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In copertina: Francesca Devoto, Tina al pianoforte, 1936
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Grazia Deledda
MEMORIE DI FERNANDA prefazione di Mario Specchio
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Riedizione dell’opera: Memorie di Fernanda, in L’Ultima Moda, Roma, Perino, settembre 1888-giugno1889.
Deledda, Grazia Memorie di Fernanda / Grazia Deledda ; prefazione di Mario Specchio. - Nuoro : Ilisso, [2009]. 302 p. ; 18 cm. - (Bibliotheca sarda ; 136) I Specchio, Mario 853.912
Scheda catalografica: Cooperativa per i Servizi Bibliotecari, Nuoro
© Copyright 2009 ILISSO EDIZIONI - Nuoro ISBN 978-88-6202-047-3
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INDICE
7 Prefazione 15 Nota bio-bibliografica MEMORIE DI FERNANDA 21 23 25 29 35 39 43 47 52 55 58 62 66 70 73 76 80 83 85 89 92 95 98 103 107 109 112
I II III IV V VI VII VIII IX X XI XII XIII XIV XV XVI XVII XVIII XIX XX XXI XXII XXIII XXIV XXV XXVI XVII
116 119 121 124 127 131 134 138 141 145 149 153 156 159 163 168 172 175 179 182 186 189 192 196 199 205 209
XVIII XIX XXX XXXI XXXII XXXIII XXXIV XXXV XXXVI XXXVII XXXVIII XXXIX XL XLI XLII XLIII XLIV XLV XLVI XLVII XLVIII XLIX L LI LII LIII LIV
212 215 218 221 225 228 231 234 238 242 245 248 252 257 262 265 269 273 277 281 285 291 295 298 301
LV LVI LVII LVIII LIX LX LXI LXII LXIII LXIV LXV LXVI LXVII LXVIII LXIX LXX LXXI LXXII LXXIII LXXIV LXXV LXXVI LXXVII LXXVIII LXXIX
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PREFAZIONE
Ci sono libri che non si leggerebbero mai se non portassero la firma di un nome illustre ma che, una volta letti, gettano luce sull’opera complessiva dell’autore, e altri che hanno invece un valore puramente documentale o, al massimo, filologico. Diciamo subito che Memorie di Fernanda, pubblicato nel 1888, appartiene, per la Deledda, a quest’ultimo genere di libri. E neppure è agevole ravvisare nelle pagine di questo feuilleton la voce della potente creatrice di Canne al vento o Marianna Sirca. Grazia Deledda aveva diciassette anni quando scrive Memorie di Fernanda e alle spalle ha solo un racconto, Sangue sardo e un romanzo, Remigia Helder. Memorie di Fernanda rappresenta dunque il primo tentativo di un’opera di largo respiro sostenuto, dal punto di vista dei riferimenti culturali, da letture disordinate e voraci, Dumas, Sue, Hugo e molti romanzi d’appendice. Più tardi sarebbero venuti Scott e Balzac, e soprattutto i russi, Turgenev, Tolstoi, Dostoevskij, Gogol. Ma un regesto delle letture della Deledda, lo sappiamo, occuperebbe pagine e pagine. Nel 1888 la poco più che adolescente scrittrice non sa ancora quale potrà essere il suo percorso esistenziale né tantomeno quello creativo, ma ciò che sembra deflagrare è la necessità della scrittura e, all’interno di questa necessità, la connotazione primaria del fare artistico come vicenda di evasione e, contemporaneamente, di formazione. Ciò che colpisce a tutte le latitudini del romanzo è proprio questa ‘fatalità’ del narrare la cui prepotenza è inversamente proporzionale alla fragilità dell’assetto strutturale e alla disinvoltura della lingua che si avvale di un armamentario sette-ottocentesco, spesso melodrammatico, che affastella riflessivi enclitici, apocopi e troncamenti di aggettivi, contrazioni di articolo e negazione e che, soprattutto nelle prime pagine, rendono la lettura tutt’altro che agevole. 7
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La storia del romanzo ruota attorno alla vicenda base, narrata dal moribondo – ma poi redivivo – Guglielmo Ziska all’adolescente Fernanda, dell’assassinio di sua madre, Sarah, assassinio commissionatogli da Fritz Guëzmburg, padre di lei e marito della vittima. Ma il vero padre di Fernanda, svela in una narrazione fiume Guglielmo, era l’ex amante di Sarah che, in seguito a una seconda commissione criminale Guglielmo ucciderà proditoriamente durante un duello tra quest’ultimo e Fritz Guëzmburg. O meglio, crede di averlo ucciso. In realtà Eberto Roslandy – questo il nome del vero padre –, scampato miracolosamente alla morte, si ricongiungerà alla figlia e a una schiera di altri personaggi le cui vite, nel volgere del romanzo, si sono intrecciate a quella di Fernanda per fare, infine, giustizia del fellone Guëzmburg. In un certo senso la ‘trama’ del romanzo è tutta qui e la parabola tracciata dalle circa centocinquanta pagine altro non è se non una sorta di partenogenesi fantastica entro la quale si dispiega tutto l’armamentario del romanzo d’appendice o del feuilleton orrido fantastico i cui precedenti illustri potrebbero portare sino a Edgar Allan Poe e a Ernst Theodor Amadeus Hoffmann, quello degli Elisir del diavolo se, beninteso, nel frattempo l’edificio romantico non fosse stato svuotato di contenuto e ridotto a parodia di se stesso. I topoi di questa letteratura d’appendice vengono utilizzati e rimaneggiati in Memorie di Fernanda sino alla sazietà: delitti, agnizioni, ritrovamenti, intrighi, racconti nel racconto, contaminazione dei piani temporali, vissuti ingenuamente dalla Deledda come rituali estetico-storici. Rituali che sono però anche gabbie, stanze della tortura, come quelli, di ben altro spessore, che si configureranno nell’opera matura, quando, come uscendo da un sogno confuso, la Deledda non cercherà più l’evasione – o comunque non in questo senso, ma nella direzione di un processo di formazione che la liberi dalle strettoie dell’‘isola’ attraverso una radicale interiorizzazione di quelle stesse strutture antropologiche, quando cioè ritroverà, come scrive Dante Maffia parlando di Marianna Sirca: «Un mondo … che non sa divincolarsi dalle tenaglie 8
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Prefazione
dei rituali ma che nei rituali sa però indicare la perennità della vita, la precarietà, l’eternità del tutto».1 Di tutto questo, è chiaro, in Memorie di Fernanda non c’è ancora niente, così come vana sarebbe la ricerca di un filone poetico in qualche modo normativo che ci permettesse di arricchire à rebours la conoscenza del premio Nobel per la letteratura. La pubblicazione di questo romanzo ha, come già si diceva, un valore unicamente documentale. Ma sappiamo anche che ogni documento possiede una sua specificità comunicativa, quale che essa sia e, talvolta per analogia, più spesso per contrasto, anche Memorie di Fernanda può suggerire alcune considerazioni generali se non proprio generiche. La prima potrebbe consistere nello stupore per il coraggio con cui, nella Sardegna barbaricina, una ragazza poco più che adolescente, di buona famiglia “un po’ paesana e un po’ borghese”, affida, sull’ultimo scorcio dell’Ottocento, alle carte e alla stampa l’azzardo di una narrazione dove si parla di amori, passioni, intrighi familiari, uxoricidi e via discorrendo. È vero che la finzione letteraria così scoperta dovrebbe metterla al riparo dai commenti sospettosi e addirittura ostili che invece, come è noto, la scrittrice attirò su di sé con le prime pubblicazioni. Ma il punto non è questo, o meglio a interessarci non è tanto l’effetto quanto la causa. La pulsione irrefrenabile alla scrittura si manifesta cioè, sin dalle primissime prove nella giovinetta di Nuoro, come evasione e come trasgressione. Evasione che è per ora squisitamente fantastica e addirittura fantasmatica ma che rivela l’istinto di una puntigliosa acquisizione di reperti psicologici e di dinamiche affabulatorie che, una volta irregimentate, daranno i frutti che sappiamo. E del resto di evasioni è intessuta, anche fuor di metafora, gran parte della vicenda del romanzo, dalla gelida cella di San Makao, alla fuga dal campo degli zingari, ai continui spostamenti forzati grazie ai quali gli scenari del libro si dilatano, in una sorta 1. Cfr. D. Maffia, “Prefazione”, in G. Deledda, Marianna Sirca, Nuoro, Ilisso, 2007, p. 23.
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di proliferazione ininterrotta che conduce Fernanda dalla Germania alla Spagna, dalla Francia all’Inghilterra, dal Brasile alla Russia, dal fiume Segura al maestoso Danubio. Va detto, per non indurre in inganno il lettore, che la geografia del romanzo è tratteggiata con tratti rapidi e generici ed è comunque affidata ai colori di una tavolozza oleografica anch’essa di stampo tardoromantico, così che i paesaggi difficilmente acquistano vita propria, anche se, talvolta, un repentino scatto lirico riesce a illuminare certi scorci, come nella notte spagnola, di fronte al mare che è già, e resterà per la Deledda, cifra e metafora ma anche concreto orizzonte di una possibile, intravista libertà eppure stigma insulare di maliosa costrizione: «Regnava il profondo silenzio degli imbrunire di autunno, tanto diversi da quelli di estate. Il mare pareva un po’ agitato, nessuna barca lo solcava. Solo di tanto in tanto qualche uccello marino passava sfiorando le ombre, emettendo dei gridi lugubri e volando via. Il vento mi agitava i capelli, sentivo un brivido di freddo: tuttavia rimanevo immobile» (pp. 43-44). La geografia avventurosa del romanzo promana del resto da una autentica nostalgia per il viaggio che si fa quinta di una rappresentazione, approssimativa ma appassionata, dello spazio interiore che proprio nell’evasione ricompone le lacerazioni e le ansie adolescenziali, i fremiti di una sensibilità esasperata, consapevole fin da allora che la trasgressione della scrittura rappresentava, e avrebbe rappresentato, l’unica possibilità di emancipazione. E, se una nota originale è da ravvisare in Memorie di Fernanda, essa consiste proprio nella caparbietà con cui la Deledda focalizza il senso della vita dei personaggi – e dunque anche della sua – nella dinamica di eventi percepiti come processi ineluttabili, così come fatale è il viaggio che si attua, prima ancora che nello spazio reale, in quello psicologico del racconto, vale a dire nell’atto stesso del narrare che appare in questo momento alla scrittrice diciassettenne assai più importante degli stessi fatti narrati. Con ciò intendiamo sottolineare che proprio la debolezza strutturale dell’opera racchiude un interrogativo che è anche un’ipotesi progettuale sul futuro della scrittrice, perché, se l’appiattimento del tempo 10
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Prefazione
cronologico su quello psicologico, la proliferazione e, non di rado, la confusione dei punti di osservazione, la contiguità assillante del dato affabulatorio con quello velleitariamente analitico-descrittivo costringono il lettore a un continuo esercizio di equilibrismo, è anche vero che sono proprio questi gli elementi che, una volta liberatasi la Deledda dall’enfasi declamatoria e dal sentimentalismo irrelato, costituiranno alcuni dei capisaldi della sua narrativa. Quando cioè la suggestione picaresca si interiorizzerà per fare del viaggio un’esperienza fondante del processo di autodeterminazione e «il gioco dei punti di vista» così come «le strategie spazio-temporali» di cui parla Giovanna Cerina nella sua introduzione a Cosima,2 una volta convertito in forza centripeta ciò che ora è solo energia in autocombustione, diverranno articolazioni e nervature del suo microcosmo poetico e narrativo. E lo stesso discorso vale per quello che è poi il motivo dominante del libro, il filo che si dipana oltre, e nonostante, la ridda degli avvenimenti, e cioè il tema dell’amore e, a esso strettamente connesso nella Deledda, quello del femminile, della figura femminile. Non è casuale che i personaggi più vivi del romanzo siano proprio due donne: la bella e inquietante Flaminia, guardiaboschi e castellana, seduttrice e amazzone la cui figura è sbalzata con energia nei capitoli XXVI e XXVII che sono tra i più riusciti in assoluto, e la zingara Gretchen la cui voce «contrariamente al viso che aveva un’aria di crudeltà … era dolce, argentina, insinuante» (p. 144). A lei, che miscela orgoglio e coraggio, crudeltà e altruismo tzigano, la scrittrice affiderà l’ultimo atto vendicatore, quello che fa giustizia del perfido Fritz. Appare chiaro fin d’ora come la donna sia, per la scrittrice sarda e barbaricina, il luogo dove la natura ha collocato il crocevia tragico e grandioso dell’amore e della morte, l’alfa e l’omega della vita dei singoli così come della vicenda della specie. Nella donna, talvolta femme fatale, altre volte femme fragile, il tempo percorre a ritroso i suoi cunicoli e 2. Cfr. G. Cerina, “Prefazione”, in G. Deledda, Cosima, Nuoro, Ilisso, 2005, p. 8.
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NOTA BIO-BIBLIOGRAFICA
Grazia Maria Cosima Damiana Deledda è nata a Nuoro il 27 settembre 1871 in una famiglia agiata, «un po’ paesana e un po’ borghese». Il padre Giovanni Antonio curava i suoi possedimenti, si occupava di commercio e, per diletto, di poesia estemporanea. La madre Francesca Cambosu, donna di costumi severi, era dedita alla casa e alla cura dei sette figli. Frequenta la scuola fino alla quarta elementare, segnalandosi per le fantasiose composizioni in italiano; successivamente le vengono impartite in privato lezioni di italiano, latino e francese. Hanno un’influenza determinante nella sua prima formazione la storia della famiglia, segnata da eventi dolorosi, la vita e la cultura della comunità agro-pastorale del borgo barbaricino e la sua esperienza di lettrice autodidatta, in qualche modo avventurosa, che andava scoprendo nuovi fantastici mondi attraverso i libri e le riviste. Nell’Ultima Moda, rivista popolare romana di Edoardo Perino, diretta da Epaminonda Provaglio, pubblica nel 1888 Sangue sardo, suo primo racconto; seguono nello stesso anno Remigia Helder e il romanzo Memorie di Fernanda. A partire dal 1889 collabora a: La Sardegna, L’Avvenire di Sardegna, Vita sarda e altri periodici sardi. Nel 1890 pubblica la raccolta di novelle Nell’azzurro e, nell’Avvenire di Sardegna con lo pseudonimo di Ilia di Sant’Ismael, il romanzo Stella d’Oriente. Seguono: Amore regale (1891), Fior di Sardegna (1891), Amori fatali (1892). Queste prove d’esordio, accolte con favore da un pubblico femminile, ricalcano modelli della narrativa d’appendice. Nel 1892 ha inizio la collaborazione a Natura ed Arte, rivista di Angelo De Gubernatis, che la coinvolge in un progetto demologico nazionale. Il materiale folklorico da lei raccolto è pubblicato nella Rivista delle Tradizioni Popolari Italiane e poi in volume (Tradizioni popolari di Nuoro in Sardegna, 1894). L’incontro con la cultura popolare è l’occasione per riflettere 15
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MEMORIE DI FERNANDA Oh! fu il fatto più atroce… il fatto più empio di cui mai si udisse. Shakespeare, Il re Riccardo III
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I
…Allorché mi svegliai vidi ch’io era in un’angusta cameretta, se così potevasi chiamare quella bruna e fetida muda. Il suolo, le pareti, la volta scomparivano sotto uno strato di musco verde linfatico e causato dall’eccessiva umidità; da un lato v’era una porta di ferro con catenacci arrugginiti, dall’altro una finestra con grossa inferriata. Il letticciuolo di legno ove ero stesa io, una sedia di paglia, vecchia e tarlata, un tavolino dello stesso genere e stato, un’anfora e una tazza ne erano i mobili. Quel bugigattolo conteneva un solo bene: l’abbondante luce che si precipitava dalla gran finestra di stile gotico. Dapprima credetti di continuare a dormire e sognare, ma mi accorsi che era realtà dalla troppa lunga durata di quella specie di sonno. Non ostante non mi mossi se non dopo molto tempo. Ma quando m’inchinai per cercare nella sedia la mia veste bianca, gettai un grido. Avevo trovato una sottana di tela azzurra con una cintura di cuoio nero, da cui pendeva un cordonetto al quale era attaccata una piastra rotonda col numero 17. Calze di lana azzurra e scarpette di cuoio nero completavano quell’abbigliamento che mi aveva strappato un grido. Perché? Avevo riconosciuto la toeletta prescritta alle prigioniere di San Makao… E che cos’era questo San Makao? Era una torre nera, alta e merlata che sporgeva tra due orribili rupi e guardava sul mare. Là si custodivano i prigionieri dei dintorni. Una leggenda diceva che una volta, nel medio evo (?!.) là v’era un castello abitato da misteriosi personaggi. Ma un nebuloso e terribile delitto vi era stato commesso, e d’allora il castello fu abbandonato. Gli anni, i secoli avevano distrutti i giardini e resi ruderi le altre torri. 21
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MEMORIE
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Ma un giorno il governo poco superstizioso in fatto di leggende e molto in fatto di quattrini, aveva fatto esplorare l’unica e ancora forte torre che restava, e vedendo che ciò procurava una piccola economia ne aveva fatto una prigione. Stuzzicata dalla strana leggenda, una volta io avevo voluto visitare da cima a fondo la torre di San Makao, e certo, mi trovai un po’ delusa nel trovarvi umidi e malsane celle ammobigliate sullo stesso stampo di quelle dove allora mi trovavo… Mi vestii silenziosamente. Avevo fame. Mangiai con ribrezzo un tozzo di pane nero che trovavasi sopra la tavola, e bevetti una tazza d’acqua. Il mio pensiero ancora confuso non si posava in nessun luogo, sentivo come una folla di idee indistinte ballare la ridda del caos nel mio cervello. Ebbi un sorriso amaro. Barcollando mi avvicinai alla finestra e cercai di aprirla. Essa cedette ai miei sforzi. Allora mi appoggiai al davanzale di mattoni corrosi e alle sbarre di ferro, e mi strinsi la fronte fra le mani agghiacciate. Disotto a me il mare delle coste orientali di Spagna si stendeva limpido, azzurro, colle sue onde brillanti, colle sue lunghe striscie di spuma argentea. E al di sopra, nel cielo turchino, il sole, d’autunno, un po’ pallido, vibrava i suoi raggi d’oro sul mare infinito… Un alito fresco di vento, impregnato di profumi marini, passò sulla mia arida fronte, fra i ricci dei miei capelli biondi. Fu come un soffio divino. Le idee mi tornarono; mi ricordai di tutto e fremetti. Sorrisi ancora amaramente. Stesi ambe le mani verso il mare, verso il cielo, nello infinito, poi col pugno chiuso mi battei la fronte: la fronte pallida, ardente, ove era passato un pensiero sanguinoso, terribile. Ma per spiegarvi quel pensiero bisogna che io ritorni indietro e vi narri una storia di orrore…
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II
Ero nata a Berlino. Mio padre era protestante e si chiamava Fritz Guëzmburg. Io non avevo conosciuta mia madre, ma sapevo che era ebrea e si chiamava Sarah von Mark. Sino ai dieci anni risiedetti a Berlino. Ho pochi ed indistinti ricordi circa la mia infanzia. Mi ricordo solamente che mio padre era giovanissimo; si era ammogliato a venti anni, nobile, straricco ed aristocratico. Percorreva la carriera diplomatica. Abitavamo in uno stupendo palazzo di marmo, dietro cui si stendevano magnifici giardini. Non andavo a scuola. Una bella signora che abitava un appartamento del nostro palazzo, m’insegnò a scrivere, a leggere, a suonare e a ballare. Quella stessa signora mi conduceva a chiesa, a passeggiare e a visitare le mie piccole amiche, sempre in bella carozza di seta a due cavalli. Avevo cameriere e abiti di velluto: era a mia disposizione un grande appartamento mobiliato con lusso. Facevo colazione e pranzo con mio padre, che non invitava mai nessuno ai nostri pasti luculliani. Fritz Guëzmburg era, come ho detto, giovinissimo, e aristocratico sino all’estremità delle unghie. Aveva capelli e baffi morbidi e biondi, la pelle bianca, pallida, il profilo regolare, e grandi occhi verdi grigi, contorniati da ciglia brune, e da un cerchio leggermente lucido. Quei grandi occhi mi mettevano un brivido ogni volta che si volgevano su me. Si è che avevano una strana impressione, un’impronta di cupa tristezza; un raggio delle passioni di Guëzmburg, che passava traverso le ciglia semi-chiuse continuamente. Egli parlava poco, non rideva mai, e una strana linea si disegnava nella sua fronte pallida, fra le sopraciglia nere e aggrottate. Era sempre vestito di nero. 23
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Io l’amavo poco, mi pareva di amare di più la mia amica Edvige Scoël, e il mio pappagallo Giove: e del resto anche Fritz mi mostrava poca affezione, benché mi facesse dare una educazione brillante. A dieci anni cominciavo ad avere del chic. Suonavo e ballavo maravigliosamente, dipingevo e balbettavo qualche poco di francese, di inglese e italiano. Ordinavo le mie toelette e leggevo giornali colle loro rispettive appendici. Guëzmburg diceva che avevo dell’ingegno precoce, e la mia institutrice (mi pare che si chiamasse Lena Wintorg) lo affermava… Infine io vivevo felice nella mia solitudine, in mezzo al lusso delle sale del mio palazzo e dei domestici in livrea, colle mie bambole più alte di me e coi fiori. Io amavo i fiori dall’acre odore, dalle foglie color sangue, specialmente i geranii e i cactus. Ma un giorno la mia felicità fu turbata. Guëzmburg mi disse: – Fernanda, tra un mese dovremo lasciare Berlino. Guardai stupefatta mio padre. – Perché? – domandai. Fritz mi guardò anch’egli coi suoi occhi grigi, privi d’ogni raggio di gioia, ma non rispose. – Perché? – ripetei. – Andremo in Ispagna, – seguitò poi – sono stato addetto all’ambasciata germanica presso la Corte di Sua Maestà Cattolica. – A Madrid? Fritz non rispose. Uscì stringendosi nelle spalle. Io mi sdraiai più comodamente sul divano del mio salotto e seguitai a leggere le notizie del Wossische Zeitung. In verità, poco mi premeva l’andare in Ispagna o rimanere a Berlino, purché avessi dei vestiti, delle bambole, dei giornali e dei fiori rossi… La nostalgia per la mia fulva patria non sarebbe di certo passata nella mia anima. Che volete? Avevo dieci anni e leggevo le appendici dei giornali!… 24
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III
Due mesi dopo, io e Fritz eravamo a bordo della Marie, una stupenda nave che viaggiava da Marsiglia ad Alicante. Prima eravamo passati a Parigi, dove mio padre aveva affari da sistemare. Non ho nessun ricordo della gran città, perché l’attraversai in carrozza, e il giorno che vi stetti, stetti rinchiusa nell’albergo, in una camera le cui pareti mi moltiplicavano all’infinito colle loro grandi specchiere di St. Gobain a cornici di bronzo. Poi andammo a Marsiglia e partimmo sulla Marie. Annottava. S’era in alto mare vicini alle coste orientali della Spagna. Ci trovavamo sul ponte: Fritz seduto su una panchetta, io appoggiata al parapetto di legno della Marie; ci godevamo il fresco di una bella notte dopo gli ardori di una giornata di luglio. Le stelle splendevano nel cielo turchino, la Marie si lasciava dietro un solco fosforescente, e all’oriente una striscia color d’argento indicava che la luna non tarderebbe ad alzarsi. Ero piccola ancora, tuttavia sentivo qualche cosa di poetico nella mia anima non ancora sbocciata; non potevo pensare all’amore; pensai a mia madre… Strisciai sul parapetto e mi sedetti vicino a Fritz. Non se ne accorse perché rimase immobile, cogli occhi grigi semichiusi rivolti alle onde. Mi rizzai sulla panchetta, e accostai la mia bocca al suo orecchio. Volevo parlargli di mia madre. Io non gliene avevo mai parlato, ma in quel momento, sotto i tremuli raggi delle stelle, sentivo tale un trasporto d’affetto per la defunta, che volevo sapere… che cosa? cento cose!… Sicché all’orecchio di Guëzmburg mormorai con voce tremula: – Sarah von Marck… Non potei proseguire… Mi strinsi al petto le piccole braccia nude e sentii come un alito di ghiaccio passare sulla mia fronte. 25
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Che cosa era avvenuto? Qualche cosa di orribile, qualche cosa che io non dimenticai mai più e che in quel momento mi fece una sensazione che non potrei spiegare. Come dissi, Fritz meditava, e non si accorse di me che pronunziavo al suo orecchio il nome di mia madre… Se egli avesse ricevuto una potente scossa elettrica, io credo che non avrebbe avuto tanto tremore come quello che gli suscitò la mia voce e quel nome. Diede un terribile sbalzo che lo gettò a traverso del parapetto due metri distante da me. E in quella notte oscura, alla sola luce delle stelle, io vidi il corpo di Fritz agitarsi come colto da tremenda nevrosi, vidi il suo viso diventar livido, la sua bocca contrarsi, e i suoi occhi verdi grigi spalancarsi e mandare un raggio color celestegiallo, come la fiamma dei fuochi fatui. Mandò un grido che mi parve un rantolo… In quel punto la luna si alzò dal mare, grande, rossa, senza raggi. Mi parve un’immensa foglia di geranio sanguinante. Sangue! Sangue! E una striscia come di fiamme e di sangue mi passò negli occhi. Guardai Fritz… mi ricordai di mia madre, non vidi più nulla e caddi all’indietro svenuta. Quando riaprii gli occhi, pochi istanti dopo, ero sempre stesa sulla panchetta. Fritz era davanti a me, mi faceva odorare una boccetta di non so che cosa. La luna color d’oro saliva sul cielo; i suoi primi raggi obbliqui illuminavano il volto di mio padre. Lo guardai: egli era più pallido del solito, ma era impassibile e i suoi occhi erano tornati senza raggi a semichiudersi. – Fernanda, – mi disse prendendomi le manine fredde, – Fernanda, perché ti sei sentita male?… – E voi?… – esclamai con stupore. – Ah! io! È stata la sorpresa… Non mi ero accorto di te, e la tua vocina mi ha spaventato… Come ti senti ora? 26
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– Bene! – dissi rizzandomi a sedere. Ma le ragioni che adduceva Guëzmburg non mi soddisfecero. Quella scena m’aveva gettato innanzi un velo, un’ombra che non si staccò da me se non molto tardi. Mio padre mi si sedette vicino. – Ebbene! – disse con una voce che mi sembrò tremasse. – Fernanda, di che cosa volevi parlarmi?… Lo guardai di sbieco, e mi strinsi nelle spalle. – È inutile! – risposi, e volevo aggiungere: – È anche pericoloso, perché vi reca tanto spavento!… – ma mi trattenni e alzandomi ritta stesi il dito in avanti. La luna splendeva bene. Nel mare era cessata ogni fosforescenza, le stelle cominciavano a impallidire sul cielo biancastro, e le onde si frangevano tranquillamente contro gli speroni della Marie. In lontananza, molto in lontananza, vedevo qualche cosa. Era una immensa linea nera, leggermente semicircolare, frastagliata, e ai cui due punti estremi splendevano punti microscopici di luce. La additai a mio padre. Egli montò il suo cannocchiale da viaggio e guardò. – Fra poche ore – disse – saremo giunti alla nostra meta. – Come?… – Quell’immensa linea ricurva sono le coste della penisola Iberica, quei due punti estremi sono due città, credo, quella del nord Villajoyosa, quella del sud Alicante. Non ne sono sicuro però. Poi porgendomi il cannocchiale soggiunse: – Guarda, Nanda, vedi qualche cosa agitarsi quasi nel mezzo di quella costa? – Sì. – È un fiume, mi pare. Nel medesimo istante, una troppa fresca brezza marina passò sulle nostre teste. – Fa freddo, Nanda, scendiamo nelle nostre cabine. E Fritz ci si incamminò. Io lo seguii. Pochi istanti dopo ero coricata nel letto della mia cabina di legno grigio lucido. 27
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FERNANDA
Spensi il lume e rinchiusi gli occhi. Sentivo la testa pesarmi e affondarsi sui cuscini. Era un dormi-veglia inebbriante, come quello che si prova quando si ha la febbre. Mi sembrava che fossi di piombo. Dei geranii, dei cactus, delle rose gigantesche, purpuree, fiammanti, ballavano una ridda intorno al mio letto. Dietro v’era una luna color sangue che velava un viso livido dagli occhi grigi e raggianti: Fritz! Ma a un tratto una figura vestita con uno stupendo costume all’ebrea si alzò avanti di tutto ciò. Era mia madre. Ell’era quale l’avevo vista in ritratto, bianchissima, cogli occhi ovali neri, e i capelli a grandi trecce. Una macchia di sangue sporcava il lato sinistro del suo kaso 1 di velluto verde a ricami di oro. Sentivo la gola stretta, il cuore palpitare ferocemente; non era più un sogno il mio, era un incubo spaventevole. Io non avevo mai sognato di mia madre. Perché essa veniva a turbare i miei sogni, dopo la scena della coperta? Mistero! Sarah mi porgeva un pugnale con una mano, mentre con l’altra mi indicava la macchia di sangue del kaso. Lontano vedevo delle fiamme inalzarsi al cielo. L’Ebrea gettò a terra il pugnale, indicandomelo, poi si scostò, e mi mostrò a dito il viso livido di Fritz Guëzmburg… indi sparì tra le fiamme!… Mandai un gemito e mi svegliai. Avevo la testa bagnata di sudore, le mani tremanti. Avevo paura, perché infine contavo appena dieci anni. – Perché? Perché? – domandai. L’eco della cabina mi rispose: – Mistero! Mistero!… Sorrisi un poco, poi mi riaddormentai tranquillamente.
1. Il kaso è una specie di sottoveste senza maniche, corta e ondeggiante ai due lati, che le Ebree portano sopra un corpetto detto punta.
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IV
Quando poche ore dopo mi svegliai, fui molto sorpresa di trovarmi in una bellissima camera da letto, ferma. Il sole vi penetrava in abbondanza, indorando le specchiere veneziane e le tappezzerie di Beauvais che coprivano le pareti. Attraverso le tende di raso azzurro della finestra spalancata, vedevo il mare e il cielo pure azzurri e la Marie ancorata a poca distanza. Ciò di fronte. A destra, per mezzo di un’altra finestra, vedevo una stupenda campagna verdeggiante, un piccolo villaggio avvolto in una nebbia azzurra, alla cui estremità s’inalzava un bel castello bianco. Poi più in là, delle montagne coperte di boschi, e una grande striscia argentea che più tardi seppi essere un affluente del fiume Segura. Era una stupenda mattina di luglio, una di quelle mattine conosciute soltanto in Ispagna e in Italia, coronata di rugiada splendente come il diamante, invasa dall’oro dei raggi del sole… Io sentii una immensa gioia nell’anima, scordai il terribile sogno della notte prima, e sorrisi al creato adorno delle sue più splendide vesti. La portiera della mia camera si agitò lievemente e fra la stoffa di raso azzurro apparve la testa pallida di Fritz. – Buon giorno! – gridai. – Buon giorno, Nanda. Mio padre rialzò le tende del mio letto e mi domandò se mi sentivo bene. In verità! Fritz non si era mostrato mai così premuroso e tenero. Pareva che volesse farmi dimenticare qualche cosa di spiacevole. – Siamo ad Alicante? – domandai. – E perché mi risveglio qui, mentre mi addormentai nella Marie ? – Ah! si è che dormivi così bene, che credetti di farti trasportare a terra senza svegliarti. 29
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MEMORIE
DI
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FERNANDA
– Siamo ad Alicante? – ripetei. – No, siamo nel castello di Estarêz, in riva al Mediterraneo. Alicante è molto lontano. Quel villaggio lì è Sant’Iosè come pure Sant’Iosè quel castello bianco, e Di Sant’Iosè i signori che vi abitano. E seguitò a darmi delle spiegazioni. Il castello d’Estarêz era assolutamente nostro. Aveva intorno dei bei giardini, e un vasto parco di quasi mille jugeri, magnificamente coltivato, per la caccia. Fritz sarebbe andato a Madrid, ove avrebbe preso in affitto un appartamento, e sarebbe venuto a passare le domeniche e tutti i giorni di festa a Estarêz. Perché non mi portava a Madrid? Perché? Ci erano tanti perché, ma non gliene indirizzai nessuno. I miei dieci anni non mi suggerivano nessun pensiero molesto. Ero contentissima di rimanere lì, in quella solitudine verdeggiante, in riva al mare… sulle rive frastagliate. – Vuoi levarti? – domandò Guëzmburg. – Sì. – Farò venire la tua cameriera. Altra sorpresa… Non avevamo condotto con noi, da Berlino, nessun domestico e nessuna domestica. Donde usciva quella cameriera? Mentre mi facevo quella domanda, Fritz mi lasciò. Poco dopo entrò una bella fanciulla. Poteva avere diciassette anni. Era bruna, rosea… con stupendi occhioni neri e capelli pure neri e arricciati. Vestiva un abbagliante abito di mattina da cameriera che si aderiva meravigliosamente alla sua taglia alta e sottile, e al suo portamento elegantissimo. Pareva una signora. Le sue rosse labbra sorridevano, ma nei suoi grandi occhi passava una striscia di mestizia, di vergogna. – Buon giorno! – mi disse inchinandosi e con cattivo tedesco. – Buon giorno. – Qual abito vuole indossare? Avevo portato da Berlino tutte le mie vesti. – Uno qual siasi, – dissi. 30
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La spagnuola mi vestì un piccolo accappatojo e mi condusse nello stanzino di teletta, attiguo. Era piccolissimo, tappezzato con una stoffa di paglia e fili d’argento; v’erano stupende vasche di marmo azzurro, degli specchi, e una gran toeletta di ebano intarsiata. La fanciulla mi spogliò, mi mise dentro una vasca e mi lavò con acqua tiepida e cold-cream. Poi mi pettinò alla moda, e mi vestì un abitino di velluto verde, sopra la biancheria ricamata… bianchissima e profumata. Frattanto discorrevamo. – Come vi chiamate? – domandai. – Cruz di Beleador. Trasalii: quello non era un nome comune. – E lei? – Io? non ve lo hanno detto? mi chiamo Fernanda Guymburg – le risposi in ispagnuolo. A sua volta Cruz trasalì. – Ah! sa lo spagnuolo lei? – domandò in quella lingua. – Sì, dacché lo parlo. Un poco! – Dove lo ha appreso? – In Berlino. Dal mio professore. E voi il tedesco?… – Il tedesco?… Ah! lo stesso: da un professore. – Voi?… – e sorrisi con un sorriso che voleva dire: – Una cameriera darsi il gusto di imparare le lingue straniere? Puh!… – v’era del disprezzo. Cruz non mi rispose, ma alzò verso di me i suoi occhi neri e mesti, dove vidi brillare una lacrima. Compresi ciò che veramente era. Cruz era di una famiglia ricca e nobile decaduta. Ne ebbi pietà e rispetto. Da quel giorno fu tenuta più come damigella di compagnia che come cameriera. Cruz seguitò a vestirmi in silenzio. Quando finì, mi guardai nello specchio. Parevo uscire dalla scatola; sorrisi. – Faranno colazione alle undici, – disse Cruz. – Per ora che cosa vuol prendere? – Una tazza di caffè. 31
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MEMORIE
DI
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FERNANDA
Cruz suonò il campanello. Poco dopo ero servita da un piccolo cameriere in livrea. – E ora, – dissi restituendo la tazza. – Cruz, volete farmi conoscere il castello? – Naturalmente… E mi condusse attraverso di Estarêz. Quel castello non era molto grande, né moderno. Più tardi, osservando le grandi finestre a sesto acuto, i balconi gotici, il ponte levatoio di ferro, e le gallerie di marmo bruno che davano sul cortile interno, mi convinsi che Estarêz era costruzione medievale. I suoi fondamenti erano sulla roccia: in alto delle torri che guardavano sul mare, v’erano bei terrazzi fioriti, specie di giardini pensili, e dai merli ricadevano grandi grappoli di edera e di liane di un verde cupo, sui muri tinti d’un giallo rame, imbrunito dal tempo, e davano a Estarêz un bizzarro, poetico aspetto. Del resto, internamente, era ammobiliato elegantemente, alla moderna, con abbondanza di luce. Ne fui rapita, e lassù, dai terrazzi, mandai un’esclamazione di gioia. Che stupendo paesaggio! Erano profili di villaggi, di valli, di monti lontano, che si perdevano in mezzo ad una lussureggiante verzura, avvolti di nebbia azzurra, sotto un cielo limpidissimo. Poi più in qua, delle colline, brune, un po’ sterili, coi soli fianchi coperti di boschi, poi praterie, poi il fiume che si perdeva nel bosco, e ricompariva in lontananza per gettarsi nel Segura. E poi il villaggio di Sant’Iosè, col suo palazzotto bianco che si ostinavano a chiamarlo castello. Giù, in riva al mare, sotto gli alberi, vi erano cinque o sei casine nascoste tra il fogliame, con le persiane verdi. Cruz mi disse che servivano per alcuni possidenti di Alicante che andavano là ogni estate per godere il fresco dei boschi, e pigliarsi i bagni in santa pace, democraticamente!… Il nostro parco, grande in verità, era benissimo coltivato, cinto di muro altissimo: il fiume ne attraversava un buon pezzo, e in fondo v’era una casetta per il guarda-boschi. 32
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Dal lato sinistro di Estarêz v’era una grande spianata con parapetti naturali che prospettava nel mare. Da un cancello di ferro si entrava nel giardino. Il giardino non era vasto, ma era deliziosissimo coi grandi alberi, con le cascate d’acqua e colle spalliere di verzura a grappoli di fiori; v’erano statue e molti fiori. Era ben tenuto, ombroso e fresco. Ciò che mi stupì maggiormente fu di vedere che, diviso per mezzo di una siepe verde, impenetrabile dal nostro, v’era un altro giardino bellissimo, nel cui fondo si innalzava un bel palazzo con veroni di ferro artisticamente lavorati e tinti di verde. Quei veroni erano chiusi. – Chi ci abita? – domandai a Cruz. – Nessuno. – Come? – Nessuno, eccettuato un vecchio giardiniere con la moglie che tengono palazzo e giardino in buono stato. – È sempre così? – No! Il padrone credo che sia di Villajoyosa. Egli con la famiglia viene qualche volta in estate e autunno per passare la stagione calda, ma siccome è ricco e possiede altre ville, il più delle volte affitta quel palazzo. – Ah! va bene. Bastava. Avevo fatta minutamente l’escursione di Estarêz, dai terrazzi al vestibolo in cui mi si pararono tutti i miei nuovi domestici in livrea. Salutai affabilmente. Quando rientrai dal parco che visitai solo sino alla casetta dei guarda-boschi, ero stanca. Erano le undici, il sole dardeggiava i suoi raggi di luglio, era caldo, ma io mi sentivo allegra, felice. Dicevo a me stessa che tutto ciò era un paradiso per me, che era sin troppo, sin troppo. Entrai nella sala da pranzo. Vi era un fresco deliziosissimo. Dalle finestre grandi, semichiuse, che davano sul giardino, attraverso le cortine verdi, penetrava una leggera luce verdognola. La sala era al pian terreno. 33
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FERNANDA
Mi sedetti sulla tavola sontuosamente imbandita per due. Entrò Fritz. Egli sorrise e mi baciò in fronte, cosa che non aveva mai fatto. Lo ripeto: egli pareva occupato a farmi dimenticare qualche cosa, colle sue carezze che probabilmente non gli venivano dal cuore.
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V
– Sei contenta? – mi disse. – Contentissima. – Io partirò domani, Fernanda: stasera giungerà una signora di Madrid. – A che fare? – È la tua nuova istitutrice che compirà la tua educazione. Quando sarai grande ti porterò con me alla capitale: per ora resterai qui ad istruirti, come in un collegio. – Come si chiama quella signora? – Donna Anita Bellayos. – Va bene! E seguitammo a mangiare in silenzio. Mentre prendevamo il caffè, si udì il roteare di una carrozza sulla strada, e uno squillo violento di campanello al cancello del giardino. Io trasalii. – Chi sarà?… – esclamò mio padre. Poco dopo entrò un domestico. – È arrivata donna Anita Bellayos! – disse. – Ah! ha anticipato! – Va bene, – disse Fritz. – La potete far entrare qui. Il domestico uscì e rientrò con donna Anita. Era una donna giovane ancora, vestita di nero. Il suo visino ovale e pallido, gli occhi azzurri, i capelli castagni e i lineamenti finissimi mi colpirono vivamente. Dove diamine avevo visto quella signora? Ci eravamo rizzati, e l’accogliemmo cortesemente, famigliarmente. Donna Anita parlava ammirabilmente il tedesco. Mi baciò in fronte e mi chiamò «figlia mia», e Fritz le servì il caffè. Parlammo a lungo nella penombra verde della sala da pranzo, mentre fuori i grandi alberi susurravano. 35
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MEMORIE
DI
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FERNANDA
Donna Anita non era bella, ma era molto simpatica; ella era istruitissima e spiritosa. Sin dalle prime andai in estasi per la sua pronunzia spagnola e per il suo piedino, e seguitavo a guardarla parendomi sempre di averla vista altra volta. Ma non mi ricordavo. Finalmente donna Anita disse d’essere vedova di un ufficiale tedesco, morto da pochi anni, l’anno stesso che si erano sposati. Una lacrima le tremolò sul ciglio. Il defunto sposo si chiamava Carlo Scoël… Quel nome mi fece ricordare. Io avevo vista Anita in casa di Edwige Scoël, una mia amica. L’avevo però vista… dipinta in un gran ritratto a colori. Carlo era cugino di Edwige. Parlammo della famiglia Scoël. Donna Anita non era stata che poco tempo in Prussia… e alla morte di suo marito aveva dovuto ritornarsene in Ispagna, poverissima, perché Carlo era cadetto e non aveva nulla. Era costretta a fare l’istitutrice. Uscimmo dalla sala da pranzo, verso le due. A mia volta condussi donna Anita attraverso il castello, e le assegnai il suo appartamento. Ella sembrava felice quanto me. Era allegra sempre, e diceva tante cose che mi facevano ridere. Quando il sole tramontò, ci vestimmo e accompagnate da Fritz e da Cruz andammo a visitare il villaggio di San Josè. Non era brillante no, quel villaggio, ma era carino colle sue casette basse, cogli orti pieni d’alberi, col suo castello bianco. Le donne erano tutte brune e robuste, avevano un costume rosso e verde, e una specie di calottina bianca nei capelli neri, raccolti a trecce. Gli uomini erano quasi tutti pescatori, e v’erano pure molte donne che remavano benissimo, e pescavano tutto il giorno. Il pesce lo portavano ad Alicante. 36
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