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Francesco Guerrazzi, eroismo e passioni umane

FRANCESCO DOMENICO GUERRAZZI (Livorno, 12/8/1804 - Cecina, 23/9/1873)

Nasce a Livorno da Francesco Donato e Teresa Ramponi in un quartiere popolare. Cresce attaccabrighe e violento finché fugge di casa. Nel 1821 studia Giurisprudenza a Pisa dove entra in amicizia con George Byron. Nel 1825 a Livorno scrive i primi versi di “Stanze alla memoria di Lord Byron”. In seguito compone “La battaglia di Benevento” e fonda il giornale “L’Indicatore livornese”, che nel 1830 viene soppresso. Nonostante ciò, lui viene nominato A c cademico della Labronica. Mandato a processo per l’elogio a un ufficiale napoleonico, viene confinato a Montepulciano dove inizia il romanzo “L’Assedio di Firenze” e dove incontra Giuseppe Mazzini. Affiliato alla “Giovine Italia”, nel 1832 è arrestato per cospirazione repubblicana e viene incarcerato a Portoferraio, dove completa l’opera “L’Assedio di Firenze”. Dal 1835, per una dozzina d’anni, si dedica ai nipoti rimasti orfani del padre Gualberto, fratello di Francesco, rallentando l’attività politica. Torna in scena tra il 1847 e il ’48 promuovendo i moti livornesi e chiedendo riforme sociali, la Costituzione e la partecipazione del Granducato alla guerra contro l’Austria. Arrestato e liberato, fu nominato deputato alla Costituente e poi Ministro dell’Interno. Dopo la sconfitta di Custoza, la caduta di Milano e l'armistizio di Salasco i livornesi invitarono Guerrazzi, che si trovava a Firenze, a tornare a Livorno per ristabilire l'ordine: Guerrazzi accettò. In seguito, il granduca affidò il governo a Giuseppe Montanelli e a Guerrazzi, ri- e la Corsica, ove l’autore visse le sue passioni e le sue esperienze. Nonostante fu fischiato nel teatro di Livorno, inviso al popolo e odiato dagli aristocratici, Guerrazzi dominò il suo tempo con i suoi libri svelando i grandi “segreti” della storia italiana passata. Anche se i suoi scritti sono diventati quasi introvabili, sopravvivono il suo spirito ed il suo gusto. A modo suo fu uno dei progenitori dell’Italia moderna.

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Il tribolo e la delusione dello scrittore trovano perfetto riscontro nella vicenda del Guerrazzi politico. Il “suo” anno è il 1849, l’anno di tutte le delusioni spettivamente Presidente e Ministro degli Interni. Nel 1849 la Toscana subì l'influenza della Repubblica Romana: a Firenze si elesse un governo provvisorio con Guerrazzi, Montanelli e Giuseppe Mazzoni ma fu soprattutto Guerrazzi che si oppose alla fusione. Dopo la sconfitta di Novara e l'abdicazione di Carlo Alberto, Guerrazzi assunse una specie di dittatura che mantenne per quindici giorni. Il 12 aprile 1849 scoppiò così una sommossa popolare e fu destituito e imprigionato con l'accusa di lesa maestà: fu inviato in esilio in Corsica. Nel 1853, mentre era in attesa del giudizio definitivo, scrisse il romanzo “Beatrice Cenci. Storia del secolo XVI” . Negli anni della prigionia corsa scrisse varie opere ispirate alle lotte di liberazione dei popoli. Nel 1856 fuggì dall'esilio e, dopo una sosta nell'isola di Capraia, giunse a Genova dove restò, fino al 1862. Nel 1860 fu eletto deputato e più volte attaccò la politica di Cavour sulla questione della cessione di Nizza e della Savoia. Nel 1861 fu eletto deputato anche al Parlamento del Regno d'Italia e aderì alla Massoneria. Morto Cavour, continuò la lotta contro i moderati e rimase deputato fino al 1870. Nell'ultimo periodo della sua vita, distaccato ormai dalla politica, il Guerrazzi mantenne intensa la sua produzione letteraria con opere come: “Il buco nel muro” (1862), “L’assedio di Roma ”(1863-1865) e “Il secolo che muore” uscito tra il 1875 e il 1885. Visse gli ultimi anni nella fattoria che possedeva nei pressi di Cecina dove morì. e amarezze quando sembrava che un asse repubblicano unisse Venezia (con Manin), Firenze (con Guerrazzi) e Roma (con Mazzini). Ma le differenze erano forti: Venezia era chiusa nel suo orgoglio di antica repubblica indipendente di San Marco; Firenze, ove la repubblica non fu mai proclamata non ostante avesse le stesse fisionomie e istanze socio/politiche, era indecisa tra istinto repubblicano e dolce decadenza monarchica; Roma non riusciva a superare l’eredità papale pur tentando di anticipare l’esperienza di un’Italia popolare, democratica e repubblicana. Così Venezia si illude di tornare ai fasti dogali affidandosi alla dittatura di Manin; Firenze cerca di riproporre l’antica gloria dei Priori e si affida a Guerrazzi; Roma diventando repubblica si ricorda dei fasti della Roma repubblicana e si affida al Triumvirato (Mazzini, Armellini, Saffi). Ma Manin e Guerrazzi portavano in sé i difetti congeniti delle loro progenie che impedirono loro di vedere la possibilità di un progetto nazionale repubblicano; solo a Roma Mazzini, pur con le sue debolezze e contraddizioni, riuscirà ad anticipare il modello dell’italiano nuovo. Ma la rivoluzione repubblicana non riuscì a redimersi dai retaggi muni-

Perché i giovani sappiano

GLI UOMINI CHE FECERO L’ITALIA

“È il ripensamento di un secolo e più, dalle repubbliche giacobine del 1796-99 alla prima guerra mondiale (….), alla ricerca dentro noi stessi, dell’Italia di oggi, dell’Italia che è intorno a noi, piena di contraddizioni e di tensioni laceranti, ma anche di vitali fermenti di revisione e di critica”. Giovanni Spadolini

I PROFETI DEL RISORGIMENTO

1 – Francesco Melzi d’Eril

2 – Silvio Pellico

3 – Cesare Balbo

4 – Massimo D’Azeglio

5 – Cesare Cantù

6 – Giovan Pietro Vieusseux

7 – Nicolò Tommaseo

8 – Francesco D. Guerrazzi

9 – Giuseppe Montanelli

10 – Carlo Cattaneo

11 – Vincenzo Gioberti cipali e regionali trovando una sintesi di unità e d’unione (cosa per altro tutt’oggi sempre dannosamente presente), e così, fatalmente, come era destinata, fallì.

Guerrazzi non riuscì più a risollevarsi dal naufragio del ’49 della repubblica toscana, mai proclamata come tale, e della repubblica italiana, riscattata solo dal sangue dei combattenti mazziniani e garibaldini sui colli romani. La stessa loro esistenza fu messa in discussione, oltre che dalla resistenza dei troni, dalle carenze e insufficienze dei popoli incapaci di pensare altro ordinamento per l’Italia che non fosse quello dell’ancien régime.

In Provincia

RISORGIMENTO: SI PARLA DI CRISPI

Guido Palamenghi Crispi, discendente di Francesco Crispi, ha tenuto una relazione martedì 4 aprile alle ore 16 presso la Sala del Consiglio Provinciale di Cremona (in corso Vittorio Emanuele II 17), dal titolo “Francesco Crispi: dal ’48 palermitano a Giordano Bruno”. Hanno organizzato l’Istituto per la storia del Risorgimento italiano di Cremona/Lodi e la Biblioteca Statale di Cremona. La conferenza è stata patrocinata dalla Provincia di Cremona e dalla Federazione Nazionale dei Diplomatici e Consoli esteri in Italia.

8 Aprile 1876 • L’opera più nota del compositore cremonese esordisce chiudendo la stagione lirica milanese

La Gioconda: il trionfo alla Scala di Amilcare Ponchielli

(v.r.) Amilcare Ponchielli, nato a Paderno, alle porte di Cremona nel 1834, perfezionò gli studi a Milano ma fu a Cremona che, all’età di 22 anni, la sua prima opera esordì a teatro. Era il Teatro Concordia, e l’opera era “I promessi sposi”, sul libretto tratto dal romanzo di Alessandro Manzoni. Sia il paese di nascita sia il teatro gli verranno dedicati nel secolo successivo. Gli anni seguenti non videro il pieno riconoscimento del suo talento, tanto che accettò tra i vari incarichi di dirigere le bande civiche di Cremona e di Piacenza. Dovette attendere il 1872, quando “I promessi sposi” (sia pur rivisitato grazie ad Emilio Praga) ottenne un’accoglienza trionfale al Teatro Dal Verme di Milano. Iniziò qui la collaborazione con Giulio Ricordi, e la consacrazione del compositore cremonese, che decise di trasferirsi sotto la Madonnina. L’opera lirica “I lituani” registrò un grande successo alla Scala, ma fu quella successiva, “La gioconda”, a consacrarlo come il musicista italiano più importante assieme a Giuseppe Verdi Proprio con Verdi ebbe in comune la collaborazione di Arrigo Boito, che gli pro pose come soggetto un dramma di Victor Hugo che ini zialmente non entusiasmò il compositore cremonese, che accompagnato da una serie di dubbi crescenti fece slittare la consegna della partitura, tanto che “La gioconda” chiuse la stagione lirica della Scala. Era l’8 aprile 1876, ed è qui che si giustifica l’approdo nella nostra rubrica. La prima esecuzione non era quella definitiva: fu modificata diverse volte, anche per correggere l’iniziale, eccessiva, lunghezza. Fu comunque apprezzata, e rappresentata per 4 serate. La seconda versione andò in scena a Venezia. Con nuove modifiche approdò a Genova, e tornò alla Scala 4 anni dopo il debutto, nel 1880, con una quinta versione che fece registrare un vero trionfo. Un successo che fu replicato anche all’estero, in Europa e anche in Sud America.

“La gioconda” resta il più grande successo di Ponchielli, ed è universalmente conosciuta la “Danza delle ore”, che fa parte del terzo atto, ambientato alla Cà d’Oro di Venezia, e che è stata utilizzata spesso anche negli spot pubblicitari (come Plasmon ed Edison), come musica del servizio telefonico dell’ora esatta prima da Sip poi da Telecom ed è l’unico brano di un compositore italiano che

Ponchielli con i protagonisti alla Scala l’8 aprile 1876 fa parte del celeberrimo film di Walt Disney “Fantasia”. Tutti i più grandi artisti hanno interpretato in scena “La gioconda”, tanto che la discografia disponibile contiene le esecuzioni di soprani quali Maria Callas, Renata Tebaldi e Montserrat Caballé, e tenori del livello di Mario del Monaco, Giuseppe Di Stefano, Luciano Pavarotti e Placido Domingo

Meno di 7 neonati e più di 12 decessi per 1000 abitanti. L’Italia si svuota, le culle pure. La popolazione cala, gli stranieri aumentano, ma in un numero che difficilmente riesce a compensare il deficit demografico. E ad aumentare sono anche i decessi, soprattutto in concomitanza dei mesi più freddi e caldi dell’anno. È un quadro a tinte fosche quello tratteggiato dall’Istat negli indicatori demografici. Il dato più drammatico però è uno: quello della natalità, ai minimi storici in Italia. Per la prima volta in 160 anni, dall’Unità d’Italia, nell’ultimo anno sono stati meno di 400mila i bambini nati, con le nascite che si sono assestate a 393mila. Dal 2008, ultimo anno in cui si registrò un aumento, il calo è di circa 184mila nati, di cui circa 27mila concentrati dal 2019 in avanti. Questa diminuzione è dovuta solo in parte alla spontanea o indotta rinuncia ad avere figli da parte delle coppie. In realtà, tra le cause pesa molto il progressivo invecchiamento della popolazione femminile nelle età convenzionalmente considerate riproduttive, ovvero dai 15 ai 49 anni. Continua la tendenza alla riduzione della riproduzione, già in atto da diversi anni nel nostro Paese, con un’età media al parto stabile rispetto al 2021, pari a 32,4 anni. La diminuzione, precisa l’Istat, riguarda sia il Nord sia il Centro Italia, dove emergono valori rispettivamente pari a 1,26 e 1,16 (nel 2021 erano pari a 1,28 e 1,19). Nel Mezzogiorno, invece, si registra un lieve aumento, con il numero medio di figli che si attesta a 1,26 (era 1,25 nell’anno precedente).

L’età media al parto è leggermente più alta al Nord e al Cen-

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