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Marianne Sin-Pf채ltzer
Sardegna Paesaggi umani
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Marianne Sin-Pf채ltzer
Sardegna Paesaggi umani
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Sardegna Paesaggi umani saggio
Giulio Angioni
biografia Salvatore Novellu
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Parole per immagini Giulio Angioni
I fotografi e le fotografe che io conosco sono piuttosto taciturni, come forse tutti i fotografi. Possibile che anche Marianne Sin-Pfältzer parli poco, a parole. I fotografi hanno altri mezzi per esprimersi e comunicare, altri modi di vedere e di far vedere il mondo. Sono diversamente abili nel loro guardare e mostrare la vita, conservandone memoria, parziale e inquadrata sì, ma, come forse sentono tutti nel profondo, ricca e precisa come e più di ogni parola che non solo loro, di poche parole, potrebbero dire. Ma siccome sanno anche l’utilità delle parole, amano le didascalie, i discorsi a margine, le chiose e i commenti a ciò che mostrano. E dunque eccomi qui, chiosatore didascalico a commento di queste sue immagini di un’epoca sarda che oggi risulta preziosamente ricca di altri buoni fotografi, come Pablo Volta, Franco Pinna, Henri CartierBresson, Mario De Biasi e diversi altri. Tra tutti, ho conosciuto bene Pablo Volta. A un anno dalla morte, lo abbiamo appena ricordato a Cagliari. Anche lui non è mai stato molto loquace, tant’è vero che mai sono riuscito a percepire se Pablo Volta – diventato ormai un sardo di San Sperate, preso per sempre da una fascinazione per la nostra Isola, iniziata come una sorta di primogenitura nei primi anni Cinquanta del Novecento – conservasse ancora qualcosa del suo essere nato e cresciuto nella lontana Argentina. Una fascinazione del genere ha colto, a cavallo tra gli anni Cinquanta-Sessanta, anche un altro germanico più nordico: il danese Andreas Fridolin Weis Bentzon, che della sua Sardegna ci ha lasciato immagini potenti insieme con il più importante studio sulle launeddas. Così è stato anche per Marianne Sin-Pfältzer, per la Sardegna che allora era quella di Antonio Pigliaru e di Vittorio De Seta, di Peppino Fiori, di Salvatore Cambosu di Miele amaro e di Fiorenzo Serra, impegnati tutti allora nel documentare quella regione che doveva rinascere e che invece è solo drasticamente mutata. Anche le immagini di questo libro, al pari di quelle sarde dei Pablo Volta e degli Henri Cartier-Bresson, sono ottimi esempi, se non anche dei veri e propri monumenti dell’etno-fotografia, non solo in Sardegna. Vecchio e nuovo Chi veniva da fuori in Sardegna 50-60 anni fa, sbarcava quasi solo sulla costa nord. E da lì, con Marianne SinPfältzer, anche noi cominciamo, per due volte, prima in bianco e nero e poi a colori: da Olbia, anzi dal Golfo degli Aranci, inesistenti, gli aranci, ché sono un equivoco derivato dal gallurese di li ranci, cioè dai molto più reali granchi. Ma comunque, si parte da Olbia, che allora
qualcuno chiamava ancora Terranova, e da Porto Torres, dalla Sardegna costiera oggi nota, troppo nota, ma pure ignota, troppo ignota… Le immagini qui raccolte risalgono agli anni tra la metà dei Cinquanta e i primi Sessanta, con puntate fino al 1968, come nella foto cagliaritana degli studenti che si dicono col sessantottino berlinese Rudi Dutschke (n. 132). Risalgono cioè ad appena prima che la Sardegna costiera incominciasse a diventare un luogo di vacanze solemare, e ci restituiscono un modo sardo di vivere che per uno della mia età è quello dell’infanzia e adolescenza. Riportano i visi di allora, le strade spesso senza asfalto, le case – oggi per lo più sostituite o abbandonate –, i panni di saia e di velluto, le toppe ai calzoni, le vesti nere o colorate delle donne, i bambini scalzi, i vecchi solenni in costume. Sono immagini della fine di un’epoca plurimillenaria, alla vigilia dell’inizio di un’altra. Che in Sardegna non cambia mai niente lo dicono anche voci e penne autorevoli, e a volte per dirne bene. Ma non è vero: ce lo mostra quest’Isola fotografata da una giovane signora tedesca, che forse veniva anch’essa, inizialmente, col proposito di mostrare genti e paesaggi immoti nel tempo anche avvenire. E noi sardi di oggi qui ci riconosciamo in immagini di bambini, di donne, di giovani, di adulti che coi vecchi di allora ormai se ne sono andati, e possiamo fare un conto, il cui risultato è che la Sardegna di quegli anni appare lontana da questi nostri tempi del terzo millennio più di quanto quegli anni Cinquanta e Sessanta fossero lontani dai tempi in cui si costruivano i nuraghi, che ancora popolano questa terra antica. E invece, come mi capita di scrivere spesso, in un’Isola dove amiamo identificarci in termini di costanza immutabile, di resistenza strenua a ciò che ci si impone via mare, la dinamica contrastiva fra tradizione e mutamento, fra vecchio e nuovo, che è di ogni luogo e di ogni tempo, di fronte a queste immagini si mostra lacerante. La nostra Isola nella sua interezza, comprese le sue zone interne più elevate e un tempo più isolate, è ormai, come immagine, quasi per tutti, dentro e fuori, un luogo di vacanza, uno dei paradisi dell’estate. Mentre ancora ai tempi dei viaggi fotografici di Marianne Sin-Pfältzer, per l’italiano medio era un premio andare via, e arrivarci era la punizione proverbiale del ti sbatto in Sardegna! Ma se queste immagini danno subito il senso del mutamento, restituiscono anche il senso della conservazione, entrambi inestricabili, nel bene e nel male. E siamo anche costretti a valutare quanto per la Sardegna ciò equivalga a una progressiva e massiccia degradazione
Marianne Sin-Pfältzer in occasione della mostra “Schmuck einer Insel” alla Deutsches Goldschmiedehaus di Hanau, 1959
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Cagliari, piazza Yenne, festa di Sant’Efisio, 1968
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dell’estetica e che non sono forse mai esistiti, se non nell’Occidente contemporaneo. I prodotti delle arti che diciamo tradizionali e popolari oggi riciclati in artigianato artistico sembrano in molti casi testimoniare di un ambiente culturale in cui una tale autonomizzazione dell’arte non è ancora sentita né auspicata, nemmeno a livello di élite (né da committenti né da esecutori né da fruitori), pur essendo fruiti anche come oggetti belli, sebbene non sia principalmente in quanto tali che essi venivano apprezzati e “vissuti” nelle società premoderne o tradizionali come quella sarda dei secoli scorsi. Da questo punto di vista i prodotti artigianali vecchia e nuova maniera ci appaiono subito più significativi se ne scorgiamo e ne mettiamo in rilievo le funzioni e le intenzioni. Uno studio di oggetti di artigianato, “tradizionale” o “artistico”, comunque rivitalizzato o conservato, dovrebbe dare conto del fascio di valenze o funzioni vecchie e nuove di questi prodotti che noi oggi tendiamo a vedere (e a valutare o svalutare) dal solo punto di vista “artistico” considerato autonomamente, opera unica d’autore tutto teso allo scarto innovativo, e ormai anche come artista artigiano capace non solo di fare ma anche di mostrare e commentare il proprio fare, per lo meno al cospetto del semplice turista in cerca di particolarità locali.
Cagliari Si dice che la Sardegna non abbia una grande tradizione urbana, nel Mediterraneo dalle mille città sul mare. Appena fuori, ma che anche negli interstizi delle conurbazioni di Cagliari e Sassari, ancora oggi si dice che l’Isola abbia l’aspetto di un antico paese rurale e mostri una certa misère de la vie urbaine, come scriveva il geografo francese Maurice Le Lannou qualche anno prima del lavoro di documentazione in Sardegna della Sin-Pfältzer. Ma per Cagliari tutto questo non vale. Cagliari è città da almeno due millenni e mezzo. Come si vede anche qui, questa antica città è un luogo, naturale e umano, di grande bellezza e suggestione, dove sembra che la nostra Isola decolli in volo su nel cielo e sopra il mare. Sarà perché anch’io il mare per la prima volta l’ho visto a Cagliari in Castello, affacciandomi al Bastione, che si chiama Il Bastione perché è quello che conta di più, quello di Saint Remy, ed è da lì che si vede di più terra cielo e mare, fino a confondere lontano cielo e mare. L’immagine del volo è anche una metafora della storia di Cagliari, per quanto è stata unica per il resto dell’Isola, sempre in decollo per l’altrove. Ma questa propensione a prendere il volo spinge a immaginare storie, per esempio cosa sarebbe stato di questa
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città, e dell’intera Isola, se la sponda continentale da sempre più importante per noi, il Nordafrica, non si fosse allontanata – come già detto – per quasi un millennio e mezzo, da quando è diventata musulmana. Più realista, spesso controllo proprio lì di fronte che aspetto ha Monte Urpinu, lo stato dello stagno di Molentargius con la dislocazione sempre varia dei fenicotteri rosa, le sfumature di colore delle saline che cambiano nella giornata e nelle stagioni e anche tra di loro, ogni vasca il suo, il grande Golfo degli Angeli e la Sella del Diavolo, il capo e le alture di Sant’Elia, di Calamosca, una luna di spiaggia del Poetto, da bianca adesso grigia perché le hanno fatto un guaio che dicono ripascimento: male, molto male, da qui lo vedo bene quanto è male, e che aveva ragione una mia nipotina lo scorso Natale quando nel presepio in casa ci ha fatto bene bene la spiaggia del Poetto tutta bianca avorio caldo come prima, come un buon augurio di Natale, con sabbia buona presa di laggiù, dove non sono arrivati col ripascimento, sabbia per le zampine esili dei cammelli dei Re Magi, oro incenso e sabbia. Anche nelle foto cagliaritane di Marianne Sin-Pfältzer gli stagni, le saline, i colli, il mare, sono grandi luoghi dove le grandi sagome del paesaggio sono quelle di ogni tempo, da quando qui occhi umani le hanno viste per la prima volta e le hanno nominate. Perché, dicono, proprio lì nel luogo che diciamo Darsena c’era a suo tempo il porto dei Fenici, che prima era il porto nuragico, e prima ancora un approdo prenuragico, e poi più in qua magari c’era il porto punico, romano, vandalo, bizantino, giudicale, pisano, genovese, aragonese… Savoiardo no, che c’entrano col mare i savoiardi? C’entrano anche loro, se era savoiardo il barone di Saint Remy, che ha dato il nome a questo bastione, perché nel 1723 è sbarcato laggiù, dove adesso c’è via Roma, per mettere mano al regno sardo fatto savoiardo, qui nella capitale, che lui ha visto brutta e invece è bella, era bella, potrebbe essere molto bella, come già il luogo comanda prima e più dei suoi abitanti che forse non la amano ancora abbastanza; non l’amano abbastanza perché lei si faccia bella per loro, e per i sardi di tutti gli interni e di tutte le antiche e recenti provenienze, e anche nel ricordo di quei sardi che secoli fa si scacciavano ogni sera fuori dal Castello a suon di tromba, o a sonu ’e corru. Se anche qui il futuro ha un cuore antico, il cuore è ancora triste di tre millenni di storia di arroccamenti di conquistatori proprio sempre qui, baluardo e via di fuga. Dietro, verso nord, oltre il colle e la rocca pisana di San Michele, ci sono, ma invisibili, i paesaggi interni della mia infanzia, anch’essi così mediterranei a modo loro, cerealicoli. Qui, con davanti il mare sterminato verso l’Africa lontana, con dietro la Sardegna interna su fino al Gennargentu, a volte mi pare di poter chiarire tutto quanto al passato e al futuro, o almeno dai tempi delle mie necessità di correre e saltare, scavalcare muri a secco, scalare rocce e cime tonde per scoprire cosa c’è più in fondo e più lontano. Ecco cosa c’è più in fondo e più lontano: c’è Cagliari, dove la Sardegna spicca il volo sopra il mare.
Cagliari è forse più antica di Roma. Da sempre mostra la lunga spiaggia del Poetto quasi dentro la città, i suoi colli e soprattutto il profilo variegato dell’acropoli di Castello, sul luogo migliore d’approdo del Golfo degli Angeli intronato di luce. Mostra anche i suoi tremila anni di storia, nel bene e nel male, e li mostra tutti: le necropoli puniche di Tuvixeddu e Tuvumannu, i resti romani dell’anfiteatro, della Villa di Tigellio, della Grotta della Vipera (dove una scritta funebre in greco ellenistico augura a una fanciulla morta che dalle sue ceneri nascano viole e gigli e possa ancora rifiorire in petali di rose, di croco profumato, dell’amaranto imperituro, e nei fiori soavi della violetta bianca, sicché come il narciso, come il mesto giacinto, anche il tempo avvenire abbia un suo fiore), la chiesa paleocristiana di San Saturno, tutte cose che si vedono dalla città murata medievale, pisana, coi bastioni e le due torri rimaste dell’Elefante e di San Pancrazio… Città mediterranea tra le più belle, come sa chi in Castello si fa le stradine medievali, col colore locale al posto giusto, in mattinate di gran luce, quando il maestrale ripulisce l’orizzonte, il vento che lassù non manca mai, o almeno la brezza di mare che arriva ogni giorno spavalda, e pare incredibile che le sirene delle navi a quell’altezza si sentano più chiare che giù nel porto, coi loro gemiti potenti di malinconia,
Cagliari, piazza Costituzione, 1968
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Parigi, clochard, 1954 Marsiglia, venditrice di noccioline, 1954 Parigi, mannequins, 1954
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strada e nella primavera del 1954 parte per la Francia, prima a Marsiglia poi a Parigi (dove si trattiene circa sei mesi) e in Provenza, luoghi nei quali tornerà anche gli anni successivi. Passando in rassegna i vintage prints eseguiti in Francia, risultano subito evidenti gli effetti della formazione alla scuola fotografica, in particolare il rigore compositivo e una tecnica ineccepibile e raffinata, mediati però da una profonda sensibilità nella scelta dei temi affrontati: la tristezza dei clochard, la dignità degli artisti di strada al lavoro sul Pont des arts e della giovane venditrice di noccioline marsigliese, gli incontri delle mannequins nei pressi dell’Arc de Triomphe oltre, naturalmente, ai classici scorci della Ville Lumière e varie scene di strada, tra le quali si segnala un’imponente manifestazione tenutasi il 31 marzo per la rivendicazione dei diritti degli studenti. Nel corso dei mesi trascorsi in terra francese perfeziona la propria cultura d’immagine frequentando gli atelier di alcuni tra i più noti fotografi dell’epoca, tra questi i tedeschi Willy Maywald, che in quegli anni lavorava per Christian Dior e Pierre Cardin, e Carry Hess, una delle prime fotografe di teatro in Germania, ma soprattutto la newyorkese Florence Henri, che dopo l’esperienza del Bauhaus, alla fine degli anni Venti, si era trasferita a Parigi imponendosi nella moda e nella pubblicità.
Intraprende a questo punto la libera professione e nel 1954 fotografa Pablo Picasso e un’esposizione di sue ceramiche a Vallauris. Intanto si risveglia in lei il desiderio di tornare in Sardegna, per scoprire le località che non ha avuto modo di visitare in occasione del primo viaggio e mettere a frutto le competenze fotografiche, acquisite nel frattempo, nella documentazione dei molteplici aspetti superstiti della cultura millenaria sarda, appena intravisti qualche anno prima. Approda nell’Isola nella primavera del 1955. Secondo il racconto della fotografa, accurato e ricco di dettagli, tale datazione potrebbe essere anticipata di un anno, ma questa ipotesi non trova riscontro sulle pagine dei provini a contatto riferibili alla Sardegna conservate in archivio, scrupolosamente disposte secondo un ordine cronologico e datate ab origine proprio a partire dal 1955. Al suo arrivo ha con sé una Rolleicord 6x6 ed effettua buona parte degli spostamenti in autostop, intuendo che in questo modo le sarà più semplice il contatto con gli abitanti del luogo e la loro conoscenza diretta. La prima meta è Oliena, dove le hanno riferito che le donne indossano ancora l’abito tradizionale per recarsi in chiesa la domenica. Giunta a Nuoro in treno, perde la coincidenza per il paese; fallite le prime richieste di passaggio, finalmente si ferma
Parigi, Pont des arts, 1955 Vallauris, Pablo Picasso, 1954
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2. Golfo Aranci, 1955
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3. Golfo Aranci, 1960
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10-11. Porto Torres, operazioni per lo sbarco dal traghetto, 1961
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16-17. Bultei, vendemmia, 1955
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45. Oliena, Biagio e Antonio Maricosu, 1955 46. Oliena, Giovanna Cossu, 1956
Nella doppia pagina seguente: 47. Oliena, piazza Sa Huntana Nova, carrolanti, 1963
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136. Olbia, imbarco del formaggio per l’esportazione, anni Cinquanta
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137. Olbia, imbarco del formaggio per l’esportazione, anni Cinquanta
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162. Sardegna, anni Sessanta 163. Nuoro, 1961
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226-227. Desulo, al lavatoio, anni Cinquanta
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257. Sardegna, agnelli appena nati trasportati nella bisaccia, anni Cinquanta 258. Sardegna, giovane pastore, anni Cinquanta
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297. Burcei, bambine con cesti di mele cotogne, anni Sessanta 298. Nei pressi di Muravera, anni Sessanta
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