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PABLO Volta

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la sardegna come l’odissea

Sovraccoperta Pablo Volta italiano

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La Sardegna come l’Odissea


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Coordinamento editoriale Salvatore Novellu Grafica Ilisso Edizioni Grafica copertina Aurelio Candido Stampa Fotolito Longo

L’editore ringrazia Ornella Volta per la preziosa e puntuale collaborazione.

Š 2007 ILISSO EDIZIONI - Nuoro www.ilisso.it ISBN 978-88-6202-000-8


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Indice

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Pablo Volta, la Sardegna e il fotogiornalismo italiano degli anni ‘50 e ‘60 Tatiana Agliani, Uliano Lucas

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Fotografie

Nota biografica


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I “blousons noirs” a Pigalle, Parigi, 1957

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Essi svolgono una funzione parallela a quella condotta in campo cinematografico dalla filmografia neorealista,13 contrastano, con il loro realismo, la rappresentazione del Sud offerta dal rotocalco a larga tiratura, che nei suoi racconti fiabeschi su Salvatore Giuliano o sul bandito Mesina reitera l’iconografia di un Sud popolato di briganti o il bozzetto oleografico del bel paesaggio contadino proprio della stampa italiana fin dall’unità del Paese. Hanno dunque il merito di portare in Italia la lezione del moderno fotogiornalismo dei Capa, degli Smith, dei Bischof, di adempiere a quella funzione basilare d’informazione che la stampa italiana per vent’anni aveva dimenticato e continuava a dimenticare nelle più recenti tendenze di una pubblicistica unicamente rivolta all’intrattenimento.14 Usando la Leica, raccontano storie, offrono, nella miglior tradizione del tempo, documenti, fanno parlare la realtà, imponendo uno stile narrativo che cerca di liberare l’immagine dall’ombra dell’autore per lasciare tutto lo spazio al soggetto. Si concentrano prevalentemente su un aspetto della realtà meridionale, quello appunto del degrado, aprendo squarci importanti sulla questione della riforma agraria, del bracciantato, del riscatto sociale ed economico dei contadini, lasciando invece giustamente ad altri il compito di un’indagine più approfondita o variegata. Salvo poi cadere, in alcuni casi, soprattutto negli scatti delle piccole agenzie dei

giornali della sinistra,15 nella retorica populista della mitizzazione del mondo rurale, del lavoro nei campi, finanche del suo stile di vita, in una visione del Sud più vicina al meridionalismo agrario di Salvemini che a quello di Nitti o Colajanni o viceversa in una denuncia delle sue “superstizioni” e arretratezze culturali non esente dalla stessa visione stereotipa. Accanto a questa iconografia vi è poi quella dei tanti fotografi e fotoamatori che intraprendono in questi anni un loro personale viaggio nel Mezzogiorno visto come terra della memoria, di un passato che l’Italia della ricostruzione si sta, nel bene come nel male, lasciando alle spalle. Sono i racconti realizzati con la 6 x 6, giocando con le luci e i colori forti delle terre del Sud, da autori come Alfredo Camisa, Pietro Donzelli, Fulvio Roiter, Mario De Biasi, Fosco Maraini, che creano potenti rappresentazioni, vere e proprie icone del mondo contadino e dei suoi paesaggi architettonici e naturali, riproponendo, sia pure con diverso stile, quel ritratto del Sud immobile, dell’idillio naturalistico della tradizione pittorica o del vedutismo fotografico degli Alinari, che pervade tanta parte dell’immaginario sul Meridione della cultura italiana e da cui non rimangono immuni neppure importanti fotografi stranieri come David Seymour, che visita la Lucania sul finire degli anni ’40 con Carlo Levi, o Henri Cartier-Bresson che è in Basilicata e a Scanno, in Abruzzo, nel 1951, guidato anch’egli da fini meridionalisti, e in Sardegna nel 1962: se stilisticamente si discostano dalla poetica dei fotografi precedenti, ne abbracciano il mito di un Sud povero ma solidale e conviviale. Infine, ad arricchire e approfondire la rappresentazione dei tanti Sud d’Italia, vi è quella fotografia che si offre come supporto alle inchieste sul Meridione condotte da una nascente etnografia italiana, grazie alle quali si dischiude un terreno nuovo alla riflessione meridionalista. L’avvicinamento all’uomo, al quotidiano, alla realtà della cultura del dopoguerra ed il conseguente almeno parziale o nominale superamento dell’idealismo crociano portano infatti alla caduta della pregiudiziale verso le scienze sociali che si affermano in questi anni come un prezioso strumento d’indagine nella definizione dei metodi per un proficuo intervento sulla società. Fra la fine degli anni ’40 e gli anni ’50 escono su Società e su altri periodici della stampa di sinistra quei discussi saggi di Ernesto De Martino, come “Il folklore progressivo” e “Intorno a una storia del mondo popolare subalterno”, che riassumono in sé il nuovo corso delle ricerche antropologiche in Italia,16 poi sancito dalla fondazione nel 1954, da parte dello stesso De Martino, di Cagnetta e Diego Carpitella, del Centro Etnologico Italiano. E iniziano quelle campagne di rilevazione antropologica sul territorio che, nella loro attenzione al dato del comportamento sociale, fanno ampio uso della fotografia e la spingono all’elaborazione di nuove forme narrative. Certo bisognerà aspettare la nuova svolta di Lello Mazzacane, dell’antropologia strutturale degli anni ’60, perché in queste ricerche la fotografia svolga una funzione autonoma d’interpretazione oltre che di documentazione, ma già in questi anni


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essa irrompe sulla scena imponendo un diverso modo di raccontare il Sud. Il primo esempio è costituito da un’esperienza trascurabile se considerata unicamente dal punto di vista quantitativo: quei 150 scatti realizzati in due giorni a Tricarico nel 1952 da un giovanissimo Arturo Zavattini, in cui lo studioso Francesco Faeta ravvisa giustamente il primo caso di un’inchiesta di comunità. Con essa il fotografo, pur mediandola attraverso il filtro del cinema neorealista, applica la lezione che il padre Cesare aveva sperimentato solo un anno prima con Paul Strand nella sua documentazione del paese di Luzzara:17 la foto icona della Farm Security che, attraverso la geometria perfetta dell’inquadratura, l’incisione della 6 x 6 o del banco ottico, registra i tratti costituitivi di una comunità rurale, con un intento documentario capace di trascendere la mera volontà di denuncia e d’informazione per farsi strumento di un’indagine e di un racconto appunto antropologico.18 È la stessa modalità che ritroviamo, sia pure con una diversa profondità dettata dalle capacità di analisi diacronica del testo scritto, nei saggi di Franco Cagnetta, con il loro attento studio delle forme di organizzazione sociale, del sistema economico e ideologico di una comunità, nelle sue inchieste sulle borgate romane e sulle prostitute del Mandrione, in cui coinvolge fotografi come Franco Pinna, William Klein e Sheldon M. Machlin, e nell’esperienza personalissima di un artista come Ernesto Treccani che, nelle sue foto preparatorie ai quadri sulla città di Melissa, ne registra tutti i momenti topici della vita, in un’ottica che però è fortemente condizionata dal motore politico delle sue ricerche.19 Alla denuncia dei problemi del Meridione queste ricerche assommano dunque anche il tentativo di delinearne in modo analitico le cause attraverso uno studio ed una registrazione mirata dei modi del vivere, aprendo nello stesso tempo la strada ad un’indagine sulla cultura del Sud che sarà portata avanti, con una svolta metodologica capitale, dalla seconda fase delle ricerche di De Martino in Puglia, ponendo il problema del valore dell’eredità culturale delle società agricole o pastorali in un momento in cui l’Italia andava incontro ad una profonda trasformazione del suo tessuto sociale e culturale. È da queste diverse strategie dello sguardo, per usare un termine caro a Faeta, che nasce il racconto di Volta sulla Sardegna. Privo di una committenza tanto giornalistica quanto antropologica, formatosi alla lezione del reportage di denuncia sociale ma portato per retaggio culturale e per sensibilità personale a sentire il fascino delle culture arcaiche, Volta sceglie come campo d’indagine una realtà fino ad allora trascurata come quella sarda e ne offre un’immagine che combina, forse inconsciamente eppure con un risultato di notevole efficacia, le diverse scelte tematiche e narrative più sopra schematicamente delineate. Si concentra sui diversi momenti della vita della comunità, ne dà la rappresentazione analitica e articolata che è propria della fotografia antropologica, indugiando sugli spazi, sui costumi, sulle forme di aggregazione laica e religiosa, con uno stile che è in buona

Festa del “14 juillet”, Parigi, 1958 Le “24 ore” di Le Mans, 1958 Gli accademici di Francia sotto la Coupole, Parigi, 1962

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Alexander Calder, Roma, 1956 Jean Arp nel suo atelier, Clamart, 1957

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nei giornali francesi, orienta la sua produzione verso servizi d’attualità e di costume per giornali come L’Espresso, Il Giorno, Settimo Giorno e L’Illustrazione italiana, la rivista sportiva Il Campione di Manlio Cancogni e Tempo di Tofanelli, di cui è corrispondente. Collabora alla rivista letteraria Lo Smeraldo e, con fototesti, al settimanale della Rai Video, di cui era redattore capo Alfredo Mezio. Vive, insomma, grazie al rapporto di stima e amicizia che lo lega a quel gruppo di intellettuali e giornalisti come Saverio Tutino, Sandro Viola, Giancarlo Marmori, che capiscono il valore della sua fotografia e gli chiedono servizi sul mondo intellettuale parigino e sulle trasformazioni delle banlieues, come nel caso dell’inchiesta condotta con Carlo Gregoretti su un gruppo di blousons noirs di Pigalle per L’Espresso.28 Spinto anche dalla moglie Ornella, scrittrice e storica della musica, trova poi un campo d’indagine privilegiato in quei circoli intellettuali parigini legati alle avanguardie artistiche degli anni ’30, dei surrealisti, di André Breton e Tristan Tzara che, caduti un po’ in oblio in Francia di fronte all’emergere di nuove stagioni culturali, erano invece ancora un mito per la cultura italiana. Fotografa e frequenta così artisti e intellettuali che hanno fatto la storia dell’arte del Novecento: Jean Arp e Louis Aragon, Victor Brauner e Eugène Ionesco, Alexander Calder e Jean Dubuffet, Man Ray e Salvador Dalí.29 Proprio questi scatti però rivelano tutta la distanza che lo separa dall’esperienza sarda. Sono immagini che, ritraendo questi artisti con la forza dell’istantanea, rubano con grande abilità un’espressione, un’atmosfera, e ci lasciano a distanza di tanti anni un delicato affresco d’ambiente ma non sviluppano certi elementi che si potevano avvertire implicitamente presenti nelle foto scattate in Sardegna e che avrebbero potuto rappresentare un valido contributo della fotografia etnografica a quella di reportage: l’attenzione ad una disamina analitica di un fenomeno sociale o culturale, ad una fotografia ragionata, finanche concettuale, che si sofferma sugli elementi semantici dell’immagine e della realtà; la forzatura della macchina fotografica a inquadrature nuove nel tentativo di restituire un dettaglio significativo; la secchezza del documento che si offre come mezzo di conoscenza e di studio.30 Esse optano invece per un’altra estetica, certo raffinata e toccante, quella bressoniana del momento decisivo, dell’icona singola di amabile impatto visivo e emotivo, rappresentata in Italia da un giornale come Il Mondo, di cui si è molte volte sottolineato il ruolo di stimolo e freno insieme nella nascita di un moderno reportage in Italia,31 e testimoniano così l’altra faccia di un mondo progressista italiano che non riesce ad abbandonare una visione comunque fortemente elitaria della cultura. In questa scelta ha senz’altro giocato anche la formazione culturale e la disposizione caratteriale di Volta. Legato ad un ambiente di fini letterati, meno politicizzato dei suoi amici romani, che «non avrebbero avuto interesse a fotografare gli intellettuali parigini»32 e che negli stessi anni si recano nei paesi dell’Est e nelle Americhe per raccontarne le contraddizioni politiche e le realtà sociali,


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sceglie, tanto nel tema quanto nello stile, un racconto nostalgico e sofisticato, attraverso il quale il fotografo ridiventa egli stesso artista, e trova appunto nella rivista Il Mondo l’interlocutore ideale per questa poetica. Su questo giornale pubblica fra l’altro, oltre a suggestive istantanee di Parigi, dei “foglietti di viaggio” dall’Algeria liberata, dove si è recato per dare il proprio contributo di esperienza al “centro audio-visivo per l’educazione popolare” del Fronte di Liberazione Nazionale, che ben comunicano il «doppio sentimento dell’anticolonialismo e dell’amore per la cultura francese»33 che caratterizzava la sua generazione. Accompagnando le immagini anche con delle corrispondenze scritte, Volta è inoltre fra i pochi fotografi della testata a godere del privilegio di scrivere anche dei testi, a conferma della profonda sintonia che lo lega al direttore Pannunzio e ai suoi collaboratori.34 «Era un’aristocrazia in cui mi ritrovavo anche se votavo comunista»,35 ricorda candidamente Volta. E in questa dichiarazione non c’è alcuna malafede, ma solo lo specchio di una contraddizione, se si vuole anche felice, non sta a noi giudicarlo, che riemerge più marcatamente nel mondo intellettuale italiano con la fine della stagione neorealista e che, dopo lo slancio che coinvolge tanti intellettuali nell’utopia della costruzione di una cultura popolare, li riporta a percorsi di impegno e di ricerca individuali e, talora, elitari. Lo stesso Pinna metterà la sua fotografia al servizio del cinema visionario di Fellini, diradando le corrispondenze giornalistiche; tanti abbandoneranno la professione di fotoreporter volgendosi ai settori della moda, della ricerca, dello still-life, e solo i più politicizzati fra i free-lance formatisi negli anni ’50 continueranno nel loro impegno d’informazione, appoggiandosi per sopravvivere ad un’editoria straniera più sensibile al valore documentario delle loro immagini. Se dunque le foto di Volta, circolando in Sardegna, esercitano una certa influenza sui fotografi e intellettuali del luogo aiutandoli nella loro riflessione sulla propria identità culturale e se costituiranno un importante punto di riferimento nei successivi sviluppi di una fotografia etnografica italiana che affinerà sempre più i suoi metodi e i suoi campi di ricerca,36 esse sembrano invece rimanere lettera morta in un giornalismo che si sviluppa lungo altri percorsi, confinando ai suoi margini la fotografia documentaria degli anni ’50 e segnandone in questo modo le sorti. Di fronte a queste difficoltà e insicurezze, probabilmente in fondo anche ad una crisi ideologica legata ai cambiamenti nell’editoria e nella società degli anni ’60, quando gli viene offerta la possibilità di entrare a far parte, prima come documentarista e operatore e poi come organizzatore e fonico, della redazione francese della Rai, Volta abbandona la precaria professione del reporter. È il ’68 e una nuova stagione della politica e una nuova generazione di fotografi sta tentando di costruire su diverse basi e con un nuovo linguaggio, eppure guardando alle esperienze dei free-lance del dopoguerra, un nuovo dialogo fra le cosiddette classi subalterne e il mondo intellettuale.37

Pierre Klossowski nella sua casa di Parigi, 1959 Victor Brauner, Varengeville, 1960

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2. Nuoro, estate 1956

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3. Nuoro, estate 1956

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7. Orgosolo, estate 1956

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8. Orgosolo, estate 1956

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12. Orgosolo, dicembre 1954

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13. Orgosolo, dicembre 1954

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18. Orgosolo, estate 1956

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19. Orgosolo, estate 1956

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Un lavoro fondamentale è la mungitura. Questa avviene, in Orgosolo, in modo diverso dal consueto: il pastore, a gambe aperte, e con in mezzo un secchio, fa passare sopra le pecore madri ad una ad una e, trattenendole con le gambe per il tempo necessario le munge, lasciandole poi passare. Ăˆ la mungitura descritta da Omero. (F. Cagnetta, 1954)


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23. Orgosolo, Supramonte, dicembre 1954


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26. Orgosolo, Supramonte, dicembre 1954


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27. Orgosolo, Supramonte, dicembre 1954


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28. Orgosolo, Supramonte, dicembre 1954


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29. Orgosolo, estate 1956

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Orgosolo è costruito ad anfiteatro sul costone del monte verso la valle di Locoe; di fronte, alle pendici di un’altro monte, sta Nuoro. Giù, dove il paese termina e comincia la valle, c’è la chiesa della Madonna dell’Assunta sulla cui abbagliante facciata gli scorsi anni i banditi scrissero a caratteri neri i nomi dei condannati. Da allora ad uno ad uno, inesorabilmente, i martellati cominciarono a cadere «per mano d’ignoti». Alcuni lasciarono il paese, abbandonando beni e interessi si trasferirono a Cagliari nella speranza di sfuggire alla sorte; i più coraggiosi e i più disperati rimasero in paese vivendo nel sospetto e nel terrore. Solo di giorno osavano uscire e appena il sole calava si barricavano in casa, decisi a non aprire a nessuno sino all’indomani. (M. Giacobbe, 1957)


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32. Orgosolo, Festa dell’Assunta, agosto 1956


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33. Orgosolo, Festa dell’Assunta, agosto 1956


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34. Orgosolo, Festa dell’Assunta, agosto 1956


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80. Laconi, Festa di S. Ignazio, agosto 1956


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81. Laconi, Festa di S. Ignazio, agosto 1956


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E se vuoi un carnevale che non ce n’è un altro su tutta la terra, vattene a Mamoiada che lo inaugura il giorno di Sant’Antonio: vedrai l’armento con maschere di legno, l’armento muto e prigioniero, i vecchi vinti, i giovani vincitori: un carnevale triste, un carnevale delle ceneri: storia nostra d’ogni giorno, gioia condita con un po’ di fiele e aceto, miele amaro. (S. Cambosu, 1954)


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86. Mamoiada, Carnevale 1957

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