SAGGI
21
Giovanni Gurisatti
CARATTEROLOGIA, METAFISICA E SAGGEZZA Lettura fisiognomica di Schopenhauer presentazione di Franco Volpi
ILPOLIGRAFO
in copertina rielaborazione grafica della caricatura di Wilhelm Busch (1832-1908), Schopenhauer con barboncino Š Copyright marzo 2020 1a edizione giugno 2002 Il Poligrafo casa editrice srl 35121 Padova via Cassan, 34 (piazza Eremitani) tel. 049 8360887 - fax 049 8360864 e-mail casaeditrice@poligrafo.it www.poligrafo.it ISBN 978-88-7115-226-4
INDICE
11 Presentazione Franco Volpi Introduzione IL PRIMATO DELLA VOLONTÀ
19 23 30 34 38 40
1. 2. 3. 4. 5. 6.
Un dogma fondamentale della filosofia di Schopenhauer Storia di un errore La critica della psicologia razionale Primato della volontà e caratterologia Caratterologia e metafisica Argomenti e prove empiriche a favore del primato
Parte Prima CARATTEROLOGIA E METAFISICA I. 57 1. 70 2. 76 3. 82 4. 87 5.
IL MONDO COME MACROANTROPO
II. 95 1. 97 2. 104 3.
VOLONTÀ E CARATTERE
Il fondamento empirico della filosofia di Schopenhauer La spiegazione antropologica del mondo Il paradosso della visibilità dell’invisibile Volontà e cosa in sé Fisiognomica del macroantropo Volontà e carattere Carattere individuale e carattere della specie Carattere intelligibile e carattere empirico
109 120
4. L’individualità e l’immutabilità del carattere 5. Volontà, carattere, inconscio
III. CARATTERE E CORPO 129 1. Fenomenologia ed ermeneutica del corpo 133 2. Il problema psicofisico e la sua soluzione caratterologica 139 3. L’ermeneutica del carattere nel medium del corpo 141 a. Carattere della specie e corpo 149 b. Carattere individuale e corpo 164 4. Lo sguardo del fisionomo 174 5. Il corpo fisiologico e anatomico Parte Seconda CARATTEROLOGIA E SAGGEZZA I. CARATTERE E CONOSCENZA 181 1. Volontà e intelletto, carattere e conoscenza 189 2. Volgarità, aristocrazia e saggezza 204 3. Il primato della volontà cieca sull’intelletto veggente 217 4. L’illusione del libero arbitrio 224 5. L’illusione della mutabilità del carattere II. GENIO E VIRTÙ 233 1. Negazione e dominio del carattere 238 2. La coscienza migliore 243 3. L’artista 255 4. Il filosofo 269 5. Il santo III. LA SAGGEZZA 287 1. La volontà di vita 290 2. La ragione pratica 296 3. Figure della ragione pratica 296 a. Il filisteo 299 b. L’uomo di mondo 305 c. Lo stoico 310 d. Il saggio 316 4. L’arte di essere felici
Conclusione CARATTERE E DESTINO
337 343 351 362 375
1. 2. 3. 4. 5.
Carattere e destino Il senso del destino Il carattere acquisito Aristocrazia del carattere Postilla. L’epoca senza carattere
383
Indice dei nomi
Nota editoriale
Sono molto grato all’Editore per avere promosso, a distanza di diciott’anni, la riedizione di questo mio studio. Il fatto che il volume esca in ristampa invariata rispetto alla prima edizione non significa certo che sia nato perfetto, né che io lo ritenga tale, al contrario: la mia copia di lavoro, che in questi anni ho più volte avuto l’occasione di rileggere con puntiglio preparando corsi, convegni, conferenze e seminari sul pensiero di Schopenhauer, è zeppa di annotazioni, glosse, integrazioni, precisazioni e – perché no? – correzioni e cancellazioni che tuttavia non ne alterano l’impostazione di fondo. Lo stesso Schopenhauer – mi si perdoni l’imbarazzante paragone – quando si trovò a pubblicare, venticinque anni dopo la prima, la seconda edizione del Mondo come volontà e rappresentazione, pur ribadendo di non avere «niente da ritirare» nella prima edizione dell’opera e di essere rimasto del tutto fedele alle sue «convinzioni fondamentali», si trovò costretto a pubblicare a sua integrazione i celebri Supplementi al Mondo, un secondo volume di annotazioni capitolo-per-capitolo che per estensione addirittura supera il primo. Per quel che mi riguarda, anch’io rimango più che mai fedele alla concezione di fondo del mio libro, ovvero a quella prospettiva “fisiognomico-caratterologica” che Franco Volpi, nella sua Presentazione di allora, ebbe a definire generosamente come «il coerente punto di sutura tra la metafisica della volontà e la saggezza di vita, tra la filosofia teoretica e quella pratica» di Schopenhauer, una prospettiva alla cui luce «il pensiero schopenhaueriano si mostra in tutta la sua coerente unità». Come parziali “supplementi” a Caratterologia, metafisica e saggezza mi limito a indicare qui, tra gli altri saggi da me dedicati al tema, i due miei studi successivi
Schopenhauer maestro di saggezza (Angelo Colla, 2007) e L’animale che dunque non sono. Filosofia pratica e pratica della filosofia come est-etica dell’esistenza (Mimesis, 2016), il cui principale passo in avanti rispetto al testo qui riproposto è costituito dall’originale connessione da me argomentata tra la concezione schopenhaueriana della saggezza e quella che emerge dall’opera dell’ultimo Foucault – anzitutto L’ermeneutica del soggetto (Feltrinelli, 2003) –, dedicata alla “cura di sé” e all’“estetica dell’esistenza”. Quanto poi alla “questione fisiognomica” in senso ampio, e alla specifica collocazione di Schopenhauer al suo interno, non posso che rinviare al mio Dizionario fisiognomico. Il volto, le forme, l’espressione (Quodlibet, 2006). Va da sé che il nesso tra questi miei quattro lavori, che si completano a vicenda, è strettissimo. Per utilità del lettore ricordo infine che gli Argomenti a favore del primato della volontà sull’intelletto, alla cui edizione nel Nachlaß (il lascito postumo) di Schopenhauer faccio spesso riferimento nel libro, sono stati da me poi pubblicati in edizione italiana con il titolo Il primato della volontà (Adelphi, 2002), e lo stesso vale per il terzo volume del Nachlaß (HN III) – uno degli assi portanti delle mie riflessioni –, che è stato da me tradotto e curato in edizione italiana con il titolo Scritti postumi, vol. III: I manoscritti berlinesi (1818-1830) (Adelphi, 2004). Non v’è dubbio che la via attraverso tutti questi lavori mi sia stata indicata da Franco Volpi, la cui opera di eccellente promotore in Italia e nel mondo della “rinascita” dell’interesse per la filosofia pratica di Schopenhauer fu stroncata tragicamente il 14 aprile 2009. Scriveva in relazione a Schopenhauer nel 2006: «La filosofia non è soltanto la costruzione di un edificio teorico indifferente alla vita, ma è anche comprensione pratica della vita che le dà forma e la orienta. È saggezza e cura di sé: una dimensione del sapere filosofico, questa, che la tradizione accademico-universitaria ha trascurato e che Schopenhauer ci invita a ritrovare e rinnovare». Anche la prima edizione di Caratterologia, metafisica e saggezza deve molto, se non tutto, a Franco Volpi, ed è quindi tanto più importante, per me, che io possa intendere questa seconda edizione del libro come un sentito rinnovato omaggio alla sua memoria, pienamente condiviso dall’Editore. [G.G.] Vicenza, 15 febbraio 2020
PRESENTAZIONE
Franco Volpi
Ci sono pensatori sui quali la storiografia filosofica fatica ad allungare i suoi tentacoli. Pensatori eccentrici, irregolari, che rompono le righe. Ribelli e iconoclasti dello spirito che sembrano giunti dal nulla. Che risultano indigesti, inclassificabili, e scompaginano il lavoro degli storici della filosofia. Schopenhauer rientra nel loro novero. Benché la bibliografia su di lui conti ormai migliaia di titoli e il suo pensiero sia stato ampiamente sviscerato e sistemato dal punto di vista storiografico, in realtà esso non è mai stato del tutto assimilato dall’accademia. La sua stella spunta all’improvviso nella costellazione del kantismo, ma, anziché seguirne l’evoluzione verso l’idealismo, se ne distacca bruscamente e apre con il suo concetto di Volontà un’orbita nuova. Da lui hanno origine Wagner, Nietzsche e quella metafisica del pessimismo che tanta parte ha avuto nella formazione dell’anima tedesca e nella cultura europea del Novecento. La sua fortuna – incominciata tardi, solo dopo la pubblicazione dei Parerga e paralipomena (1851), e alimentata dalla successiva riscoperta del Mondo come volontà e rappresentazione (1819) – rispecchia in un certo senso la sua biografia, la rottura con l’università e la sua severa opposizione a ogni filosofia accademica. Anche il suo pensiero, al pari della persona, fu pervicacemente osteggiato dalla cultura filosofica ufficiale. Almeno fintanto che essa fu dominata dall’idealismo, che di Schopenhauer era l’acerrimo avversario. E fintanto che le fu possibile ignorarlo. Cioè fino a quando anch’essa, suo malgrado, fu costretta a fare i conti con lui in seguito al successo che la sua opera andava mietendo presso il vasto
franco volpi
pubblico dei lettori di estrazione borghese, il cosiddetto deutsches Bildungsbürgertum. A un certo momento, nel vuoto filosofico spalancatosi tra la crisi dell’idealismo e il diffondersi del positivismo, la borghesia colta tedesca sembrava avesse scelto Schopenhauer quale proprio filosofo preferito. Anche in seguito le cose non andarono diversamente. Schopenhauer fu letto con passione specialmente tra scrittori, letterati e artisti. Da Flaubert a de Maupassant, da Strindberg a Hamsun, da Tolstoj a Čechov, da Svevo a De Chirico, e poi Karl Kraus, Thomas Mann, Kubin, Hesse, Musil, Benn, Jünger, Thomas Bernhard, Borges: il catalogo dei suoi lettori illustri si potrebbe ampliare a piacimento, mentre la filosofia universitaria continuò a trascurarlo. E tra i grandi filosofi contemporanei solo Wittgenstein fu suo appassionato e segreto ammiratore. La scarsa attenzione ufficiale riguardò pure la cura delle sue opere, che fu sostanzialmente lasciata all’iniziativa personale di singoli allievi. La più importante edizione degli opera omnia, quella avviata da Paul Deussen nel 1911, e proseguita dopo la sua morte (1919) dai suoi collaboratori, fu interrotta durante la Seconda Guerra mondiale, nel 1942, quando erano stati pubblicati 13 dei 16 volumi previsti (Sämtliche Werke, Piper, München, 1911-1942). Quella che oggi fa testo, curata da Arthur Hübscher, è anch’essa dovuta all’iniziativa personale di tale meritorio Privatgelehrter, che aveva partecipato all’edizione Deussen e che dopo la guerra pubblicò sia le opere edite in vita da Schopenhauer (Sämtliche Werke, terza ediz. definitiva, 7 voll., Brockhaus, Wiesbaden, 1972; quarta ediz. rivista da Angelika Hübscher, Brockhaus, Mannheim, 1988), sia gli scritti postumi (Der handschriftliche Nachlaß, 5 voll. in 6 tomi, Kramer, Frankfurt a. M., 1966-1975; ristampa anastatica, Deutscher Taschenbuch Verlag, München, 1985), sia infine l’epistolario (Briefwechsel, Bonn, Bouvier, 1978, seconda ediz. 1987). Purtroppo, soltanto l’edizione degli scritti pubblicati in vita può essere considerata definitiva, mentre quella dell’epistolario non comprende le lettere dei corrispondenti (incluse invece nell’edizione Deussen) e quella del Nachlaß è lacunosa: non solo per la deliberata esclusione delle lezioni berlinesi, già pubblicate da
presentazione
Franz Mockrauer nell’edizione Deussen, ma soprattutto perché tralascia molti altri appunti che attendono a tutt’oggi di essere sottratti alla polvere dello Schopenhauer-Archiv. La situazione italiana, a lungo condizionata dal neoidealismo di Croce e Gentile, non poteva essere diversa né migliore. In Italia difettò peraltro il sostegno del pubblico non specialista, che in Germania aveva riequilibrato la partita. Non c’è da stupirsi, dunque, che da noi lo studio di Schopenhauer sia rimasto fino a qualche tempo fa appannaggio di singoli studiosi, per lo più esponenti di quella che si dovrebbe chiamare «l’altra filosofia italiana del Novecento». L’elenco dei meritevoli che si interessarono del filosofo di Danzica brilla di nomi rappresentativi: da Piero Martinetti a Giuseppe Faggin fino a Giorgio Colli. Una certa inversione di tendenza si è avuta negli ultimi anni, e precisamente da quando è cominciata l’edizione italiana degli inediti (Scritti postumi, Adelphi, Milano 1996-) e di alcuni trattatelli ricavati dal Nachlaß quali l’Eudemonologia (1826-29), il Trattato sull’onore (1828) e la Dialettica eristica (1830-31), che chi scrive ha pubblicato in italiano e in tedesco rispettivamente con il titolo L’arte di essere felici (Adelphi, Milano, 1997; Beck, München, 1999), L’arte di farsi rispettare (Adelphi, Milano, 1998) e L’arte di ottenere ragione (Adelphi, Milano, 1991; Insel, Frankfurt a. M., 1995). Il successo di queste edizioni ha smosso le acque, invogliando a una maggiore attenzione per il grande maestro del pessimismo. Nell’orizzonte di questo nuovo interesse, la presente monografia è la prima in Italia basata sistematicamente sulle carte postume. Essa le sfrutta a tutto campo per lumeggiare da una nuova angolatura l’insieme del pensiero schopenhaueriano e delinearne una nuova immagine. Giovanni Gurisatti – che da anni collabora all’edizione adelphiana degli Scritti postumi, di cui ha tradotto il terzo e il quarto volume, entrambi in attesa di essere pubblicati – prende le mosse in particolare da due trattati inediti cui Schopenhauer annetteva grande importanza. Si tratta della menzionata Eudemonologia o Arte di essere felici e degli Argomenti a favore del primato della volontà sull’intelletto, testo che Gurisatti ha ricostruito in base agli originali e pubblicato (Adelphi, Milano, 2002).
franco volpi
Partendo da questi due distillati della filosofia schopenhaueriana, egli svolge un’approfondita analisi del plesso di volontà, carattere, corpo e conoscenza nell’intera opera, edita e inedita, del filosofo di Danzica. E mette in luce la connessione finora trascurata tra la metafisica del pessimismo del primo Schopenhauer e la saggezza di vita del secondo, tra la sua filosofia teoretica e la sua filosofia pratica, tra la dimensione speculativa e quella popolare del sistema. Il problema che si pone è infatti: come conciliare l’idea che un inesorabile destino metafisico costringa la vita a oscillare perennemente tra la noia e il dolore con l’insegnamento di una saggezza di vita che vorrebbe contrastare tale destino? Non è forse contraddittorio postulare l’ineluttabilità di quella cieca forza metafisica che è la Volontà e pretendere al tempo stesso che quel fragile capriccio di Madre Natura che è l’individuo possa governarla con la sua debole saggezza? La metafisica del pessimismo insegna che la vita non è bella. Ma, allora, quale saggezza potrà mai salvarci dal sicuro naufragio? Come dirimere la contraddizione che divarica le due parti del sistema schopenhaueriano? L’ottica tracciata da Gurisatti per affrontare la questione e prospettare una soluzione è quella della «caratterologia», cui allude il titolo: Caratterologia, metafisica e saggezza. Lettura fisiognomica di Schopenhauer. Da un lato, Gurisatti mostra come la dimensione caratterologica innervi la metafisica della Volontà. Dall’altro, come essa fornisca la base su cui può poggiare e svilupparsi la saggezza di vita. La quale, in tal modo, svolge la funzione di cerniera tra le due componenti, entrambe essenziali, del sistema. Scopriamo così che lo Schopenhauer sottile psicologo, fine conoscitore d’uomini e «fisionomo», cioè maestro nell’arte di interpretare le scritture del volto e del corpo, non è affatto un’espressione divagante e magari bizzarra del suo genio esuberante, bensì il coerente punto di sutura tra la metafisica della volontà e la saggezza di vita, tra la filosofia teoretica e quella pratica. Colto in questa luce, il pensiero schopenhaueriano si mostra in tutta la sua coerente unità. Per parafrasare un’immagine da lui amata, esso appare come un albero la cui chioma, con le dirama-
presentazione
zioni della metafisica e dell’etica, non è altro che il polo solare e manifesto di un unico organismo speculativo, di cui la psicologia, la caratterologia e la fisiognomica sono la radice, cioè il polo oscuro e nascosto che dà linfa al tutto. Gurisatti – che da anni si dedica all’analisi interdisciplinare del «paradigma fisiognomico» di cui è considerato uno dei maggiori conoscitori per i suoi numerosi studi su Lavater, Lichtenberg, Ernst Kris, Wilhelm Fraenger, Rudolf Kassner, Hermann Keyserling, Spengler e Benjamin – mostra come uno scorcio apparentemente secondario possa aprire una prospettiva illuminante sull’insieme. Al punto che dopo questa sua monografia non appare fuori luogo definire Schopenhauer il primo «filosofo della fisiognomica», per dare alla fine un volto a quel nulla dal quale egli sembrava venuto.
CARATTEROLOGIA, METAFISICA E SAGGEZZA
Ai miei genitori
Introduzione IL PRIMATO DELLA VOLONTÀ
1. Un dogma fondamentale della filosofia di Schopenhauer Schopenhauer non esita a definire il «primato della volontà sull’intelletto» un «dogma fondamentale» della propria filosofia. L’importanza di questa tesi per il suo sistema speculativo è dimostrata dall’assiduità con cui, lungo l’arco di più di un decennio, a partire dal 1826, egli raccoglie un gran numero di «argomenti» (che nel 1840 ammonteranno a 106, ma è chiaro che egli non considerava chiusa la serie) e di «prove empiriche» a suo suffragio, che ordina e numera con cura meticolosa – peraltro prospettando via via differenti possibilità alternative di sistemazione del testo – sotto il titolo di Argomenti a favore del primato della volontà sull’intelletto, nell’intenzione probabile di pubblicarli in forma di Cfr. A. Schopenhauer, Der handschriftliche Nachlaß, a cura di A. Hübscher, 5 voll. in 6 tomi, Kramer, Frankfurt a. M., 1966-1975; ristampa anastatica, Deutscher Taschenbuch Verlag, München, 1985, vol. III, p. 255 (d’ora in poi si citerà HN, seguito dal numero del volume, del tomo e della pagina). Cfr. HN III, 255-258; 332-335; 427-436; 505-511; 606-613; HN IV, I, 24-31; 68-71; 133-138; 72-75; 90-94; 112-118; 181-187; 260-261. Il fatto che Schopenhauer, sia nella titolatura provvisoria dei vari spezzoni del testo, sia nel corso dello scritto, usi indifferentemente, per «intelletto» in contrapposizione a «volontà», i termini Intellekt, Verstand, Intelligenz, ma anche Erkenntnis (conoscenza) ed Erkennen (conoscere), con tuttavia una nettissima preponderanza di Intellekt ed Erkenntnis su Verstand, indica che il suo problema, qui, è quello fondamentalmente psicologico dei rapporti fra la volontà (il carattere) e la complessiva facoltà o energia intellettiva, cognitiva e rappresentativa del soggetto nei suoi vari aspetti e gradi, intesa in termini sia intuitivi, empirici, immediati, che concettuali, astratti, mediati, rivolta sia al mondo dei fenomeni che a quello dell’agire, dunque concepita dal punto di vista sia teoretico che pratico, e comprendente quindi
introduzione
trattatello autonomo, come avvenne nel caso di altri due brevi scritti analoghi contenuti nelle carte postume, l’Eudemonologia e il Trattato sull’onore. Tuttavia, come i due testi or ora citati, che trovarono definitiva collocazione in forma rimaneggiata negli Aforismi sulla saggezza della vita contenuti nel primo volume dei Parerga e paralipomena, anche gli Argomenti furono alla fine rifusi e sintetizzati nei dodici paragrafi del diciannovesimo capitolo dei Supplementi al Mondo come volontà e rappresentazione, intitolato Del primato della volontà nell’autocoscienza, subendo così il destino di perdere in parte quell’efficacia che solo una pubblicazione a sé stante avrebbe consentito. Va detto infatti che gli Argomenti, che costituiscono uno dei principali fili conduttori della nostra riflessione, nella loro concezione originaria, ricca di rimandi testuali alla quasi totalità dell’opera di Schopenhauer, rappresentano un sublime compendio dei temi più incisivi del suo sistema, che appare tanto più affascinante quanto più costantemente riferito a «prove empiriche» di carattere psicologico – come le definisce l’Autore stesso – a dimostrazione della immediata prossimità in cui, nella costruzione del suo percorso filosofico, si sviluppano la riflessione metafisica ed etica e la riflessione caratterologica. Lo conferma il fatto che nei Supplementi l’esigenza di esporre «una serie di fatti psicologici, i quali mostrano che anzitutto nella nostra propria coscienza la volontà compare sempre come ciò
– come si vedrà nel corso di questo lavoro – anche la cosiddetta «ragione pratica», dal momento che in senso antropologico e psicologico la ragione (Vernunft) altro non è che l’«ultimo passo» nel processo di «accrescimento» dell’intelletto umano e delle sue energie rappresentative (cfr. HN III, 248). Di questa complessità semantica del termine «intelletto» va tenuto conto nella lettura del testo schopenhauriano, così come del nostro. Per l’Eudemonologia cfr. HN III, 268-277; 514-516; 596-601; 383-386 (faremo qui riferimento alla trad. it. di G. Gurisatti, A. Schopenhauer, L’arte di essere felici, a cura e con un saggio di F. Volpi, Adelphi, Milano, 1997 [d’ora in poi AF]); per il Trattato sull’onore cfr. HN III, 472-496 (faremo qui riferimento alla trad. it. di G. Gurisatti, A. Schopenhauer, L’arte di farsi rispettare, a cura e con un saggio di F. Volpi, Adelphi, Milano, 1998 [d’ora in poi AR]).
il primato della volont
ch’è primario e fondamentale», emerge proprio in chiusura del fondamentale diciottesimo capitolo in cui Schopenhauer rivede e riformula la questione della «conoscibilità della cosa in sé», la cui crucialità è difficilmente contestabile; oppure il fatto che nella terza edizione del Mondo, dove avanza una spiegazione parzialmente nuova dell’«illusione» riguardo la libertà del volere, il libero arbitrio e la mutabilità del carattere – questioni centrali della sua etica –, il filosofo sottolinea che tale spiegazione richiede appunto «la conoscenza del diciannovesimo capitolo dei Supplementi», quindi degli Argomenti. Non può stupire dunque la sua affermazione secondo cui le «prove» caratterologiche a favore del primato sono «particolarmente adatte a introdurre una comprensione approfondita della verità fondamentale» del suo pensiero. Il contenuto psicologico empirico degli Argomenti non costituisce una sorta di appendice accessoria, o di corollario ornamentale ed esemplificativo degli sviluppi etici e metafisici, ma svolge nei loro confronti un ruolo propedeutico decisivo, quindi dinamico e produttivo. La presenza dell’idea del «primato» è assai più vitale, organica e penetrante di quanto il termine stesso di «dogma» possa far pensare. Viceversa, è bene ricordare che per quanto la raccolta sistematica degli argomenti e delle prove abbia inizio nel 1826, l’idea caratterologica del primato della volontà sull’intelletto, ossia del carattere sulla conoscenza, è sempre presente, fin dagli esordi, nella riflessione di Schopenhauer, costituendo una sorta di basso continuo empirico della sua sinfonia etica e metafisica, affidato, quando non a formulazioni concettuali compiute, magari a un semplice aperçu, a un’osservazione minimale, a un particolare insignificante, a una considerazione micrologica. Ad esempio, a Berlino, nel 1813, quando il concetto metafisico di volontà è ancora in fase di formazione, nelle primissime pagine dei Manoscritti, Schopenhauer afferma: A. Schopenhauer, Supplementi al «Mondo», voll. I-II, trad. it. di G. De Lorenzo, Laterza, Roma-Bari, 1986, vol. I, p. 205 (d’ora in poi M II). Cfr. A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, a cura di G. Riconda, trad. it. di N. Palanga, Mursia, Milano, 1969, p. 331 (d’ora in poi M I). Cfr. HN III, 255 nota.
introduzione Il modo di pensare (il fare cioè dell’intelletto, id est facoltà di pensare) [...] è del tutto inessenziale, ma l’essenziale è la volontà [...] che [...] è indipendente dal pensare dell’intelletto. L’uomo deve continuamente agire e ha poco tempo per pensare, e non può aspettare di agire fino a che tutti i dubbi dell’intelletto sono risolti. La sua decisione in relazione al come della sua volontà, all’esecuzione del suo scopo, la determina l’intelletto [...] ma il che cosa del suo volere, il suo scopo finale, l’intelletto non lo determina.
In queste poche frasi, nelle quali peraltro il concetto di volontà rimane filosoficamente indefinito, è già contenuto in nuce l’intero sviluppo degli Argomenti. Ma ciò vale anche per le osservazioni, di poco successive, concernenti il soggettivismo della conoscenza, prigioniera dell’individualità e dei suoi bisogni, oppure l’influsso negativo che gli appetiti e gli affetti hanno sulla lucidità dell’intelletto, determinando l’agire irragionevole. Già in tale fase preliminare Schopenhauer parla della «polarità» psicologica fondamentale dell’uomo, sotteso fra il «regno della notte» – regno infernale del bisogno, del desiderio e dei genitali – e il «regno della luce» – regno celeste delle supreme forze dello spirito, della coscienza e del cervello. La tesi capitale degli Argomenti esprime dunque il nucleo attorno al quale si sedimenta e si articola la totalità del sistema schopenhaueriano, e può essere così riassunta: la volontà è «la cosa in sé, il solo ens realissimum et primarium, il solo elemento metafisico»; l’intelletto, così come il suo oggetto, il mondo dei fenomeni, è invece «mera apparenza, la sua esistenza è secondaria e derivata, ed esso stesso è derivato e fisico». Volontà e intelletto, cosa in sé e fenomeno, essenza e apparenza, mondo metafisico e mondo fisico rappresentano gli elementi distinti che compongono una medesima unità, in cui però l’elemento volitivo man Cfr. A. Schopenhauer, Scritti postumi, vol. I: I manoscritti giovanili (1804-1818), a cura di A. Hübscher, ed. it. diretta da F. Volpi, trad. it. di S. Barbera, Adelphi, Milano, 1996, p. 47 (d’ora in poi SP I). Cfr. SP I, 62-63; 67; 70-71. Cfr. ivi, 71-72. HN IV, I, 184.
il primato della volont
tiene una priorità essenziale su quello intellettivo: la volontà è la sostanza, l’intelletto l’accidente; la prima è calore e materia, il secondo è luce e forma. Questo dogma, che Schopenhauer definisce «la più importante di tutte le verità» – una verità di cui emerge la matrice vissuta ed esistenziale –, accompagna il filosofo per tutta la vita e, nelle sue varie forme, lascia traccia di sé in ogni momento della sua meditazione. Egli lo ritiene talmente importante da affidare la propria fama postuma al fatto stesso di averne combattuto alla radice il disconoscimento da parte degli altri filosofi. 2. Storia di un errore L’idea del primato della volontà sull’intelletto è per Schopenhauer «quasi» assente dalla storia della filosofia, in cui emerge piuttosto ampiamente l’opinione opposta. A suo parere «tutti», o per lo meno a quasi tutti» i filosofi che lo hanno preceduto sostengono che «è l’intelletto ad appartenere alla nostra essenza originaria», identificandosi con tale essenza. Per millenni di storia del pensiero la sostanza, l’essenza, il nucleo metafisico dell’uomo e del mondo sarebbero la conoscenza, la coscienza conoscente, non già la volontà, che «in tutti i sistemi idealistici e materialistici vecchi e nuovi» sarebbe soltanto un alcunché di secondario, un corollario e un derivato della conoscenza, cioè dell’intelletto. La storia della filosofia praticamente in blocco si identifica quindi per Schopenhauer con l’opposto della sua tesi, ovvero con il primato dell’intelletto (coscienza, conoscenza) sulla volontà: un errore
Ivi, 117. Cfr. A. Schopenhauer, Gesammelte Briefe, a cura di A. Hübscher, Bouvier, Bonn, 1978, p. 393 (a Frauenstädt, 6. 6. 1856). D’ora in poi B. Cfr. HN IV, 1, 147. Cfr. le varie sfumature con cui Schopenhauer circoscrive la questione riferendosi ai filosofi: «tutti» (HN IV, I, 146-147); «quasi tutti» (ivi, 183); «la maggior parte dei» (ivi, 146 nota); tutti «quasi senza eccezione» (ivi, 16). Cfr. ivi, 183. Cfr. ivi, 147.
parte prima
che ha nel paradosso della in-differenza fra carattere e corpo, interno ed esterno, invisibile e visibile, il suo elemento fondante. Questo elemento, che costituisce il cardine e il fenomeno originario dell’intero sistema schopenhaueriano – cosa che è sfuggita a Klages –, non appare affatto prioritario nella psicoanalisi freudiana, che non solo privilegia medium differenti da quello corporeo, come il geroglifico del sogno e la sua narrazione, il Witz, il lapsus, il colloquio psicoanalitico – quindi comunque l’ascolto sulla visione –, ma anche laddove avviene il contrario intende il rapporto interno-esterno, invisibile-visibile nel senso di uno schema cognitivo prettamente medico-sintomatico, che non elimina, anzi conferma l’idea di causalità, facendo della libido un fondamento organico onnideterminante. In realtà, carattere e inconscio, ipotesi «caratterologica» e ipotesi «psicoanalitica», psicologia e antropologia, costituiscono in nuce le due anime della filosofia di Schopenhauer, che sembra esserne consapevole quando scrive che le «espressioni più immediate della volontà» sono anzitutto due: da un lato «l’istinto sessuale», dall’altro «i movimenti volontari», che sono precisamente gli elementi distintivi dei due approcci. Quindi, come non può essere messa in dubbio la stretta affinità che lega questi due poli, e come non si può negare l’insistenza del filosofo sul tema della sessualità, così non v’è dubbio che l’equivoca sopravvalutazione del paradigma psicoanalitico in riferimento a Schopenhauer abbia messo ingiustamente in ombra quello che, dal punto di vista gnoseologico e metodologico, sembra essere il nucleo originario più peculiare del suo sistema filosofico: l’ermeneutica dell’espressione del carattere individuale nel medium del corpo. Il prossimo capitolo servirà a chiarire fino a che punto questo fenomeno tipicamente caratterologico e fisiognomico possa avere influito sulla formazione del concetto metafisico di volontà nei suoi rapporti con il corpo.
Cfr. HN IV, I, 94.
III CARATTERE E CORPO
1. Fenomenologia ed ermeneutica del corpo Come il secondo capitolo ci ha permesso di dare un contenuto determinato al concetto generale di «volontà» enunciato nel primo, specificandolo in base alla distinzione fra carattere della specie e carattere individuale, così questo terzo capitolo dovrà precisare ulteriormente in senso antropologico e caratterologico quel rapporto fra volontà e corpo, interno ed esterno, invisibile e visibile, di cui nel primo capitolo si è enunciata la struttura generale in quanto «miracolo» o paradosso della visibilità della volontà invisibile nella forma e nei movimenti visibili del corpo umano. Mantenendo quella distinzione, si porranno anche qui due prospettive da cui considerare il rapporto fra interno ed esterno: da un lato si avrà l’espressione del carattere della specie (volontà generica) nelle azioni, nei movimenti e nelle forme generici dell’uomo inteso in quanto animale appartenente alla specie uomo, oggetto della fenomenologia antropologica. Qui azioni, movimenti e forme sono determinati nell’uomo in modo comune dalle energie volitive che esso condivide con gli altri uomini e con gli animali: sono queste energie ad apparire e a rendersi visibili nel suo corpo, che è quindi il medium espressivo della volontà generica. L’antropologia di Schopenhauer è una fenomenologia del carattere della specie che si esprime nel corpo generico dell’uomo inteso come essere tipologico, comune, biologico, etologico. Dall’altro lato si avrà l’espressione del carattere individuale (volontà individuale) nelle azioni, nei movimenti e nelle forme particolari dell’uomo inteso in quanto essere morale unico e ir
parte prima
ripetibile, oggetto dell’ermeneutica caratterologica. Qui azioni, movimenti e forme sono determinati in ogni singolo uomo in modo caratteristico dalle energie volitive che gli sono assolutamente peculiari e che, in quanto carattere individuale, lo distinguono sia dagli animali sia dagli altri uomini: sono cioè queste energie ad apparire e a rendersi visibili nel suo corpo, che è quindi il medium espressivo della volontà individuale. La caratterologia di Schopenhauer è dunque un’ermeneutica del carattere individuale che si esprime nel corpo specifico di un singolo uomo inteso come essere particolare, caratteristico, psicologico e morale. Questa distinzione è enunciata in termini letterali da Schopenhauer in un passo che contiene in nuce l’assunto di questo capitolo: «Come la forma umana in generale corrisponde alla volontà umana in generale», scrive nel Mondo, «così alla volontà individualmente modificata, al carattere del singolo, corrisponde una speciale configurazione corporea, che è quindi molto caratteristica ed espressiva così nel suo insieme che nelle sue parti». Parole squisitamente fisiognomiche, in cui la distinzione fra la prospettiva antropologica e quella caratterologica è chiara: come all’interno generico corrisponde un esterno generico, comune, così all’interno individuale corrisponde un esterno caratteristico, particolare. Dato però che il carattere della specie e il carattere individuale costituiscono i poli indissolubili dell’interiorità umana – entro i quali si crea un’infinita gamma di gradazioni, compresenze e sovrapposizioni – e poiché è necessariamente questa polarità interna a esprimersi nell’esterno, si avrà che nel corpo, e a maggior ragione nel suo rappresentante per eccellenza, il volto, la forma generica e la forma individuale saranno gradatamente compresenti, intrecciate e sovrapposte, configurandosi di volta in volta a seconda della predominanza dell’uno o dell’altro polo: il corpo e il volto diventano l’indice esterno visibile e materiale della specifica composizione che, all’interno invisibile e immateriale di ciascun uomo, viene a stabilirsi fra il carattere della specie (animalità biologica) e il carattere individuale (personalità morale).
M I, 147.
iii. carattere e corpo
Anche in questo caso Schopenhauer è esplicito; quanto più comune, generico, indifferenziato è il carattere di un uomo, cioè quanto più sbilanciata in tal senso è la sua polarità interiore, tanto più comune, generica e indifferenziata (quindi tanto più «animale») sarà la sua fisionomia. E viceversa: quanto più moralmente compiuto, individuale e differenziato sarà il suo carattere, cioè quanto più sbilanciata in tal senso è la sua polarità interiore, tanto più individuale e differenziata (quindi tanto più «personale») sarà la sua fisionomia. E poiché l’un polo non potrà mai eliminare totalmente l’altro, a meno di una trasmutazione completa dell’uomo in bestia sottoumana o in beato sovrumano, si avranno necessariamente quei curiosi paradossi, cari ai fisionomi e ai caratterologi, per cui anche il volto (il carattere) più comune avrà sempre e comunque un tratto individuale, per quanto regressivo, così come anche il volto più ricco di intensa personalità morale avrà il suo tratto animale, magari affatto insignificante, però micrologicamente decisivo. Ciò che decide dell’apparenza esterna è il tipo di equilibrio raggiunto dalla polarità del carattere interno. Anche per Schopenhauer quindi il volto (il corpo) è lo «specchio dell’anima», ovvero, per dirla con le sue parole, «l’aspetto esteriore ci [dà] una immagine dell’essere interno e [...] il viso esprim[e] l’intero essere dell’uomo». Anzi, con una metafora ricorrente negli scritti dei fisionomi, e che evoca direttamente la signatura rerum di Böhme, egli definisce il volto umano «un geroglifico che si lascia decifrare» ed è «il monogramma di ogni pensare e agire» di un essere umano, sicché uno è così come appare, e «il viso di un individuo rivela proprio ciò che esso è». E ciò che esso è, lo è in virtù del suo carattere. Schopenhauer considera «giusti» questi principi e non si sogna affatto di contestarli o di ironizzare su di essi, tant’è che a suo parere «il viso non mentisce» e la sua conclusione è che «la fisiognomica è un mezzo essenziale per la conoscenza degli uomini». Cioè, aggiungiamo noi, è un
Cfr. ivi, 169 e SP I, 312. P II, 858. Ivi, 864.
parte seconda
bra e del silenzio. È l’ennesimo paradosso e il più sublime: la più grande e importante di tutte le verità che riguardano l’esistenza dell’uomo, ossia la redenzione tramite la negazione della volontà, è non solo «interamente opposta all’indirizzo naturale del genere umano», ma anche «interamente inaccessibile alla grande maggioranza degli uomini». Il santo non è filosofo: egli vive, esperisce e pratica in positivo il «nulla» della redenzione come estasi, trasporto, rapimento, illuminazione, unione con Dio: ma ciò non implica né conoscenza né tantomeno rappresentabilità e comunicabilità. Nel santo si ha il paradosso di un’esperienza vissuta «positiva» che però costituisce al tempo stesso la negazione della propria rappresentabilità e comunicabilità. Il filosofo non è santo: per farsi capire – beninteso: anch’egli soltanto dai «pochissimi capaci di pensare» – deve limitarsi a esprimere e a circoscrivere in negativo l’esperienza della redenzione, parlando soltanto di ciò che dev’essere abbandonato e negato, e definendo necessariamente «nulla» ciò che ci si guadagna in cambio, dato che non ne ha alcuna esperienza vissuta diretta. Nel filosofo, il cui sapere acquista così uno statuto negativo e apofatico, si ha il paradosso di una rappresentabilità e di una comunicabilità «positive» che però costituiscono al tempo stesso la negazione della possibilità di esprimere positivamente il proprio oggetto, cioè il vero e proprio «contatto» con la Trascendenza. Il saggio, infine, non è né santo né filosofo: la sua esperienza è positiva e può anche essere positivamente rappresentata e M II, 650. Cfr. M I, 453
e SP I, 329; 519; 652; HN III, 345; 351 sgg. Si tratta qui di quello che Negroni, nel saggio già citato, definisce «sapere anarappresentativo», vale a dire «un conoscere che è un agere vero e proprio, in cui elementi conoscitivi puri sono congiunti con elementi extraconoscitivi, emozionali, esistenziali, prassiologici, di cui è intessuta la lunga fatica dell’agire dell’asceta» (Negroni, Supplementi, ecc., cit., p. 175). Cfr. anche Hübscher, Vom Pietismus zur Mystik, cit., pp. 26-30. Cfr. M II, 651, Cfr. Safranski, op. cit., p. 392, in cui si sottolinea l’atteggiamento «esoterico» e «aristocratico» del messaggio filosofico schopenhaueriano. Cfr. HN III, 345 e 2. Cfr. Negroni, op. cit., p. 185.
ii. genio e virt
comunicata. Anch’egli rinuncia, però non alla vita, bensì alla redenzione dalla vita; non al corpo, bensì alla negazione del corpo; non alla personalità, bensì all’annullamento della personalità. La sua saggezza di vita è frutto di esperienza vissuta, e tuttavia è rappresentabile e comunicabile a tutti: è positiva, comprensibile, praticabile. Il suo insegnamento è rivolto a tutti coloro che, pur consapevoli della tragicità dell’esistenza, preferiscono una felicitàumana a una virtù sovrumana.
III LA SAGGEZZA
1. La volontà di vita L’essenza profondamente elitaria ed esoterica di ogni ipotesi di liberazione, di conversione e di redenzione dal carattere è dovuta alla necessità di confrontarsi con un dato caratterologico ed esistenziale, metafisico e ontologico primario e a prima vista intrascendibile: la volontà di vita che alberga in ogni essere. Il «grande attaccamento alla vita che uomini e animali dimostrano ovunque» è per Schopenhauer un autentico a priori dell’esistenza singola e generale, «un che di assoluto, cioè di non avente alcun fondamento», sicché ogni individuo, in quanto tale, è volontà di vita in senso assoluto. Lo dimostra anzitutto lo horror mortis che, quale ne sia la condizione di vita, foss’anche la più misera e tormentata, caratterizza ogni essere vivente: un orrore affatto aprioristico e incontenibile, cui solo il filosofo e il santo, in virtù della loro superiore conoscenza, sembrano in grado di sottrarsi. Però costoro, come si sa, non credono nel principium individuationis e ritengono illusoria l’ipotesi che l’essenza di un uomo, in cui consiste il suo autentico valore, risulti annientata col venire meno della sua concreta individualità temporale, della sua personalità vissuta, limitata, finita. Tuttavia, proprio questa indifferenza o
Cfr. HN III, 288; HN IV, I, 31; M II, 481 sgg. «Soltanto le teste piccole, limitate, temono sul serio la morte come il loro annientamento: ma tali paure restano lontane da quelle che sono decisamente privilegiate» (M II, 492). Cfr. HN III, 53; 85; 409-410; 451 sgg.
parte seconda
disillusione nei confronti della morte, che costituisce la matrice esistenziale di ogni rinuncia alla vita e all’autoaffermazione, quindi di ogni quiete trascendente dello spirito, è quanto di più inconcepibile e assurdo si possa proporre all’uomo umano, che visceralmente non comprende perché mai debba considerare tutto ciò che sente di più suo, il corpo, il carattere, la personalità, l’agire motivato, nient’altro che un equivoco «fonte di ogni errore». È per tale motivo che, anche qualora risultasse inconfutabilmente dimostrato, dal punto di vista della ragione sufficiente, che la vita è «un’attività che di gran lunga non copre i costi», e che essa ha in serbo per l’uomo soltanto sofferenze e tribolazioni, anche allora «la stragrande maggioranza degli uomini», invece di detestarla e rinnegarla, continuerebbe senz’altro a desiderarla e ad affermarla, a «volere incessantemente l’esistenza temporale», proprio perché la volontà di vita non è qualcosa che di per sé ha bisogno di essere motivato razionalmente: essa non è una conseguenza della conoscenza della vita o di una meditazione sul suo valore e disvalore, non è una conclusio ex praemissis, bensì è «la cosa prima e incondizionata, la premessa di tutte le premesse», volontà cieca, impulso originario, infondato, irragionevole, immotivato, incondizionato che si presenta come «sete di vita, piacere di vita, desiderio di vita». Una prospettiva questa in cui il «dogma» del primato della volontà acquista un’inconfondibile tonalità esistenziale. Se per una ristretta élite di privilegiati, dal punto di vista pratico, vale il principio secondo cui «non vivere è meglio che vivere male», che costituisce la premessa cognitiva della conversione, quindi di una felicità extramondana, per la maggioranza degli uomini, per cui voler vivere è qualcosa che è fuori discussione ed è il prius dell’intelletto stesso, vale all’opposto il principio secondo cui «è meglio vivere male, in modo infelice, piuttosto che non vivere affatto», che costituisce sì la negazione della conversione,
Cfr. ivi, 574. Cfr. HN IV, I, 31. Cfr. SP I, 535 e 112. Cfr. M II, 368-371.
iii. la saggezza
ma anche dell’autentica felicità intramondana. Eppure, rispetto a questa secca alternativa fra la negazione e l’affermazione assolute della vita, con i suoi dolori, v’è una terza possibilità, rappresentata dalla regola pratica secondo cui, poiché bisogna pur vivere, «vivere bene, cioè felicemente, è meglio che vivere male», principio che, pur riconoscendo il carattere sostanzialmente doloroso dell’esistenza, da un lato rinuncia alla conversione, ossia afferma comunque la vita, dall’altro non rinuncia alla felicità intramondana, ossia tenta di dominare ciò che, nella vita, causa dolore. Chi vive secondo tale principio non si limita ad accettare passivamente o da rinnegare in blocco il presupposto della vita dolorosa, bensì tenta di relativizzarlo, sostenendo la possibilità di «una rinuncia condizionata, non incondizionata» alla volontà di vita, da ottenersi mediante l’applicazione, a essa (quindi al carattere e alle sue passioni), di massime di saggezza elaborate dalla ragione pratica e liberamente accessibili a chiunque possieda spirito sufficiente alla loro realizzazione. Se il volere e l’affermare la vita in modo «incondizionato» conducono, nel caso estremo, alla malvagità e, in tutti gli altri casi, all’egoismo e all’infelicità; e se, viceversa, il non volere e il negare la vita in modo altrettanto incondizionato conducono, nel caso estremo, alla morte per fame e, negli altri casi, alla virtù, alla santità e all’ascesi, quindi a una felicità soltanto trascendente; invece, il volere e l’affermare bensì la vita, e tuttavia in modo «condizionato», conducono, nel caso esemplare, alla saggezza, che non converte, non salva e non redime, però nemmeno rende malvagi ed egoisti. Dunque, nella piena consapevolezza, da un lato, che tutto il tormento sta nel volere e nella vita, dall’altro, che fino a che il corpo vive è impossibile un totale non volere, la saggezza si impegna a definire la «quantità indispensabile» di volere e di vita (e della loro soddisfazione) che consenta di pervenire a una felicità immanente, e sia pure negativa, in modo tale da
Cfr. HN III, 257; cfr. M II, 247-248. Cfr. SP I, 655.