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In copertina: Bernardino Palazzi, Terrazza, 1955 (particolare)
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Grazia Deledda
NOSTALGIE prefazione di Giorgio Todde
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Riedizione dell’opera: Nostalgie, Milano, Treves, 1928. Edizione originale: in Nuova Antologia, Roma, gennaio-marzo 1905.
Deledda, Grazia Nostalgie / Grazia Deledda ; prefazione di Giorgio Todde. - Nuoro : Ilisso, [2009]. 249 p. ; 18 cm. - (Bibliotheca sarda ; 135) I Todde, Giorgio 853.912
Scheda catalografica: Cooperativa per i Servizi Bibliotecari, Nuoro
© Copyright 2009 ILISSO EDIZIONI - Nuoro ISBN 978-88-6202-046-6
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INDICE
7 Prefazione 17 Nota bio-bibliografica NOSTALGIE PARTE PRIMA 25 I 44 II 68 III 81 IV 85 V 106 VI PARTE SECONDA 125 I 138 II 157 III PARTE TERZA 171 I 186 II 206 III 222 IV
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PREFAZIONE
Il 15 aprile del 1905 Ugo Ojetti recensisce sul Corriere della Sera il primo romanzo borghese di Grazia Deledda, Nostalgie. La scrittrice abbandona boschi, rocce, anfratti, paesi montani per trasferirsi nel mondo quotidiano e antimitologico degli impiegati dello Stato. L’opinione di Ojetti è nel complesso assai negativa benché la fama della Deledda conoscesse già un importante riconoscimento anche internazionale. In Italia Ruggero Bonghi (1816-1895), che Natalino Sapegno definisce “vecchio manzoniano”, aveva già scritto una lettera/prefazione ad Anime oneste (1895) a partire da un’idea, contenuta evidente nel titolo della sua opera, Perché la letteratura italiana non sia popolare in Italia, riconoscendo nella sorprendente autodidatta barbaricina la capacità di “creare” anche nella penisola una letteratura popolare che altre nazioni avevano da tempo prodotto riuscendo a evitare una serie di irritanti “ismi”: «Romanticismo, realismo, psicologismo, naturalismo, idealismo, simbolismo». Anni dopo Attilio Momigliano, il quale insegnò al ginnasio nuorese negli anni Venti, sosterrà una tesi analoga nella sua Storia della Letteratura Italiana e la svilupperà sino a scrivere che «nessuno, dopo il Manzoni, ha arricchito e approfondito come lei, in una vera opera d’arte, il nostro senso della vita». Nel 1896 Luigi Capuana, spinto dalla sua antica passione per la letteratura popolare, commenta positivamente La via del male. Capuana sottolinea i forti «elementi di originalità» nella narrazione deleddiana, incoraggia la scrittrice a proseguire in quella linea di stampo verista e regionalista, ma completerà il suo giudizio con una punta critica rilevando, per esempio, «l’insignificanza assoluta dei personaggi», anticipando l’articolata critica del Sapegno il quale attribuisce sostanzialmente alla nostra autrice un’incapacità, mai risolta se non 7
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in Cosima e La Madre, di approfondimento psicologico dei personaggi, talora perfino bozzettistici, comunque “inchiodati” in un grandioso ed eterno dissidio morale, dostojevskiano ma solo in superficie, e mai del tutto approfondito attraverso un’adeguata analisi psicologica. Ritorneremo più avanti sul tema del “romanzo popolare” e anche sull’incompletezza dei personaggi attribuitale dal Sapegno. Torniamo a Nostalgie. Dopo l’interesse suscitato agli esordi, la trentaquatrenne nuorese, fantasiosa e immaginifica, esce per la prima volta dal mondo arcaico e selvatico dell’isola, per entrare nella modernità borghese romana. Ojetti – vedremo poi i possibili perché – stronca, lecitamente, il cimento deleddiano con il romanzo borghese, ma associa alla critica letteraria una sorta di “disonesta” intromissione nella vita privata della scrittrice. Scrive Ojetti che la Deledda «è escita dall’isola». Che l’autrice voleva dimostrare come la propria arte non si limitasse all’esotico, al selvaggio, al primitivo capaci di colpire “l’uomo bianco del Continente”. Sostiene che i personaggi di Nostalgie sono tanto «mediocri e monotoni che ogni contadino sardo nell’Elias Portolu o in Cenere val più di loro e con un sol gesto avvince più tenacemente la nostra attenzione». Quindi, sino a qui, un riconoscimento delle qualità letterarie della nuorese ma nel contempo la dichiarazione del fallimento di un tentativo di “emancipazione” dai temi che, secondo il critico, costituiscono il cuore della narrativa deleddiana. Poi il tono inacidisce sino, si direbbe, al livore. «Nostalgie», dice Ojetti, «è il romanzo d’una provinciale e non solo ne è provinciale l’eroina ma anche la scrittrice». Il critico rasenta poi l’insolenza nel riferimento sarcastico al mondo burocratico dal quale proviene il marito della Deledda definita, appunto, «moglie di un impiegato del Tesoro». Un dato letterariamente irrilevante, si direbbe, che però entrerà, sia pure parzialmente, nella vita spiccia della cultura nazionale del tempo. 8
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Prefazione
Quell’articolo, utile e condivisibile, guida il lettore quando si limita all’ambito letterario, diviene inutilmente beffardo quando si allarga al diretto riferimento familiare. All’acrimonia di Ojetti farà riferimento nel giugno dello stesso anno il critico del Giornale d’Italia, D. Oliva, e ne capovolgerà il giudizio. Ojetti – nato anche lui, come la Deledda, nel 1871 – era dotato di intelletto acuto e versatile: fu storico dell’arte, giornalista, perfino, si direbbe oggi, “ambientalista”, benché la parola non apparisse nemmeno nei vocabolari del tempo, firmatario del Manifesto degli intellettuali per il Fascismo, autore di narrativa oggi dimenticata, creatore di celebri aforismi per i quali, invece, è ricordato, direttore del Corriere della Sera dal ’26 al ’27. Insomma una forte personalità, talvolta incombente, nel panorama di quegli anni. Oltretutto, una chiave di lettura utile alla comprensione del romanzo e del clima letterario, e non solo, di quegli anni è che Ojetti intrattenesse amichevoli rapporti con Luigi Pirandello. E proprio da questo articolo parte e si dipana il mai risolto rapporto tra la Deledda e lo scrittore siciliano, contrassegnato da una grande lontananza fisica e spirituale ma anche da un parallelismo non del tutto casuale. Ambedue Nobel a circa dieci anni di distanza, tutt’e due morti nel 1936 a pochi mesi l’uno dall’altra. Mai risolto, verosimilmente, anche a causa della profonda diversità dei loro caratteri: istintiva l’una, labirintico l’altro, attenta a un realismo pittorico delle figure lei, esploratore delle profondità dello spirito lui. E poiché sarà utile al lettore di Nostalgie risalire alle temperie dell’epoca, alla vita quotidiana dell’autrice – che è poi la stessa dei suoi scritti –, sgombriamo preventivamente il campo dalla pretesa emarginazione e dalla solitudine che condanna l’isola e i suoi abitanti, anche quelli “emigrati”, a un cliché che ancora oggi perdura e ricopre di una patina di vittimismo l’intera psicologia della comunità isolana. Sono numerose, all’epoca, le personalità sarde che smentiscono l’eterno lamento sardo di chi subisce torti e ingiustizie, costretto, in desolante solitudine, a impersonare comunque e per sempre la Vittima del Fato. 9
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E, in contrasto con la pretesa “maschera della solitudine”, tanto potente diviene la “macchina” dell’inserimento sociale “dell’emigrata ma non emarginata” che, a seguirne le tracce, porta alla Deledda assidua frequentatrice degli ambienti pittorici, dei teatri dove trova una via forse ideale per lei e il suo linguaggio ma presto trascurata e, infine, anche dei perfidi ambienti letterari per i quali la scrittrice si dimostrerà perfettamente attrezzata sia dal punto di vista delle capacità espressive e artistiche che da quello dell’uso di armi acuminate e pungenti. Ma torniamo a Nostalgie e alle conseguenze che la critica di Ojetti ebbero nella vita della Deledda. Nel 1911 Pirandello pubblica Suo marito, poi ripreso molti anni dopo e intitolato Giustino Roncella, nato Boggiolo. Tre anni prima, nel 1908 – dimostrando con Ugo Ojetti un’intimità che toglierà al critico, limitatamente all’episodio di cui ragioniamo, una quota di buona fede e credibilità – Pirandello scriverà all’amico Ojetti una lettera dove si legge che per Suo marito è partito proprio dalla figura del consorte della Deledda, Palmiro Madesani, impiegato del Ministero del Tesoro e già trattato con sarcasmo da Ojetti nelle pagine del Corriere della Sera. Scrive Pirandello: «Che capolavoro, Ugo mio! Dico, il marito di Grazia Deledda, intendiamoci», ironizzando sul promoter zelante della scrittrice. Eppure, quando si troverà nelle condizioni di giudicare la scrittrice sarda, Pirandello non sarà mai direttamente negativo. Anzi, Franca Angelini, nelle sue note sulla Deledda, sottolinea che lo stesso corrosivo Pirandello, nel romanzo, attribuisce alla moglie-scrittrice (alias Grazia Deledda) di Giustino (alias Palmiro Madesani) un dramma, L’isola nuova, che lui stesso utilizzerà per la trama della tragedia La nuova colonia. Quindi, aggiunge la Angelini, «non siamo lontani da un giudizio totalmente negativo sulla fantasia poetica della scrittrice». D’altronde, nota ancora la Angelini, la stessa autrice licenzia Nostalgie con la premonizione che il racconto del mondo borghese del nuovo libro è «tanto semplice che la critica lo troverà una prova mancata della mia capacità narrativa». 10
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Prefazione
La critica del 1905 del “pirandelliano” Ojetti fu dunque spartiacque nei rapporti tra la scrittrice nuorese e lo scrittore agrigentino. La loro produzione letteraria continuerà nei decenni, i riconoscimenti si moltiplicheranno, i due non solo non arriveranno mai a chiarirsi, ma la Deledda spenderà addirittura qualche energia nel tentativo di avversare il riconoscimento del Nobel a Pirandello. E questo ultradecennale, irreversibile contrasto caratteriale, psicologico e artistico procurerà non poco fastidio a entrambi sino al termine della loro esistenza che si chiude, con bizzarra simmetria, nel ’36. Ojetti, invece, nato lo stesso anno della Deledda, sarà un longevo critico dell’opera altrui e, forse anche per questo motivo, godrà di buona salute sino al ’46, anno della sua morte. Così quel 1905 divenne l’anno di una divergenza che in qualche modo segnò l’esistenza della scrittrice, ma anche l’anno di una sperimentazione letteraria che per lei non si ripeterà, se non in una forma assai differente, molti anni dopo, alla fine della sua parabola, con Annalena Bilsini e, in mezzo, Il paese del vento. La penna della Deledda, dunque, esce per la prima volta fuori dall’isola con Nostalgie. Resta da vedere se, insieme alla penna, esce dall’isola anche la sua “testa” e la sua vena creatrice, ovvero se, con Nostalgie, il talento e la forza deleddiani si trasferiscono nei luoghi dove le trasporta la sua narrazione. Nel voluminoso corpus letterario della nuorese, Nostalgie conserva anche per questo motivo un’interessante unicità dovuta proprio al tentativo di ribaltamento degli elementi che avevano caratterizzato la sua narrazione sino ad allora, e che avrebbero sostenuto e dato consistenza anche alla narrazione successiva. Brughiere aspre e solitarie, macchie e forre, boschi di sugheri e ciuffi di fichi d’India, di ginepri e di lentischi; pascoli deserti e montagne che rinverdiscono a primavera e nell’inverno si ammantano di neve, simili a file di colombi addormentati; tancas selvagge, gialle di stoppie e di sole 11
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ardente, olivi alpestri, eremi e santuari; capanne di pastori e nere case di contadini o di rustici signorotti, con le loro usanze remote e patriarcali…
Questa è una parte del lungo elenco degli elementi paesaggistici che il Sapegno individua come fondanti, caratterizzanti e irrinunciabili nella narrazione deleddiana. Nostalgie si apre su un panorama notturno intravisto dal finestrino di un treno che si avvicina a Roma: «La luna di novembre, una grande luna di madreperla, limpida e melinconica, illuminava la campagna: il vento, fortissimo, attraversava con la sua violenza la violenza della corsa del direttissimo». E “gli affezionati estimatori” della scrittrice, tra i quali noi, sentono immediatamente un disagio, una dissonanza che, man mano che la lettura procede, resta come un leit motiv un po’ stonato, presente in ogni pagina. Il paesaggio muta ancora, diviene forzatamente paesaggio urbano, quello più conosciuto, dopo quello isolano. Sono i luoghi dove la scrittrice ha trasferito la propria vita ma, evidentemente, non la propria sensibilità. E così l’Acqua Acetosa, il Tevere, i trasferimenti letterari improvvisi nella Padania, conosciuta quanto Roma dall’autrice, diventano pitture immobili, talora acquerelli tenui nei quali vivono due necessità inconciliabili: il bisogno descrittivo (non esiste per la Deledda narrazione senza paesaggio) e il bisogno che il paesaggio, cuore della creazione letteraria, sia intimamente vissuto, contenuto nel sottosuolo dell’autrice e dunque vero e attendibile. Quel vento sardo che soffia sui colli laziali attendibile non è, i platani diventano ginepri, i cespugli di bosso divengono lentischi, i prati di margherite ambiscono, sotto sotto, a divenire i prati di asfodeli del proprio paesaggio originario. Questi due bisogni non si conciliano in Nostalgie perché il paesaggio è presente, sì, ma in una forma necessariamente artificiale che avvolge tutto in una finzione troppo evidente perché quei luoghi siano verosimili. Di quei paesaggi manca il genio commosso dei luoghi. Una finzione, insomma, nella quale la stessa scrittrice riconosce verosimilmente un’intrinseca debolezza del racconto. 12
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Prefazione
Nulla di “primitivo” in Nostalgie. La città ha sue necessità narrative e anche chi la abita e diviene personaggio ha necessità urbane. Il “primitivismo” – inteso come capacità di conferire forma e forza ad un mondo ideale/reale e non, ovviamente, come valore – è un carattere connaturato e irrinunciabile per la Deledda. E quando lei esce da questo filone ferreo che circola comunque nel suo sangue artistico, tutto le si ribella tra le mani, talvolta con effetti grotteschi, e ritorna al mondo “selvaggio” dell’isola che le esce continuamente dalla penna perché quella penna è ben conscia di essersi obbligata a un lavoro innaturale. Nostalgie è in questo senso curiosamente speculare al tardivo e letterariamente evoluto Annalena Bilsini, dove il “primitivo” è il mondo contadino, sì, ma non quello isolano, poiché l’azione si svolge nella Pianura Padana. Ebbene, nonostante la nuova “finzione scenica” del paesaggio, del cibo, dei costumi, al mondo, non c’è pagina del romanzo che non riporti al paesaggio, ai luoghi di Elias Portolu, Canne al vento e a tanti racconti. E la “finzione” non regge, casca giù. Mentre tiene, come sempre, il grande flusso narrativo deleddiano che si alimenta con le azioni e non finisce se non con l’estinzione degli avvenimenti, i quali cercano con forza una chiusura appagante sia sotto il profilo puro dei fatti che sotto quello della morale certa, tragica e fissata per sempre negli eventi. Fanno parte di questa operazione di “trasporto” dal mondo sardo a quello del “continente” gli inverosimili vernacolismi strappati a freddo da altri dialetti e inseriti forzosamente nella narrazione (per esempio un inattendibile: «Lu el vorres, se, ma li doni li nal veul mia, corpu dla madosca»). Si sente perfino il pericolo della comicità involontaria, nell’uso, anche solo per inciso, di un dialetto che non è il proprio ed è collocato in quel punto nel tentativo di rafforzare un carattere popolare che dovrebbe animare la pagina e invece la indebolisce e la rende priva di verosimiglianza. Eppure l’uso del castone dialettale sardo nell’italiano o la traduzione di un’espressione dialettale sarda, costituivano uno strumento abituale letterariamente 13
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I
Roma s’avvicinava. La luna di novembre, una grande luna di madreperla, limpida e melanconica, illuminava la campagna: il vento, fortissimo, attraversava con la sua violenza la violenza della corsa del direttissimo. Regina sonnecchiava e sognava di trovarsi ancora a casa sua; il rombo del treno le pareva lo scroscio del molino sul Po. Ma ad un tratto sentì la mano di Antonio stringer la sua e si svegliò di soprassalto. – Fra poco siamo arrivati, – disse il giovane sposo. Regina si alzò, s’appoggiò al finestrino chiuso e guardò fuori. Il cristallo rifletteva l’interno del vagone, il lume, la figura di lei coperta d’una lunga mantella chiara, il suo viso disfatto, rimpicciolito dalla stanchezza del viaggio. Ella socchiuse i grandi occhi miopi, e in un barbaglio di luna, sullo sfondo grigio della mantella riflessa dal vetro, le parve scorgere il paesaggio in ondulazioni azzurrognole, fuggenti; un sentiero tacito alla luna, un albero con le foglie argentee battute dal vento, e in lontananza anche una fila d’acquedotti i cui archi sfuggivano, nella vaporosità lunare, simili a immense porte azzurre, chiuse. Questa degli acquedotti era forse un’illusione ottica; Regina, che pur fidandosi poco dei suoi occhi si ostinava a non voler adoperare gli occhiali, si sentì egualmente commossa per le visioni grandiose che credeva d’intravedere nel barbaglio del vetro scosso dal vento. Roma! Un tripudio infantile l’assaliva al solo pensiero che Roma s’avvicinava; che Roma, la città meravigliosa, lungamente sognata, la capitale del mondo, il nido d’ogni delizia e d’ogni splendore, Roma stava per diventar sua! La stanchezza del viaggio, lo sgomento dell’avvenire così diverso dal passato, il dolore delle dolci cose perdute, la paura della gente ignota che l’aspettava, le ripugnanze dei 25
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NOSTALGIE
primi giorni di matrimonio, ogni tristezza, ogni repulsione, ogni delusione svaniva davanti alla realtà del sogno lungamente, ardentemente accarezzato. Antonio s’alzò e s’avvicinò al cristallo che rifletté la sua bella figura di biondo, alta, svelta, dominatrice. Regina vide nel cristallo i lunghi occhi grigi carezzevoli che la guardavano; vide la bella bocca, rossa sotto i baffi ardenti, sorriderle e accennarle un bacio, e si sentì felice, felice, felice. – Pensa, – disse Antonio, curvandosi su lei come per confidarle un segreto. – Pensa, Reginotta! Siamo a Roma! Ella non rispose. – Ci pensi? – egli insisté. – Altro che ci penso! – Ti batte il cuore? Regina sorrise, un po’ sdegnosa, non volendo far notare tutto il suo piacere e il suo turbamento. Antonio guardò l’orologio. – Quindici minuti ancora. Se il vento non soffia con tanta violenza ti farei guardar fuori. – Io guardo; abbassa il vetro. – Il vento è troppo forte, ti dico. – No, io voglio guardar lo stesso… – insisté lei, come una bimba viziata. Antonio provò ad abbassare il vetro; ma realmente la violenza del vento era tale che Regina rinunziò a metter la testa fuori. – Chiudi; chiudi! Egli chiuse. – Pensa, ma pensa che sei a Roma! – egli ripeté. Poi le consigliò di mettersi il cappello e di prepararsi. – Essi usciranno ora di casa per venire alla stazione, – disse, pensieroso. – Ravviati i capelli: e la cipria dove l’hai? – Sono molto brutta? – chiese Regina, passandosi le mani sul volto. Sedette, aprì la borsetta, si ravviò i capelli, si pulì il viso e s’incipriò: poi rimise il matelot grigio che Antonio le porgeva, e allacciò la mantella, dal cui colletto di martora la sua 26
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Parte prima. I
piccola faccia emergeva come da un calice, pallida, stanca, tutta bocca e tutt’occhi, rassomigliante al grazioso faccino d’un gatto. – Così stai bene, – disse Antonio, guardandola con adorazione. Ella si alzò di nuovo e si aggrappò ancora allo sportello: un lungo muro fuggiva ora davanti al treno; si vedevano case, siepi, orti, i canneti scossi dal vento, qualche fanale giallo in quel grande biancore di luna autunnale. – San Paolo! Il Tevere! – disse Antonio, di nuovo alle spalle di Regina. San Paolo! Il Tevere! Regina intravide appena il luccichìo verdastro del fiume, e il cuore le batté forte, sebbene dopo il primo impeto di gioia ella avesse sentito, come sempre le accadeva, un’ombra di triste diffidenza velarle l’anima. – Sì, – pensava. – Roma, la capitale, la città meravigliosa, senza nebbie, piena di sole e di fiori. Ma che cosa mi aspetta laggiù? Io vado, giovine, felice, adorata, a gettarmi fra le braccia di Roma come mi son gettata nelle braccia di Antonio. Ma che cosa saprà darmi Roma? Noi non siamo ricchi, e la grande città è come… la gente: ama poco e dà poco a coloro che non son ricchi… Ma noi non siamo neppure poveri, – concluse, riconfortandosi. Il treno fischiava. Improvvisamente Regina trasalì. Davanti ai suoi occhi, nel chiarore della luna e dei fanali che ora si moltiplicavano, al di là di una siepe flagellata dal vento, una palazzina era apparsa e scomparsa quasi magicamente. – Pare il nostro villino, – disse ella con tristezza, colta dal ricordo del caro nido paterno, adagiato sull’alto argine del Po. Il treno fischiava, rallentando la corsa vertiginosa. – Eccoci, – disse Antonio; e Regina sentì il suo ricordo dileguare come era dileguata l’apparizione. Da quel momento, nonostante la sua ferma risoluzione di non meravigliarsi, di non turbarsi e di studiare le sue impressioni, ella si confuse e vide ogni cosa attraverso un velo. Antonio tirava giù le valigie e le scatole; ella si turbò perché la cappelliera racchiudente il suo bel cappello bianco da 27
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NOSTALGIE
sposa si capovolse; si curvò per rimetterla su, arrossì di stizza, ritornò davanti al cristallo e si accomodò il matelot e la mantella. Linee di case mostruose, giallognole sul cielo di velluto azzurro, passavano fuori rapidamente; il vento cessava; i fanali si moltiplicavano, gialli ora bianchi e violacei; e la loro luce cruda vinceva il chiarore melanconico della luna, poi la luce crebbe, crebbe, divenne splendore, dilagò in un luogo chiuso, dove il treno penetrava con fragore assordante. Roma. Centinaia di volti illuminati dallo splendore violaceo delle lampade elettriche, fissi, intenti, egoisti, passarono davanti allo sguardo turbato di Regina. Ella provò confusamente una bizzarra impressione; le parve che quella folla – fra la quale distinse una signora dai capelli rossi, un uomo che indossava un abito a quadretti, una ragazza pallida con un gran cappello nero, un signore calvo, un bastone alzato, un fazzoletto bianco svolazzante, – tutta quella folla anonima, antipatica, fosse una rappresentanza inviatale incontro, per accoglierla non troppo benevolmente, dalla grande città alla quale ella si dava. Lo sportello fu aperto con violenza: tra i fischi e i palpiti enormi delle macchine manovranti, echeggiò un’onda di voci umane: nei marciapiedi neri la gente si rincorreva e si urtava. – Romaaa! – Facchinooo! Facchinooo! Mentre Antonio guardava se nel ripiano dei bagagli rimaneva qualche oggetto, Regina si sporse fuori e guardò. Davanti agli sportelli del treno lunghissimo s’aggruppavano ancora molte persone ansiose, curiose, ridenti; ma già gran parte della folla s’incalzava e spariva giù, all’uscita della stazione. – Non c’è nessuno, Antonio! – disse Regina, un po’ smarrita; ma subito vide cinque persone che risalivano il marciapiedi e capì che erano loro. Saltò giù e guardò. Sì, dovevano esser loro; tre uomini, uno dei quali in soprabito chiaro, e due donne, una bassa e grossa, l’altra altissima, magra, col viso nascosto dall’ombra di un grande cappello nero. Quest’ultima teneva in mano un mazzo di 28
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Parte prima. I
fiori, e la sua strana figura, stretta da un paltò i cui bottoni di madreperla brillavano da lontano, capì subito Regina. Doveva essere sua cognata Arduina, direttrice di un giornale femminile, che le aveva scritto due o tre lettere stravaganti. – Mamma! – gridò Antonio, buttandosi giù dal vagone. Regina si trovò sul petto ansante della grossa signora; poi sentì la pressione dei bottoni che aveva veduto brillare da lontano, e infine si trovò col mazzo di fiori in una mano e con l’altra mano stretta da una mano maschile, morbida e grassa. La voce un po’ scherzosa di Antonio diceva: – Mio fratello Mario, segretario alla Corte dei Conti. – Mio fratello Gaspare, segretario nel Ministero della Guerra. – Mio fratello Massimo, vice-segretario nel Ministero della Guerra. – E mi pare che basti, – disse quest’ultimo, inchinandosi graziosamente. Tutti sorrisero; ma Antonio proseguì: – E Arduina la pazza… – Sempre tu, burlone! – strillò quest’ultima. – E questa è Regina, mia moglie! Eccola qui! – Come stai, Gaspare? – Benone, e tu? Hai appetito? – Sei stanca, cara? – domandò con voce tremula la vecchia signora, avvicinando il suo al viso di Regina. Sebbene odorasse i fiori, quest’ultima sentì per la seconda volta che la suocera aveva l’alito fetido, e trasalì, sopraffatta da una improvvisa angoscia. Tutta quella gente che l’accerchiava, la stringeva, l’esaminava con impeto di curiosità mal celata, in quel luogo ignoto, a tarda notte, sotto quella luce troppo viva che le offendeva gli occhi, tutta quella gente che parlava con accento per lei straniero, le riusciva antipatica. Anche Antonio, che in quel momento la dimenticava per riunirsi a quella turba sconosciuta, le parve un altro, uno straniero, un uomo di razza diversa dalla sua. Si sentì sola, sperduta: le sue idee si confusero; ebbe poi l’impressione di essere portata via, trascinata da un’onda di 29
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NOSTALGIE
folla; vide una montagna di vetture enormi allineate sul lastrico lucente, che le parve di mattoni azzurri, e nell’aria umida sentì un odore di bosco. Infatti credette di scorgere in lontananza un profilo di bosco, una linea di alberi, neri sul cielo vitreo; e i globi violacei delle lampade elettriche sospese fra quegli alberi neri, le diedero l’idea di meravigliose frutta incandescenti. Qualche cosa di magico imperava, a quell’ora della notte, nella vastità della piazza, dove la gente si sperdeva e spariva silenziosamente, come in un deserto umidiccio e luminoso. – Andiamo a piedi; stiamo qui vicini, – disse Antonio, prendendo il braccio di Regina. – Vedi, è grande la piazza della stazione? – Come è grande! – ella rispose, sinceramente meravigliata. – Ma ha piovuto qui, non è vero? Come è bello! Vicina ad Antonio, verso il quale la spingeva il grosso corpo ansante della suocera, ella si sentiva di nuovo felice. Sì, davvero, Roma era la città sognata, piena di giardini, di fontane, di edifizi immensi, splendida e grande di giorno e di notte. Regina si sentì lieta come se avesse bevuto un liquore; cominciò a chiacchierare con animazione febbrile, ma non ricordò mai ciò che disse in quella prima ora del suo arrivo. Ricordò però che, nella sua gioia, le dava fastidio l’ansare e il sospirare della suocera, il riso scemo di Arduina, il discorso dei cognati, che venivano tranquillamente dietro e parlavano nientemeno che di topi. Antonio aveva pregato la sua famiglia di non avvertire gli amici del loro arrivo; non voleva seccature: ma giunti in via Torino, davanti al grande palazzo dove i Venutelli abitavano due appartamenti, al quarto e quinto piano, la vecchia signora ansò, sospirò e disse: – C’è Clara con la figlia: son venute a passare la sera da noi e non abbiamo potuto mandarle via. Hanno indovinato. – Seccatura! – disse Antonio. – Le manderò via io, ora! Il gas era ancora acceso: l’atrio signorile e il grande scalone di marmo continuarono in Regina l’impressione di grandezza e di bellezza che la piazza e le vie le avevano destato. 30
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Parte prima. I
– Coraggio, – le disse Antonio. – È la scala d’Abramo, questa. – Voi, maschiacci, avanti! I tre uomini e Arduina si slanciarono avanti; Regina volle anch’essa affrettare la salita, ma ben presto si stancò e cominciò ad ansare. – La mia morte, le scale! – disse la suocera. – Ah, figlia mia, anche io non ho abitato sempre al quarto piano. Regina non ascoltava più. Grida, risate, esclamazioni echeggiavano nell’alto della scala; poi precipitò giù un turbine, un fruscìo, un’onda di profumo, un’apparizione di volanti, di trine, di catenelle, di capelli biondi, che travolse e per poco non rovesciò la sposa, lo sposo e la suocera. – Claretta, bada di non romperti il collo, cara! – gridò Antonio. La bellissima creatura stringeva Regina fra le braccia, coprendola di baci appassionati. – Cara, benvenuta, benvenuta, cara, mille auguri di felicità: la mamma è su! – Piacere! – disse Antonio. – Dà almeno un bacio anche a me! Claretta, senz’altro, lo baciò sulla guancia; poi prese Regina per mano e la tirò su, su, gridando e ridendo, alta, frusciante, fragrante. Regina la seguiva, un po’ invidiosa e gelosa, un po’ incantata da tanta bellezza disinvolta. Claretta la portò su quasi fra le braccia, riempiendo la scala delle sue risate e dei suoi strilli; l’introdusse nell’appartamento, e dopo averla gettata sul soffice petto della grossa zia Clara, la trascinò per tutte le stanze. L’appartamento era illuminato a gas; i mobili lucevano e puzzavano di petrolio. Tutte le stanze erano strette, zeppe di mobili, soffocate da panneggi grossolani, da tappeti di juta, da lavori all’uncinetto, da grossi cuscini ricamati in lana, da ventagli e ombrellini di carta traforata: in certe camere non ci si poteva muovere. Regina fu presa alla gola da un senso di soffocamento. Il ricordo della bella palazzina paterna, dalle grandi stanze calde e semplici, l’assalì con tenerezza angosciosa: e per confortarsi sentì il bisogno di dire a Claretta: 31
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– Noi staremo qui finché non avremo trovato un bell’appartamento: è facile trovarlo, non è vero? – Non tanto, ora, sai. Ci son gli stranieri, ora, che assaltano Roma come un nembo di cavallette, – rispose la cugina, che si fermava davanti a tutti gli specchi, voltandosi e rivoltandosi con ammirazione, e parlava alto per farsi udire dai “maschiacci” riuniti nella saletta da pranzo. – Ecco, questa è la vostra camera; il vostro nido d’amore, uccellini di passaggio! – disse poi, entrando con Regina in una stanza d’angolo, dove furono raggiunte da Antonio, dalla madre, da Arduina, dalla serva e dalle valigie. La camera era abbastanza vasta, ma schiacciata da un soffitto basso, grigio, adorno di volgari ghirigori turchini; pesanti panneggi nascondevano tre finestre, una delle quali ai piedi del gran letto massiccio sovraccarico di cuscini e di copripiedi. Quel soffitto grigio, incombente su quella camera volgare, borghese, – che le valigie e le scatole degli sposi finirono d’ingombrare in modo che non ci si poteva più muovere, – accrebbe il senso di soffocamento che opprimeva Regina. Ella guardava, muta e triste; le pareva di sognare un sogno penoso, d’essere in una strana prigione, ove qualche cosa la legava e la opprimeva mortalmente. Oh, tutta quella gente! Tutte quelle donne che l’accerchiavano, la stringevano, la soffocavano con la loro curiosità crudele! La sua sensibilità delicata, in quell’ora tarda, dopo l’urto del viaggio, si risentiva quasi morbosamente al contatto di quella gente ignota. Ella aveva in quel momento bisogno di riposo, pettinarsi, cambiarsi; invece non la lasciarono sola un momento. Claretta non intendeva di abbandonare lo specchio; Arduina, che era una scrittrice, pareva esaminasse le impressioni della nuova venuta; la suocera non cessava di fissarla con occhi lacrimosi. Regina si tolse la mantellina e il cappello: il suo piccolo viso tutto bocca e tutto occhi apparve spaurito e pallido sotto l’onda nera dei capelli abbondanti intricati. Antonio non badava più a lei: intento a mettere in ordine le valigie, chiedeva a sua madre notizie dei suoi conoscenti. 32
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Parte prima. I
La vecchia signora ansava e sospirava, e rispondeva alle domande del figlio senza abbandonare con gli occhi la giovine nuora. – Dove mi lavo? – chiese Regina. I suoi grandi occhi castanei, di solito assai vellutati e dolci, socchiusi di stanchezza, erano diventati quasi selvaggi. – Qui, – disse Arduina, precipitandosi verso il lavabo. – Qui, cara. Ecco, c’è tutto. Il sapone, la cipria, il pettine. Che sapone preferisci? Regina non rispose. Si lavò, prese la salvietta che la cognata le porgeva, s’accomodò i capelli chinandosi sul basso specchio del lavabo. – Siediti, – disse Arduina, mettendole una sedia dietro. – Così non vedi. – No, seduta ci vedo meno, – rispose Regina, sempre più irritata. – Son miope. Questa notizia immerse le donne in un profondo stupore. Claretta si volse vivamente contro lo specchio; la signora Anna, che esaminava la fodera della mantella di Regina, sollevò gli occhi stupiti e quasi addolorati; Arduina guardò sbalordita i bellissimi occhi della cognata. – Miope! Con occhi così belli! – Così giovine! – esclamò la vecchia signora. – Ebbene, che importa? – rispose Regina con voce aspra. – Noi siamo tutti miopi di famiglia. – Hai l’occhialetto? – chiese Claretta. – L’ho, ma non me ne servo: non mi piace. – È molto chic, anzi, – disse Arduina. – Ecco, cara, slarga un po’ i capelli sulle tempia: son troppo tirati. Che capelli splendidi! Domani ti pettinerò io. Aspetta… E sollevò le mani, ma la testolina della sposa, quella piccola testa che pareva così mite e insignificante, ebbe una scossa di fierezza sdegnosa. – No. Sto bene così. La voce non ammetteva repliche, e la scrittrice dovette capire che Regina era una creatura di comando, di una razza superiore, perché le rivolse uno sguardo di tenerezza accorata 33
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e di ammirazione pietosa. Solo allora Regina, colpita da quello sguardo, si degnò far attenzione alla cognata, che Antonio le aveva descritto come una scema. E a sua volta, in quella lunga persona dal petto liscio, dal volto di legno giallognolo, sul quale i piccoli occhi lattei pieni di spavento, la piccola bocca dai denti neri, e tre riccioli d’un biondo grigio, segnavano una bruttezza unica, intuì una creatura di servitù e di tristezza. Ne provò una malvagia consolazione. In quel mondo odioso, che le si era improvvisamente aperto con la porta del piccolo appartamento, v’erano delle vittime, come Arduina, al cui confronto ella era un’imperatrice. Ma non ne provò pietà. Tutto ciò in pochi istanti, mentre s’accomodava i capelli davanti alle tre donne che la guardavano. Antonio s’accorse del malumore di Regina, e mandò via le donne, spingendo famigliarmente la cugina. – Fate il piacere, andatevene: spero non vorrete assistere anche alla mia toeletta. Andatevene; facciamo presto. Noi abbiamo anche bisogno di riposo. – Domani starete a letto tutto il giorno, tanto pioverà, – disse la madre. – Speriamo di no. – Speriamo di sì. – Crepi l’astrologo, – augurò fra sé Regina. Finalmente le donne uscirono; e d’un balzo Antonio fu presso Regina, l’abbracciò, curvò il suo viso sul viso triste di lei, e le disse con voce carezzevole: – Coraggio. Non essere così triste. Ora mangiamo in fretta un boccone, e poi subito a letto. Domani, poi, scappiamo: usciamo soli, non avremo seccature. Su, allegra! La prese per la vita e la trascinò cantarellando fino al salotto da pranzo: Topolin non vuol ricotta, Vuol sposar la Reginotta, E se il re non gliela dà Topolin lo ammazzerà… 34
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Parte prima. I
Ma Regina non si rallegrò più. Appena seduta su una delle incomode sedie di Vienna che circondavano la mensa troppo ingombra, ella sentì tutta la stanchezza del viaggio fiaccarle la schiena e appesantirle le palpebre. Di nuovo sentì l’impressione di un sogno penoso; e le parve di vedere attraverso un velo un quadro di figure volgari. Volgare il viso della suocera, grasso rosso paffuto, disegnato dalla linea oleosa dei capelli troppo neri per essere naturali; volgare quello del sor Mario, somigliantissimo al viso di sua madre, con gli stessi piccoli occhi azzurri e la bocca semi-aperta ad una respirazione lenta un po’ affannosa; e il volto di Gaspare, tutto roseo e sbarbato sotto la linea lucente della fronte calva; e quello di Massimo, un elegantone decadente, rassomigliante ad Antonio, ma pallido e coi lunghi capelli rossicci unti, gli occhi grigi dallo sguardo sfrontato. Volgare anche il viso artificiale di Claretta: una bellezza borghese. Non sapeva perché, ma Regina ricordava in quell’ora la folla intraveduta nelle stazioni di passaggio e in quella di Roma: quei visi che ora la circondavano emergevano nel tumulto delle figure intravedute, ma folla anch’essi e niente altro che folla. Un mondo intero la separava da loro. Nonostante l’ora tarda e la promessa di Antonio, la cena si protrasse a lungo, servita da una ragazzona bionda, in camicetta rosa, che non cessava di guardar la sposa con occhi meravigliati, e ogni momento inciampava e correva rischio di rompere qualche cosa. Questa figura che andava e veniva pareva la più importante del quadro: tutti la osservavano, tutti conversavano con lei: la signora Anna trasaliva ogni volta che ella entrava. Anche Antonio le rivolse la parola. – Ebbene, come vanno i tuoi amori, Marina? Ti piace dunque? – le chiese poi, accennandole Regina. – Chi è più bella, lei o la signora Arduina? Marina arrossì, rise, scappò, e non tornava più. Allora Gaspare s’alzò di tavola, gravemente, col tovagliolo sull’omero, e andò a cercarla in cucina. S’udì un improvviso vociare; Gaspare rientrò, rosso, con gli occhi irati. 35
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– Mamma, l’arrosto brucia! – annunziò tragicamente. – Andate… andate un po’ a vedere! La vecchia signora gemette, si alzò, uscì, rientrò, non stette più un momento ferma. – Mamma, – supplicava Antonio, – restate a tavola! – Mamma, – ripeteva Gaspare, ancora adirato, – andate a vedere! – Figlia mia, – diceva la suocera, volgendosi a Regina, – queste donne di servizio!… Non bisogna parlarne, dicono, ma come si fa quando sono il disastro delle famiglie?… Ti dirò poi… – Uno dei più gravi problemi sociali! – disse Massimo, ironico, senza guardar nessuno. – Intanto senza le serve tu non puoi vivere, – gridò Gaspare. – Intanto le serve ti fanno morire… – Oh, le faccio morire io se non filano dritte, – disse Gaspare. Tutti risero; ma nonostante le frequenti visite della vecchia signora in cucina, le portate si facevano attendere lungamente. La conversazione s’animava. Massimo parlava con la cugina, la signora Anna narrava alla signora Clara i fasti della serva. – Come si va col vostro Gigione? – domandò Antonio a Gaspare. E Gaspare cominciò a parlar male del suo Ministro, come parlava male delle serve. – Hai ricevuto la mia ultima lettera? – chiese Arduina a Regina, profittando del chiasso che gli altri facevano. – Quale? – Ti domandavo… osavo domandarti qualche notizia sulla beneficenza privata, specialmente femminile, nel Mantovano… – Lasciala in pace, fa il piacere! – disse Antonio alla cognata. Regina pensava a casa sua; rivedeva la finestra della grande stanza da pranzo, dove in estate tremolava il bel quadro del bosco; rivedeva l’argine verde dietro il quale brillava il fiume. Tutto sparito! Il bel quadro vivo del bosco, e il quadro vero del 36
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Parte prima. I
Baratta, appeso sopra il camino, – un’alzaia sulle rive verdastre della Parma, col cielo lilla dietro i pioppi bianchi, – spariti, spariti per sempre! Di nuovo, su quell’incomoda sedia che le fiaccava le ossa, fra tutta quella gente che parlava di cose volgari, ella sentì lo stesso sgomento che prova il condannato al pensiero della convivenza forzata coi suoi compagni di pena. Anche Antonio, che badava poco a lei, come travolto dalla corrente delle piccole notizie che i fratelli gli davano, le sembrava nuovamente uno sconosciuto. Ogni volta che la serva entrava e fissava i piccoli occhi turchini sulla sposa, egli ripeteva: – Ma chi dunque è più bella? o più brutta? La sposa o la signora Arduina? La ragazza guardava l’una, guardava l’altra e rideva. – Dillo dunque? La signora Arduina? – Oh, no! – Come, non è la più brutta? Tutti ridevano. Perché ridevano? La felicità rendeva Antonio cattivo. Pur sapendo come suo fratello Mario, uomo già d’età, che parlava poco ma arrossiva quando qualcuno esprimeva un’idea passata anche nella sua mente, detestava la manìa grafomane di sua moglie, Antonio chiese alla cognata se il suo giornale femminista L’avvenire della donna camminava coi piedi o con le mani. – Dicono che abbia raggiunto una tiratura di tre copie! – disse Massimo. – E poi pare che voglia anche attirarsi una querela perché ha riprodotto, senza permesso, un sonetto da un giornale calabrese. – Oh, Dio, quanto sei spiritoso! – gridò Arduina, facendo una smorfia: ma tutto il suo viso esprimeva un vago spavento. Il sor Mario, con la faccia china sul piatto, mugolò e masticò forte come un bove irritato. Allora fu tutta una esplosione di crudeltà infantile contro la povera creatura che anche a Regina faceva l’effetto d’una caricatura. 37
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– Ciò che non ho mai capito è dove stia la redazione del giornale, – disse Claretta. – Ci si potrebbe andare, almeno in cerca del redattore capo. – Ce ne son tanti per la strada! – rispose Arduina. – Le ragazze belle come te trovano dei redattori da per tutto. – Con ciò non si capisce bene quello che tu voglia dire… – gridò Gaspare. – Come si capisce che voi non capite niente… – E tu, sì, capisci! – disse il marito, sollevando solennemente la forchetta. – Sei femminista, tu, Regina? – Io? Io no, – ella rispose, come uscendo da un sogno. Ma subito volle difendere Arduina, non per pietà verso la scrittrice, ma per dispetto verso i cognati. – Può darsi che Arduina mi converta. – Antonio, il bastone! – gridò Gaspare. E tutti risero ancora. Poi la conversazione deviò: si parlò di una principessa russa, madame Makuline, stabilita da molti anni a Roma, e alla quale Antonio, che l’aveva conosciuta per mezzo di Arduina, sbrigava qualche affare d’amministrazione. – So che deve fare un regalo a Regina, – disse la scrittrice ad Antonio. – Domani sera verrà a pranzo da me: ci verrete anche voi. Questa notizia rialzò alquanto le sorti di Arduina, e sollevò un po’ Regina: la conversazione volò su contesse e marchese, e Claretta gridò, rivolta a Massimo: – Oh, ora che mi ricordo! Ti han visto, sai, l’altro giorno… – Mi vedono anche oggi! – Ti han visto a correre dietro la carrozza di donna Maria Del Carro: pioveva e non avevi ombrello. – Ecco perché correvo! – egli disse, tutto felice e lusingato. – No, correvi proprio proprio dietro la carrozza, caro! – Ma perché? – domandò ingenuamente Regina. – Quanto sei carina! – disse la cugina. – Eh, correva per farsi vedere, perché dicono che alla marchesa Del Carro piacciono i giovani belli… anche se sconosciuti… 38