Storia, linguaggio e prospettive del vestire in Sardegna
Collana di
ETNOGRAFIA E CULTURA MATERIALE Coordinamento Paolo Piquereddu
Progetto grafico e impaginazione Ilisso edizioni Grafica copertina Aurelio Candido Stampa Lito Terrazzi, Firenze Referenze fotografiche La campagna fotografica è stata realizzata da Pietro Paolo Pinna; le immagini, quando non diversamente indicato in didascalia, appartengono all’Archivio Ilisso. Le fotografie nn. 69, 206, 326, 387-391, 401, 465, 480, 691, 693, fanno parte invece dell’Archivio ISRE, foto Virgilio Piras. Si ringraziano i fotografi e gli archivi pubblici e privati che hanno generosamente collaborato rendendo disponibili alcune immagini. Tutte le opere pubblicate quando prive di ulteriore indicazione appartengono a collezioni private.
Ringraziamenti Si ringraziano il Direttore del Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari di Roma, Stefania Massari e il Direttore dell’ISRE, Paolo Piquereddu per aver consentito l’accesso alle collezioni e agli archivi degli Istituti da loro diretti. Un ringraziamento particolare al personale del Museo della Vita e delle Tradizioni Popolari Sarde di Nuoro; del Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari di Roma; della Collezione Piloni dell’Università di Cagliari per la sensibile e generosa disponibilità prestata durante il lavoro. La nostra gratitudine va a quanti hanno collaborato, a vario titolo, alla realizzazione di quest’opera, in particolare: Stefano Gizzi, Soprintendente ai BAAAS per le province di Sassari e Nuoro; Francesco Nicosia, Soprintendente ai Beni Archeologici per le province di Sassari e Nuoro; Mario Serio, Direttore Generale per il Patrimonio Storico Artistico e Demo-Etnoantropologico di Roma; Anna Maria Montaldo, Direttrice della Galleria Comunale d’Arte di Cagliari; Giovanni Antonio Sulas; Luciano Bonino; Rosalba Floris; Stefano e Annapia Demontis; AT LARGE; Maria Angelina Paffi; Angela Puggioni; Monica Sale; Michele Pira; Santina Accaputo; Peppinetta Mulas; Pasqualina Guiso; Nicoletta Alberti; Angela Cocco; Costanza Congeddu; Margherita Braina; Ugo Mele; Carla Marras, Cristina Murroni Charles e Silvia Sotgiu per la collaborazione nella raccolta ed elaborazione dati relativi al saggio “Profili economici del settore abbigliamento in Sardegna”.
© Copyright 2003 ILISSO EDIZIONI - Nuoro www.ilisso.it ISBN 88- 87825-84-X
Indice
7 VESTIRE
FRA TRADIZIONE E MODERNITÀ
Maria Teresa Binaghi Olivari
15 NOTE
DI STORIA DELL’ABBIGLIAMENTO IN
SARDEGNA
Paolo Piquereddu
61 IL
SISTEMA VESTIMENTARIO
Franca Rosa Contu 68
L’abbigliamento femminile
228
L’abbigliamento maschile
298
L’abbigliamento infantile
317 TRADIZIONE
E QUOTIDIANITÀ.
L’ABBIGLIAMENTO
FEMMINILE A ITTIRI
Giovanni Maria Demartis
331 I
COSTUMI FEMMINILI DI GALA DI
OSILO
E
PLOAGHE
Giovanni Maria Demartis
339 L’INVENZIONE
DEL CORPO ARCAICO. L’ABITO TRADIZIONALE SARDO NELLA CULTURA VISIVA TRA OTTO E NOVECENTO
Giuliana Altea
371 UN
TIPICO COSTUME SARDO: EDITARE I COSTUMI IN CARTOLINA
Enrico Sturani
387 “SA
VESTE”
Bachisio Bandinu
395 LE
MODE DEL VESTIRE SARDO
Michela De Giorgio
409 MODA
E TRADIZIONE.
SARDEGNA:
UNA REALTÀ DA CUI ATTINGERE
Bonizza Giordani Aragno
423 SUL
CONCETTO “SISTEMA DI VESTIARIO”.
DUE
ETNOGRAFIE A CONFRONTO
Marinella Carosso
429 ROMA 1911. L’AVVIO
DI UNA RACCOLTA MUSEALE NAZIONALE
Stefania Massari
435 MUSEI
E COSTUMI
Paolo Piquereddu
449 PROFILI
ECONOMICI DEL SETTORE ABBIGLIAMENTO IN
Marco Vannini
457 BIBLIOGRAFIA
SARDEGNA
Vestire fra tradizione e modernità Maria Teresa Binaghi Olivari
Gli abiti tradizionali, come tutti i vestiti, sono sensazioni della pelle e meccanica dei gesti, a cui si aggiungono la coscienza di appartenenza e lo spessore di una storia che tocca un’identità profonda. Di una forma tanto radicata nel vivere quotidiano, gli studi elaborati per questo volume definiscono uno stabile patrimonio di dati certi. Risulta assodato in primis che l’abito tradizionale sardo rende riconoscibile la regione di appartenenza, il sesso, l’età, lo stato anagrafico e il ruolo di ciascun membro della comunità. Altrettanto rigido e inequivoco è il repertorio delle forme a cui è affidata la trasmissione dei significati: i pantaloni o la gonna, la camicia, il corpetto, il grembiule e gli indumenti più esterni, le acconciature, i colori, i nastri e pochi altri componenti. Tutti gli elementi formali si articolano secondo schemi modulari, a cui solo la qualità dei materiali e della confezione conferisce un segno individuale, poiché sono ristrettissimi i margini di scelta personale concessi dall’apparato di informazioni e di moduli, che rappresentano la collocazione di un membro della comunità nella scala delle funzioni. Le fogge, articolate in moduli per un esiguo gruppo di significati, sono radicate in realtà territoriali molto ristrette, che comprendono numerose varianti e formano una specifica identità culturale. Si è infine situata nella seconda metà del Settecento l’origine della struttura. Con la medesima configurazione e nel medesimo punto della storia si delineano gran parte dei “costumi popolari” europei. Il valore speciale dell’abito tradizionale sardo risiede, oltre che nella ricchezza del suo repertorio formale, anche nella sua lunga vitalità e soprattutto nel suo confronto con la modernità, ora. La Sardegna, come ben si dimostra negli studi qui raccolti, di quella modalità di rappresentazione offre ancora oggi un dizionario ricchissimo e di svariatissima vitalità. Presumendo di porgere qualche argomento a chi sta di-
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1. Giuseppe Sciuti, Ingresso trionfale di Giommaria Angioy a Sassari, 1879, decorazione del Salone del Consiglio, Sassari, Palazzo della Provincia (particolare).
battendo con la propria storia, propongo il seguente modesto ragionamento. Il “costume popolare”, quale è definito dagli studi nei suoi significati sociali e nelle sue componenti formali, appare totalmente differente dall’abbigliamento usuale nella moderna civiltà occidentale. Nell’abito tradizionale i segni forniscono informazioni sulla regione di appartenenza, sul ceto e sui diversi ruoli all’interno del ceto, le cui varianti sono determinate dal sesso, dalla professione e dalla condizione di legittimo coniuge. È del tutto estranea alle funzioni di un abito moderno la necessità, imprescindibile per un abito tradizionale, di indicare se la persona è residente a Cagliari o a Nuoro. Anzi, deve essere del tutto irriconoscibile dall’abito se la persona che vediamo transitare a Olbia risiede a Tokio o a Parigi. Non diversamente, sarebbe una sbalorditiva stravaganza se l’abbigliamento informasse tutta la comunità sullo stato civile di chi lo indossa. Per una donna (come per un uomo) essere vergine, fidanzata, sposata o vedova è un’informazione che si trasmette con strumenti diversi dall’abito. Allo stesso modo non è l’abbigliamento ad informare sulla professione. Un elegante commesso di salumeria può vestire esattamente come un principe del foro e veste certamente meglio della generalità dei professori. Dall’abbigliamento oggi in uso spesso risulta difficile distinguere persino un maschio da una femmina, benché si tratti di due tipologie con qualche differenza evidente nell’architettura del corpo. Il distacco tra gli abiti tradizionali e quelli “borghesi” è confermato e ribadito dalla forma delle fogge e dall’accostamento dei colori. Nell’abito femminile, la lunghezza e l’ampiezza delle gonne, la sequenza camicia-gonna-corpetto-giubbetto con le varianti delle forme ornate dal frequente accostamento del colore rosso con l’azzurro; nell’abbigliamento maschile, la sequenza calzonigonnellino-camicia-corpetto-giubbetto compongono un repertorio incomunicabile all’abito moderno. Quest’ultimo impiega forme e sequenze molto varie, e soprattutto costruite sulla dimensione individuale di un corpo. Nell’abito “borghese” la rappresentazione preminente è quella dell’individualità fisica, espressa principalmente nell’aderenza dell’abito al corpo. Per ottenere la compiuta perfezione della forma “borghese”, fu necessario 7
costituita da una specie di sandalo di cuoio con la suola allacciata al dorso del piede da larghe fascette che lasciano nude le punte delle dita accuratamente segnate nei particolari»; nel secondo personaggio si sofferma, tra l’altro, sul berretto, notando che «la calotta bombata e il lembo ripiegato sulla fronte ben marcato, rivelano la consistenza effettiva della materia del copricapo – la stoffa di lana caprina (l’orbace) – ed il tipo dello stesso: cioè l’archetipo dell’attuale “berritta sarda”, un berretto maschile, tipicamente mediterraneo, di larga diffusione (v. anche la “berrettina” catalana)».4 Al di là di queste straordinarie “coincidenze” è incontestabile che gli indumenti sui quali storicamente si è fondata la specificità e la riconoscibilità dei Sardi, vale a dire la mastruca, la berrìtta e le ràgas unite ai calzoni bianchi di tela sono tutti afferenti a una koinè vestimentaria mediterranea. L’indumento che più di qualsiasi altro, nel corso dei secoli, è stato associato ai Sardi, la mastruca, rimanda a una tradizione d’uso estesa ben oltre i confini dell’isola, se non altro per la semplice ragione che le pelli costituiscono i primi, insostituibili abiti dei popoli pastorali. E tuttavia i celebri, sprezzanti epiteti ciceroniani di Sardi Pelliti e mastrucati latrones, i testi di Quintiliano, San Girolamo, Isidoro, di Strabone e Nindoforo e di tanti altri ancora hanno accompagnato attraverso i secoli la mastruca, connotandola come indumento proprio della Sardegna.5 Certo, questa semplice veste senza maniche, formata dall’unione di quattro pelli intonse di pecora o di capra, è tra quelle che nell’isola è rimasta in uso per più lungo tempo: ancora negli anni Sessanta del secolo scorso non era infrequente incontrare nelle campagne della Marmilla, Trexenta, Sarrabus pastori “mastrucati”. Oggi la mastruca è indossata dalle maschere dei mamuthones di Mamoiada e dei merdules di Ottana: a queste maschere come ad altre simili di tanti paesi pastorali dell’Europa e del Mediterraneo (Spagna, Slovenia, Croazia, Bulgaria) si affida il compito di trasformare chi le indossa in esseri alieni, propiziatori di beni per la comunità.6 Che i Sardi non fossero i barbari incolti e primitivi descritti da Cicerone e invece disponessero di capacità produttiva in grado di risolvere le difficoltà vestimentarie nelle quali si trovò l’esercito di Roma nel corso della seconda guerra punica è ricordato da Ettore Pais, che, riprendendo la testimonianza di Plutarco, scrive: «La mastruca derisa da Cicerone non era però l’unica veste degli Isolani. Abbiamo veduto che, durante la seconda guerra punica, Roma fece richiesta non solo di grano,
11. Abito maschile festivo, Orgosolo, 1970 Nuoro, Museo della Vita e delle Tradizioni Popolari Sarde. 12. Abito femminile festivo e di gala, Orgosolo, 1970 Nuoro, Museo della Vita e delle Tradizioni Popolari Sarde. Questo costume, oltre che dai gruppi folcloristici, viene ancora oggi indossato come veste nuziale da un buon numero di ragazze di Orgosolo.
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ma anche di vesti per l’esercito che stanziava nell’Isola e che rapidamente fu provveduto a tal richiesta. È anche detto che Caio Gracco, essendo questore del proconsole L. Aurelio Oreste, conseguì che i Sardi concedessero benevolmente le vesti necessarie alle milizie Romane. Il beneficio recato dagli isolani all’erario romano procurando vesti all’esercito era più notevole di quello che possa apparire ai tempi nostri nei quali la produzione meccanica dei tessuti si è a mano a mano estesa ed ha reso men cari che nei secoli passati i vestiti. Per gli antichi le vesti di lana, frutto di lungo lavoro manuale, erano merce preziosa. Nel caso nostro basti ricordare che nel 190 a.C. la richiesta fatta dai Romani di cinquecento toghe e di altrettante tuniche ai cittadini di Focea contribuì a determinare una sollevazione».7 Il singolare episodio è entrato a far parte di una sorta di mitologia positiva della letteratura storica sarda; in questo senso può essere letta la rappresentazione nazional-popolare che viene offerta dall’opera di Giovanni Marghinotti, I sardi offrono vesti e viveri ai legionari di Caio Gracco (1850 ca.), attualmente conservata nel Palazzo Civico di Cagliari (fig. 15). Lo studio di Giulio Paulis sul termine cèrga, tsèrga, tsrèga, col quale ancora negli anni Cinquanta del Novecento si indicava nell’isola il vestiario che il padrone forniva ai contadini o pastori suoi dipendenti quale parte della remunerazione, ha reinserito il vocabolo in un quadro storico assai utile anche per la storia della produzione indumentaria sarda: «Significante in origine ‘veste’, il vocabolo fu inizialmente impiegato, con riferimento alla vestis collatio, per designare i capi di vestiario per le truppe che gli abitanti dell’impero erano tenuti a fornire alle sacrae largitiones in ragione dei possedimenti fondiari e del numero di lavoratori agricoli insistenti su un determinato territorio. Siccome i maggiori contribuenti erano, ovviamente, le persone più facoltose e i grandi proprietari terrieri, in Sardegna continua a chiamarsi Qèrga, attèrga, tsèrga il vestiario che il padrone dà ai servi in occasione delle feste o a fine anno come parte della remunerazione pattuita. Sul finire del IV secolo, tuttavia, il contributo per la vestis fu commutato in oro (la cosiddetta adaeratio vestis militaris), sicché il lessema continuato nel srd. med. come cerga, zerga, therga andò progressivamente ampliando il suo significato sino a designare qualsiasi tributo di natura reale che i sudditi erano obbligati a versare de causa issoro al fisco regio o ad altra autorità da cui dipendevano».8 La presenza del termine in numerosi documenti medievali sardi, spesso associato al ginithu che indicava «originariamente il lavoro obbligatorio compiuto presso gli stabilimenti tessili di proprietà statale»,9 e l’analisi che ne fa Paulis consentono di affermare che la corresponsione del tributo reale costituito dalla fornitura tessile e indumentaria presupponeva nell’isola un sistema produttivo fondato su una notevole organizzazione 21 12
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COPRICAPO E ACCONCIATURE
I
copricapo sono generalmente complessi, costituiti da almeno due elementi sovrapposti, uno dei quali a diretto contatto con i capelli, raccolti in varie acconciature, e almeno un secondo, sopra questo. L’uso di coprire la testa rende solo ipotizzabile quali acconciature si celino sotto i copricapo dato che anche quelli più semplici, come i fazzoletti o le cuffie, nascondono la capigliatura.9 Le donne portano i capelli lunghi intrecciati in diversi modi, partendo da una scriminatura centrale che divide la massa, viene spesso legata con nastri (bìttas o vìttas), colorati per le ragazze e le giovani donne e scuri o neri per le anziane o le vedove. Le trecce possono essere basse e ravvicinate alla scriminatura centrale, alla base del cranio, dove vengono attorcigliate tra loro a formare una crocchia. Le trecce impostate dietro l’orecchio danno luogo ad un’unica crocchia che avvolge la base del cranio. Quelle portate alte e legate strettamente sulla sommità del capo (cùccos, cucchèdda, cuccurìnu), raccolte sotto la cuffia o avvolte con fazzoletti, costituiscono la struttura che consente di modellare i vari tipi di copricapo complessi. Nel primo Novecento, ai mutamenti descritti per gli abiti, si affianca anche un diverso modo di acconciare i capelli; fino a questo momento, specie per le donne sposate ed anziane, è regola diffusa quella di ricoprire i capelli quale segno di pudore, di riservatezza, di morigeratezza di costumi; tale regola, ferrea fuori dall’ambito domestico, viene per lo più osservata anche al suo interno, dove è consuetudine che le donne più anziane portino cuffia, fazzoletto o benda sovrapposti e,
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le più giovani, almeno il fazzoletto. In alcune località i copricapo di gala divengono ancora più complessi e continuano a nascondere i capelli, che nel quotidiano vengono invece mostrati con più facilità. Fazzoletti, veli e scialli iniziano ad essere indossati a diretto contatto con la capigliatura che sempre più spesso viene acconciata e gonfiata all’attaccatura della fronte in conformità con lo stile borghese. La pettinatura a trecce, considerata fuori moda dalle ragazze, viene progressivamente abbandonata in favore della pettinatura a crocchia (curcùddu, mògno) fermata sul capo o sulla nuca con spilloni d’osso o di metallo; i cambiamenti di pettinatura sembrano essere più traumatici rispetto alle modifiche dell’abbigliamento e lo scontro generazionale si fa talvolta vivace; le giovani che adottano pettinature alla moda sono guardate con riprovazione. Si può dire a grandi linee che, dopo il 1920, le donne mostrano la capigliatura con maggiore libertà e se questa resta comunque celata non lo è più per una sorta di tabù, ma per dare ancora più risalto alle complesse acconciature di gala. Dopo il 1930 i capelli sono raccolti in una semplice crocchia, più o meno aderenti al capo, con o senza scriminatura centrale, e tale acconciatura è rimasta, pressoché invariata, nelle pettinature delle donne che continuano ad indossare il cosidetto abbigliamento di “transizione”.
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65. Abito femminile da sposa e di gala, ’estìre rùiu, Ittiri, 1950 Nuoro, Museo della Vita e delle Tradizioni Popolari Sarde. 66. Cuffia festiva e di gala, cugùddu, Desulo, prima metà sec. XX Nuoro, Museo della Vita e delle Tradizioni Popolari Sarde. 67. Cuffia festiva, carètta, Lodè, fine sec. XIX Nuoro, Museo della Vita e delle Tradizioni Popolari Sarde.
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68. Cuffia festiva, carètta, Bitti (?), fine sec. XIX Nuoro, Museo della Vita e delle Tradizioni Popolari Sarde.
Manticelli Si tratta di un genere di copricapo molto diffuso nella Sardegna dell’Ottocento e del primo Novecento che trova oggi attestazioni limitate per i citati fenomeni di modernizzazione. Il copricapo definito manticello ha dimensioni ridotte,19 ricopre il capo, i lati del volto e sfiora gli omeri. È confezionato per lo più con panno di lana ed è bordato con taffettà di seta o velluto, nastri e passamanerie in tinta contrastante. Le cuciture sono realizzate a mano o a macchina. Alcuni modelli hanno for101-102. Manticello festivo e di gala, colòri, Lanusei, prima metà sec. XX Nuoro, Museo della Vita e delle Tradizioni Popolari Sarde.
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ma quadrangolare piana (Ploaghe: mantéddu; Samugheo: mantighéddu; Lanusei: colòri ) o presentano un lato arrotondato (Villagrande Strisaili: colòre ; Tertenia: màntu) oppure, come il cappùzzu di Gavoi, sono sagomati per adattarsi alla sommità del capo in una sorta di cappuccio i cui lembi inferiori scendono liberi sulle spalle. A Ploaghe il manticello è confezionato con panno di lana rosso o giallo di forma quadrangolare che viene ricoperto con quattro elementi di tessuto di seta in tinta unita o velluto operato a fiorami; questi elementi
sono così disposti da lasciare in evidenza, al centro, il panno rosso che forma un motivo a croce. Il ritratto di Anna Lucia Figone Spano, madre dell’archeologo Giovanni Spano, conservato presso la Facoltà di Lettere di Cagliari e risalente all’inizio del XVIII sec., è di particolare interesse per lo studio dell’evoluzione di questo copricapo perché mostra una versione più morbida di quella in voga attualmente, nella quale il tessuto di seta in colore contrastante è applicato nella sola parte anteriore; interessante è anche il fatto che venga chiaramente 103
103. Serri, foto d’epoca, primo decennio sec. XX.
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“punti” e il nome di “coro” proviene da ciò che la figura del ricamo è composta di cuori più o meno finiti, più o meno fioriti e piccoli. C’è il “cuore di sette” il “cuore di nove”, ecc.».35 La denominazione “punto smock”, benché tecnicamente rispondente, non soddisfa pienamente le caratteristiche di questo magnifico ricamo che, data la forte connotazione isolana sarà definito, d’ora in poi, “punto sardo su tela arricciata”. Le denominazioni degli altri punti rimangono quelle da tempo codificate nei manuali di ricamo. Analizzando nel loro insieme le camicie sarde nell’excursus cronologico in esame, si ha d’altro canto un campione completo di tutte le tecniche del ricamo in bianco utilizzate per realizzare motivi geometrici e floreali. Si inizia con gli elementari punto erba, catenella, vapore, mosca, spina, festone, strega, per arrivare al punto damasco, lanciato, pieno, pieno imbottito, punto pisano, punto inglese, ricamo a intaglio o Richelieu; notevoli i punti di ricamo su tela sfilata che comprendono le numerose varianti di punti a giorno realizzati a fascetti, a punto maglia, cordoncino e rammendo in una grande quantità tipologica. Specialmente nei ricami del primo Novecento l’ornato floreale è realizzato sfruttando la trasparenza ottenuta combinando insieme diversi tipi di fondi a giorno (retini su tela sfilata) contornati a punto festone o cordoncino, per ottenere decori di grande effetto. Assai diffuso, dalla fine dell’Ottocento in poi, è anche il ricamo su tela sfilata, erroneamente definito filet, caratterizzato da un reticolo di fondo lavorato a punto cordoncino sul quale, a punto rammendo, si eseguono i motivi ornamentali costituiti soprattutto da rose, grappoli d’uva ed altri motivi fitomorfi stilizzati. Il filet vero e proprio o modano, vale a dire la rete annodata, ricamata a punto rammendo, oppure utilizzata come sfondo per l’applicazione di ricami a punto festone, è presente in rari e raffinati esemplari successivi agli anni Venti del Novecento. Da segnalare l’impiego del “punto in aria” (punto occhiello) realizzato ad ago, di tradizione cinquecentesca, per rifinire i ricami sullo scollo e sui polsi; è un punto di ricamo che richiede grande perizia: viene realizzato come un merletto partendo da una sola linea di appoggio 160 112
e ricamando diversi ordini di minuscoli archetti a punto occhiello intercalati da pippiolini, ragnetti e rosette. Anche qui è da precisare che le bordure più antiche sono sottili, mentre nelle camicie di gala più recenti raggiungono dimensioni considerevoli.36 Si tratta di un insieme di punti di tradizione antica utilizzati nella piena aderenza al gusto isolano o suggeriti dalle riviste di ricamo che ripropongono i temi della grande tradizione del merletto italiano rielaborati nel gusto proprio delle correnti stilistiche del primo Novecento. Alla diffusione del ricamo concorre anche l’attività delle monache, presso le quali le giovani di famiglia agiata apprendono le più raffinate tecniche per la realizzazione dei corredi, e l’apertura di istituti religiosi che impegnano le giovani donne in attività di cucito e ricamo.37 Le trine a fuselli in sottile filato di lino sono piuttosto rare, soppiantate dal più comune pizzo ad uncinetto o da merletti meccanici. Rarissimo è anche il chiacchierino talvolta utilizzato per interventi di riparazione in sostituzione del merletto a “punto in aria”. Da tenere presente il ricamo che orna le camicie di Teulada, sia maschili che femminili.38 Il pizzo San Gallo ed altri tipi di merletti meccanici entrano nell’abbigliamento tradizionale dopo il primo ventennio del Novecento e si diffondono solo laddove la tradizione del ricamo a mano non ha mai trovato uno sviluppo compiuto o sono impiegati in esemplari da riparare o da utilizzare in ambito giornaliero. L’unione delle varie parti dell’indumento è realizzata a mano o a macchina a costura piatta o doppia, tecniche che danno consistenza anche ai tessuti più leggeri e rifiniscono senza sfilacciature quelli più pesanti, garantendo anche una maggiore resistenza ai lavaggi e al logorio dovuto all’uso. Solo raramente, in esemplari rimaneggiati e comunque utilizzati al di fuori dall’ambito tradizionale, si osservano cuciture di qualità inferiore. Il lutto impone la riduzione delle scollature, la rinuncia ai ricami vistosi con la sola concessione di quelli necessari per la struttura dell’indumento, ma in tutti i casi, anche questi, semplificati. Per le vedove, specie nei primi tempi, anche l’eccessivo candore della camicia fresca di bucato doveva essere smorzato esponendola al fumo del focolare prima di indossarla.
Camicie lunghe La loro diffusione interessa tutta l’isola ad eccezione della zona del Nuorese e della Baronia. Gli esemplari di struttura più arcaica nascono dall’unione di una parte superiore costituita da cinque o sei elementi rettangolari, proporzionati alla taglia del committente, uniti a formare busto e maniche, ai quali vanno aggiunti gli elementi ornamentali, vale a dire i polsi ed eventualmente i decori della scollatura anteriore e del petto che possono essere preparati a parte e applicati successivamente insieme al bordo che rifinisce la parte posteriore della scollatura; a questo insieme viene unita una parte inferiore, in genere costituita da due o quattro teli. La tela di cotone o lino impiegata per la confezione della parte superiore può essere molto sottile, quella utilizzata per la parte inferiore, sempre in lino o cotone, è in genere molto grossolana e pesante tale da risultare più resistente all’attrito con i tessuti delle gonne. Talvolta la parte inferiore eccede, in larghezza, rispetto a quella superiore e, in corrispondenza dei lati, lungo il punto di unione, si osservano due spacchi trasversali. La vestibilità è data da una lunga apertura longitudinale
160. Dalsani (Giorgio Ansaldi), Costume di Bitti (circond. di Nuoro), 1878, litografia a colori, in “Galleria di costumi sardi”, in Il Buonumore, Cagliari 1878. 161. Camicia festiva e di gala, camìsa, Sinnai, seconda metà sec. XIX Nuoro, Museo della Vita e delle Tradizioni Popolari Sarde.
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alette; sono confezionati con tessuti broccati e laminati in seta e cotone guarniti con trine e passamanerie mentre gli esemplari ricamati perpetuano, anche in tempi a noi vicini, uno stile di disegno, schematico, naturalistico stilizzato, di antica tradizione. Anche a Busachi si trovano corpetti (pàllas) interessanti per la qualità delle stoffe impiegate, per le rifiniture realizzate con nastrini policromi sapientemente pieghettati e per la cura con la quale vengono confezionati anche gli indumenti giornalieri il cui uso continua, tra le più anziane, anche attualmente. In tutta l’area centrale, fino a Sorgono, i corpetti sono bordati con nastri a colori vivaci. L’area centro-meridionale mostra corpetti assai omogenei nel taglio, coprono infatti le spalle quasi fino al punto vita con grandi scollature quadrangolari o rotondeggianti, mentre è assai varia la scelta dei tessuti e l’ornamentazione. La confezione di capi festivi predilige, come nel resto dell’isola, tessuti di pregio sui quali vengono applicati trine, nastri, lustrini e perline a sottolineare le linee di cucitura sulle spalle o ad ornare le piccole parti anteriori unite sotto il seno con una serie di ganci o nastri allacciati. I capi più lussuosi vengono anche ricamati con fili e canutiglia d’argento sul tessuto broccato. Per i capi giornalieri la tipologia dei tessuti impiegati comprende velluti di cotone uniti o stampati, lampassi, damaschi e tutta la gamma dei tessuti di cotone operati e stampati. Questi capi sono cuciti a mano o macchina, tutti sono accuratamente foderati con tele di cotone o di lino pesanti di colore chiaro, o con telette di cotone fantasia. 138
202. Corpetto festivo e di gala, pàla a sùpra, Nuoro, fine sec. XIX Roma, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari. 203. Corpetto festivo e di gala, pàla a sùpra, Nuoro, fine sec. XIX Nuoro, coll. privata. 204. Corpetto festivo e di gala, pàlas, Orgosolo, fine sec. XIX Roma, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari. 205. Abito festivo e di gala, Orgosolo, prima metà sec. XX Nuoro, Museo della Vita e delle Tradizioni Popolari Sarde.
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Casacchini e giacchini Indumenti di diversa origine vengono compresi in queste due definizioni, la prima delle quali è riservata ad un modello ben preciso, il cui uso pare attestato soltanto nel circondario di Cagliari, mentre la seconda comprende varianti utilizzate in tutta l’isola. I casacchini sono corte giacche che non oltrepassano i fianchi, hanno la parte posteriore piuttosto aderente al busto e lasciano scoperto il petto. Le prime fonti iconografiche che ne attestano l’uso risalgono al primo decennio dell’Ottocento e la descrizione risponde appieno agli esemplari d’epoca presenti nelle raccolte pubbliche e private. Il casacchino è confezionato in velluto di seta nero o color caffè scurissimo ed è sempre caratterizzato da maniche a tre quarti terminanti con volant arricciato o risvolto “a scure” e da un accenno di baschina posteriore con piccolo gruppo di pieghe al centro. Le parti anteriori, appena accennate, sono irrigidite con steli vegetali o cordoncini inseriti all’interno della fodera. L’indumento è interamente profilato con galloni d’oro con i quali sono anche bordate le aperture di due finte tasche. Due nastri in gallone d’oro con frangia partono dallo scollo posteriore e ricadono sciolti, sopravanzando di poco la lun-
261. Giacchino festivo, gippòni, Iglesias, primo decennio sec. XX Roma, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari.
ghezza totale dell’indumento. L’unico dettaglio che costituisce una vera differenziazione è il disegno della manica che può avere un alto risvolto rigido con profilo “a scure”, messo ulteriormente in risalto dai larghi galloni applicati, o terminare con un volant arricciato bordato con un gallone o una trina d’oro. Sia il Tiole sia il La Marmora48 illustrano l’esemplare con volant sotto il quale sono indossate lunghe maniche di tessuto variopinto, con asole e bottoni d’argento. La versione con manica “a scure” sembra invece destinata ad essere indossata lasciando in vista le maniche della camicia ornate di pizzi. I modelli a volant sono peraltro associati a gonne rosse (si conosce un solo esemplare di colore azzurro) con alto bordo in tessuto di seta broccato analogo anche al grembiule, mentre l’esemplare “a scure” si abbina ad una gonna in pesante tessuto broccato e laminato.49 L’abito di gala delle collezioni del Museo della Vita e delle Tradizioni Popolari Sarde di Nuoro rimanda a questa variante; quello conservato a Roma, presso il Museo Nazionale
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262. Giacchino festivo, gippòni, Ussassai, prima metà sec. XX Nuoro, Museo della Vita e delle Tradizioni Popolari Sarde.
263. Giacchino festivo, gippòni, Iglesias, primo decennio sec. XX Nuoro, Museo della Vita e delle Tradizioni Popolari Sarde.
delle Arti e Tradizioni Popolari, mostra invece il tipo a volant, con manica staccata, abbinato alla gonna di panno rosso. In tutti i casi si tratta di insiemi vestimentari di massima gala riservati al ceto dei grandi possidenti del circondario di Cagliari.50 La foggia di questi capi deriva da casacchini e carachi settecenteschi nei quali è ugualmente possibile ritrovare sia la manica a volant sia “a scure”, quest’ultima è assai frequente anche nelle marsine maschili della stessa epoca dette anche velàda, proprio lo stesso termine usato in Sardegna per questo tipo di casacchino distinto così, anche nel nome, da tutti gli altri capispalla. Di foggia leggermente diversa è il casacchino che contraddistingue l’abito da sposa di Teulada, anch’esso in velluto con manica a tre quarti, caratterizzata da un alto risvolto in tessuto broccato a grandi motivi floreali.51 263
264. Giacchino festivo, gippòni, Iglesias, prima metà sec. XX Nuoro, Museo della Vita e delle Tradizioni Popolari Sarde.
179 264
368
369
370
I rigattieri la indossano nera ripiegata in avanti o di lato.83 Sopra la berretta può essere sovrapposto un fazzoletto variopinto annodato sotto il mento. Fazzoletti colorati possono anche cingere la circonferenza della berrìtta. La berretta rossa, particolarmente gradita alla categoria dei macellai cagliaritani, si porta spesso ripiegata in due o più cerchi concentrici sulla sommità del capo oppure adattata con un’alta piega esterna attorno alla quale viene avvolta la treccia di capelli, in tal caso viene detta a cécciu.84
368. Anonimo, Macellari di Cagliari, inizio sec. XIX, acquerello su carta, Collezione Luzzietti, Cagliari, Biblioteca Universitaria. 369. N.B. Tiole, Paysan de la ville de Sassari, 1819, acquerello su cartoncino, Cagliari, coll. Piloni. 370. Luciano Baldassarre, Pescatore di Cagliari, 1841 (in campo firma: Pedrone), litografia a colori da Cenni sulla Sardegna, Torino 1841; Cagliari, coll. Piloni. 371. Sennori, inizio sec. XX, foto d’epoca. 372. Sassari, 1898 ca., foto d’epoca. 373. Luciano Baldassarre, Beccajo di Cagliari, 1841 (in campo firma: Pedrone), litografia a colori da Cenni sulla Sardegna, Torino 1841; Cagliari, coll. Piloni. 374. Luciano Baldassarre, Costume d’Iglesias, 1841 (in campo firma: Pedrone), litografia a colori da Cenni sulla Sardegna, Torino 1841; Cagliari, coll. Piloni. 375. Boucher de Cagliari, 1850-63, litografia a colori dal Journal Amusant, Parigi; Cagliari, coll. Piloni. 371
234
372
373
374
Come quelle rosse anche le berrette nere sono portate molto spesso ripiegate in tal modo che non è davvero possibile capire quale sia la vera lunghezza né delle une né delle altre.85 Forse una variante di queste berrette è quella a punta guarnita di nappina, descritta nella Collezione Luzzietti alla tav. 47, Tempiesi, accompagnata dalla consueta acconciatura a treccia rialzata. Alla fine della seconda metà dell’Ottocento le fogge schiacciate sembrano dimenticate mentre rimangono in vigore quelle ripiegate in avanti e poi indietro, oppure ricadenti su un lato o all’indietro. In questo periodo, come già detto, la lunghezza è maggiore che negli anni precedenti e il colore nero rimane in vigore fino alla scomparsa di tale copricapo che continuerà a lungo ad essere indossato anche in insiemi vestimentari tradizionali, sostanzialmente modificati, ad esempio, dall’introduzione dei pantaloni a tubo. Fez e berretti a tamburello Entrambi sono copricapo rigidi, i primi ben raffigurati almeno nell’iconografia del primo Ottocento, i secondi poco o nulla presenti probabilmente perché usati, in quel periodo, solo in ambito domestico. Il fez classico è un copricapo rigido, piuttosto alto, di forma troncoconica che nell’isola viene chiamato berrètta, o berriuòla; di chiara influenza nordafricana o levantina, è diffuso in tutto il Mediterraneo. Nella Sardegna meridionale, area di vasta diffusione, si predilige la variante in lana rossa, ma è attestata anche quella di colore nero, sia di forma
375
troncoconica che troncocilindrica, quest’ultima spesso confusa con una varietà di berretta a sacco. La variante rossa è usata in alternativa alla berretta a sacco ed è difficile trovare oggi una giustificazione per l’una o l’altra scelta. A Cagliari i rigattieri e i conducenti di carri le usano entrambe, e così pure i pescatori, anche se tutto l’insieme degli indumenti fa propendere per una condizione più agiata di quanti indossano il fez.86 La variante in nero, in panno o orbace, è sopravvissuta nell’abbigliamento di Sanluri, ma non è escluso che anche in questo caso le berrette più antiche fossero analoghe a quella descritta e che l’alto costo o una qualche interruzione del commercio abbia indotto alla sua riproduzione in panno o orbace. I berretti a tamburello, cioè di forma troncocilindrica bassa, sono conosciuti con il nome di ciccìa, zizzìa, giggìa.87 Di fatto nelle collezioni pubbliche e private sono presenti solo le varianti infantili di fine Ottocento che saranno descritte nell’apposita sezione. La ricerca sul campo ha finora accertato la diffusione dello stesso copricapo per adulti nel Nuorese, nelle Barbagie, nelle Baronie, in Sarcidano e Trexenta. Ovunque viene descritto come elemento comune ad uomini di varia condizione sociale, da utilizzare esclusivamente in ambito confidenziale e domestico, dunque in tutte quelle situazioni per le quali non è prescritto l’uso della berrìtta. Il copricapo è realizzato in panno di lana, fustagno, velluto ed altri tipi di tessuti di cotone, sempre di colore scuro, trapuntati lungo la circonferenza per ottenere il profilo rigido della 235
GHETTE E UOSE
L
e ghette o uose sono indispensabile indumento dell’abbigliamento maschile nell’insieme costituito da calzoni a gonnellino e calzoni di tela, ma possono anche essere indossate con pantaloni a tubo. Se ne conoscono modelli a gamba chiusa, da infilare, detti càrzas, e modelli a gamba aperta, da allacciare o chiudere con bottoni, che vengono chiamati burzighìnos. Entrambi possono essere in cuoio o orbace; in panno sono confezionati solo gli esemplari più recenti. L’iconografia relativa a questi capi è davvero sterminata126 e numerosi sono anche i tipi risalenti alla fine dell’Ottocento e ai primi del Novecento, soprattutto del modello in orbace sia a gamba chiusa sia con lacci. Rarissimi invece gli esemplari in cuoio, noti soprattutto grazie alle fonti: «I borzeghinos sono aderenti alla gamba, spesso aperti e allacciati sul polpaccio, di cuoio in alcune parti, in altre in furesi nero. Questa calzatura, più comune nel settentrione, si mette in genere sopra le mutande di tela di cui si è parlato. Nel Campidano, al contrario, e nei dintorni della capitale, si usano di frequente le carzas, che si possono considerare come delle grandi ghette larghe, senza lacci o bottoni, che si infilano come calze, sono fatte di furesi nero e talvolta di cuoio molto sottile finemente pieghettato. Sono allora di una notevole eleganza. Le carzas si infilano, di solito,
478
292
479
sulle gambe nude».127 Dalle stesse fonti pare si deduca la predilezione dei modelli in pelle sottile, anche di daino, per l’estate o comunque quando si voglia vestire in modo più elegante.128 Sia le càrzas che i burzighìnos sono gambaletti ben sagomati per seguire la linea della caviglia e del polpaccio, dotati di una parte allungata che copre parzialmente la tomaia della calzatura e che può essere munita o meno di sottopiede in cuoio. In entrambi i modelli sembra essere più comune la lunghezza al ginocchio o a metà ginocchio, ma non mancano esemplari che arrivano alla coscia. La parte superiore viene sempre fermata con lacci, nastri allacciati o affibbiati che possono essere in vista, anche a scopo ornamentale, o nascosti sotto la piega superiore della stessa uosa. Qualche esemplare in orbace mostra minuti ricami in cordoncino di cotone o di seta lungo le cuciture, altri hanno applicazioni di tessuto, anche in contrasto cromatico, sul bordo superiore; in altri casi lungo la parte che copre la scarpa è presente un sottile bordino di panno rosso, nero, o comunque abbinato al colore del giubbetto o del corpetto. Tutti gli esemplari, anche quelli cuciti a macchina, presentano molte parti accuratamente rifinite a mano. Le fodere, dove presenti, riguardano solo la parte interna della soprascarpa e sono in pesante tessuto di cotone di colore scuro (rasatello, fustagno, tela spazzina).
480
478. Uose, borzeghìnos, Cagliari, fine sec. XIX Roma, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari. 479. U. Martelli, Costume attuale di Bitti, fine sec. XIX, litografia a colori. 480. Uose, càrzas, Atzara, inizio sec. XX Nuoro, Museo della Vita e delle Tradizioni Popolari Sarde.
481
481. Uose, càrzas, Tonara, primo decennio sec. XX Roma, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari.
293
602
603
605
604
607 606
Un tipico costume sardo: editare i costumi in cartolina Enrico Sturani
Siti e tipi Le cartoline regionali appartengono a due grandi tipologie: “siti” e “tipi”. Essi sono compresenti solo nelle cartoline con cui si inaugurò a fine ’800 questo tipo di supporto postale illustrato; poiché esse nacquero nelle zone turistiche dell’oltralpe di lingua tedesca, sono tuttora note come “Gruss aus”; da noi questa formula suona “Saluti da…” o “Ricordo di…”. Ricordo di Cagliari (fig. 602), qui edita e da qui spedita nel 1899, ne è un buon esempio: essa riproduce insieme tre piccole fotografie, con angoli accartocciati e ombra portata, a trompe l’oeil, come fossero appoggiate sulla cartolina, più che riprodotte su essa; sono coordinate tra loro da fiori e dal cartiglio con la scritta che s’è detto. Una mostra via Roma a volo d’uccello, un’altra è una veduta ravvicinata del monumento a Carlo Felice; infine, con effetto zoomata, si passa alla figura in piedi di un “Rigattiere”; al tempo stesso ci siamo spostati dall’esterno all’interno, nello studio stesso del fotografoeditore. Se con una lente guardiamo i personaggi che compaiono nei due spazi pubblici, ci rendiamo conto che dall’abito da città, borghese o moderno che dir si voglia, si è passati al costume tradizionale. Un’altra cartolina di impostazione simile, Ricordo d’Iglesias (fig. 603), accoppia tre uomini impalati in studio (“Costume d’Iglesias”) con la veduta di fumanti ciminiere della “Miniera di Monteponi”. Appare dunque chiaro che, agli albori della cartolina, gli editori sardi intendevano caratterizzare il proprio popolo 602. Ricordo di Cagliari. Editore Giuseppe Dessì, Cagliari, 1899. Stampa in fototipia. 603. Ricordo d’Iglesias. Editore Fratelli Centos, Iglesias, 1899; spedita nel 1901. Stampa in fototipia. 604. Costume sardo. Editore non indicato, 1902 ca.; spedita nel 1905. Stampa in fototipia. 605. Tempio (Sardegna). Costume: alla fonte. Editore Stengel, Lipsia, 1902 ca.; spedita nel 1905. Stampa in fototipia. 606. Costume di Orzulei (sic). Editore Casa Editrice Cartoline Illustrate Dallay, Sassari, 1910 ca. Stampa fotografica. 607. Costumi sardi. La trebbiatura nel Nuorese. Editore Alterocca, Terni, 1908 ca. Stampa in fototipia. Esiste anche una identica cartolina edita dalla SAT e spedita alla fine degli anni ’10 in fototipia colorata a mano.
e la propria terra come una sorta di ossimoro iconografico: un paese al tempo stesso aperto al futuro (nel Ricordo di Cagliari spicca l’illuminazione pubblica coi fanali a gas) e radicato nel passato. Insomma, la Sardegna come sintesi di antico e moderno, di staticità e dinamismo. Vedremo poi come, negli anni ’20, questo contrasto fu al centro di alcune serie di cartoline di gusto umoristico dell’illustratore Sini, mentre, nel secondo dopoguerra, analoghe cartoline-ricordo composite di siti e tipi muteranno di immagine e significato. Ora soffermiamoci sui “tipi” presenti in questi “Ricordi”. C’è costume e costume “Costume d’Iglesias”, riferendosi a tre signori perfettamente impalati dinanzi al fotografo e identicamente vestiti, non può che indicare l’abito tradizionale del luogo. Il tipo cagliaritano in Ricordo di Cagliari, altrettanto impalato, viene invece indicato come “Rigattiere”, lasciando intendere che l’abito che indossa sia tipico del suo mestiere (svolgibile solo in un grande centro), ancor più che della città in cui lo svolge. Numerose cartoline, anche edite in serie, esplicitamente titolate “Costumi sardi” mostrano però dei mestieri (o, meglio, le fasi salienti del loro svolgimento) a cui si attende senza necessariamente indossare l’abito tradizionale (oppure usandone solo alcune sue parti, in modo incompleto e casual ). Per citare solo alcuni casi, ecco, nel primo ’900, un Costume sardo (fig. 604) mostrante una ragazza che, in gonna tradizionale e scialle e foulard correnti, rammenda usando dei rocchetti cucirini importati dal continente tenuti entro un cesto di produzione locale. Negli stessi anni, anche in Tempio (Sardegna). Costume: alla fonte (fig. 605) si può notare una certa coincidenza fra il costume di andare ad attingere acqua e l’indossare, magari in modo non filologicamente ineccepibile, il costume. Dei primi anni ’10 è la cartolina Costume di Orzulei (sic) (fig. 606): essa mostra un gruppo di uomini colti dal vivo, all’esterno, in costumi che conoscono tutte le varianti e le incertezze proprie del caso e del casual, della miseria e del tocco personale, compreso l’uso assortito di pipa, sigaro toscano e sigaretta. A partire dai primi anni ’10, prima per conto di committenti locali, poi in proprio, la torinese SAT edita vari 371
10,0 8,0
7,7
6,0 4,0
2,7
3,9
2,0
2,0 0,0
-1,3
-2,0 -4,0
-2,4 Imprese
74,5
80,0
-1,0 -2,1
Il comparto tessile chiude mediamente i propri bilanci in perdita. Il 21% del valore aggiunto è assorbito dai creditori, l’1,3% dallo Stato per imposte e tasse e circa il 74,5% è utilizzato per la remunerazione degli addetti del comparto. Una parte del valore aggiunto rientra sotto forma di ammortamenti per circa il 26,1%.
60,0 40,0
Addetti
20,0
1,3
0,0
Tav. 2 - Variazioni percentuali 1996-2000 (fonte: Elaborazioni su dati Annuario Statistico 2003 - Osservatorio Industriale).
26,1
21,0
-22,9
-20,0
Per valutare lo stato di salute del settore dal punto di vista economico e finanziario sarebbe necessario disporre dei bilanci di esercizio di tutte le imprese censite, ma ciò non è possibile. Tuttavia, grazie alle informazioni dell’Archivio Bilanci dell’Osservatorio Industriale, siamo in grado di ricostruire per gli anni 1994-2001 l’andamento di un gruppo particolare di imprese appartenenti al settore. Si tratta in pratica di 37 società di capitale con l’obbligo del deposito di bilancio, 23 fra Srl ed Spa e 14 cooperative, per un totale medio di 1.251 addetti nel periodo considerato, che figurano nella speciale graduatoria delle imprese guida operanti in Sardegna, ovvero di quelle imprese che nella distribuzione statistica ordinata in senso decrescente per fatturato e valore aggiunto si collocano fra il 100° e il 75° percentile. Sulla base del contributo al valore aggiunto dell’industria in senso stretto, il settore si colloca al quinto posto della graduatoria regionale, con una media dell’8,9% negli 8 anni considerati. A questo risultato concorre prevalentemente il trattamento delle fibre tessili (86,3%), mentre l’abbigliamento partecipa per il restante 13,7%. ABBIGLIAMENTO 13,7%
-40,0
Oneri finanziari
Imposte
Costo del Lavoro
I dati della tav. 5, relativi a fatturato e valore aggiunto, mostrano un andamento altalenante: con un picco nel periodo 1996-97, un calo nei due anni successivi e un accenno recente di ripresa. L’andamento a livello aggregato è trainato dai risultati del settore del trattamento delle fibre tessili e nasconde un calo del settore abbigliamento per tutto il periodo 1995-99, solo in parte controbilanciato dai dati dell’ultimo triennio. 160.000 140.000 120.000 100.000 80.000 60.000 40.000 20.000 0
1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001
45.000 40.000 35.000 30.000 25.000 20.000 15.000 10.000 5.000 0
Fatturato
Tav. 5 - Fatturato o valore aggiunto del Tessile e Abbigliamento (fatturato scala di sinistra, v.a. scala di destra, milioni di Euro) (fonte: Elaborazioni su dati Annuario Statistico 2003 Osservatorio Industriale).
TRATTAMENTO FIBRE TESSILI 86,3% ANNO
Contribuzione % dei sottosettori
1994
1995
1996
1997
1998
1999
2000
2001
media
ABBIGLIAMENTO
24,71
19,5
16,25
11,01
10,16
11,88
12,16
4,18
13,7
TRATT. FIBRE TESSILI
75,29
80,4
83,75
88,99
89,84
88,12
87,84
95,82
86,3
Totale
100
100
100
100
100
100
100
100
100
Tav. 3 - Ripartizione del valore aggiunto fra i sottosettori (fonte: Elaborazioni su dati Annuario Statistico 2003 - Osservatorio Industriale).
452
Utile o perdita netta dell’esercizio
Tav. 4 - Distribuzione media del valore aggiunto tra i fattori primari 1994-2001 (fonte: Elaborazioni su dati Annuario Statistico 2003 Osservatorio Industriale).
Valore aggiunto
Valore aggiunto
Ammortamenti
Rivolgendo ora l’attenzione agli equilibri economico-finanziari, consideriamo gli indicatori riportati nella tav. 6, che fotografano l’impresa mediana (interpretabile come l’impresa dal comportamento tipico in relazione all’universo considerato) sotto sei diversi profili. Inutile dire che in un’analisi esaustiva questi andrebbero commentati in maniera coordinata. Qui possiamo darne solo una lettura veloce.
72,6
80,0 60,0 40,0
25,5
20,3
20,0
1,0
-19,4
0,0 -20,0
Utile netto d’esercizio
-40,0
Interessi passivi
Ammortamenti materiali e immateriali
Retribuzioni al personale lorde
Imposte e tasse
TAV. 6 - INDICATORI DI BILANCIO MEDIANI (PANEL OSSERVATORIO INDUSTRIALE) ANNI INDICI MEDIANI
1994
1995
1996
1997
1998
1999
2000
a) Sviluppo Variazione fatturato
13,0
7,3
-2,0
5,4
1,1
-10,6
0,1
Variazione valore aggiunto
11,1
9,1
-6,2
6,6
-1,0
-1,4
-3,1
2,9
0,6
0,0
3,6
0,0
0,4
-3,6
Variazione Capitale Netto
b) Redditività ROE (Return on Equity)
0,5
4,3
0,0
0,2
0,0
0,0
-1,2
ROI (Return on Investment)
2,0
3,3
1,1
1,5
1,0
0,0
0,0
ROS (Return on Sales)
1,7
4,4
1,2
0,7
1,9
0,0
0,0
Turnover
0,8
0,8
0,7
0,7
0,6
0,6
0,5
26,7
27,4
23,0
23,0
21,9
15,7
15,5
3,0
3,5
3,6
4,3
3,8
3,1
3,1
Valore aggiunto su attività Oneri Finanziari su Fatturato
c) Produttività Valore aggiunto su Costo del lavoro
1,2
1,4
1,2
1,1
1,3
1,2
1,1
Valore aggiunto per addetto (migliaia di euro)
12,9
17,8
13,1
14,2
10,2
8,0
15,4
Fatturato per addetto (migliaia di euro)
33,1
42,0
24,5
28,0
20,9
17,1
31,3
Costo del lavoro per addetto (migliaia di euro)
10,1
11,9
10,7
10,8
10,2
9,7
11,7
Cash flow per addetto (migliaia di euro)
-0,3
1,3
0,3
-0,1
-0,2
-0,6
-1,6
d) Struttura dell’attivo e del passivo Immobilizzazioni immateriali su Attivo
0,1
0,1
0,0
0,0
0,0
0,1
0,1
Immobilizzazioni materiali su Attivo
37,5
29,5
41,1
31,9
38,7
38,0
38,3
Passività a BT su Passività
78,1
72,5
71,4
67,5
70,3
72,9
81,8
21,9
27,5
28,6
32,5
29,7
27,1
18,4
Passività a MLT su Passività
e) Gestione circolante e liquidità Disponibilità su Esigibilità
114,0
126,8
125,0
116,9
111,0
109,4
90,0
Rotazione crediti commerciali gg
73,9
73,0
75,1
66,9
81,8
162,3
136,6
Rotazione debiti commerciali gg
185,8
228,2
219,0
230,5
214,0
74,7
64,4
Cash flow su Attività
5,0
9,9
3,6
0,0
1,1
-7,2
-0,4
MOL su Oneri finanziari
2,9
2,5
1,9
2,2
2,2
2,1
2,1
I primi due (a,b), in particolare nell’ultimo triennio, ci restituiscono un quadro preoccupante. L’impresa tipica stenta ad aumentare la propria presenza sul mercato (variazioni del fatturato modeste o negative), è scarsamente dinamica (valore aggiunto calante) e, stando all’indicatore relativo alla crescita globale del patrimonio di proprietà degli azionisti, vive una fase di stazionarietà/regresso. Il rapporto fra risultato netto e capitale proprio (ROE) e fra reddito operativo e capitale investito (ROI), che esprimono rispettivamente il grado di remunerazione del rischio effettivamente sostenuto dall’imprenditore (da confrontare in equilibrio con un tasso privo di rischio) e la capacità di produrre reddito a prescindere dalla struttura finanziaria (da valutare alla luce del costo medio del danaro) assumono, anche tenendo conto di alcune peculiarità del contesto locale che comportano la sottostima degli utili contabili, valori estremamente modesti. Dato che il ROI è influenzato dal margine sulle vendite (ROS) e dal volume di queste ultime (Turnover), non stupisce che anche questi indicatori assumano valori molto contenuti. È interessante valutare gli indicatori di produttività (c), che dipendono sia da scelte interne all’impresa sia da fattori ambientali che non ricadono sotto il suo controllo, in rapporto alla media regionale. Il valore aggiunto per addetto si attesta su valori inferiori a quelli relativi al sistema, (8-15 migliaia di euro nel comparto tessile contro 2530 migliaia di euro per addetto del sistema Sardegna) così come il fatturato per addetto (17-42 migliaia di euro contro 71-86 migliaia di euro per addetto per la Sardegna). Il costo del lavoro per addetto è lievemente crescente dal 1994 al 2000, mentre il cash flow per addetto mostra un andamento negativo tranne che nel 1995 e nel 1996. Infine, un rapido sguardo ad alcuni aspetti squisitamente finanziari, accanto a una certa rigidità della struttura dell’attivo e alla quasi totale assenza di investimenti immateriali, permette di evidenziare: un rapporto fra passività e capitale netto (leverage), indice del rischio finanziario dell’impresa, inferiore rispetto ai corrispondenti valori regionali (dove le passività sono circa il triplo del netto); un fragile equilibrio finanziario a breve, testimoniato dal cedimento del rapporto disponibilità ed esigibilità (attività correnti/passività correnti); un andamento molto variabile sia delle fonti di natura strutturale sia di quelle autogenerate.
f) Equilibrio delle fonti e degli impieghi - Liquidità Passività su Netto
1,9
1,8
2,3
1,8
1,9
1,3
1,4
Cash flow su Totale fonti di liquidità
-0,8
6,4
0,7
-1,6
-1,2
-9,7
-2,9
Impieghi autogenerati CL su Impieghi di liquidità
87,4
77,3
81,1
87,2
84,8
83,3
78,5
Impieghi strutturali CL su Impieghi di liquidità
12,6
22,7
18,9
12,8
15,2
16,7
21,5
Fonti autogenerate CL su Fonti di liquidità
89,5
87,5
83,5
85,2
87,9
63,5
79,2
Fonti strutturali CL su Fonti di liquidità
10,5
12,5
16,5
14,8
12,1
36,5
20,8
Tav. 6 - Indicatori di bilancio mediani (fonte: Elaborazioni su dati Le imprese guida in Sardegna 2001 - Osservatorio Industriale).
Tendenze attuali nel settore abbigliamento-moda Nelle sezioni precedenti abbiamo delineato lo scenario più ampio entro il quale, da alcuni anni a questa parte, si assiste in Sardegna a un evidente fermento nel campo dell’abbigliamento/moda: una miscela di successi eclatanti come quello dello stilista algherese Antonio Marras, rilanci emblematici di attività sartoriali tradizionali come quella di Paolo Modolo, sviluppo di configurazioni di filiera come nell’area industriale di Tossilo-Macomer. Documentare una congerie così eterogenea di casi è difficile sia perché mancano informazioni ufficiali sia per le 453