La classificazione delle scienze (De scientiis), Il Poligrafo

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Subsidia Mediaevalia Patavina

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la classificazione delle scienze (de scientiis) introduzione di

Francesco Bottin Traduzione e note a cura di

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Subsidia Mediaevalia Patavina collana del Centro Interdipartimentale per Ricerche di Filosofia Medievale “Carlo Giacon” Università degli Studi di Padova diretta da Francesco Bottin 13



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la classificazione delle scienze (de scientiis) Introduzione di

Francesco Bottin Traduzione e note a cura di

Anna Pozzobon

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Comitato scientifico Luca Bianchi, Università del Piemonte Orientale Francesco Bottin, Università di Padova Stefano Caroti, Università di Parma Giovanni Catapano, Università di Padova Donato Gallo, Università di Padova Giovanna Gianola, Università di Padova Alain de Libera, Université de Lausanne Gregorio Piaia, Università di Padova Papers submitted for publication in the series are subjected to a double blind peer-review

Il presente volume viene pubblicato con un contributo del Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata dell’Università di Padova nell’ambito del Progetto Strategico di Ricerca Bando 2008 “Medioevo Veneto - Medioevo Europeo. Identità e Alterità” / “Medieval Veneto - Medieval Europe: Identity and Otherness” - STPD08XMXP, Unità di Ricerca n. 2, responsabile prof. Francesco Bottin © Copyright dicembre 2013 Il Poligrafo casa editrice srl 35121 Padova piazza Eremitani - via Cassan 34, tel. 049 8360887 - fax 049 8360864 e-mail casaeditrice@poligrafo.it ISBN 978-88-7115-845-7


Indice

7 Introduzione Francesco Bottin

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la classificazione delle scienze

(de scientiis)

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Premessa

capitolo primo 67 La scienza del linguaggio capitolo secondo 81 La scienza della logica capitolo terzo 115 La scienza delle matematiche capitolo quarto 153 La scienza naturale e la metafisica capitolo quinto 175 La scienza politica, la scienza del diritto, la teologia dialettica 199

Bibliografia

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Indice dei nomi antichi e medievali

227

Indice dei nomi moderni



Francesco Bottin

Introduzione

1. Ex intimis Arabum thesauris I vessilli delle armate cristiane sotto la guida di Alfonso VI avevano iniziato a sventolare da poco sulle torri di Toledo e i ricchi arredi delle dimore arabe erano appena stati divisi tra i nuovi occupanti, che già un nutrito numero di giovani studiosi percorreva febbrilmente la Valle del Tago, entrava nelle lussuose dimore dei dotti musulmani, penetrava nelle stanze più segrete e frugava infaticabilmente negli armaria alla ricerca di un altro tesoro ben più prezioso dell’oro, dell’argento e dei tessuti finemente intrecciati. Cercavano «ex intimis Arabum thesauris» libri e testi ben precisi, di cui vi era la certezza che i dotti musulmani erano in possesso, ma dei quali si aveva una conoscenza solo indiretta e che mai prima d’ora questi giovani assetati di sapere avevano potuto stringere nelle loro mani: opere di astronomia e di medicina, soprattutto, ma in generale di scienza e di filosofia, capaci di dare un sapere ben più prezioso delle pietre incastonate nei mobili e assai più richiesto da potenti mecenati delle pur ricche rendite che i nuovi territori potevano offrire. La città aveva capitolato senza spargimento di sangue e senza distruzioni, mentre il re Alfonso VI, con intento pacificatorio, si proclamava “re delle due religioni”. Ciò nonostante i ricchi e colti musulmani avevano abbandonato per tempo la città e i loro . Cfr. Ermanno di Carinzia, De essentiis, ed. Burnett, E.J. Brill, Leiden 1982, pp. 70-71.


Francesco Bottin

palazzi erano rimasti deserti. Ma la maggior parte del popolo musulmano si convertì al cristianesimo. Sapevano bene che cosa significava professare una religione differente in uno stato cristiano. Gli ebrei colti restarono continuando a professare la loro religione, andando incontro a ripetute discriminazioni e persecuzioni, come d’altra parte avveniva nei califfati musulmani. In tal modo, nel suo complesso la popolazione era caratterizzata dai cosiddetti “mozarabi”, cioè dai cristiani “arabizzati”, che durante i lunghi secoli di occupazione musulmana avevano mantenuto la liturgia cristiana del tempo dei Visigoti. Tale strato della popolazione ora si accrebbe con le nuove conversioni dal musulmanesimo. La maggior parte degli abitanti di Toledo, pertanto, parlava un dialetto arabo-romanzo, mentre l’arabo era la lingua dei dotti. Gli Ebrei dotti, che in generale conoscevano anche l’arabo, in tale contesto finirono per rappresentare un anello fondamentale nella trasmissione del sapere. Una situazione analoga si ebbe intorno al 1118 con la capitolazione di Saragozza nella valle dell’Ebro. Queste peculiari condizioni, qualche decennio più tardi, verso la metà del 1100 condussero ad una attività febbrile di traduzioni dall’arabo che raggiunse il suo apice con Gerardo da Cremona. Tra coloro che si affrettano ad intraprendere il percorso della Valle dell’Ebro, poco dopo il 1142, vi è anche il grande abate di Cluny, Pietro il Venerabile. Il dotto abate, aveva sepolto da qualche mese le spoglie di Pietro Abelardo, quel suo protetto, così irrequieto, così carnale, così pervicace, ma di una intelligenza straordinaria, che ormai vecchio e stanco, la cui mente tendeva irrimediabilmente ad offuscarsi, aveva intrapreso il lunghissimo viaggio verso Roma nell’estremo tentativo di scrollarsi di dosso le terribili accuse di eresia che Bernardo di Chiaravalle, dopo anni di tentativi dai quali era sempre riuscito a liberarsi grazie alla sua straordinaria dialettica, alla fine gli aveva appiccicato addosso sottoponendolo alla umiliazione della condanna formale, senza che neanche il grande abate Pietro potesse fare nulla per risparmiare alla sua abbazia tanto discredito. Ma negli ultimi mesi passati a Cluny, negli ultimi giorni di estrema lucidità prima di intraprendere quel viaggio che lo avrebbe portato alla morte, Pietro Abelardo non si era dedicato a precisare, a rettificare, a controbattere sul piano teologico le assurde accuse rivolte contro di lui. Ancora una volta aveva sognato, come già era avvenuto nei momenti più drammatici della sua vita, di trovarsi in


Introduzione

un altro luogo, in un altro mondo, dove la filosofia era rispettata e dove a quell’antico sapere era riconosciuto il compito di dirimere razionalmente anche le dispute teologiche che contrappongono gli uomini che professano religioni diverse. Era nato così il Dialogo tra un filosofo, un giudeo e un cristiano nel quale, in sogno il vecchio dialettico, instancabile lottatore, lasciate da parte le armi della dialettica scaltra ed impertinente, aveva assunto ora i panni del filosofo saggio ed equanime. Ma questi panni non potevano essere quelli di Platone o di Aristotele, perché troppo lontani nel tempo e perché pagani; ma non potevano essere nemmeno quelli di qualche dotto cristiano che di fatto non conosceva ancora la filosofia e la razionalità che la distingue da altre forme di sapere. È così che Abelardo sogna che questo compito possa essere assunto solo da un filosofo ismailita, cioè musulmano, per dirimere le questioni tra cristiani e giudei. In effetti, l’interlocutore che sostiene la posizione degli ebrei sulla circoncisione rammenta al filosofo che «come Ismaele da Abramo, Esaù da Isacco, così anche i figli ripudiati furono circoncisi dai patriarchi come gli eletti, affinché i loro discendenti fedeli a Dio seguissero l’esempio della circoncisione» e quindi gli fa presente direttamente che «anche voi conservate ancor oggi questa istituzione se vi fate circoncidere nel dodicesimo anno di età per imitare il vostro padre Ismaele». Il filosofo, quindi, nel

. Per una recente discussione di questa possibile interpretazione del passo di Abelardo si veda: I.M. Resniak, Marks of Distinction. Christian perceptions of Jews in the High Middle Age, The Catholic University of America Press, New York 2012, p. 72. Per quanto non sia possibile identificare una qualche fonte diretta alla quale Abelardo avrebbe potuto attingere per la denominazione di “Ismaeliti” utilizzata per designare i Musulmani, si tenga presente in ogni caso che la denominazione era comune presso alcuni Padri della Chiesa e nella letteratura greca. In particolare vengono chiamati “ismaeliti” gli aderenti alla religione musulmana nel De haeresibus (cap. 100/101) di Giovanni Damasceno: «áEsti d¢ ka‹ ≤ m°xri toË nËn kratoË-

sa laoplanØw 8rhske¤a t«n ÉIsmahlit«n prÒdromow oÔsa toË éntixr¤stou. Katãgetai d¢ épÚ toË ÉIsmaØl toË §k t∞w ÖAgar tex8°ntow tƒÇ ÉAbraãm: diÒper ÉAgarhno‹ ka‹ ÉIsmahl›tai prosagoreÊontai» («esiste anche e dura sino ad oggi

la religione degli Ismaeliti, culto seduttore del popolo e precursore dell’Anticristo, trae origine da Ismaele, il figlio che Agar diede ad Abramo: perciò sono detti Agareni e Ismaeliti»). Per l’edizione del testo greco e la traduzione in francese si veda: Jean Damascène, Écrits sur l’Islam, présentation, comm. et traduction par R. Le Coz, Les Éditions du Cerf, Paris 1992. Inoltre, si veda: D.J. Sahas, John of Damascus on Islam. The ‘Heresy of the Ismaelites’, E.J. Brill, Leiden 1972, pp. 68-69. Ma la designazione di “ismaeliti” riferita ai Musulmani è documentata anche nei Discorsi in versi contro le eresie del monaco Teodoro Studita che compone la sua


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quale si è voluto identificare lo stesso Abelardo in quest’ultima sua opera, non è né un cristiano, né un pagano, ma un musulmano. Agli occhi di Abelardo indubbiamente erano i pensatori arabi della vicina Spagna ad aver fatto rivivere la sapienza filosofica nella forma più pura, anche se la morte prematura gli aveva impedito di avere accesso alle loro opere e di trarre frutto dai contatti con gli arabi, pure sognati e tanto desiderati. D’altra parte, deve certamente essere stato a conoscenza della appassionata lettera che qualche decennio prima, l’ebreo convertito, Pietro Alfonsi, aveva rivolto «omnibus perypateticis ac aliis philosophico lacte nutritis, ubique per Franciam» invitandoli ad acquisire il completo curriculum delle arti liberali senza intraprendere lunghissimi viaggi in luoghi lontani, ma semplicemente oltrepassando i Pirenei: «ad essi dico che possono acquisire in fretta ciò che vogliono conoscere e quello che cercano in luoghi lontani è loro vicino». Dopo la cerimonia funebre, gli inservienti si affrettarono a portare all’abate quelle pagine scritte da poco, di un testo rimasto incompiuto, dalle quali emanava ancora lo spirito indomito opera solo qualche decennio più tardi. Su questi aspetti si veda: A. Rigo, La sezione sui Musulmani dell’opera di Teodoro Studita contro le eresie, «Revue des études byzantines», 56 (1998), pp. 213-230. Ambedue gli autori concordano nel collegare il nome “ismaeliti” con il racconto biblico della vicenda di Agar, la schiava di Abramo. Questi testi non erano, in ogni caso, tradotti al tempo di Abelardo e quindi non possono che designare un quadro di informazioni molto generale. Ma certamente Abelardo poteva raccogliere l’identificazione degli “Ismaeliti” con i Saraceni quantomeno dai riferimenti di san Girolamo che nel commento a Geremia scrive: «...hae gentes in solitudine sunt, uicinae et mixtae regionibus ismahelitarum, quos nunc saracenos uocant» (lib. V, p. 309 (CSEL), l. 13). D’altra parte Eusebio di Cesarea aveva ampiamente provveduto nella sua Cronaca a fornire una stretta relazione tra Ismaeliti, Agareni e Saraceni attribuendo allo stesso san Girolamo queste denominazioni: «Abraham ex ancilla Agar generat Ishmael, a quo Ishmaelitarum genus, qui postea Agareni et ad postremum Saraceni dicti». Ma, ancora più comunemente, nelle Etymologiae di Isidoro di Siviglia si poteva leggere: «Ismael filius Abraham, a quo Ismaelitae, qui nunc corrupto nomine Saraceni, quasi a Sarra, et Agareni ab Agar» (lib. IX, cap. 2, § 5). Come si può vedere tutte queste fonti storiografiche testimoniavano in maniera chiara la denominazione dei popoli dell’Arabia prima del sorgere dell’Islam. Ma la letteratura antiislamica applicava direttamente tali denominazioni ai musulmani, peraltro senza mai utilizzare i termini specifici di “Islam” e di “musulmano” . «Ad nostras aures pervenit quod quidam ex eis qui sapienciam investigant [...] longinquas parant peragrare provincia set in remotis secedere regiones [...] quibus utique incunctanter ego respondeo quia verum est quod videre desiderant [...] presto habent quod volunt et prope est quod remocius parant inquirere» (la lettera è stata edita in J.M. Millás-Vallicrosa, La Aportación astronómica de Pedro Alfonso, «Sefarad», 3 (1943), pp. 97-105).


Introduzione

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dell’abilissimo dialettico, ma che ora aveva assunto le vesti del filosofo razionale e equanime. Certamente non gli poté sfuggire che in realtà le vesti assunte consapevolmente da Abelardo risultavano abbastanza esplicitamente quelle di un musulmano. Nel leggere quelle pagine l’abate non poté allontanare da sé il ricordo del desiderio spesse volte espresso dal grande ed infelice logico di andarsene dalla terra di Francia, così ingrata verso di lui, un desiderio ricorrente ed assillante come una idea fissa, che nei momenti drammatici, ma anche felici della nascita del figlio avuto da Eloisa, si espresse in forme decisamente anticonvenzionali fino a diventare sconvenienti. Quel figlio esprime con il suo nome tutto questo desiderio, questa ansia di un mondo diverso e migliore: il suo nome sarà Astrolabio. Il nome di un artefatto, di una macchina per un bambino nato da un grande amore, ma che rimane travolto dalle più gravi ed umilianti tragedie ancora prima di nascere: la madre Eloisa costretta ad entrare in convento contro voglia, il padre Pietro fatto mutilare mediante castrazione dallo zio troppo collerico. Un bambino chiamato con il nome di uno strumento scientifico che nessun artigiano latino avrebbe saputo costruire e solo pochi erano in grado di usare per i calcoli astronomici. Questo strumento veniva da un altro mondo, dove il sapere non veniva perseguitato, dove i sapienti erano onorati e stimati; bastava varcare i Pirenei e il sapere degli antichi, rinnovato dai dotti musulmani, sarebbe stato a disposizione. L’avida lettura dell’ultima opera di Abelardo, questi ricordi lontani, ma ancora nitidi ed attuali, devono aver acceso nell’animo dell’abate il desiderio di intraprendere un viaggio che nessun principe della grande abbazia di Cluny, aveva mai osato intraprendere: inoltrarsi per la via francigena che ora era stabilmente riaperta e poteva condurre tanti pellegrini a Santiago attraverso la lunga valle dell’Ebro.

. Le prime trattazioni teoriche relative all’astrolabio compaiono in Catalogna, una regione della Spagna sotto il controllo dei Franchi, verso la fine del X secolo. Si tratta naturalmente di pure traduzioni di testi arabi. Successivamente questi testi si diffondono nelle abbazie delle Normandia, ma non vi è alcuna evidenza della capacità di costruire astrolabi presso artigiani locali. Si veda: C. Burnett, King Ptolemy and Alchandreus the Philosopher: the Earliest Texts on the Astrolabe and Arabic Astrology at Fleury, Micy and Chartres, «Annals of Science», 55 (1998), pp. 329-368 [ristampato in Arabic into Latin in the Middle Ages, Ashgate, Farnham 2009].



capitolo primo

La scienza del linguaggio

La scienza del linguaggio1 nel suo insieme consta di due sezioni. La prima è la conservazione delle espressioni dotate di significato2 presso un qualche popolo e la conoscenza di ciò che significa ciascuna di esse. La seconda è la conoscenza delle regole3 <relative> a quelle espressioni. Le regole, in ogni arte, sono enunciati universali,4 cioè capaci di raggruppare, in ciascuno dei quali sono compresi molti dei contenuti di quell’arte, in modo da comprendere5 tutti o la maggior parte degli elementi che sono oggetti di quell’arte. Le regole sono destinate sia a delimitare ciò che fa parte di quell’arte, affinché non vi penetri ciò che non le appartiene, oppure <non> sia escluso da essa ciò che le appartiene; <le regole servono> a esaminare ciò in cui può essere che qualcuno abbia sbagliato, sia a facilitare con esse l’apprendimento e la memorizzazione di ciò che quell’arte comprende. I singoli argomenti, <anche se> molteplici, non costituiscono delle arti o non entrano nelle arti, se non quando vengono inclusi in regole che sono contenute nell’anima umana, secondo un ordine noto: così, per esempio, l’arte scrittoria, la medicina, la tessitura, la carpenteria e le altre arti, sia che siano <arti> pratiche, sia che siano <arti> teoriche. Ogni enunciato è una regola, in una qualche arte, infatti, è destinato in quanto regola ad una o a tutte le cose che abbiamo menzionato. Così gli antichi chiamavano regole ogni strumento che servisse a mettere alla prova ciò in cui il senso può sbagliare, in merito alla qualità o alla quantità di un corpo, ecc., come il filo a piombo, il compasso, il righello e le bilance. Chiamavano regole anche i compendi di aritmetica e le tavole astronomiche, e


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<chiamavano> regole anche i compendi che hanno la funzione di riassumere libri <troppo> lunghi, poiché si tratta di nozioni brevi, che ne comprendono molte, e noi, studiandole e ricordandole, benché esse siano brevi, apprendiamo un gran numero di cose. Torniamo ora a ciò di cui trattavamo e diciamo che le espressioni dotate di significato, nella lingua di ogni popolo, sono di due specie, semplici e composte. Semplici sono ad esempio “bianchezza”, “scurezza”, “uomo”, “animale” e le composte sono ad esempio “l’uomo è un animale” e “Socrate è bianco”. Tra le semplici alcune sono nomi di persone, come Socrate e Platone, altre indicano i generi delle cose e le loro specie, come cavallo, animale, bianchezza, scurezza. Delle espressioni semplici che indicano i generi e le specie, alcune sono nomi, altri verbi e altre <ancora> particelle.6 Ai nomi e ai verbi ineriscono la mascolinità e la femminilità, il singolare, il duale e il plurale; mentre al verbo inerisce la peculiarità dei tempi, sia passato, presente o futuro. La scienza della lingua, presso ogni popolo, si divide in sette grandi parti, che sono: la scienza delle espressioni semplici, la scienza delle espressioni composte, la scienza delle regole delle espressioni semplici, la scienza delle regole delle espressioni composte, le regole della corretta scrittura e della corretta lettura, le regole della poesia. La scienza delle espressioni semplici dotate di significato comprende la conoscenza del significato di ciascuno dei termini semplici che indicano i generi delle cose e le loro specie, la loro memorizzazione7 e trasmissione: ossia tutti quelli propri di quella lingua, quelli introdotti e ad essa estranei e ciò che è noto a tutti. La scienza delle espressioni composte è la conoscenza delle espressioni linguistiche che si trovano ad essere composte da quel popolo, ossia quelle che hanno classificato i loro oratori e i loro poeti, e <quelle> con le quali si esprimono coloro che sono molto sapienti e famosi fra loro.8 Essa <comprende> <la conoscenza> di quali siano le parti di queste espressioni composte e la loro memorizzazione, sia che siano espressioni lunghe o corte, determinate <di numero> oppure no. La scienza delle regole relative alle espressioni semplici studia, innanzitutto, le lettere dell’alfabeto,9 il loro numero, da quale degli organi fonatori provenga ciascuna di esse; essa <studia> quelle dotate di suono, distinte da quelle prive di suono, quali vengono combinate in quella lingua, quali non vengono combinate e il minor numero di quelle che possono combinarsi fino a formare una


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parola dotata di significato, qual è il massimo numero di quelle che possono combinarsi; <studia> quali sono le lettere invariabili, che non mutano nella formazione delle parole, quando assumono le caratteristiche accidentali del duale e del plurale, del maschile e del femminile e della derivazione dei nomi, eccetera; <studia> le lettere che si modificano quando <assumono> le caratteristiche summenzionate e le lettere che si assimilano quando s’incontrano. Poi dà le regole relative ai <vari> tipi di espressioni semplici, distingue tra le forme prime, che non sono derivate da nulla e quelle che sono derivate. Dà i <vari> esempi di parole derivate e distingue, entro i vari tipi di espressioni derivate, tra i nomi verbali10 – sono quelli dai quali si forma il verbo – e tra ciò che non è un nome verbale, spiegando come si alterano i nomi verbali e perché diventino verbi. Stabilisce i <diversi> tipi delle forme dei verbi, <spiegando> come si modificano nei verbi, perché diventino un ordine, una proibizione11 e ciò che è simile a questo. Dà le specie secondo le loro classi di quantità: sono i trilitteri, i quadrilitteri e quelli che hanno più lettere di queste, quelli che hanno la lettera radicale raddoppiata e quelli che non l’hanno raddoppiata, secondo le loro classi di qualità, cioè forte e debole; insegna come tutto questo avvenga al maschile e al femminile, al duale e al plurale, a seconda delle persone dei verbi e, insieme, dei loro tempi: e le persone che sono io, tu, questo, egli. Infine studia i termini difficili da proferire non appena vengono prodotti e in che modo sono da mutare affinché la loro pronuncia diventi facile. La scienza delle regole delle espressioni composte consta di due parti. La prima dà le regole relative alle desinenze12 dei nomi e dei verbi quando si compongono e si ordinano. La seconda dà le regole relative agli stati della composizione e dell’ordinamento stessi, come sono in quella lingua. La scienza delle regole relative alle desinenze <dei nomi e dei verbi> è quella che gli arabi chiamano scienza della grammatica. Questa <scienza> insegna che le desinenze sono unite innanzitutto ai nomi, poi ai verbi, <poi insegna> che alcune desinenze dei nomi sono <poste> al loro inizio, come alif (‫ )ﺍ‬- lam (‫)ﻻ‬13 – l’articolo determinativo in arabo – o ciò che sta al suo posto nel resto delle lingue, altre <sono poste> alla loro fine e sono le desinenze finali che vengono chiamate lettere dell’ira¯b; e i verbi non hanno desinenze iniziali, ma solo desinenze finali. Le terminazioni finali dei nomi e dei verbi sono in arabo per esempio i tre tanwı¯n,14 le tre vocali, la gˇazma,15 ossia la pausa


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e altre cose <simili>, se sono usate come desinenze nella lingua araba. Insegna che alcune delle parole non si flettono con tutte le desinenze, ma sono costruite con un’unica desinenza soltanto, in tutte le forme nelle quali le altre parole si flettono; altre si flettono con alcune di esse, ma non con altre <desinenze>; altre ancora si flettono con tutte <le desinenze>. Enumera tutte le desinenze, distingue le desinenze dei nomi da quelle dei verbi. Enumera tutte le forme nelle quali si flettono i nomi triptoti e tutte le forme nelle quali si declinano i verbi, poi insegna in quale forma a ognuno dei nomi e dei verbi si unisce qualsiasi desinenza. Innanzitutto, passa ad enumerare ciascuna delle forme dei nomi esistenti che sono triptoti <declinabili>, ai quali si unisce in una qualche forma qualcuna delle desinenze nominali; poi dà parimente quelle <regole> per i nomi duali e plurali. Poi dà allo stesso modo quelle per i verbi singoli, duali e plurali, fino ad enumerare tutte le forme nelle quali si coniugano i verbi con le desinenze che sono state apposte ad essi, poi insegna <quali sono> i nomi che si declinano con alcune delle desinenze, con quali si declinano e con quali no. Infine, fa conoscere i nomi, ciascuno dei quali è costruito con un’unica desinenza soltanto e con quale desinenza sia costruito; <fa conoscere> quali siano le particelle. Insegna tutto questo: se è uso che ognuna di esse sia costruita con un’unica desinenza, o alcune di esse <siano costruite> con una sola e altre si flettano con qualche desinenza. Se per <i parlanti> esistono parole delle quali si dubita se siano particelle, nomi o verbi, o si è immaginato che alcune di esse siano assimilabili ai nomi e altre siano assimilabili ai verbi, bisogna che <la grammatica> insegni quali di queste si comportano come dei nomi, con quale desinenza si flettano e quali di queste si comportano come dei verbi e con quale desinenza si flettano. Per quanto riguarda la sezione che dà le regole della composizione stessa, in primo luogo, essa spiega come le parole si compongono e si ordinano in quella lingua, secondo quante specie per formare enunciati. Poi insegna qual è l’ordine e la composizione migliore in quella lingua. La scienza delle regole <relative> alla corretta scrittura distingue innanzitutto quali delle lettere si scrivono sulle linee e quali non si scrivono <sulle linee>, poi spiega quelle che si scrivono sulle linee e qual è il modo corretto di scriverle. La scienza delle regole della corretta lettura insegna <quali sono> le posizioni dei punti diacritici


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e dei segni che si pongono sulle lettere quando non si scrivono sulle linee e di quelli posti sulle lettere che si scrivono <sulle linee>, dei segni <diacritici> con i quali si distinguono le lettere omografe;16 <spiega quali sono> i segni che si pongono sulle lettere che, quando s’incontrano, si assimilano le une alle altre o si appoggiano le une alle altre, e i segni che si appongono alle lettere per dividere le frasi. <Questa scienza> distingue i segni delle divisioni brevi dai segni delle divisioni di media e grande <lunghezza>. Spiega quali sono i segni corrotti17 delle parole e delle frasi <quando sono> legate, che si accorciano reciprocamente; in particolare, <spiega> quando si allunga ciò che è compreso fra di esse. La scienza delle regole dei versi <della poesia>, secondo i modi che corrispondono alla scienza della lingua, consta di tre parti. La prima è l’enumerazione dei metri18 utilizzati nei loro rispettivi versi, semplici o composti che siano i metri, poi l’enumerazione delle combinazioni delle lettere dell’alfabeto <che risultano> da ciascun tipo di verso e per ciascuno dei metri, e sono note presso gli Arabi con il nome di asba¯b19 e auta¯d,20 <mentre> presso i Greci <sono conosciute> con il nome di sillabe e piedi. Poi studia le estensioni dei versi e dei mezzi versi e da quante lettere e sillabe sia completato ciascun verso, in ciascun metro. Infine distingue i metri completi da quelli incompleti, quale dei metri sia più bello, migliore e più piacevole a udirsi. La seconda parte è rivolta <allo studio> delle estremità dei versi poetici, in ogni metro, quale di esse abbia presso <i parlanti> una sola terminazione e quale ne abbia molte. Tra di esse, quali siano quelle complete, quelle eccedenti e quelle difettive; quale delle terminazioni consti di una ed unica lettera in tutti i versi, quale di esse <consti> di più di una lettera nella qası¯da21 e qual è il maggior numero di lettere di cui si compongono le terminazioni dei versi presso di loro; poi fa conoscere quelle che hanno molte lettere, se è possibile sostituire al posto di alcune lettere altre <lettere> loro equivalenti, nel tempo in cui si pronunciano, oppure no. Spiega quale di <queste> lettere è possibile permutare con una lettera della sua equivalenza nel tempo. La terza parte studia l’impiego che si può fare, nelle poesie, delle espressioni <tipiche> presso <i parlanti> e ciò che non si può impiegare in un discorso che non sia poesia. Questo è il complesso di ciò che è contenuto in ognuna della parti della scienza del linguaggio.



capitolo quarto

La scienza naturale e la metafisica

La scienza naturale indaga sui corpi naturali e sugli accidenti che hanno il loro fondamento in questi corpi, insegna le cose dalle quali, nelle quali e per le quali esistono questi corpi e gli accidenti che hanno il loro fondamento in essi.1 Dei corpi alcuni sono artificiali e altri naturali. Artificiali sono ad esempio il vetro, la spada, il letto e il vestito, nell’insieme tutto ciò che esiste grazie all’arte e per volontà dell’uomo.2 Naturali, invece, sono quelli la cui esistenza non è per l’arte, né per volontà dell’uomo, come il cielo, la terra e ciò che si trova tra questi due, le piante e gli animali. La condizione (dispositio)3 dei corpi naturali in queste cose è come quella dei corpi artificiali: infatti, nei corpi artificiali si trovano cose il cui fondamento è <intrinseco> ai corpi naturali e vi sono in essi cose in virtù delle quali esistono, nelle quali esistono e per le quali esistono. Queste disposizioni sono più evidenti nei corpi artificiali che in quelli naturali. Dunque, gli <accidenti> il cui fondamento è nei corpi artificiali, sono per esempio la ripulitura (lixatura)4 nel tessuto, lo splendore nella spada, la trasparenza nel vetro e le incisioni nel letto. Le cose per le quali esistono i corpi artificiali sono le finalità e le intenzioni per le quali sono stati fatti, come il vestito è fatto per coprire, la spada per combattere con essa il nemico e il letto per proteggere dall’umidità del terreno, o per altre cose per le quali il letto sia fatto, e per quelle. Il vetro <invece> per riporvi ciò che può non trasparire


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dagli altri recipienti. Per quanto riguarda le finalità e le intenzioni per le quali esistono gli accidenti, il cui fondamento sussiste nei corpi artificiali, sono per esempio la ripulitura del vestito, affinché grazie ad essa risulti di bell’aspetto, lo splendore della spada, affinché grazie ad essa si spaventi il nemico, l’intaglio nel letto per abbellire il suo aspetto, e la trasparenza del vetro, affinché sia visibile quello che è posto in esso. Le cose grazie alle quali esistono i corpi artificiali sono quelle che li producono e li pongono in essere, per esempio il falegname, grazie al quale esiste il letto, e il levigatore (tersor),5 grazie al quale esiste la spada. Le cose per le quali esistono i corpi artificiali sono due, come ad esempio nella spada. Infatti, <la spada> esiste grazie a due cose, specificamente l’affilatura e il ferro. L’affilatura è la sua disposizione e la sua forma,6 grazie alla quale compie la sua operazione, <mentre> il ferro è la sua materia e il suo sostrato, ed è ciò che sostiene la sua disposizione e la sua forma. La veste esiste grazie a due cose: la filatura (fila) e l’intreccio (connexio)7 del corpo <della sua trama> con il suo ordito. L’intreccio (connexio) è la sua forma (forma) e la sua disposizione (constitutio), la filatura è ciò che sostiene l’intreccio ed è il suo sostrato e la sua materia. Anche il letto esiste grazie a due cose: la configurazione quadrata e il legno. Dunque, la configurazione quadrata è la forma (forma) <del letto> e la sua disposizione (constitutio), <mentre> il legno <è> la materia <del letto>, ed è come un sostegno per la <sua> configurazione quadrata. Similmente si comportano tutti gli altri corpi artificiali; dall’aggregazione e dall’unione di <materia e forma> risulta l’esistenza in atto di ciascuno di essi, la <loro> perfezione e la loro essenza. Ognuno di <questi corpi artificiali> agisce o produce <un effetto>, oppure è usato, o porta giovamento, solo in relazione alla cosa per la quale è fatto, con la sua forma, quando essa si unisce alla sua materia. Infatti, la spada non compie la sua azione se non quando è affilata. <Così> il vestito è utile solo con la sua trama, quando è intrecciata con il suo ordito. Così, per il resto dei corpi artificiali. Questa è <anche> la condizione dei corpi naturali. Infatti, ciascuno di essi esiste per un qualche scopo e fine. Ugualmente <avviene> per ogni cosa e accidente, che sussiste nei corpi naturali, infatti, <essa> esiste per un qualche scopo e fine. Ogni corpo e ogni accidente, in sé, ha <qualcosa> che lo produce e lo genera, grazie al quale esiste.


La classificazione delle scienze

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L’esistenza e la sussistenza di ognuno dei corpi naturali dipende da due cose: lo stato della prima di <queste cose> rispetto <al corpo naturale> è lo stato dell’affilatura della spada rispetto alla spada <stessa>, ed è la forma8 di quel corpo naturale. Lo stato della seconda di <queste cose> rispetto <al corpo naturale> è lo stato del ferro della spada rispetto alla spada <stessa>, e questa è la materia del corpo naturale e il suo sostrato, ed è anche come il recipiente per la sua forma. Tuttavia, la spada, il letto, il vestito e gli altri corpi artificiali mostrano alla vista e al senso le loro forme e le loro materie, come l’affilatura e il ferro della spada, la configurazione quadrata e il legno del letto. Invece, per quanto riguarda i corpi naturali, le forme e le materie della maggior parte di essi non sono percepibili e la loro esistenza non è verificata da noi se non con il sillogismo e mediante le dimostrazioni certe, sebbene anche tra i molti corpi artificiali, si trovino corpi le cui forme non sono percepibili, come <ad esempio> il vino. Infatti, questo è un corpo che esiste grazie a un’arte, <ma> la capacità con la quale inebria non è percepibile; la sua esistenza è conosciuta solo grazie alla sua azione. Dunque, quella capacità è la forma9 del vino e la sua disposizione, il rapporto di questa <capacità> al vino è <uguale> al rapporto dell’affilatura della spada con la spada <stessa>, poiché è con quella capacità che il vino compie la sua azione. Similmente, per le medicine composte con l’arte medica, per esempio la teriaca10 e altre <medicine>, che operano nei corpi solamente grazie alle capacità <di guarire> che si producono in esse, attraverso la loro <giusta> composizione. Queste capacità non sono percepibili e neppure si mostrano al senso, se non per gli effetti prodotti da queste capacità. Infatti, ogni medicina diventa una medicina solo grazie a due cose: gli ingredienti, di cui è composta e la capacità <di guarire>, con la quale compie la sua azione. I <diversi> tipi di ingredienti, dunque, sono la sua materia, <mentre> la capacità con cui compie l’azione è la sua forma. Se quella capacità viene meno, <allora> non sarà più una medicina, così, se nella spada viene meno l’affilatura, <allora> non sarà più una spada, così, se dal vestito viene meno l’intreccio della trama con il suo ordito, <allora> non sarà più un vestito. Secondo questa similitudine è necessario dunque comprendere le forme dei corpi naturali e le loro materie. Infatti, quando queste non vengono attestate attraverso il senso diventano come le materie e le forme dei corpi artificiali che non risultano al


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senso. Così, per esempio, il corpo dell’occhio e la capacità attraverso la quale si dà la vista e, per esempio, il corpo della mano e la capacità attraverso cui si dà la forza <di afferrare un oggetto>. Così via per ciascuna delle membra. Infatti la forza dell’occhio non è visibile, né risulta <percepibile> ad alcuno degli altri sensi, ma non viene considerata se non con la ragione. Le altre capacità che sono nei corpi naturali, si definiscono forme e disposizioni, secondo la via della somiglianza con le forme dei corpi artificiali. Infatti, la forma, la disposizione e la struttura11 sono all’incirca sinonimi, che indicano presso la gente le forme degli animali e dei corpi artificiali, <ma> sono permutati e posti, per analogia, come nomi per le capacità e per le cose il cui stato nei corpi naturali è lo stato della struttura (creationum), della forma (formarum) e della disposizione (constitutionum) nei corpi artificiali. Infatti, vi è la consuetudine nelle arti, di dare agli oggetti che sono in essi i nomi che la gente attribuisce a cose simili a quegli oggetti. Le materie dei corpi, le loro forme, le loro cause efficienti e finalità in vista delle quali esistono, si chiamano principi12 dei corpi. Se <invece> si tratta degli accidenti dei corpi, <questi> sono denominati principi degli accidenti che sono nei corpi. La scienza naturale fa conoscere i corpi naturali, ponendo <per certa> l’esistenza di quelli <la cui esistenza> è evidente <di per sé> e dimostrando solo l’esistenza di quelli la cui esistenza non è evidente <di per sé>. Insegna, per ciascun corpo naturale, <qual è> la sua materia, la sua forma, la sua causa efficiente e il fine in vista del quale quel corpo esiste. Così per i loro accidenti. Infatti, <la scienza naturale> fa conoscere le cause per le quali <quegli accidenti> esistono, le cose che li producono e le finalità in vista delle quali quegli accidenti sono stati prodotti. Questa scienza dunque dà i principi dei corpi naturali e i principi dei loro accidenti. Dei corpi naturali alcuni sono semplici altri composti. Semplici, dunque, sono i corpi la cui esistenza non dipende da altri corpi diversi da loro. Composti sono, invece, i corpi la cui esistenza dipende da altri corpi diversi da loro, per esempio gli animali e le piante. La scienza naturale si divide in otto grandi parti. La prima <parte> è l’indagine su ciò che hanno in comune tutti i corpi naturali, semplici e composti, <vale a dire> sui principi e sugli accidenti conseguenti a quei principi. Questa <parte> è tutta <contenuta> nella Fisica <di Aristotele>.13 La seconda <parte> è l’indagine


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sull’esistenza dei corpi semplici; e <si chiede, una volta dimostrato> che esistono, che corpi sono e qual è il loro numero. Questo è lo studio che riguarda l’universo, ciò che è, quali sono le sue parti e quante siano, e <si chiede> se nel complesso queste parti sono tre o cinque.14 <Vi è una parte> che riguarda lo studio del cielo e la sua distinzione dal resto delle parti dell’universo e <stabilisce> che la materia in esso è una. Questo è <contenuto> nella prima parte del primo libro del De caelo. Poi vi è la ricerca intorno agli elementi dei corpi composti, cioè se sono <compresi> in quelli semplici, di cui si è dimostrata l’esistenza, o se ci sono altri corpi differenti da quelli. Inoltre, <ricerca> se sono nei corpi semplici e non è possibile che siano distinti da quelli, se sono tutti o solo una parte di questi. Se sono una parte, allora <si chiede> quali sono di questi. Questo è <dunque> il loro studio: se si mostrano oppure no e il resto di ciò che si ricerca riguardo ad essi, sino alla fine del primo libro del De caelo. Quindi, segue la considerazione di ciò che hanno in comune tutti i <corpi> semplici, quali di essi sono elementi e fondamenti dei corpi composti e quali <invece> non sono elementi <dei corpi composti>. Questa è l’indagine relativa al cielo e alle sue parti. <Questa parte> si trova all’inizio del secondo trattato del De caelo fino a due terzi circa di esso. Segue la ricerca di ciò che è caratteristico di quelli che non sono elementi, poi, di ciò che è caratteristico di quelli che sono elementi tra i principi e degli elementi comunicanti con essi. Questo è quello che viene studiato alla fine del secondo trattato e nel terzo e quarto libro del De caelo.15 La terza <parte> è la ricerca sulla generazione dei corpi naturali, sulla loro corruzione in generale e tutto ciò di cui sono costituiti. Studia come si generano e si corrompono gli elementi, in che modo si generano i corpi composti da quelli semplici e dà i principi di tutti <i corpi composti>. Questo è <contenuto> nel libro De generatione et corruptione.16 La quarta <parte> è l’indagine sui principi delle forme accidentali <dei quattro elementi> e sugli effetti (passiones)17 propri dei soli elementi, senza ciò che è da essi composto. Questo è <contenuto> nei primi tre libri del De impressionibus superioribus.18 La quinta <parte> è lo studio dei corpi composti di elementi, alcuni di questi <corpi> sono composti di parti simili, altri di parti diverse. Quelli composti di parti simili sono <a loro volta divisi> in quelli le cui parti si compongono di parti diverse, come la carne e le ossa, e quelli che non sono parti di un corpo naturale <com-


Il modello epistemologico tracciato dal filosofo arabo medievale al-Fa¯ra¯bı¯ nella Classificazione delle scienze (Ih.s.a¯’ al-‘Ulu¯m) costituisce un ponte culturale tra lingue e tradizioni diverse, che da Bag·da¯d, attraverso la Spagna musulmana, giunge fino al mondo medievale latino. Scritta nel X secolo, l’opera ha contribuito a un radicale rinnovamento del sapere antico, trasmettendo una nuova classificazione e, quindi, una nuova visione delle scienze, intese come una possibilità data all’uomo di avvicinarsi alla comprensione della Verità suprema, che coincide in ultima istanza con Dio. Da questo punto di vista, l’Ih.s.a¯’ al-‘Ulu¯m si configura come l’ordito su cui tessere assieme la trama delle diverse tradizioni di pensiero in una riconciliazione armonica tra epistemologia e ontologia peripatetiche con la Verità rivelata dal Corano e l’unità sostanziale della metafisica greca. Il testo di al-Fa¯ra¯bı¯ è stato un fondamentale veicolo di conoscenza e di intersezione del pensiero greco con quello islamico, diffondendosi nel mondo latino grazie alle versioni dall’arabo realizzate da due importanti traduttori del XII secolo, Gerardo da Cremona e Domenico Gundisalvi, sotto il titolo di De Scientiis. In particolare, la versione verbum de verbo di Gerardo da Cremona, qui presentata in traduzione italiana e commentata, ha costituito uno degli esiti più significativi di quel processo di trasmissione della scienza e della filosofia araba al mondo latino medievale, in grado di rivoluzionare la concezione proveniente da Aristotele e di promuovere allo statuto di scienza alcune discipline relegate tradizionalmente nel domino dell’arte, come l’ottica, la scienza dei pesi e la scienza degli ingegni. Anna Pozzobon, laureata in Filosofia presso l’Università di Padova, ha conseguito il Dottorato di ricerca presso il Dipartimento di Filosofia della stessa Università, con una tesi sul filosofo arabo al-Fa¯ra¯bı¯ e la sua influenza nella cultura medievale latina. Ha svolto attività di ricerca presso il Warburg Institute di Londra e presso l’Istituto Dar Comboni (Istituto di Studi Arabi ed Islamici) al Cairo. I suoi interessi di ricerca sono rivolti allo studio degli scambi filosofici e scientifici intercorsi tra la cultura araba e quella latina nel corso del Medioevo. Attualmente è Language Assistant presso Litherland High School di Liverpool (UK).

e 26,00

ISBN

978-88-7115-845-7


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