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LEGNI LEGNI
Storia, cultura e tradizione in Sardegna
In sovraccoperta: Conocchia, Bonorva, ante 1911, Roma, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari.
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0 Legni prime pagine Ilisso_Ceramiche prime pagine Ilisso 16/11/12 01.10 Pagina 5
Indice
7 PREFAZIONE Giulio Angioni
13 L’ANTICO
LAVORO DEL LEGNO
Tatiana Cossu
27 LE
ESSENZE LEGNOSE
Maria Solinas
33 FALEGNAMI
E INTAGLIATORI
Alberto Caoci
45 DAL
LEGNO ALL’OGGETTO INTAGLIATO. IL LESSICO
Giulio Paulis
65 LA
CASSA, MOBILE DELLA CASA SARDA.
STORIA,
TRADIZIONE E SIMBOLI
Susanna Paulis
182 Le casse di piccole dimensioni Susanna Paulis
184 Antiche casse sarde a Nurachi: storia di una ricerca Tania Pisanu, Efisio Marras
189 LE
COMPONENTI TRADIZIONALI IN LEGNO NELL’ARCHITETTURA DOMESTICA
Antonello Cuccu
202 Serratura lignea da Scano Montiferro Giovanni Maria Demartis
205 L’ARREDO
LIGNEO DELLA CASA TRADIZIONALE
Giovanni Maria Demartis
262 Turuddas e talleris Giovanni Maria Demartis
281 IL
GIOGO, IL CARRO, L’ARATRO
Giulio Angioni
304 Utensili per la lavorazione del formaggio Giovanni Maria Demartis
306 Utensili per la panificazione Giovanni Maria Demartis
308 L’attrezzatura per la vinificazione Giulio Angioni
311 OGGETTI
INTAGLIATI, MESSAGGI D’AMORE
Susanna Paulis
349 GIOCATTOLI
DI LEGNO
Anna Lecca
365 MASCHERE
E
CARNEVALE. DALL’INTAGLIO
AL SIMBOLO
Susanna Paulis
387 Design e identità. La parabola dello “stile sardo” nell’arredo, 1911-1940 Giuliana Altea
406 La cornice sardesca Antonello Cuccu
410 BIBLIOGRAFIA
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Prefazione Giulio Angioni
Un libro come questo ripropone, insieme con quelli delle più profonde antichità delle opere e dei giorni dell’uomo, problemi della grande trasformazione recente dei nostri modi di vivere, che non solo in luoghi come la Sardegna inducono, tra l’altro, usi e interessi nuovi per quanto è stato più o meno finito e sostituito in modo drastico negli ultimi decenni. Il destino attuale di arti antiche e più o meno popolari o tradizionali (ceramica, metallurgia, gioielleria, pelletteria, tessitura, falegnameria ecc.) mostra decise novità insieme a intenzioni di conservazione di forme e di funzioni. Non è difficile notare la torsione funzionale e quindi merceologica di questi prodotti, dei loro saperi tecnici e dei relativi gusti estetici. In questo volume campeggia la cassa sarda, con le sue influenze e forse origini rinascimentali, di recente rifunzionalizzata come mobile bar, con la modifica de sa mustra divenuta a ribalta, attualmente prodotta in tinte azzurre o verdine come arredo tipico di case al mare; oppure, in un più franco mostrare il com’eravamo, si presenta sul carro a buoi nelle sfilate di traccas il primo maggio a Sant’Efisio. Si direbbe che senza il sentimento etnico-identitario recente, indotto anche dal turismo, le merci che si definiscono dell’artigianato artistico non avrebbero l’importanza economica che si sono guadagnate pure in Sardegna, sia che si tratti di produzioni rinnovate, sia di antiquariato che ripropone l’antico anche in quanto carico di colore locale, specie in luoghi autoesotizzanti come la Sardegna. Anche nell’ambito della lavorazione non solo artigianale del legno si rinnovano, si conservano e si apprendono abilità operative che sono occasione di riflessione pure da parte di chi, in numero non irrilevante, vi si dedica in continuità, o in reviviscenza, o in forme e intenzioni nuove.
1. Matrice lignea per il cuoio, Dorgali, inizio XX sec., legno di pero, Ø 45 cm, Dorgali, collezione comunale (particolare). Lo stampo è stato realizzato dall’artigiano dorgalese Giovanni Cucca, che nel 1890 apre una bottega specializzata nella decorazione delle tradizionali cinture in pelle; in seguito l’attività si amplia con la produzione di portafogli, portamonete, borse ecc. Negli anni Trenta del Novecento, accanto alla produzione di pelletteria decorata, sviluppa una linea di manufatti ceramici.
Un certo artigianato non produce quasi più manufatti di uso pratico. È nato e cresciuto l’artigianato artistico, che evidenzia esplicitamente un’estetica etnica o un’etnicità estetica per lo più non pratica, che a volte intende produrre il pezzo unico alla maniera dell’arte borghese grande e piccola, ma nello stesso tempo, in contraddizione con l’intenzione precedente, vuole continuare una tradizione dichiarata ininterrotta nelle tecniche, nei materiali e negli stili, producendo opere che dovrebbero dare un’impressione immediata di stile etnico, testimonianza nostalgica di un tempo troppo rapidamente passato, spesso rimpianto come migliore nei tradizionali modi e stili di creatività locale, e uniche (perché è universale il bisogno di considerarsi unici, e in ciò avendo sempre torto e sempre ragione). Il mondo degli “oggetti ricordo” di ciò che si ritiene più tipico, concentrato di identità locale, è anche arte da aeroporto e da località balneare. Ma intende essere diverse cose, dall’arte intesa come del tutto autonoma e disinteressata fino al piatto profitto mercantile. L’invenzione della tradizione del tappeto sardo è un caso esemplare di torsione e cambio funzionale, soprattutto etnico-turistico, di un aspetto della vita tradizionale, per il quale, come per altri modi così riadattati, si pensa volentieri a una continuità incontaminata e si invocano provvedimenti di protezione e garanzia della genuinità, per scongiurare contraffazioni, si dice, ma in realtà per proteggersi da una concorrenza esterna in grado di produrre a minor prezzo e con non minori connotati di uno stile locale tradizionale più o meno accorto o sbrigativo, anche quando tali oggetti di artigianato artistico sardo oggi arrivino dalla Cina, dato che da tempo anche laggiù si sa trarre profitto dalla domanda globale di offerte locali. Bisogna rifare spesso la constatazione che un certo tipo di bottega artigiana non produce quasi più oggetti utili e pratici, ma “artistici”, o meglio etnico-artistici o di arte tradizionale locale, come quelli che spesso ornano ed etnicizzano le seconde case al mare o al monte, con oggetti ritenuti adatti a esibire colore locale, o etnicità o identità in dimensione estetica, anche nostalgica, a volte con puntiglio etnografico o con tutte quante insieme queste intenzioni, variamente gerarchizzate per importanza. 7
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Le essenze legnose Maria Solinas
La produzione di arredi e manufatti in legno fa parte del patrimonio artigianale sardo e, nello specifico, di quest’ultimo ne sottolinea la semplicità delle forme e dei materiali. Le peculiarità che questo comparto manifesta sono date e dettate dalle specificità del supporto materiale su cui si esprime, il legno, elemento presente nella flora sarda in diverse varietà di alberi autoctoni che si sono adattati nel tempo al clima arido e che proliferano nel territorio senza necessità di intervento o supporto umano. Seppure attraverso un processo di selezione che potrebbe apparire poco approfondito, nella costruzione di un manufatto ligneo l’artigiano svolge una minuziosa ricerca del legname che meglio si adatta ai suoi obiettivi ultimi, in una necessaria compenetrazione di saperi tecnici – per quel che concerne la forma e la funzionalità dell’arredo –, appartenenze culturali e spirito creativo, per quanto riguarda i motivi decorativi e la struttura formale nella quale inserirli. Prendendo l’esempio classico della costruzione di una cassapanca, il falegname cercherà sicuramente una materia prima resistente agli sbalzi di temperatura, dunque ben stagionata, che anche conservi bene il suo contenuto (tradizionalmente grano o corredo) ma che inoltre permetta un minimo di malleabilità per l’immancabile decorazione a intaglio, cercando una fibra a grana semidura. Il castagno, che presenta un buon compromesso fra le caratteristiche ricercate, è la scelta più giusta per il fine del falegname, che in modo inconsapevole crea un sodalizio materia-funzione che nella tradizione si traduce e si fissa nel binomio cassapanca=castagno. Riassumendo, questa scelta pratica delle essenze legnose da utilizzare si basa su due parametri principali: la durezza della materia, e perciò la migliore malleabilità per la buona riuscita del decoro, e la previsione dell’eventuale microclima di conservazione del pezzo finito. Se il primo parametro è di ovvia e obiettiva comprensio-
25. Aritzo, castagni secolari in località Geraizia, 2012. 25
26-28. Belvì, Segheria Marotto, 2012. Fase di essiccazione, lavorazione e stoccaggio dei tronchi di castagno.
ne, il secondo nasce da riflessioni specifiche sulla caratteristica peculiare che il legno conserva nel corso del suo esistere: rimane materia vivente e vitale anche quando l’albero non è più in vita. Questo comporta una puntuale analisi sulle specifiche essenze da utilizzare in casi di microclimi differenti. Come è noto, il legno è materia sensibile alle variazioni di temperatura e di clima, e nonostante una buona stagionatura eviti molte deformazioni e fessurazioni, ogni tipologia di legname alloctona che venga esposta a climi non vicini a quello originario risente costantemente di tale shock termico. Oltre alla necessità di ordine pratico, vale a dire quella di reperire legnami locali per eseguire lavori di artigianato, un deterrente fondamentale per non importare legnami dall’esterno è appunto questo: il rispetto del naturale clima di maturazione delle fibre, che una volta lavorate e assemblate, non soffriranno eccessivi sbalzi di temperatura, rimanendo pressoché inalterate. Inoltre, la relativa ricchezza di essenze nell’Isola, permette un’uniformità cromatica e tipologica di materie prime, elemento non trascurabile per la conservazione dell’arredo tradizionale e delle specifiche culturali che la casa presenta in una realtà a vocazione rurale come quella sarda. La parte della pianta che viene scelta per l’intaglio è il durame, quella più interna del tronco. Come anticipato, le essenze legnose da lavorare a intaglio vengono classificate in base alla durezza, che contrariamente alle rocce, significa maggiore duttilità della materia. I legni duri, più ricchi di fibre, sono perciò più resistenti e garantiscono migliori risultati nella decorazione; in tutti i casi si prestano ad essere intagliati anche i legni semiduri e alcuni legni teneri. Tra le piante endemiche da cui si ricavano legni duri, troviamo in Sardegna il noce (Juglans regia), ricercato per la varietà di colore, la resistenza e per la facilità d’intaglio; l’olmo (Ulmus montana) essenza dura e resistente, ha grana fine e colore bruno rossastro; la quercia (Quercus petraia) da cui si ricava un legno duro pesante e resistente, ma poiché presenta una grana grossa è indicato per lavori non particolareggiati; e infine l’olivo (Olea europea) legno molto duro a grana finissima, il cui tronco è spesso contorto, screpolato e talvolta vuoto, ed il colore è giallo con venature brune. 27
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45-47. Cassa, Oliena, XIX sec., legno di gattice, 71 x 183 x 68 cm, Cagliari, collezione privata.
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acquisendo grande esperienza anche attraverso il restauro di antiche casse dei compaesani e degli abitanti dei paesi vicini, illustra qual è il trattamento necessario della linna ’e castanza ai fini della realizzazione di una cassa. L’intaglio va sempre eseguito a linna assutta, ossia quando la legna è stagionata. Il legno, infatti, continua a “vivere” a lungo dopo che la pianta è stata tagliata, sino a quando non trova il suo assetto definitivo. Diversamente, si corre il rischio che il manufatto intagliato nel legno fresco possa deformarsi. Per una tavola dello spessore di 8 cm occorrono 5 anni di stagionatura, per una dello spessore di 3 occorrono, invece, 2 anni.
Una volta messa in forma la cassa e applicatele le parti decorate attraverso l’intaglio, essa viene sottoposta a colorazione. Un tempo, sostengono gli informatori, il mobile veniva mordentato con sàmbene de boe (sangue di bue). È ancora Giovanni Ardu a raccontare di aver reperito durante i numerosi restauri da lui eseguiti nella sua ormai trentennale attività tracce di tale colorante di origine animale. Il sangue, una volta ossidatosi, conferiva alla superficie del mobile un particolare colore rosso scuro, formando, nel contempo, una patina protettiva. La colorazione “a sangue di bue” successivamente fu sostituita, anche per ragioni igieniche, macinando ossidi di ferro in olio di lino (ozu ’e linu). Anche senza l’aggiunta di terre o degli ossidi di ferro appena menzionati, il semplice olio di lino – un olio vegetale derivante dalla spremitura dei semi di lino –, sottoposto a doppia cottura, conferiva al legno una tonalità calda. Tale preparato artigianale ebbe una diffusione molto abbondante prima dell’avvento delle vernici sintetiche. Oggi ampiamente disponibile già pronto in commercio, è ancora utilizzato nella verniciatura della cassa lussurgese. Oltre che dall’olio di lino, l’impiego del sangue fu soppiantato dall’utilizzo delle aniline, polveri solubili in alcool. Il Signor Ardu racconta il lungo e faticoso procedimento di colorazione delle casse, che eseguiva assieme al suo maestro Giomaria Irranca: Prima si dava il colore con la soluzione a base di alcool, poi si passava l’olio d’oliva per fissare il colore. Dopo che quest’ultimo era stato assorbito dal legno, si dava la cera d’api. Successivamente, una volta consolidatasi la cera, si strofinava con un panno la superficie del mobile e la si spazzolava, rendendola, infine, lucida e omogenea. Anche a Santu Lussurgiu, come altrove, a un certo punto scoppiò la moda di dipingere di nero tutte le casse. Ma come tutte le mode anche questa passò e, allora, ne ho dovuta tirare via di vernice nera in più di un restauro!
66. Cassa, Santu Lussurgiu, XIX sec., legno di castagno, 77 x 161 x 59 cm, Baratili San Pietro, collezione privata. Il coperchio è decorato all’interno. I piedi sono “a zampa di leone”.
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carena), non si può non riflettere su un possibile scambio di fabbriceria tra culture “viaggianti” e marinare e quelle stanziali, all’origine del fabbricato fuori terra: frutto di concezione nuova e rivoluzionaria perché sostitutivo dell’abitacolo ipogeico e con esso di tutto il mondo preistorico, mirato a voler essere reattivo rispetto alla soverchiante sudditanza sintetizzata dal riparo naturale, anzi desideroso di comprenderne le leggi e asservirle. Il concetto di base della copertura a struttura lignea è il riprendere uguale il senso costruttivo della carena di una nave o navicella, rovesciata e posta sui muri perimetrali. E non a caso, in quegli esempi privilegiati a metratura più ampia e absidata, il nome del vano spaziale così ottenuto è proprio quello di nave o navata. E, sia qui detto, va da sé che anche i luoghi di culto, in Sardegna come altrove, presentavano coperture simili al fabbricato abitativo, mostrando anch’essi una copertura a struttura portante lignea (quasi sempre oggi rifatta, in sostituzione di una precedente crollata o di una, caso non infrequente, incendiata). La larga diffusione di fabbricati pluripiano, si diceva, appartiene a periodi recenti e la crescita in sopraelevazione (grazie anche alle nuove disponibilità di legnami non necessariamente autoctoni ma d’importazione; fatto oggi oramai preponderante, esaurite o distrutte le risorse boschive locali) segna un traguardo così significativo per i sardi, al di là poi delle classificazioni ragionate che da Osvaldo Baldacci in poi vengono reiterate, che tutta la categoria di fabbricati che presentasse un primo livello oltre quello terreno, veniva definita a palatu, letteralmente “a palazzo”.5 E il traguardo della sopraelevazione ha voluto significare nuova capacità tecnologica nel tirar su i muri ma anche nel poter tendere finalmente un solaio che fosse tale, storicamente preceduto da su sostre, soppalco sottocopertura simile a un ballatoio, parziale o totale occupazione dello spazio alto dell’unico vano, raggiungibile mediante ripida scala, mobile o fissa ma sempre a struttura leggera ovviamente in legno; su sostre era spazio separato, destinato a deposito o a dormitorio, talvolta riservato e chiuso da una botola (trapa). Nel salire di piano, i muri portanti perimetrali o di spina (centrali) si assottigliavano man mano verso l’alto. Le tavole di solaio erano nei casi più poveri sottili e soltanto accostate, nei più abbienti spesse e incastrate mediante maschiatura, fatto che consentiva il minore passaggio di polveri o altro verso gli ambienti sottostanti. I fabbricati sardi tradizionali, fatte dovute eccezioni, non conoscevano balconi alle finestre. Non è infatti applicabile al territorio regionale il racconto della prima
191. Interno di abitazione tradizionale di fascia abbiente, fine XIX-inizio XX sec., Sorgono. Pur nel recente rimaneggiamento, questo vasto ambiente conserva intatto il suo fascino originario, restituito soprattutto dallo straordinario tavolato a terra, in castagno, e dal solaio di copertura in travi e tavole sempre di castagno.
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Serratura lignea da Scano Montiferro Giovanni Maria Demartis
Una serratura lignea è compresa nelle Collezioni Etnografiche del Museo Nazionale “G.A. Sanna” di Sassari, alle quali risulta acquisita prima del 1970. Un vecchio disegno ricostruttivo, destinato all’apparato didattico del Museo, fa presumere che originariamente fosse inserita nel cancello ligneo di un terreno recintato. A tutt’oggi il manufatto risulta un unicum nelle collezioni di reperti etnografici sardi, ma il reperimento di chiavi riferibili a meccanismi analoghi lascia intuire che nel passato essi non fossero rarissimi. Difatti potrebbe essersi verificata una delle consuete lacune nella documentazione, dovute all’alta deperibilità dei materiali costitutivi degli oggetti e alla scarsa attenzione per i reperti “poveri” dei raccoglitori di un tempo. Il particolare congegno è eseguito in legno, a eccezione di due grossi chiodi in ferro, probabilmente di fattura locale, che ne tengono assemblate le parti costitutive essenziali, e di un comune chiodo commerciale che funge da “fermo” del passante. L’insieme è formato da un blocco bivalve contenente il congegno che dà origine ai movimenti di chiusura e apertura (che doveva essere inchiodato sull’anta mobile del cancello), dal citato passante e da un elemento separato con feritoia (in cui tale passante si inserisce per “chiudere”) collocato in un montante laterale. Il funzionamento era garantito da una grande chiave dentata lignea.
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Si tratta di una caratteristica serratura a perni cadenti che dava luogo a una vera e propria chiusura di sicurezza. L’apertura avviene in questo modo: la chiave, inserita entro un’apposita toppa e spinta verso l’alto, solleva perni lignei mobili a forma di parallelepipedo posti all’interno, liberando i corrispondenti incassi praticati nel chiavistello (in cui normalmente i perni si trovano in fase di chiusura). In questo modo si ha lo scorrimento orizzontale del chiavistello, che così può fuoriuscire dalla feritoia del blocco in legno separato. Invece quando la chiave viene sfilata, per forza di gravità, i perni ricadono negli incassi, impedendo ogni movimento del chiavistello, il quale, se infilato nell’elemento separato laterale fa sì che il cancello resti chiuso. È da rimarcare che pur disponendo della chiave, se non si conosceva il “segreto” del meccanismo erano necessari diversi tentativi prima di arrivare ad aprire, in quanto è intuitivo spingere la chiave verso il basso e non verso l’alto. Si ritiene che serrature in legno simili fossero conosciute in Oriente già nel IV millennio a.C. Sinora l’uso più antico è attestato indirettamente da cretule (sigilli in materiale plasmabile) poste originariamente sulle toppe di serrature presumibilmente lignee nel sito di Arslantepe, in Turchia, dove congegni di chiusura in legno del tipo a perni cadenti sono tuttora d’uso popolare (M. Chighine, P. Ferioli, E. Fiandra 1985, p. 238). La diffusione di quei
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Questa molteplicità di funzioni nelle case più ampie si articolava in uno spazio dilatato, anche in vani specificatamente deputati a taluni lavori e necessità, con mobili appositi, mentre nelle abitazioni elementari, formate sovente da un solo vano, si concentravano in esso, intersecandosi, con una ricorrente polifunzionalità e mobilità di parte dell’arredo. Si deve tener conto che nella stragrande maggioranza dei casi in Sardegna ogni unità abitativa ospitava un unico nucleo familiare, spesso monoparentale, e che la maggior parte degli elementi dell’arredo domestico erano forniti agli sposi dalle famiglie d’origine, come parte fondamentale del corredo nuziale. E il corredo era trasportato ritualmente nella nuova casa, anche con scopo di “pubblicità” tendente a suscitare consensi nella comunità. Pertanto, se si avevano le possibilità, si tendeva a inserirvi non soltanto oggetti che fossero utili e durevoli, ma anche decorativi e “belli”. In un passo del Bresciani si ritrova un’efficace descrizione del trasporto del corredo dei mobili alla casa maritale, per la Sardegna Meridionale: «I due che seguono recano lettiere, assi, traverse, e capoletti: altri portan di belle piramidi di sedie rinverdite da frasche di lauro, e di mortella … uno o due carri portano i panconi e i ritti del telaio, le calcole … i pettini, i licci, le spole, le navette, il subbio … Vengono poscia i carri colle tavole, co’ deschi, colle panche e gli sgabelli, e compaiono i due gran cassettoni che racchiudono i lini, i drappi e le vestimenta della sposa».12
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Di norma spettava alla sposina portare nella nuova abitazione il letto e il mobilio, mentre la dotazione di oggetti in legno del versante maschile non andava troppo oltre gli attrezzi da lavoro. Per la nota povertà di utensili di chi esercitava il mestiere di pastore13 tale equipaggiamento si limitava a scarsi manufatti, quali bastoni, vari recipienti in sughero e le forme in legno per la lavorazione del formaggio (aiscos), che, però, non erano una presenza consueta nell’abitazione familiare, giacché li si teneva normalmente negli ovili. Il più articolato e “specializzato” armamentario degli agricoltori, invece, andava dall’aratro, agli erpici, ai tridenti, ai gioghi, alle palas de arzola 14 ecc. sino al carro. Fra questi, gli strumenti e i mezzi di trasporto di grandi dimensioni, di norma posseduti dai “ricchi”, a cui corrispondevano per lo più case a più vani, quando non erano adoperati in campagna erano allogati entro le mura domestiche, sistemati sotto tettoie o magazzini, così come quelli di minore pezzatura. Nel caso di braccianti o piccoli proprietari, che disponevano prevalentemente di strutture monocellulari o bicellulari, gli utensili, in numero ridotto per motivi facilmente comprensibili, se non si disponeva di un cortiletto, erano sistemati di necessità in un angolo o lungo una parete della cucina. «La sala rustica … – afferma il Costa per Quartu Sant’Elena – è d’ordinario separata dalle altre, e raccoglie l’arsenale degli strumenti agricoli, il deposito dei foraggi, e, sotto, a stalle aperte, anche il bestiame da lavoro».15
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212. Sedia, inizio XX sec., h 90 cm, Aritzo, collezione privata. 213. Sedia, inizio XX sec., h 65 cm, Santadi, Sa Domu Antiga, collezione comunale. 214. Antonio Ortiz Echagße, Pranzo a Mamoiada, 1901 (particolare), olio su tela, 180 x 210 cm, Madrid, collezione privata. 215. Sedia, inizio XX sec., h 78 cm, Sorgono, collezione privata. Il fondo presenta impagliatura originale in tifa. 216. Sedia, inizio XX sec., h 82 cm, Mamoiada, collezione privata. La sedia ha conservato l’impagliatura originale.
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In diversi tipi di scanni, sedie e “poltroncine” sono palesi gli influssi di “ebanistica urbana”, riconoscibili, ad esempio, nell’innesto di parti abilmente tornite. Inoltre, le cosiddette sedie sardo-spagnole, caratterizzate da piedi, traverse e spalliere eseguite al tornio, e parti scolpite con grandi rosoni, schemi fitomorfi e “a ventaglio”, che alternano zone dorate ad altre colorate, più spesso di rosso scuro o azzurro, di certo appannaggio di dimore distinte, tradiscono un forte sapore iberico. In esse sono forse da riconoscere le molte sedie “napolitane” citate in svariati testamenti e inventari della fine del 1700-prima metà del 1800. Desta perplessità che non siano sopravvissuti i seggi “a forbice”, non raramente citati dalle fonti. Moltissime sedie, si noti, sono minuscole e con seduta bassa, non solo per un risparmio di materie prime e manifattura, ma poiché non pochi lavori domestici, come la setacciatura delle farine o la preparazione dei cibi sul basso focolare, prevedevano che le massaie assumessero posture particolari, favorite appunto da piccoli sedili.20 Sono note pure panche riccamente intagliate secondo le “mostre” delle casse e anche per queste opere è palese l’appartenenza all’élite paesana, alle sue istanze di “accoglienza e rappresentanza” ma, in molti casi, considerati i simboli religiosi che le interessano (monogrammi di Cristo e gesuitici, croci e bande che disegnano corone di spine ecc.) non si può escludere una specifica destinazione chiesastica. Attorno al fuoco dormivano solitamente i maschi scapoli della famiglia e i servi, con gli abiti addosso e i piedi rivolti verso il centro, spesso su stuoie o pelli che, all’alba, venivano arrotolate e ritirate. A tale proposito una fonte settecentesca, il Fuos, riporta: «Un Sardo celibe dorme sopra un giaciglio corrispondente alla castità del suo stato, cioè non in molli letti, che alimentano soltanto la lascivia e l’effeminatezza, ma sopra il duro suolo, ovvero sopra stuoie di paglia o giunco: e il dormire in letto è soltanto un privilegio delle persone coniugate».21 Difatti, presso molte famiglie rurali, ancora nella prima metà del 1800 il letto era un lusso riservato ai ricchi, agli anziani ammalati, alle coppie sposate. Il letto “ricco” più documentato, almeno dalla metà del 1600, la cama sardesca (evidentemente già diversa da quella “continentale”) o lettu a pabaglione (Logudoro) o a crispiris (Campidano), rientra nel tipo a baldacchino, caratteristico di contesti in cui vi è penuria di spazi e
223. Sedia, XIX sec., h 125 cm, Nuoro, Museo della Vita e delle Tradizioni Sarde. L’impagliatura del fondo è stata rifatta recentemente.
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224. Sedia, XVIII sec., h 123 cm, Sorgono, collezione privata. La sedia conserva la patina originale in oro zecchino, mentre l’impagliatura del fondo è stata rifatta recentemente.
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promiscuità di dormienti in un unico ambiente, malgrado negli ultimi esiti dell’uso si tendesse a collocarlo in una stanza separata in cui non di rado si riceveva. Per lo più questo mobile aveva una struttura lignea poco curata e disadorna (ma ne esistevano con montanti torniti e scolpiti e/o dipinti) giacché gli elementi portanti erano interamente celati da un vistoso apparato tessile. A questo proposito, una poesia thiesina recita: Cun duos cabaddettes e sette, o otto, taulas a rughe … nd’ hat pesadu su lettu tottu a jaos de linna … e a salia … Ma sa bona pobidda cun lentolos e randa (dae cando fit pizzinna posta a banda cun grande attenzione) fatt’hat su pabaglione e mudadu at sa tana in d’unu grascioseddu tarbenaculu.22 Il che lascia immaginare come per le classi popolari del passato fosse più agevole dotarsi di stoffe elaborate che di mobili ben strutturati e rifiniti. Il caratteristico letto era formato da due cavalletti (campidanese: crispiris; logudorese: istribides) che reggevano un piano di tavole su cui gravava una pila di sacconi e materassi. Quattro montanti lignei formavano il baldacchino, il cui “cielo” (chelu de pabaglione) era a volte assicurato mediante una corda alla travatura del soffitto. Di questo letto, che nelle case agiate assumeva proporzioni monumentali, colpisce l’altezza rispetto al suolo del piano su cui si dormiva, da circa 1,40 m sino a 2 m circa, piano al quale si saliva tramite una scaletta, un’alta sedia o un tavolino oppure, secondo alcune testimonianze, montando su due casse sovrapposte poste a fianco. Non pare inutile specificare che la base di un letto sì fatto includeva uno spazio, una sorta di ripostiglio e che, allo scopo funzionale di assicurare l’intimità di chi vi dormiva e mantenere il calore, vi si affiancano altri fattori di manifesta scomodità, i quali si imponevano per la preponderanza di necessità estetiche e suntuarie, beneauguranti e apotropaiche. 23 Oltre a questi letti, se ne annoverano altri, più dimessi, detti lettu a istribides, lettu a cabaddettes o lettu de campu nelle aree centrosettentrionali e lettu a crispiris in Ogliastra, costituiti da supporti di cavalletti a tavole incrociate connessi con altre tavole disposte in senso orizzontale o con una rete, che sostenevano i materassi o semplicemente pelli o grosse coltri. Successivamente alla metà del
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