregare il crepuscolo perché ci tenesse sempre vicini e visibili alla soglia della notte. Il nuraghe cominciava a esser visitato dalle piccole ombre scalze che appoggiavano la scala a pioli alla finestra d’entrata. Il professor Lilliu – ricordo lo scricchiolìo della pergamena – si tolse di tasca una carta planimetrica, la spiegò come un fazzoletto tenendola sospesa in alto con una mano sola
e indicando con l’altra, da sotto in su, i segni a vario tracciato che v’erano iscritti, vedendo senza vedere. Il suo dito cadeva giusto sui cerchietti neri o quadrettati, abbandonandoli per trasferirli al vivo sul monumento. Ecco, diceva, la prima torre arcaica che s’attornia d’altre torri, d’altri muri perimetrali, addentrandosi e fasciandosi nel fitto della sua struttura. Le pietre disposte a secco una nell’altra trovano nell’incastro il segno vivo della presa e la graduale modellazione verso l’alto delle cupole. Il nuraghe ingrandiva la sua mole. Qualche visitatore già avviato a scalarlo lo misurava al suo confronto, rimpicciolendo, diventando sempre più piccolo. Dalla prima torre arcaica, la cui data di costruzione si può far risalire intorno al 1070 a.C., a misura che s’allarga nel corso dei secoli, la fortezza nuragica sembra che ritrovi la stretta della sua forma originaria, raccordandosi all’unico ritmo che la fa sempre più compatta, sempre più modellata e rifinita sui gesti, sui modi d’essere, di camminare, di correre dei suoi piccoli abitatori che vivono d’allarme e d’attesa. E a volta a volta, per ogni nuova struttura di un nuovo strato murario – se ne possono distinguere cinque: lo strato nuragico arcaico, il nuragico primo inferiore, il nuragico primo superiore, il nuragico secondo, il punicoromano, dal 1070 a.C. al IV secolo a.C. – s’inserisce un villaggio che nel suo tracciato sembra voglia approfondire la volontà d’essere, l’umana figura di quella primitiva società familiare e religiosa. Il professor Lilliu ha appena detto «decadenza», poi s’è fermato a guardare il paesaggio, la solitaria «marmilla» all’orizzonte ormai appassito dal funebre oro dei campi. La distruzione del nuraghe fu compiuta verso la fine del VI secolo a.C., forse per un assalto in forze dei Cartaginesi. Le parti superiori smantellate crollarono verso l’esterno a seppellire in parte le torri dell’antemurale e le murature già diroccate del villaggio coevo della fortezza. Sopra la terra e su questi ruderi, le genti nuragiche ormai sottomesse ricostruirono un nuovo villaggio che nel corso dei secoli successivi subirà nuovi rifacimenti e nuove umiliazioni, suggerendo l’ultima immagine della sua resistenza all’offesa e alla povertà. Immagine di una metropoli minuscola ingrandita dalla fissità delle piccole case in cerchio e tutte eguali: una casbah antidiluviana che il sole ha prosciugato sino allo stremo delle murature. Nel rilievo delle ombre brevi e nette, i viottoli sembrano approfondirsi e innalzarsi insieme, in un falsopiano sempre mobile che oscilla alla vista e quasi sbatte se il vento caldo l’investe e ne alza le polveri millenarie. Dietro il professor Lilliu ci arrampichiamo tutti per la lunga scala a pioli appoggiata al cratere della vecchia torre nuragica. Poi il corpo più che la mente, il corpo – per il suo stesso strisciare e tentare al buio le strette scale scavate nella muraglia, per il sentire sopra di sé le volte e gli echi delle celle superiori, per misurarsi nell’incastro delle garitte, alle feritoie, in fondo al pozzo dei cortili su cui cade lo strapiombo delle mura – il corpo solo può ricordare il nuovo senso, insieme belluino e umile, da cui fu posseduto. L’anima rimane sorpresa di riconoscere in una rozza torre di sassi
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uno dei mondi architettonici più organici che d’ogni tempo le sia stato dato di vedere. Mai monumento deserto fu popolato da tante immagini di vita, dalle onde rapprese di quei primitivi circoli umani e familiari raccolti intorno al fuoco. Seduti come una volta Eravamo seduti, col professor Lilliu e con altri, sullo stesso gradino a semicerchio ove una volta sedevano gli abitanti del villaggio nuragico. A me sembrava di raccogliere in quell’ultimo, tenue lume di sera, le impressioni del mio incanto. Non sarei rimasto solo, eppure mi tentava il desiderio di raccogliermi tra quelle mura per la notte, come tutti i pastori hanno fatto per millenni e per secoli senza chiedersi se era tomba o altare il loro letto di pietra. La Sardegna fa tutto giovane il suo passato, mi dicevo, è appena scalfita dal vomere archeologico. Il giorno che tutti i nuraghi verranno dissepolti e ridati alla luce, ritroveremo ancor di più nel senso organico delle loro strutture l’immagine viva dei piccoli protosardi coi quali, quando è solo, parla il caro Lilliu: ombre anelanti, libere, come i cavalli bradi che corrono sulla giara di Gèsturi. La Sardegna coltiva la freschezza dei suoi pascoli millenari. Il suo silenzio in rigoglio gemma nei poveri fiori dei morti. Sulla vasta terrazza di trachite vulcanica a 560 metri d’altezza ove avremmo scoperto, qualche giorno dopo, il «Nuraghe Arrubiu», rosso di muschio e di tramonto, ci vennero incontro gli asfodeli. Tra i loro steli fioriti affondava fino al ginocchio un giovane pastore. La sua casa era lì – ce la indicò con la mano – nel nuraghe, in quell’antica reggia perduta. ROSSO DI SERA. IL NURAGHE ARRUBIU Marcello Serra, il nostro caro compagno di viaggio, ci portò a vedere il Nuraghe Arrubiu, così chiamato per la calda coloritura da tramonto che gli dà il muschio attaccato alle sue pietre. Da Isili dirottammo sulla via di Lanusei, oltrepassammo Nurri alle falde del Monte Pizziogu, la cui cima è il cratere di un vulcano spento («nur» in lingua punica vuol dire fuoco), e Orroli, entrando su un vasto altopiano di trachite vulcanica, tagliato netto come una giara e fiorito d’asfodeli. Dai muretti a secco che dividono i confini dei pascoli, si comprende come il nuraghe, una fortezza ancora da scoprire più grande di quella di Barumini, dovesse essere la «reggia» di un vasto villaggio esteso fino ai limiti estremi dell’altopiano, le cui pietre rimosse son servite agli abitanti d’oggi a rialzare il tracciato dei propri stazzi. La vegetazione si fonde con le pietre e il nuraghe la cui altezza visibile dal piano alla cima è di 18 metri, diventa esso stesso un paesaggio di indicibile fascino romantico. Serra incominciò a scoprirlo e a studiarlo dal 1947 e lo difende come un bene suo. Più che un nuraghe, è un complesso di nuraghi, una fortezza megalitica. «Alcuni di questi nuraghi che costituiscono il fortilizio» scrive Serra «son quasi intatti… Gallerie, ambulacri, nicchie, cortili comunicanti con torri e celle, conferiscono a quest’edificio un’impronta fiabesca e affascinante che ci fa ripensare alle architetture micenee e ci ripropone con accento di verosimiglianza la leggenda che attribuiva a Dedalo la costruzione dei nuraghi sardi».
I FARI PARLANO Alfonso Gatto, nella rubrica “L’Italia che non conosciamo”, in Epoca, a.VI, n. 252, 31 luglio 1955.
L’Asinara, luglio «Come avete pensato ai fari?» ci chiese a La Maddalena il comandante Zanon, un triestino che si manteneva diritto come lo Stroheim de La Grande Illusione. Uomo pieno di carattere, per quei postumi d’operazione che lo costringevano a muoversi lentamente tutto d’un pezzo, il comandante aveva negli occhi grigio azzurri una luce di autorevole grazia. Nella grande sala della palazzina ove ci aveva ricevuto entrava l’aria ventilata del mare, allo schiocco della grande tenda verde abbassata da un capo all’altro del balcone. «Come avete pensato ai fari?»: la stessa domanda con un sorriso di benevola attesa ci era stata rivolta a Roma dal Comandante Fornari, a Napoli dal capitano De Blasio. Bevendo un sorso di vermouth fresco, tentammo di rispondere: «Un vecchio sogno da ragazzi, comandante. La letteratura non c’entra, o molto da lontano, il cinema nemmeno, la pittura un tantino di più. Un sogno da ragazzi. Nel nostro lavoro di giornalisti, capita qualche volta di entrare da personaggi veri in un racconto che da bambini ci parve di sognare. Al giro d’Italia fu così o quel pomeriggio che riuscii a correre in locomotiva, solo col macchinista che m’aveva prestato il berretto, l’orologio e la stoppa tra le mani. Mi crede ora se le dirò che a farmi scegliere il mio mestiere c’era in me la speranza di questo giorno?». Il comandante acconsentì senza parlare, dando modo ai nostri pensieri d’incontrarsi sulla testa del suo bambino ch’egli accarezzava, quasi pettinandolo, con la palma della mano tesa. Poi, sulla pagina aperta del portolano, cominciò a leggere lentamente per noi: Isola dell’Asinara. Faro di Punta Scorno. Costruito nel 1859, restaurato nel 1938. 41°, 07’ di latitudine Nord, 8°, 19’ di longitudine. Gruppo di quattro lampi bianchi per un periodo di 20 secondi così diviso: mezzo secondo di lampo, due e mezzo di eclisse, mezzo secondo di lampo, due e mezzo di eclisse, mezzo secondo di lampo, due e mezzo di eclisse, mezzo secondo di lampo, dieci e mezzo di eclisse. Altezza della luce sul livello del mare 80 metri: portata luminosa 30 miglia, portata geografica 23 miglia. Lanterna poligonale su torre cilindrica a due ordini di terrazze che sorge su edificio tutto bianco. «Lo vedete?», chiese. Accostandoci col motoscafo, lo avvistammo tra i due fendenti dell’onda di prora, scoglio, isola, se il mare in prospettiva passava l’esiguo istmo di terra che lo tiene unito a l’Asinara. Era lui, a esser sempre di più se stesso, roccia, casa, colonna, il faro tutto faro. Ingrandiva alla vista e quasi entrava, per darci gioia, nel rilievo del suo volume, nella piega rotonda della torre. Il motoscafo rallentava, fermò a cinquanta metri dalla soglia d’acqua e di spiaggia ove Lauro, il reggente, levava il braccio a salutarci. Verso di noi avanzò una barchetta. Vi saltammo dentro, tenendo a lungo il saluto nella stretta di mano del conducente. Con gli occhi neri mobilissimi, dai lineamenti delicati seppure incisi di fermezza, si presentò: Fausto Maurelli, il più giovane dei quattro fanalisti di Punta
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Isola dell’Asinara, faro di Punta Scorno, 1955
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Cagliari, Bastione di Saint Remy, 1955
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Cagliari, Porta dell’Arsenale, 1955
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Tra Cagliari e Nora, aia, 1955
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Oristano,Torre di Mariano, 1955
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Desulo, chiesa di Sant’Antonio abate, 1955
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Desulo, via Giuseppe Zanda, 1955