poligrafie
voci, storie, narrazioni
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Vincenzo Faggiano
Vite senza tempo Riduzione in prosa del manoscritto La serva di Padova
presentazione di Michele A. Cortelazzo
ilpoligrafo
Copyright © settembre 2020 Il Poligrafo casa editrice srl 35121 Padova piazza Eremitani – via Cassan, 34 tel. 049 8360887 – fax 049 8360864 e-mail casaeditrice@poligrafo.it ISBN 978-88-9387-122-8
INDICE
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Presentazione Michele A. Cortelazzo
vite senza tempo
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Premessa
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i. il giorno della disgrazia
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II. La visione della contessa
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III. Il sogno della contessa
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IV. il racconto del sogno di bettina
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V. Il prezzo della benzina
69 VI. Il patto sulla morte di marsilio in cambio del tesoro
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83 vIII. La visione di bettina
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X. Marsilio recita la sua morte
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XI. L’eterna fine e l’eterno inizio
vII. L’ILLUMINAZIONE
IX. Il tesoro ritrovato
presentazione
Michele A. Cortelazzo
Nel 2012 Vincenzo Faggiano ha pubblicato un dramma lirico dal titolo La serva di Padova. Il testo ha avuto un successo, forse inatteso se commisurato alla particolarità dell’opera, non solo per la diffusione del volume, ma anche per le sue numerose messe in scena: dopo le prime rappresentazioni a Padova (a cavallo tra il 2013 e il 2014), l’opera è stata rappresentata, integralmente o parzialmente, ancora a Padova anche in sedi rilevanti per la vita culturale della città (il Teatro Verdi, la Sala dei Giganti, Palazzo Moroni, il Conservatorio Pollini, e poi il Piccolo teatro Don Bosco e il Circolo Unificato dell’Esercito), a Piazzola sul Brenta (a Villa Contarini), a Venezia (alla Scuola Grande di San Teodoro), in Romania, a New York (al National Opera Center). Protagonista costante la soprano polacca Dominika Zamara, accanto ad altri artisti di varia estrazione. Il libro e gli spettacoli hanno avuto successo nonostante la trama complessa, ma comunque intrigante, e l’andamento forzatamente sintetico, a volte allusivo, a volte criptico, che il dramma lirico proponeva ai suoi lettori (o, più probabilmente, ha avuto successo proprio per queste sue caratteristiche). Non è opportuno che una presentazione sveli troppo del testo a cui viene premessa, ma la vicenda narrata si snoda tra presente e passato (la Padova del tardo Quattrocento, in procinto di perdere la propria autonomia in seguito alla conquista da parte della Repubblica veneziana); la storia è quella di un legame forte e di una reciproca fedeltà, nonostante le avversità, tra una nobile decaduta e la sua “serva”; questa storia apre squarci sulla vita sociale odierna e quella del passato. Ma il vero oggetto dell’invenzione fantastica di Vincenzo Faggiano è il tema della vio-
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lenza nei rapporti sociali, della prepotenza di certe autorità, amministrative o economiche, della crisi sociale, del realizzarsi di tutto ciò, in modi storicamente diversi, ma al fondo simili, nel mondo di ieri e nel mondo di oggi. Il finale porta a un inaspettato rovesciamento di fronte, che il lettore scoprirà leggendo l’opera. Proprio in considerazione del successo avuto, ma anche dell’intrico di fili che si incrociano nel testo, Vincenzo Faggiano ha pensato di affiancare alla versione in versi, pensata per il canto, una “riduzione” in prosa (che poi è, in realtà, un’espansione), capace di esplicitare il non detto, quel tanto che basta per rendere il testo più immediatamente intelligibile, senza però privare il lettore del fascino che aveva il testo in versi e senza togliergli il piacere di ricostruire o completare, secondo le proprie propensioni e la propria visione del mondo, atmosfere, richiami storici, legami tra tempi e situazioni diverse. Lo spirito con il quale è stata condotta la trasposizione in prosa dell’originario dramma lirico è ben rappresentato dalle parole del presunto autore del manoscritto che conserva la vicenda. Dice l’autore: «la scrittura in strofe, il ricorso al lirismo letterario usato nel manoscritto, consente un’esposizione dei fatti alquanto sommaria». Era quindi opportuno affiancare all’originale in versi, che resta, comunque, l’archetipo, o la versione più genuina della Serva di Padova, una stesura di più facile lettura, da due punti di vista: da una parte, quello stilistico, con la “traduzione” dello stile lirico dell’originale (ricco di preziosismi lessicali e di strutture sintattiche che modificano l’ordine consueto delle parole dell’italiano moderno), dall’altro quello della restituzione della vicenda narrata: la struttura del poema lirico «consente un’esposizione dei fatti alquanto sommaria. Diversamente, la prosa impone una grande attenzione al dettaglio, una più minuziosa descrizione degli eventi e delle loro dinamiche, pena una caduta di credibilità della trama e della coerenza del testo». È proprio questo il lavoro più profondo svolto dall’autore, che ha integrato la narrazione dell’opera originaria con l’introduzione di nuove parti del racconto, in modo da offrire al lettore un’ampia rappresentazione di aspetti della vicenda narrata che nella versione originaria erano appena accennati o presentati in modo vago e allusivo.
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Ne è uscita un’opera nuova, che ha anche richiesto un titolo nuovo, proprio per marcare la differenza tra i due testi, che pure sviluppano la stessa vicenda: Vite senza tempo. Il titolo si focalizza su una delle caratteristiche portanti dell’invenzione di Faggiano, la fusione in un’unica narrazione di due prospettive cronologiche diverse, che però si intersecano inestricabilmente. Scompare dal titolo la parola “serva” che, come mostra il compimento della vicenda, non sottende alcuna prospettiva “politicamente scorretta”, ma che, senza una lettura integrale del volume, potrebbe effettivamente dar luogo a un equivoco sulla visione che l’autore ha della società odierna, oltre che di quella del passato. Ho seguito nel suo farsi la riformulazione del testo iniziale, e non sono, quindi, in grado di dare una valutazione spassionata del lavoro fatto e dei risultati raggiunti: è un po’ quello che accade ai genitori, che vedono i figli crescere giorno per giorno, e spesso non percepiscono il progresso che fanno in un arco di tempo più esteso (e lo stesso fanno i figli, quando non percepiscono la progressione quotidiana dei genitori verso l’invecchiamento). Saranno i lettori a fare questa valutazione, sia che vogliano confrontare la riduzione in prosa con l’originario dramma lirico, sia che preferiscano assaporare quest’ultima versione nella sua autonomia. L’auspicio, se non proprio la certezza, è che l’effetto sia, alla fine, simile alla sensazione positiva che ricaviamo quando osserviamo la crescita dei giovani, aperti alla vita. In questa prospettiva, l’augurio è che Vite senza tempo replichi, e superi, il successo della Serva di Padova.
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VITE SENZA TEMPO
PREMESSA
Nella mia vita errante tra varie città e paesi, la sorte mi ha condotto a vivere gli ultimi miei anni a Padova, dove mi sono stabilito nel 1990. Avevo vagato per oltre un ventennio in diversi paesi del mondo, dall’Africa all’America latina, nelle località più remote e abbandonate del pianeta, ovunque mi mandasse in missione la multinazionale dalla quale dipendevo. Ne avevo viste di tutti i colori, nei paesi più miserabili della terra, dalle sofferenze incredibili delle popolazioni, alla famelica corruzione delle classi dirigenti che si erano insediate al potere, sostituendosi al colonialismo. Costoro spesso superavano in ferocia i loro predecessori e vivevano nel lusso, stornando a proprio vantaggio ogni aiuto internazionale. Avevo vissuto anch’io in condizioni estreme di disagio tra guerre e carestie: il mio fisico ne pativa le conseguenze. Appena raggiunta la possibilità di percepire una piccola pensione decisi, quindi, di ritirarmi, in cerca di un po’ di serenità. A causa della mia vita errabonda ero solo, senza alcun legame, senza amici o parenti prossimi, e nulla mi vincolava nella scelta di un posto dove stabilirmi. Cercavo una città tranquilla, grande abbastanza da potermi offrire i vantaggi di una vera città, ma non troppo grande, così da evitare gli svantaggi di una metropoli. Padova mi sembrò adatta per le mie esigenze. Trovare un’abitazione in questa bella città non fu impresa facile, così mi adattai a vivere in una cadente mansarda del centro per alcuni anni. Uno dei miei pochi svaghi consisteva in una lunga passeggiata attraverso il quartiere storico fino alle mura cinquecentesche che, massicce e imponenti, ancora intatte, cingono la città. Non lontano dalle mura si trova una dimora, di origine medievale, che appartenne ai Signori di Padova ed era stata abitata, secondo voci raccolte in giro, da due don-
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ne, fino a qualche anno prima. Mi piaceva vagare nel parco della villa e anche, a volte, sedere sotto un castagno a meditare oppure a leggere. Trascorrevo ore a ripercorrere le varie fasi della mia vita, soprattutto i miei vent’anni, quando ero stato coinvolto nelle turbolente lotte politiche che hanno sconvolto l’Italia negli anni ’70. Molte delle idee che mi avevano animato in quegli anni non mi appartenevano da tempo, e consideravo, alla luce delle mie esperienze successive, stupido e immotivato il mio entusiasmo di allora. Mi ero profondamente convinto di essere stato usato, strumentalizzato da quei personaggi che sulla dabbenaggine di tanti giovani avevano costruito le loro personali fortune, brillanti carriere politiche, collocazioni di prestigio nelle tante caste nelle quali si articola la nomenclatura dei potenti. Il parco dove ero solito abbandonarmi a queste mie elucubrazioni in realtà era privato, ma chiunque poteva accedervi dai numerosi varchi nel muro di cinta che gli anni e l’incuria avevano creato, e si poteva entrare perfino dal cancello, privo di serratura. L’antico edificio posto nel fondo del parco era distrutto. Dal cumulo di macerie si levava qualche brandello di parete, annerito dal fumo di un incendio. Mi piaceva girare intorno a quello scheletro di mattoni, tra calcinacci e detriti, perché sentivo come un incanto nel cuore che ne aumentava i battiti, così che mi prendeva un senso di stordimento, mi si svuotava la testa dai pensieri e mi si rilassava il corpo. In particolare mi fermavo a fissare, quasi rapìtone, un monumentale camino, salvatosi dalla distruzione, che si reggeva su di un pesante basamento, dalle pareti crepate e arse, pressoché integro nella sua struttura. La canna si levava intatta per qualche metro come per miracolo e dominava beffarda quello scenario di desolate macerie, solidamente poggiata su di un architrave in pietra che si apriva nella parte bassa, a formare la bocca del focolare, simile a un antro. In un’assolata giornata d’estate notai una piccola scritta incisa sul margine basso dell’architrave e con un certo sforzo riuscii a leggere queste parole: «Va oltre». Al momento non ci feci caso, ma nei giorni successivi quelle parole mi rimuginarono nella mente, finché non immaginai un possibile significato della frase. Fu così che una mattina m’infilai carponi nella bocca del camino, ne tastai il pavimento e, nell’angolo di sinistra, rinvenni un quaderno, di quelli che si usano alle elementari, con la copertina nera di cartone plastificato. Si trattava di un manoscritto, steso
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con grafia approssimativa e incerta, pieno di cancellature e riscritture, quasi illeggibile. Dopo una veloce scorsa rinunciai subito a ogni tentativo di comprenderne il contenuto. Fui anche tentato dall’idea di buttarlo via, tuttavia mi trattenni e lo infilai nella cintola, in modo che non mi impicciasse le mani durante la passeggiata. Quel giorno mi trattenni meno del solito al parco. Rientrai a casa, verificando con la mano, di tanto in tanto, durante tutto il percorso, che il quaderno non mi fosse scivolato a terra. Quando giunsi, mancavano ancora un paio di ore al consueto orario del pranzo. Non avevo altro da fare, così presi a sfogliare il quaderno. Notai che le prime pagine, una ventina, erano scritte in prosa e risultavano abbastanza intellegibili, rispetto al seguito, che era scritto in strofe. Riuscii a leggere la prima parte, sia pure con difficoltà, districandomi tra cancellature, riscritture, continui rinvii. Intuii che l’autore, una donna, a mio avviso, per il tipo di scrittura e il tratto grafico dei segni, aveva voluto anteporre al crudo racconto un’analisi dei fatti narrati e del loro significato morale. Non proprio una introduzione, quindi, ma una riflessione storica e filosofica calata in una sorta di sinossi dei capitoli successivi. Attraverso argute generalizzazioni, allegorie e comparazioni tra epoche differenti, emergeva una vera e propria interpretazione della realtà, un’organica visione del mondo che subito mi apparve quanto mai attuale e profondamente condivisibile. Le argomentazioni del manoscritto, pur traendo spunto dalla storica vicenda della caduta della signoria Carrarese a Padova per mano dei Veneziani, nei primi anni del ’400, proponevano un continuo parallelismo con avvenimenti contemporanei, mostrando la continuità e permanenza in ogni epoca di alcuni archetipi dei comportamenti umani quali la violenza, la sopraffazione dei deboli, il ladrocinio, la corruzione. In buona sostanza, il tema centrale del manoscritto era la violenza del mondo come costante di ogni epoca. Nella storia narrata, anticipa l’ignota autrice, ne sono vittime le due protagoniste, due donne molto diverse: la contessa, appartenente alla nobile casata dei Carraresi, Signori di Padova per circa un secolo, e la serva Bettina, discendente di una famiglia di servitori della casata, legata alla contessa, sua padrona e amica, da una profonda devozione; c’è, poi, una terza vittima nella storia: la città di Padova, violentata nella sua identità
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dalla conquista veneziana del Quattrocento. L’evento impronta il carattere di un intero popolo nel segno della diffidenza verso il mondo, di una riservatezza estrema necessaria per sopravvivere, del mascheramento dei propri averi per non esserne spogliati. La lotta tra Venezia e Padova ha infinite chiavi di lettura, sostiene l’autrice, ma è molto importante quella dello scontro di valori tra una realtà fondata sulla concretezza della vita contadina e del lavoro degli artigiani e una nuova realtà, storicamente vincente, che si fonda sui traffici e sulla finanza. Trovai molto acuta questa tesi. In fondo, Venezia – strana città costruita sul mare – non aveva terre da coltivare, né spazi per le manifatture. Certo, la sua ricchezza derivava dal commercio via mare, per la sua vocazione marinara. Ma quali merci scambiare se non quelle che le sue navi acquistavano o forse derubavano, navigando a est, lungo la costa, di lido in lido? E con chi scambiarle, queste merci, se non con le popolazioni insediate lungo i canali navigabili, vere e proprie arterie commerciali dell’epoca, che solcavano le ricche pianure a ovest della grande palude che delimitava la laguna veneziana? Non produceva nulla, la magnifica Venezia, solo lucrava sullo scambio dei beni. Certamente ai suoi cittadini questo mercanteggiare rendeva molto di più di quanto potessero rendere le loro attività ai padovani e agli altri abitanti dell’entroterra veneto, costretti a vivere del duro lavoro dei campi o della manifattura artigianale. è probabile che l’esercizio del commercio marittimo avesse determinato negli anni una sorta di predominio finanziario della città dei mercanti su quella dei contadini e degli artigiani. Si sa, da sempre il predominio finanziario genera egemonia e dominio politico. Era così nel Quattrocento, così è anche nei giorni nostri, considerai. Non sono forse le grandi potenze finanziare a dominare sulle nazioni che producono o trasformano materie prime? Non è forse la speculazione, la cabala delle borse, molto simili a bische, a generare ricchezze e grandi fortune, piuttosto che il lavoro, la concreta e materiale produzione dei beni nell’industria e nell’agricoltura? Il problema, ieri come oggi, è che questo meccanismo, contiene in sé i germi della propria crisi: quella sorta di gioco di prestigio per il quale al-
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cuni popoli fondano il loro benessere sulle sole leve finanziarie a scapito di altri popoli, che pur producendo beni e materie prime vivono nella miseria, richiede fisiologicamente un periodico ricorso alla violenza e alla guerra! Ero immerso in queste elucubrazioni, quando il tocco delle campane mi riportò alla quotidianità, strappandomi alle immagini e alle riflessioni che la suggestiva trama aveva indotto nella mia mente. Riposi il manoscritto in un cassetto del credenzone della cucina e apparecchiai alla svelta per il desinare. Avevo già letto quasi tutto il testo, tranne alcune parti a malapena comprensibili, ma non ripresi più la lettura, fintanto che abitai quella casa. Il manoscritto rimase lì a lungo, prima che mi tornasse in mano per ricominciarne l’esame e provare a decifrarlo e interpretarlo nella sua interezza. Per la verità mi sono risolto a questa impresa dopo che alcuni avvenimenti avevano radicalmente mutato la mia condizione di vita, cioè dopo il mio ricovero in una sorta di ospizio dal nome poetico, ma orrido nella sua essenza. Io ci vivevo anche bene, nel mio tugurio, ignorato da tutti, nonostante la solitudine, la scarsità di mezzi, gli acciacchi della vecchiaia. Fatto si è che alcuni saccenti vicini tanto fecero da convincermi a rivolgermi ai servizi assistenziali, per riceverne una qualche forma di aiuto. Fu l’inizio della mia rovina: stuoli di psicologi delle più svariate scuole di pensiero, specialisti plurilaureati in scienza di qualcosa, assistenti psicosociomotori, infermieri pluritesserati cominciarono a occuparsi di me con ottusa protervia tanto che mi ritrovai a vivere in una camerata da quattro letti, parcheggiato in attesa di trapassare. Certo, l’assistenza pubblica pagava la salatissima retta del mio ospizio ma allo stesso tempo, per rifarsi delle spese, mi aveva spogliato della mia dimora, messa all’asta e acquistata da un parente di quegli stessi funzionari che mi avevano internato. Così pure i miei risparmi vennero acquisiti dal pubblico benefattore e, va da sé, la mia piccola pensione trattenuta ogni mese, quale contributo al mio mantenimento. Insomma non avevo la possibilità neanche di comprarmi un po’ di tabacco, un libro, una bottiglia di vino. Inserito nel magnanimo ingranaggio dell’assistenza pubblica, potevo solo vegetare tra un programma televisivo, i pasti a base di pappette e qualche disperante conversazione con i miei compagni di sventura.
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Il manoscritto, che avevo salvato dallo spoglio della mia abitazione, divenne così la mia salvezza, lo scopo di quegli ultimi anni della mia vita, prima di morire. Dedicai tutto il mio tempo a decifrarlo, a trascriverlo in bella grafia, a leggerlo e rileggerlo, correggere e interpretare fino a ricavarne questo libro che state leggendo, almeno spero, pubblicato dall’unico mio amico, il mio vicino di letto, al quale ho deciso di affidarlo, insieme al mio testamento, prima dell’imminente fatale commiato tra qualche ora. Sì, ho deciso di farla finita. Per carità, io credo ancora che sia giusto aspettare pazientemente il proprio turno e non forzare il destino, né mi sarei mai tolto la vita con le mie mani. Perciò ho concepito una sorta di piano per andarmene a modo mio. Almeno questo a un uomo è concesso, quando una certa diagnosi, all’improvviso, ti mette di fronte a una morte certa e terribile. La mia sorte è già segnata, mi sono detto, e quindi che male c’è se scelgo, badate bene, non di morire, ma come morire. Così, ispirato anche da quanto raccontato nel manoscritto, ho parlato con il mio amico, lo stesso al quale affiderò questo mio libro. Siamo d’accordo, abbiamo fatto un patto. Tra un po’, finito di scrivere questa introduzione, ci incontreremo in una saletta dell’ospizio e mangeremo assieme le leccornie che ho comprato e berremo anche una bottiglia di buon vino. Il mio amico ha già una boccettina di tranquillante che ho sottratto dal carrello dei farmaci. Lo verserà con discrezione nel mio bicchiere prima dell’ultimo brindisi. Poi ci saluteremo e andremo a dormire, sapendo che io non mi sveglierò. Siamo anche d’accordo che gli lascerò questo testo perché lo pubblichi. Ho buone speranze che lo farà davvero, perché è un grande fumatore e soffre moltissimo di non poter comprare sigarette, tanto da passare le giornate a mendicarne dai visitatori, all’interno dell’ospizio. Con quello che gli lascio per testamento, il contenuto del mio armadietto, potrà comprarsene svariate stecche. Infatti, avevo salvato dalla mia mansarda qualche gioiello di famiglia, i miei orologi d’oro, francobolli e qualche moneta da collezione. Non una fortuna, certo, ma nella sua situazione è un vero tesoro. Basterà per indurre il mio amico ad assolvere l’unico vincolo posto dal testamento: far pubblicare il libro che state leggendo. Confesso che il manoscritto è stato molto importante nella mia vita e ci tengo molto a che il suo contenuto venga conosciuto. 18
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Non sono un letterato, né ho mai frequentato un corso di scrittura creativa. Non so che razza di libro sia uscito dalla rielaborazione del manoscritto originario e, francamente, se dovessi collocarlo in qualche genere letterario, non saprei farlo. Di sicuro non è uno di quei libri che vanno per la maggiore, dove la trama è lineare, lo svolgimento dei fatti è ben costruito e tutto è di facile comprensione, tanto che sembrano scritti da un computer. No, il manoscritto è proprio il contrario di un romanzo ben scritto: la narrazione non è lineare, il racconto dei fatti si interrompe in un continuo rimbalzo di storie, di epoche, di dimensioni spazio-temporali e il senso della trama si scompone e si ricompone di continuo, dando vita a un groviglio di rivoli. La scrittura è ermetica, i termini sono desueti, la stesura è in strofe, come in certi poemi antichi: insomma è proprio un testo di ardua lettura e comprensione. Una persona normale come me, non sarebbe mai riuscita a leggerlo e comprenderlo, se non fosse stato nella particolare condizione di ricovero in un ospizio per lunghi anni. Eppure una volta superate le difficoltà ed entrato nella dimensione del testo, ho iniziato a coglierne il significato, per arrivare poi a comprendere sia la profondità del contenuto che la bellezza dello stile. Avrei potuto riproporlo tal quale, dopo averlo decifrato e sistemato. Ho deciso invece di farne questa stesura di più facile lettura, senza strofe, in una forma simile alla prosa. Ho anche capito, negli ultimi anni, che la scrittura in strofe, il ricorso al lirismo letterario usato nel manoscritto, consente un’esposizione dei fatti alquanto sommaria. Diversamente, la prosa impone una grande attenzione al dettaglio, una più minuziosa descrizione degli eventi e delle loro dinamiche, pena una caduta di credibilità della trama e della coerenza del testo. Mi sono, quindi, risolto ad aggiungere nuove parti e anche ulteriori capitoli al racconto, frutto di una mia ricostruzione di quei fatti solo accennati ovvero descritti in modo vago nel manoscritto originale La serva di Padova. Alla fine ho compreso che il testo così rielaborato era un’opera nuova, diversa e distinta dal manoscritto originale, dal quale pure era tratta. Da qui la scelta di dare un suo proprio titolo, Vite senza tempo, a questa mia rielaborazione, a significare che si tratta di una nuova stesura alla portata di tutti, dichiaratamente divulgativa, mentre la vera opera di pregio rimane il manoscritto, che, infatti, viene richiamato nel sottotitolo Riduzione in prosa del manoscritto “La serva di Padova”. 19
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Questo anche per il giusto riconoscimento all’ignota scrittrice del testo da me rinvenuto, alla quale tributo grande rispetto. Ora, francamente, non so se sia stata giusta, questa mia scelta di facilitare la vita di chi voglia conoscere la storia della Serva di Padova; forse ho solo rovinato un’opera eccelsa. A ogni buon conto ogni paziente lettore deciderà per proprio conto se la scelta sia stata giusta. Sempre che il lettore abbia voglia di affrontare questo problema, il quale è probabile interessi solo a me e neanche tanto: sapete, all’approssimarsi della morte alcune questioni, pure importanti, perdono alquanto di significato. Sento il bisogno di fare un’ultima precisazione. Questa che state leggendo è l’unica parte del libro che non è stata tratta dal manoscritto. L’ho proprio scritta io, racconta di me e della mia vita. Mi sono accorto, ora che sono giunto alla fine, delle molte analogie tra la mia storia personale e quella delle protagoniste del manoscritto, la contessa e Bettina, che forse sono un’unica entità spirituale. Ancora di più: sia pure in un altro contesto, la mia storia personale ricalca quella delle due donne. Ovviamente, tutto questo lo potrà comprendere solo chi leggerà l’intero libro. Qui mi limiterò a fornirvi alcune tracce, perché possiate cogliere meglio i vari collegamenti nel corso della lettura: l’esperienza dell’ingiustizia nei miei viaggi per il mondo; Padova e il Casino di caccia, dove ho trovato il manoscritto; il manoscritto per me è stato un tesoro; il ricovero in ospizio è stato per me una terribile violenza; ho scelto io come morire; ho coinvolto una persona amica nella modalità della mia morte; ho fatto un patto con questa persona; ho lasciato dei beni a questa persona e le ho affidato una missione.
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I. Il giorno della disgrazia
Triste in volto, avanza con passo spedito la serva Bettina verso l’antica villa dei signori di Padova, nell’ampio parco che la circonda, nell’immediata periferia della città. Poco rimane dell’antica opulenza. Dove furono prati ridenti e ben curati, crescono virulente erbacce. Gli alti fusti della magnificente alberatura di un tempo resistono ancora, ma quali chiome svettano ora, avvizzite e stanche cime, vergogna a un cielo spento. A stento procede Bettina per l’arduo percorso di fango e pozze che si dipana tra straripanti radici, mentre immagina sentieri selciati, e ben tenuti, in perfette geometrie, chiusi da siepi, come furono un tempo. Immagina l’amena villa, grazia degli occhi, che appariva gentile meta nel fondo, fulgida e prospera dimora; ma poi ritorna al presente e vede solo rovinose mura, orridi squarci, reale e mesta visione che lo sguardo rifiuta, per rivolgersi al cielo, così che il cuore non ne resti desolato. Ancora porta nella mente, la misera donna, il fresco ricordo di una terribile notte, trascorsa nella frenetica ricerca di una dose di eroina per la sua padrona. Aveva percorso in lungo e in largo le zone deputate allo squallido traffico. Nelle ore serali e notturne le quiete piazze, le viuzze del centro, alcune periferie si animavano di giovani provenienti da tutto il Veneto, ansiosi di placare l’imperiosa richiesta di droga delle loro menti malate d’angoscia. Li aspettavano spacciatori di ogni nazionalità, che occupavano le varie aree di spaccio duramente conquistate con feroci battaglie contro altre etnie, a colpi di coltello, bastoni e bottiglie rotte. Gli spacciatori erano tutti dei piccoli boss, detentori
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di un potere assoluto verso i drogati, che da loro dipendevano per la fornitura. I più fortunati tra questi erano in grado di pagare senza problemi con i soldi di famiglia. Gli spacciatori capivano subito se il cliente aveva disponibilità di denaro e aumentavano il prezzo. Chi non aveva mezzi faceva di tutto per procurarsi il necessario, dall’elemosina al furto. Le ragazze, spesso minorenni, tentavano di prostituirsi, sfidando il potente racket delle professioniste o cadendone preda. Le più belle si offrivano direttamente agli spacciatori. Non era raro incontrare, negli eleganti caffè di Padova, sfacciati giovanotti, griffati, con vistose collanine d’oro ben in mostra sul petto e circondati da avvenenti e servizievoli ragazzine. Quella sera Bettina le aveva provate tutte, pur di procurarsi il denaro e soddisfare l’impellente necessità della contessa. Aveva chiesto nel giro dei bottegai delle piazze, dei baristi, dei pensionati che frequentano certi bar, l’abituale cerchia, insomma, dalla quale riusciva spesso a ottenere piccole elargizioni in denaro in cambio della sua gentile disponibilità. Aveva provato a elemosinare davanti alle chiese e aveva racimolato qualche lira, ma poca cosa. Infine si era giocata le sue ultime carte: aveva fatto il giro di tutti gli spacciatori di Prato della Valle, l’immensa piazza con un parco nel centro, implorando e offrendo di tutto. Aveva ottenuto solo risposte sguaiate, risate beffarde e insulti di ogni tipo. Tutti pretendevano soldi: d’altra parte, per soddisfare certe voglie, ben più giovani e avvenenti concorrenti erano a portata di mano dei potenti venditori di morte. E poi, le angustie e le ristrettezze, la scarsa cura del corpo e gli abiti miserabili la avevano resa, con il tempo, sempre meno attraente. Si era rassegnata solo alle prime luci dell’alba, interrompendo la sua frenetica ricerca. Esausta si era portata fino alla vicina Basilica del Santo e lì si era distesa, sotto un porticato, proprio di fronte alla massiccia statua del Gattamelata, affidandosi a un agitato sonno, per dimenticare la sua disperazione. Aveva dormito fin quasi a mezzogiorno e al risveglio l’ampio sagrato era già pieno, come sempre, di turisti e pellegrini. Era infreddolita, i muscoli e le ossa dolenti per l’umidità della notte. Si era levata a fatica dal suo giaciglio di pietra, avviandosi con passi incerti verso Prato della Valle. Lì si era seduta qualche minuto sulla ringhiera che circonda la grande fontana e quindi si era rinfrescata il volto con l’acqua zampillante. 22
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Con i pochi spiccioli, frutto di elemosina, aveva comprato due pagnotte di pane comune dalla rivendita che si trovava in un angolo della piazza. Il cammino del ritorno le era apparso lungo e faticoso, appesantito anche da una fastidiosa pioggerellina, che cadeva a tratti, per l’eccesso di umidità nell’aria. Ora che è quasi giunta alla sua meta, sente una tremenda stanchezza, gli ultimi metri che la separano dall’ingresso della villa le sembrano interminabili, eppure non rallenta il passo, ansiosa di arrivare dalla sua padrona. Aperto il portone di casa, Bettina sale una sconnessa scala e accede in un ampio, disadorno e sguarnito salone, dove sta la contessa, accucciata a terra, le spalle poggiate a una scrostata parete, vicino a un monumentale camino. Canticchia con frasi spezzate, mentre rabbrividisce dal freddo, lo sguardo allucinato e perso: Gioca la morte col suo signore, il tempo. Tira il dado. Ad ogni ghigno un uomo si perde. E dice il tempo: Guarda gli umani, vivono ignari, tutti son morti eppur non sanno.
Bettina la interrompe per riportarla in sé: «Viver dovete padrona mia, per voi sono qui». Finalmente la contessa la vede e con inattesa energia le si scaglia addosso, colpendola con pugni e schiaffi, poi riprende a tremare e inveisce: «Tu parli e non sai nulla, ti dissi di portarmi un’altra dose. Lo vedi questo male che mi divora l’anima, questo terrore senza ragione?». Bettina la sorregge tenendola alla vita, ma la contessa non arresta il suo sproloquio: «Un’ansia mi prende tutta, ma non devo fare nulla, la paura mi gela anche se non ho nulla da temere». Infine si acquieta e prende a piangere, e ancora tra i singhiozzi si lamenta: «Il mio patire e la mia vita sono senza scopo, vivo nel
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Se sogni o sei desto chi dirlo mai può? qual dei due mondi sia solo illusione saper non si può. Fuori dal tempo si svolge il sogno chiuso nel tempo resta il reale ma quale eterno infine rimane? e se tutt’uno poi fossero sogno e realtà?
Così la contessa prende sonno, ma non sarà un sonno senza sogni.
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III. Il sogno della contessa
Marsilio ora è un gigante, ben ritto sulle gambe, reca ferite al petto, ma in spalla stringe salda la cassa del tesoro. Attorno, in fitta schiera, gli stanno i popolani, partiti assieme a lui da quella sconta corte, altri ancora se ne aggiungono lungo la via, a far più folto il gruppo. Procedono tranquilli lungo le piazze e il borgo, non badano ai soldati né questi si curano di loro, misera plebe in moto. Tanti sono gli appestati dai volti butterati, frammisti in mezzo a loro. Se qualche veneziano incrocia il loro sguardo, un brivido lo coglie e subito se ne allontana. Il misero corteo giunge indenne alle mura, nei pressi della torre Torlonga e lì attraversano il fossato, da qualche tempo prosciugato, dopo che i Veneziani avevano deviato il corso del Brenta, durante l’assedio. Attraverso gli orti che costellano le mura, si portano verso un folto boschetto, che cinge una cappelletta, luogo di devozione degli ortolani. Questi usavano seppellire i loro morti nella piccola radura dove sorgeva il minuscolo edificio sacro, perché consideravano consacrato quel terreno. Durante l’assedio, inoltre, squadre di uomini vi avevano trasportato, notte tempo, i cadaveri dei padovani colpiti da peste, per dare loro sommaria sepoltura. Nel fitto del bosco, Marsilio si ferma e subito un paio di miliziani della sua guardia, che si erano aggregati alla folla, lo affiancano. Poggiata a terra la pesante cassa che aveva trasportato in spalla fin lì, ne estrae un sacco pieno di monete d’oro e quindi dona dieci monete a ognuno degli uomini presenti, svuotandolo circa a metà. Ciascuno prende silenzioso il premio della sua fedeltà e se ne va per proprio conto. Nessuno di loro rientra in città. Alcuni si dirigono verso i colli euganei, altri si portano verso il fiume, e altri ancora si allontanano
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dulità del Morosini. Sapeva bene che da qualche parte, dei sicari lo attendevano per farlo fuori. Sedette, invece, in attesa, nascosto in un sottoscala della villa, aspettando che Bettina portasse a compimento il tranello. Bettina lo trovò così seduto, una volta completata la sua opera e insieme diedero sfogo alla loro soddisfazione, abbracciandosi e baciandosi. Dopo armeggiarono a lungo, con l’aiuto di qualche arnese, martelli e tenaglie che trovarono nelle cantine del casino, finché Marsilio riuscì a liberarsi delle catene. Rimasero nascosti per almeno tre giorni, consumando le frugali provviste di cibo che Bettina si era portata dietro. In tal modo, i sicari che aspettavano Marsilio, non vedendolo, avrebbero desistito. Così fu. Marsilio poté attraversare il confine e giungere sano e salvo a Ferrara. Da lì proseguì per Firenze, dove preparò la rivolta. Bettina tornò a Padova, per fare altrettanto. Quei tre giorni furono tra i più felici, per i due amanti». Bettina spinta dal suo senso pratico, non può fare a meno di commentare: «Come mai, contessa, non pensarono di recuperare il tesoro e portarlo oltre i confini, fuggendo assieme?». «Perché sapevano che non era questo il loro destino. Marsilio, il principe Marsilio dei Carraresi, voleva caparbiamente riconquistare il suo regno. Il tesoro era al sicuro dove si trovava e lo avrebbe ripreso una volta cacciati i Veneziani. Portarselo dietro era troppo rischioso. Un profugo è esposto a mille pericoli e avere troppe ricchezze appresso non aiuta a salvarsi la pelle». Marsilio aveva considerato tutto questo prima di nascondere il tesoro. Aveva preso solo cento monete e sei gemme, bastevoli per le sue necessità e per quelle di Bettina. Il resto è rimasto custodito nella fossa del camino fino ai nostri giorni, perché né lui, né Bettina riusciranno mai a riprenderselo. Marsilio fu ucciso durante la rivolta e Bettina morì dopo aver dato alla luce il figlio di Marsilio. Mentre la contessa narra a Bettina queste cose, le afferra la mano, stringendola salda e la invita a fissare ancora una volta la pietra rossastra sul fondo della buca. Così continua la visione della Padova dei primi anni del ‘400, nei giorni della rivolta contro i Veneziani.
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«Ecco già vedo gli altri fatti, del piano ben architettato, da Marsilio, profugo in Firenze», esclama la contessa. L’armata di Marsilio si è appostata, in gran segreto, a ridosso delle mura, dalla parte del casino, pronta a entrare in città, non appena scoppiata la rivolta dei popolani, aizzata dai suoi sostenitori che aveva incontrato all’alba presso il campo santo e che erano poi rientrati in città. Per incoraggiare il popolo, questi uomini scelti, avevano compiuto agguati per ore, in piccoli gruppi, assassinando molti Veneziani. Dopo che molti animosi popolani si sono uniti a loro, raggiunto un numero sufficiente a formare una nutrita schiera, tutti i rivoltosi si muovono dai porticati, già ingombri dei corpi dei nemici che avevano dilaniato. Le loro vesti sono imbrattate dal sangue veneziano spanto a fiotti dai petti squarciati e dagli orridi capi staccati di netto dai loro colli. Raggiungono così il labirinto di stradine che circonda le piazze di Padova, s’infilano negli stretti vicoli, dove possono meglio bloccare il nemico. Il piano, concordato con Marsilio al campo santo, è di imbottigliare la fanteria veneziana, che si sarebbe senz’altro mossa contro di loro da Piazza del Capitanio, contando anche sulla gran massa di gente che sarebbe scesa in strada, rallentandone, quanto meno, i movimenti. Intanto, l’armata carrarese sta muovendosi rapida dall’altro lato della città, dopo aver sbaragliato, con il favore della sorpresa, la resistenza dei soldati di presidio alle mura, nel tratto chiamato “della coda lunga”. La truppa sarebbe, così, piombata sulla fanteria Veneziana, bloccata nei vicoli. Mentre si addentrano nel dedalo di viuzze, lo scoramento inizia a far breccia nel cuore dei rivoltosi. La folla che doveva, nelle loro speranze, riversarsi per strada, non c’è. I vicoli d’intorno restano desolati e vuoti. Chi aveva animo di rischiare la vita, tra i cittadini, si è già unito alle loro fila, ma altri non se ne vedono. Un importante dettaglio è sfuggito a Marsilio, nell’elaborare il suo piano: la parte sana del popolo, che dispone di qualche mezzo, si è allontanata dalla città, sistemandosi nei borghi di campagna, specialmente sulle colline. Infatti, chi ha animo nobile, mal sopporta di vivere in una città occupata, in balia della soldataglia e senza
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Emmo taglia corto: «Mi avete chiamato e sono venuto, da soldato quale sono. Ora ditemi cosa volete». Il caporione lo fissa con sufficienza e riprende il suo dire canzonatorio: «Certo conte, voi siete un soldato di Venezia, non ho dubbi che obbedirete. Avete davanti a voi questo furfante della bastarda razza dei Carraresi, nemici della nostra amata patria, che come un dissennato ha ancora osato sfidarci e ha inutilmente dato la morte a tanti nostri commilitoni. Ora lo ucciderete, conte, lo strozzerete a nude mani, come ben merita. Vi sto riservando un grande onore: farete giustizia. Muoia il Carrarese, viva Pappafava». Il conte sa di non dover cadere nella pesante provocazione del veneziano. Ha deciso di fare i suoi interessi, sottomettendosi a Venezia ben sapendo delle umiliazioni che avrebbe dovuto sopportare per preservare la sua famiglia e i suoi beni. Non sarà certo un volgare sbirro a far saltare tutti i suoi piani. Uccidere suo cugino è un compito quanto mai ingrato e la perfidia del veneziano, nel farlo fare proprio a lui, è abominevole. D’altro canto, Marsilio morirà in ogni caso. Che lo uccida lui o un altro, per Marsilio non cambierebbe nulla, ma per lui cambierebbe tutto. Non gli resta che fare buon viso a cattivo gioco. Per questi motivi, risponde imperturbabile alle offese: «Vi obbedirò. Sì, lo farò, ucciderò mio cugino. Sappiate che chi ha nobile lignaggio, non conosce congiunto ma solo il suo vantaggio». Il caporione è alquanto deluso dalla saldezza di nervi del conte. Sperava in una reazione avventata alle sue pesanti ingiurie e forse anche in un rifiuto del suo ordine, per potere poi riferire a chi di dovere e rovinarlo. Provava rancore per quell’uomo, lui soldato senza arte né parte, costretto a rischiare la vita per un misero soldo, di fronte a un nobile ricco. Inoltre a questo sentimento si univa il disprezzo, che sempre i militari provano verso i traditori. Si rivolge a Marsilio, commentando le parole del conte: «Marsilio, quest’uomo è saggio. Dovevi imparare da lui». Il conte vuole uscire al più presto dalla difficile situazione e affronta il caporione: «Bando alle ciance, comandante loquace. Io non cerco altri affanni, via, ma levatevi dai panni. Quando resterò solo con lui lo strozzerò». Quindi rivolto agli altri soldati presenti: «Via, sì, tutti via, andate laggiù, dietro la siepe. Se lo spettacolo vi aggrada
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e volete guardare per spasso, fatelo dalla siepe e sarete testimoni di questo misfatto». Alle parole decise e autorevoli del conte, tutti i presenti vanno, lasciando soli i due cugini. Su entrambi i loro volti si può leggere la rassegnazione, nell’uno dettata dalla morte imminente, nell’altro dal terribile compito che lo attende. In fondo, anche se il destino ha loro assegnato ruoli diversi, entrambi sono delle vittime. Per un attimo si scrutano negli occhi e così decidono che possono ancora fidarsi l’uno dell’altro. È l’ultima occasione che hanno di parlarsi e non c’è tempo da perdere. Inizia Marsilio, che malgrado tutto, può contare solo su Emmo, per quello che avverrà dopo la sua morte, sulle poche essenziali cose che ancora gli interessano: «Ora che siamo soli scambiamoci le ultime verità, stringiamo un sincero patto per il sangue che ci unisce, per la città nostra nutrice, anche se la sorte ci ha diviso e ci ha portato in guerra in parti opposte». Gli risponde Emmo: «Il potere non è senza prezzo e la ricchezza è una maledizione che lo accompagna sempre. E tu lo sai bene. Abbiamo fondato un regno sul sangue e garantito il nostro agio con l’assassinio per secoli. Non abbiamo mai esitato a scannarci tra fratelli, per brama di potere. Abbiamo giustificato i crimini più orrendi in nome della sacra gloria e del nostro fato di potenza, ma oggi tutto ciò che abbiamo costruito, finisce e non ne resterà traccia nel tempo. Stolto chi non comprende che tutto è vano e lotta con il fato». Marsilio: «Sì, capisco, ognuno segue la sua strada. Io ho battagliato con il cuore». Emmo: «Io ho usato la testa. Entrambi meritiamo rispetto, perché non è l’uomo che sceglie il suo fato». Marsilio: «Non è una colpa fare ciò che si deve, ma dobbiamo farlo con umanità. Questo fa la differenza, Emmo». Emmo: «Sì Marsilio, non contano le azioni ma la nobiltà del fine». Marsilio: «Ora tu vivrai, conserverai i tuoi beni, genererai copiosa e forte prole. Non ti biasimo e non provo invidia, ma in fondo al tuo cuore conserva il tuo amore per Padova, custodisci la sua anima, resta te stesso. Solo così potrai avere un bel frutto dalla vita e dai beni che stai salvando».
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Emmo: «Tu mi hai compreso, è per questo che ho scelto di vivere e di pagarne il prezzo. Starò sotto il giogo, mi farò umile, ma sempre porterò in cuore questo seme, e un giorno Padova si gioverà di una grande e nobile famiglia, che potrà difendere i suoi interessi e le sue tradizioni». Marsilio: «Devi serbare Il mio seme, mio figlio. Tu devi vigilare che non sia mai assassinato da Venezia, come me e i nostri fratelli. Lo devi sottrarre alla loro ferocia, nascondere la sua vera identità a lungo. Prendilo fra i tuoi famigli, insieme alla madre, confusi tra i tuoi domestici. Io so che il nostro regno è finito, che non risorgerà mai più. Non vi sarà riscossa, né vendetta da Venezia. Però il destino tutto prende e tutto tiene. Nel tempo tutto cambia, ma tutto torna sotto altra forma. Non so quando né come, ma un giorno il nostro seme risorgerà, un nostro discendente avrà di nuovo ricchezza e potere, potrà compiere nobili e memorabili imprese e lasciare un segno profondo nel mondo». Emmo: «Sì, Marsilio, lo farò, preserverò la tua genia e un giorno da questa nascerà un uomo che porterà fama e gloria alla nostra città. È vero, lo scopo di un uomo non sta nella propria chiusa vita. Per la nostra stirpe va vissuta la vita, per lo spirito e i valori che tramandiamo ai figli nell’incessante dispiegarsi del fato per mille generazioni. Il tuo dolore, le pene e le sofferenze diverranno nei discendenti genio, forza e grandi talenti». Marsilio: «In questo crediamo». Emmo: «In questo ci uniamo, in questo confidiamo» Marsilio: «Addio Emmo, compi il mio fato, per me è giunto il momento di morire, il nemico osserva ogni tuo movimento, non voglio che mi uccidano loro, giunga da te la mia fine». Emmo: «Ecco, ho con me un sottile stiletto intriso di veleno, avrà di sicuro effetto, rapido e senza sofferenze per te. Ora ti pungo: non morirai strozzato come un galletto. Ti metto le braccia conserte al collo: il mio gesto apparirà ai Veneziani che stanno dietro la siepe, come uno strozzamento, ma io ti sto solo abbracciando stretto. Il veleno sta facendo il suo effetto, ti senti mancare, stai morendo come dovrebbe ogni uomo, senza dolore. Muori in pace, amico mio, non resterai negletto».
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Così muore Marsilio dei Carraresi, uomo d’impeto, guerriero perfetto. Emmo, l’astuto dei Carraresi, butta in terra il suo corpo, di getto, a beneficio dei soldati Veneziani. Una volta caduto in terra in malo modo Marsilio si solleva seduto e si gratta la testa: «Oh che botta, ho preso. Sono caduto male, di culo». Emmo a sua volta, sfilandosi la corazza: «Questo maledetto leone di latta, mi gratta sempre sulla pancia». Esce di mezzo ai figuranti, tutti in costume medioevale, un bel giovanotto in abiti moderni: «Su coraggio, attori cani, l’applauso del pubblico pagante, sia pur indolenziti, vi lascerà felici». La contessa e Bettina, nascoste dietro le colonne del porticato, si guardano sbigottite: altro che incantesimo, hanno assistito a una banale recita. La loro consuetudine a una vita di espedienti le fa muovere all’unisono, immediatamente prese dal tentativo di ricavare qualche beneficio da quella situazione. Escono allo scoperto fuori dal colonnato e la contessa inizia a inveire contro gli attori: «Malnata gente che invadete la mia dimora, vi ho scambiato per spiriti, ma siete dei birbanti. Che fate, entrate in casa mia senza permesso? Ora chiamo le guardie. Vi daranno una bella lezione». Il giovane regista, è sorpreso da quella apparizione. Visto lo stato del parco e del palazzo, avevano ritenuto la villa disabitata. Comunque è pronto nella risposta e tenta di giustificarsi al meglio: «Se voi siete la padrona, vi prego perdonate. Quando noi vediamo queste antiche dimore cadenti e diroccate, sappiamo che quasi sempre sono disabitate. Da poveri attori le usiamo per le prove delle nostre recite. Scusate, pensavamo che questa villa fosse abbandonata. Ora andiamo via, subito». La Bettina interviene a dar man forte alla contessa: «Siete dei malandrini, altroché. Intanto la villa l’avete usata senza chiedere permesso alla mia padrona. Troppo facile andare via così: dovete pagare per l’uso. Cosa credete? La mia padrona l’affitta questa bella dimora, per feste ed eventi, e tutti pagano». Il regista, conciliante: «Mie care signore, se volete denaro, cadete male. Non vedete che siamo dei poveri cristi? Ma possiamo di-
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gnazzando: «Mettiamo all’asta questa femmina, prima della villa. Giochiamocela ai dadi. Chi vince, la tratta per primo. Su ragazzi, è un’occasione d’oro. La femmina è sempre una preda ambita, finanche dai potenti che si arrabattano per averla e spesso si rovinano. Oggi abbiamo una grande gioia garantita e senza problemi. Approfittiamo di questa facile felicità». Gli attori, intanto sono tornati sui loro passi e si avventano su di loro, mentre il regista urla furibondo: «Bestie, per la giustizia il vero uomo combatte. Oggi dovrete capirlo perché pagherete per la vostra depravazione. Il dolore che avete sempre dato agli altri lo riavrete indietro con gli interessi». E Bettina di rimando, mentre i malcapitati sono pestati a dovere dai forzuti ragazzotti: «Su canaglie godete con loro, magari ne avrete più piacere che con me». I duri colpi fanno il loro effetto. Man mano che crollano a terra storditi e sanguinolenti, gli attori li sospingono sull’orlo della buca. Il messo anziano, sia pure provato e steso a terra ha ancora la forza di parlare e invita Bettina a non fare sciocchezze. Bettina si china su di lui, fin quasi a toccargli il viso e sfoga tutta la sua rabbia repressa: «Non illuderti, non avete scampo. Proverete il dolore che hai donato per anni alla gente umiliata. Gemerete per giorni nella buca, lì sotto, forse, capirete le pene del prossimo. Maledetto e dannato, lì creperai». Soddisfatta si leva in piedi e fa cenno agli attori di buttarli di sotto, veloci e tutti assieme, prima che la botola si chiuda. Ciascuno viene gettato nella buca, dopo essere stato afferrato da due attori, che operano con movimento pressoché sincrono. I farabutti fanno in tempo a riprendersi per effetto della caduta ma restano muti per la sorpresa e il terrore, per alcuni secondi, prima che, con il loro peso, s’attivi il marchingegno che chiude la buca, ripristinando il pavimento del camino. Permane, nel sottofondo, il loro inarticolato lamento. I giovani, una volta compiuta l’operazione, restano perplessi, perché non avevano conoscenza del meccanismo di chiusura della botola. La loro intenzione era quella di dare una sonora lezione agli sbirri, ma non certo di seppellirli vivi. I loro animi, compiuta la bravata, si sono alquanto raffreddati. Quello che si fa in uno stato di esaltazione, passato il momento dell’azione, appare in una luce 124
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diversa. I timori e le preoccupazioni sulla responsabilità del proprio agire ricompaiono in tutta la loro minacciosa concretezza. Il regista chiede spiegazioni a Bettina: «Non vorrai mica lasciarli lì sotto, sei pazza?». Bettina, capisce subito che deve mentire. Loro non hanno vissuto le esperienze sue e della contessa, non potrebbero mai comprendere e approvare le loro scelte: «È proprio vero – pensa –. Ci sono delle situazioni dove gli uomini devono essere dei ciechi strumenti inconsapevoli. Per realizzare dei grandi disegni, coloro che sanno devono strumentalizzare coloro che devono eseguire, senza sapere». Così, risponde con una menzogna inventata al momento: «Ma dai, figurati. Aspettiamo dei soldi da un’assicurazione. Dovrei ritirarli più tardi in banca. Poi andremo a saldare il nostro debito e conserveremo la casa. La nostra intenzione è solo quella di guadagnare qualche ora preziosa. Nel pomeriggio io e la contessa partiremo per qualche mese e poi ritorneremo. Prima di andare via riaprirò la botola della buca, è ovvio». Il regista non è del tutto convinto, ma si accontenta della sommaria spiegazione. È di carattere pigro e non ama accollarsi la fatica di andare in fondo alle cose: «Mi raccomando, non fare fesserie. Se muoiono rischiamo la galera a vita». Bettina cerca di andare al sodo, toccando il punto che più interessa ai giovani: «Non preoccuparti, al massimo mi beccherò una denuncia, ma che mi importa. In ogni caso tranquilli, non farò mai i vostri nomi, anche perché non li conosco». Il regista è soddisfatto, in fondo non rischia nulla: «Noi ora andiamo via». Bettina non ha più bisogno di loro: «Sì, è meglio che spariate. Ci incontreremo in primavera, al nostro rientro, nelle piazze, sotto la torre dell’orologio». Bettina li ringrazia uno a uno e li abbraccia tutti. Nel frattempo la contessa è rimasta, sfinita, sul giaciglio ove solevano dormire, lei e Bettina, in un angolo del salone e lì s’è accasciata. Il suo fisico ha ben retto nella tensione dei turbinosi eventi della giornata. Ora che tutto è compiuto, l’antico malessere ha ripreso il sopravvento, inducendo un sordo dolore nelle sue membra e affanno nel respiro. I suoi organi, consumato l’ultimo guizzo di vitalità, stanno smettendo di funzionare, avviandola verso l’agonia finale. 125
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Quando Bettina la raggiunge, si inginocchia al suo fianco, protende il busto verso di lei e le carezza la fronte. A quel gesto la contessa sembra riprendere coscienza, la fissa con occhi allucinati e un’espressione che mescola tenerezza e angoscia. Rimane così per lunghi istanti aggrappata alle sue braccia. Con moto repentino volta lo sguardo verso il raggio di luce che, penetrando dall’ampia finestra, fende il salone e inizia a dire, con suoni soffocati e voce rauca: «Unica consolazione nel presente, per l’uomo, è di poter essere, qualche volta, strumento di giustizia, come gli attori, o l’arte, che sconfiggono i messi, cioè il potere. Ora però serve il fuoco che distrugge, crea e tutto trasforma. Venga il fuoco sacro. Il fuoco è distruttore della vecchia vita, genitore della nuova. Oh fuoco, di morte officiatore, sacro fuoco, gran purificatore, motore dell’eterno mutamento, divino inauguratore di nuove ere». Lo sforzo per pronunciare queste parole le toglie definitivamente il respiro ed è così preda di violente convulsioni. Si avvinghia con le braccia al collo di Bettina, in una disperata ricerca di aiuto, quasi stesse annegando. Bettina, a sua volta, è in preda a un profondo sconforto, non sopporta di dover vedere la contessa soffrire senza poter far nulla per lei. è anche senza parole, Bettina, perché qualunque espressione di conforto si figuri nella mente, subito le appare futile, inadeguata alla drammaticità del momento. Quindi si trattiene dal pronunciarla. Infine stringe forte a sé la contessa e con voce decisa le dice: «Non temere, resisti ancora un po’, troverò il modo di darti sollievo. Fidati di me». La contessa la guarda con aria supplichevole, sempre tremante. Nell’udire quelle parole un po’ si acquieta e Bettina ne approfitta per farla distendere, mettendole due cuscini sotto la testa, così che respiri meglio. Il suo profondo desiderio di aiutare la contessa in quel terribile momento, le conferisce una tesa lucidità. La cosa da fare è accompagnarla verso una morte dignitosa, strappandola alla disperazione del dolore. Sa già come fare, ma, come al solito, le manca un elemento necessario: soldi. Quando il pensiero le si forma, in un recondito meandro del cervello, non riesce a trattenersi da una risata isterica. Gli sbirri, certo,
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gli sbirri, avevano senz’altro qualche soldo nei loro portafogli. Almeno avrebbero servito, sia pure involontariamente, una buona causa. Sta quasi per azionare il meccanismo del camino per riaprire la botola, quando un istinto di prudenza la blocca. Deve esserci un altro modo per prendere quei soldi, pensa. Il rischio che qualcuno di loro riesca a uscire dalla buca è troppo alto, non potrebbe far fronte da sola a tanti uomini disperati. Considera che il trabocchetto dei Carraresi ha varie funzioni. Di sicuro è un nascondiglio per i membri della famiglia e per custodire delle cose preziose, ma probabilmente veniva usato anche come tranello per imprigionare i nemici. Se così è, deve esistere un modo, per i carcerieri, di comunicare con il malcapitato intrappolato, magari per ottenere qualche informazione preziosa o anche solo per spiarlo, mentre crepa di stenti. A quel pensiero si ricorda di avere una torcia in casa e corre a prenderla. Si infila carponi nel focolare e inizia a ispezionare con minuzia le pareti annerite, facendo scorrere il fiotto di luce della torcia su ogni tratto e in ogni angolo. La fenditura, come ha intuito, c’è. La scorge dopo vari tentativi nell’angolo di sinistra, verso il fondo del focolare: una stretta feritoia ricavata giusto all’incrocio delle prime due file di mattoni. Si avvicina con gli occhi, come può, a quel pertugio, cercando lo spazio per puntare la torcia. Li inquadra tutti seduti in terra, spalle al muro, uno a fianco dell’altro, un’aria beota stampata sui volti increduli, increspati in un fisso sorriso, conferisce a ciascuno un’identica espressione: «Che razza di gente è quella» considera Bettina tra sé e sé. Restano immobili, subito rassegnati alla loro sorte, senza neanche tentare una reazione, provare a cercare una via d’uscita. Al loro posto, una come lei escogiterebbe qualcosa, tenterebbe di venire fuori da quella situazione e piuttosto che aspettare inerte la fine, gratterebbe perfino le pareti con le unghie. A una come lei appare davvero incomprensibile l’abulica rassegnazione delle loro menti piatte. Tutti questi pensieri le attraversano la mente in un solo istante, ma subito si scuote, pensando alla contessa sofferente. Esce dal focolare e corre a prendere una scopa dal lungo manico. Rapida, riconquista la posizione accanto alla feritoia e comincia a vociare, per attirare l’attenzione. Tutti subito si affollano sotto la
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