Concetti e storia. Sui fondamenti della sociologia, di Michele Basso

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Michele Basso

Concetti e storia

SAGGI

Michele Basso CONCETTI E STORIA

Cos’è la sociologia? Come la si pratica? Attorno a queste domande ruota l’indagine sviluppata in queste pagine, a partire da un confronto con gli studiosi che hanno contribuito in modo essenziale al sorgere della sociologia come disciplina dotata di un autonomo statuto epistemologico (Weber, Durkheim, Simmel, Tönnies), o che ne hanno fornito importanti paradigmi interpretativi, quali Elias e Parsons. Nel riflettere sui fondamenti teorici della disciplina, è necessario soffermarsi sul rapporto tra gli strumenti di indagine e le conoscenze di ambito storico: sia che si occupi di raccolta empirica di dati e informazioni o della scelta di adeguate formulazioni concettuali, il sociologo si trova di fronte – per la natura specifica del suo oggetto di ricerca – a eventi, fatti, azioni, concetti contingenti e storicamente determinati. Il comprendere la natura specificamente storica del proprio ambito di ricerca è, quindi, fondamentale. Con un linguaggio proprio della disciplina ma allo stesso tempo divulgativo, questo volume si propone come una riflessione introduttiva adatta a chi voglia accostarsi ai fondamenti della sociologia.

Sui fondamenti della sociologia

Michele Basso, dottore di ricerca in Filosofia politica e storia del pensiero politico, è docente a contratto in Sociologia presso il Dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell’Antichità dell’Università degli Studi di Padova. Ha studiato presso l’Università di Padova, la LMU di Monaco di Baviera e il Max-Planck-Institut für europäische Rechtsgeschichte di Francoforte sul Meno. Tra le sue pubblicazioni, la monografia Max Weber. Economia e politica fra tradizione e modernità (Eum, 2013). Ha recentemente curato la traduzione dal tedesco dell’opera Il costume di Ferdinand Tönnies (Morcelliana, 2019).

George Grosz, Ricordo di New York, da Primo Portfolio di George Grosz, 1915-1916

e

in copertina

18,00

ISBN 978-88-9387-140-2

ILPOLIGRAFO



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Michele Basso

CONCETTI E STORIA Sui fondamenti della sociologia

ILPOLIGRAFO


UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA DIPARTIMENTO DI SCIENZE POLITICHE, GIURIDICHE E STUDI INTERNAZIONALI - SPGI

La pubblicazione di questo volume è stata realizzata con il contributo del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, progetto PRIN bando  “Trasformazioni della sovranità, forme di governamentalità e dispositivi di governance nell’era globale”, all’interno dell’Unità di ricerca coordinata dal prof. Luca Basso presso il Dipartimento di Scienze Politiche, Giuridiche e Studi Internazionali dell’Università degli Studi di Padova

progetto grafico e redazione Il Poligrafo casa editrice redazione Alessandro Lise © Copyright settembre  Il Poligrafo casa editrice srl  Padova piazza Eremitani – via Cassan,  tel.   – fax   e-mail casaeditrice@poligrafo.it www.poligrafo.it ISBN ----


INDICE

I.

   

DEFINIZIONI. IL PROBLEMA DEI MODELLI

Introduzione. La sociologia come pratica di ricerca Possibili definizioni di sociologia Un modello sociologico? Individuo e società II. FARE RICERCA IN SOCIOLOGIA ALCUNE QUESTIONI FONDAMENTALI

  

Il problema dell’oggettività della ricerca Scelta del tema e strumentario concettuale. Sociologia e storia Le regolarità dell’agire. Abitudine, costume, convenzione, disciplina



La singolarità dell’agire. L’imputazione



CONCETTI E STORIA


Nota dell’Autore Il presente testo nasce da una ampia rielaborazione dei materiali e delle dispense fornite agli studenti all’interno del corso di Sociologia presso il Dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell’Antichità dell’Università degli Studi di Padova, negli anni accademici ⁄ e  ⁄. La scrittura mantiene lo stile espositivo adeguato a studenti del corso di Storia. La stessa insistenza sul rapporto tra storia e sociologia è legata al contesto e allo specifico uditorio per il quale la riflessione è stata originariamente pensata. Il costante confronto con gli studenti è stato fondamentale non solo nella genesi del testo, ma anche nella struttura dell’argomentazione e nella scelta dei temi. I loro interventi, le obiezioni e la riflessione comune hanno contribuito in modo rilevante alla riscrittura e al ripensamento di alcune parti, alla maggiore insistenza dedicata ad altre. Agli studenti dei corsi va quindi la mia piena riconoscenza e gratitudine, nella consapevolezza che, se l’esito può essere di qualche utilità, ciò è frutto del dialogo comune.


I DEFINIZIONI. IL PROBLEMA DEI MODELLI

Introduzione. La sociologia come pratica di ricerca Il presente testo pone fondamentalmente due questioni: che cos’è la sociologia e come la si pratica. La riflessione su tali questioni viene svolta confrontandosi con i sociologi che hanno fornito un contributo essenziale al sorgere della sociologia come disciplina dotata di un proprio autonomo statuto epistemologico, e quindi in primo luogo, seppur non esclusivamente, con la cosiddetta sociologia classica. Nel chiedersi che cos’è la socio L’espressione “sociologia classica” è diventata d’uso comune per indicare quella prassi di ricerca che, a cavallo tra il XIX e il XX secolo, acquista progressivamente lo status di disciplina autonoma, rinunciando alla pretesa di costituire una interpretazione globale della società moderna, e limitandosi alla formulazione di modelli analitici che servano a chiarire il rapporto tra individuo e società e il tessuto connettivo che tiene insieme le differenti forme di organizzazione sociale. Cfr. a proposito l’importante articolo di P. Rossi, La sociologia nella seconda metà dell’Ottocento: dall’impiego di schemi storico-evolutivi alla formulazione di modelli analitici, «Il Pensiero Politico», /, , pp. -. Rossi cita come autori principali della sociologia classica Émile Durkheim, Max Weber, Georg Simmel, Ferdinand Tönnies. La sedimentazione dell’espressione all’interno della tradizione sociologica è rafforzata dalla presenza di una rivista di spessore quale il «Journal of Classical Sociology». È curioso e al contempo significativo che una disciplina in fondo piuttosto giovane come la sociologia riconosca già al proprio interno un sedicente spazio di “classicità”. Cfr. anche G. Therborn, Scienza, classi e società. Uno studio sui classici della sociologia e sul pensiero di Marx (), Torino, Einaudi, , pp. -, che aggiunge agli autori sopra citati anche l’italiano Vilfredo Pareto e i “padri fondatori” americani, Lester Ward e Charles Cooley. Per una ricostruzione di come si è sviluppato il canone “classico” della sociologia e un confronto critico con esso cfr. R.W. Connell, Why is Classical Theory Classical?, «American Journal of Sociology», /, , pp. -.


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logia, se ne discuteranno alcune note definizioni, si proverà ad indicare quali sono le domande fondamentali che generalmente un sociologo si pone, quali problemi intende affrontare, e in particolare quali strumenti concettuali egli può adottare nel tentativo di trovare risposte alle proprie domande, o strategie per risolvere i problemi che incontra nel corso della sua ricerca. Lo scopo non è trasmettere una serie di nozioni – che pur saranno ovviamente esposte e dibattute – ma piuttosto quello di mettersi nelle condizioni di riflettere sui fondamenti teorici della disciplina. A questo proposito, una particolare attenzione sarà posta al rapporto tra gli strumenti di ricerca del sociologo e le conoscenze in ambito storico. Sia che si occupi di raccolta empirica di dati e informazioni o della ricerca di adeguati strumenti concettuali, il sociologo si trova di fronte, per la natura specifica del suo oggetto di ricerca, a eventi, fatti, azioni, concetti contingenti e storicamente determinati. Il comprendere la natura specificamente storica del proprio ambito di ricerca è per lui fondamentale. Possibili definizioni di sociologia Il primo passo sarà quello di indicare e interrogare alcune possibili definizioni della disciplina. Prima di rivolgersi ai testi classici di Weber e Durkheim, ci si sofferma su un’ottima definizione fornita da Luciano Gallino nel Dizionario di Sociologia. Va sottolineato che l’analisi di queste definizioni non ci dirà nulla sulla prassi, ovvero sul come fare sociologia. Ciò è proprio di ogni definizione: se si considera la parola “botanica”, ogni lettore sarà in grado di dire che si tratta della disciplina che si occupa dello studio degli organismi vegetali. Si conosce la definizione di botanica allo stesso modo di un uomo che abbia studiato questa disciplina per anni. Si è in grado di definirla, magari senza conoscere pressoché nient’altro; senza essere in grado, per fare un esempio banale, di distinguere un faggio da una quercia. Proce

L. Gallino, Dizionario di Sociologia, Torino, UTET, .

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dendo oltre, si potrebbe immaginare di conoscere anche la definizione di gran parte degli organismi vegetali. Questo permetterebbe certo di sapere qualcosa in più della botanica: ripetendo a memoria la definizione, si sarebbe ora probabilmente in grado di distinguere la quercia dal faggio. Tuttavia, ciò non renderebbe la nostra conoscenza in alcun modo assimilabile a quella di un botanico. L’esperto di botanica non è infatti qualcuno che ha introiettato definizioni. È possibile che le ricordi, ma a dire il vero è più probabile che le abbia in gran parte dimenticate: e nondimeno, egli rimane un esperto molto più di coloro che hanno incamerato nient’altro che una serie di nozioni. Ciò che rende il botanico di gran lunga più esperto è il fatto di aver introiettato piuttosto – anche attraverso una formazione teorica, quindi anche passando attraverso lo studio delle definizioni – una prassi di osservazione, di ricerca e, alfine, di azione. Ciò che lo caratterizza e che lo rende un esperto è il fatto che egli sa distinguere a prima vista gli organismi che ha di fronte, anche se magari non sa definirli con la precisione di una voce di enciclopedia; conosce le zone in cui determinate piante crescono, sa riconoscerne le caratteristiche, eventuali patologie ecc. Aggirandosi in un bosco, egli si sentirà in un ambiente che in gran parte conosce; si saprà orientare tra gli organismi che si trova di fronte, saprà nominarli e distinguerli. Insomma: la sua conoscenza teorica è al contempo una capacità di azione e di orientamento, una prassi. Tornando alla sociologia, le definizioni che saranno prese in considerazione non interessano in quanto tali. Vengono richiamate perché, cominciando a definire il campo del sapere in oggetto, ciò rende possibile anche iniziare ad orientarsi al suo interno, attivando una prassi di ricerca. Nel definire la sociologia, ci si troverà di fronte a delle difficoltà maggiori rispetto a quelle del botanico, il quale, almeno nella definizione del suo campo di sapere, si trova in una situazione più agevole. Sulla definizione di sociologia non esiste un consenso unanime, e nemmeno un consenso ampio. Anche i sociologi classici ne hanno fornito definizioni differenti, e sempre discutibili. Per l’approccio qui prescelto, quello di una definizione esatta e risolutiva non rappresen-

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imperativo: il primo riguarda il carattere stesso del modello normativo, il secondo concerne il suo grado di istituzionalizzazione. La categoria strutturale dei valori è fondamentale per garantire il grado di stabilità dell’istituzionalizzazione raggiunta dal sistema stesso. In altre parole, questa prima funzione concerne la capacità di un sistema sociale di formulare, riprodurre e mantenere nel tempo un insieme di valori di riferimento. Ciò viene garantito dalla tutela e dalla persistenza di sistemi di credenza, come le fedi religiose, le ideologie, i modelli culturali, a cui Parsons affianca i rituali, le forme di simbolismo espressivo, l’arte, lo svago. Un secondo aspetto fondamentale è quello dei meccanismi di socializzazione dell’individuo, o meglio dei processi attraverso i quali i valori di una società sono interiorizzati in una personalità. Detto in altri termini, questo secondo aspetto concerne il processo dinamico attraverso cui un nuovo membro della società viene «socializzato», ovvero integrato all’interno del sistema valoriale della società stessa. Le istituzioni fondamentali deputate alla funzione di mantenimento e socializzazione del modello latente sono la famiglia, la scuola, gli istituti religiosi. Proprio in quanto il focus di questo modello consiste nel preservare l’ordine esistente, la categoria strutturale del mantenimento del modello può essere comparata, in sociologia, a ciò che è rappresentato in fisica dall’inerzia. Come un corpo in stato di inerzia mantiene il suo stato finché non interviene una forza tale da metterlo in movimento, allo stesso modo un sistema sociale – solitamente mantenuto in equilibrio dalla pattern mainteinance – può subire uno scossone tale da mutare i suoi riferimenti valoriali di fondo. In questo caso, il sociologo dovrà concentrarsi non più sull’analisi dell’equilibrio del sistema, ma dovrà porre attenzione a quei fattori che ne stanno favorendo un cambiamento strutturale. La seconda funzione è quella del raggiungimento degli scopi. Essa prende in considerazione da un lato la tendenza inerziale di un sistema a preservarsi nel suo stato, e dall’altro le spinte alla destabilizzazione che costantemente vengono provocate dall’ine

Ivi, p. .

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vitabile e continuo interscambio tra sistema e ambiente. Dato un sistema, esso avrà in altre parole una sua inerzia, e al contempo un continuo interscambio di imput e output con l’ambiente che tende a minare questa inerzia. La funzione di raggiungimento degli scopi opera una selezione e una riduzione di complessità di quelle azioni che sono necessarie, da un lato, a mantenere il sistema in equilibrio, dall’altro a garantire quei mutamenti necessari senza i quali il sistema stesso rischierebbe di paralizzarsi. L’ambiente pone costantemente nuovi bisogni, il cui soddisfacimento ottimale è importante per il sistema stesso. Il sistema deve sapersi quindi trasformare mantenendo un proprio equilibrio interno, e la funzione di selezione e raggiungimento degli scopi assolve a questo delicato ruolo. Differentemente dalla precedente, questa funzione è sempre legata a una specifica situazione. Essa non riguarda direttamente, ad esempio, i valori fondamentali di una società, ma quei problemi specifici, più contingenti, che rischiano di minarne la struttura. Per questo motivo, la funzione di raggiungimento degli scopi viene associata alle attività e alle istituzioni propriamente politiche. Queste ultime, infatti, non si occupano immediatamente del sistema di riti, valori, consuetudini e, solitamente, non hanno a che fare nemmeno con le basi costituzionali sulle quali la società politica è fondata. Esse si preoccupano piuttosto dei più urgenti problemi che tendono a creare squilibri o difficoltà all’interno della specifica situazione data (pensiamo oggi alle difficoltà create dal recente scoppio della pandemia mondiale, e, successivamente, all’aumento della disoccupazione, o alla necessità di gestire una crisi finanziaria ecc.).

 Nel testo che stiamo considerando, Parsons richiama un suo articolo del , McCarthysm and American Social Tensions, pubblicato sulla «Yale Review», e cita come esempio il forte rischio di alterazione dell’equilibrio complessivo della società americana prodotta dalle vicende dell’emergente guerra fredda; egli rammenta la necessità di aumentare il livello di motivazione nella popolazione per mantenere il livello di supremazia mondiale, e cerca di spiegare i fenomeni dell’isolazionismo e del maccartismo collocandoli in questo contesto.

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pensato come un modello trascendentale e fondativo della ricerca sociologica. La riflessione a partire dall’esempio posto da Elias fornisce due suggerimenti di carattere teorico: il primo riguarda l’importanza delle relazioni rispetto a quelle che egli definisce unità sociali. Si tratta di un approccio teoretico alla riflessione sociologica molto utile e fecondo. Quale che sia la nostra ricerca, le unità sociali a cui ci si trova di fronte non sono mai pensabili isolatamente, ma vanno pensate nella loro interrelazione, la quale a sua volta costituisce il contesto che stiamo indagando, che Elias chiama «figurazione». Le singole unità sociali trovano il loro senso definendosi l’una rispetto all’altra, e non sono mai concepibili isolatamente. La figurazione è una specifica modalità di formare concetti praticata da Elias, e che permetterebbe, secondo il sociologo tedesco, di superare l’impasse della contraddizione del dover pensare agli uomini contemporaneamente come individui e come società. Come esempio semplice ed esplicativo di figurazione, egli ci propone l’immagine di quattro persone che giocano a carte attorno ad un tavolo. Nella figurazione dei giocatori di carte appaiono chiaramente i processi di interconnessione reciproca: le azioni di un giocatore non sono definibili se non a partire da quelle degli altri. Inoltre, non è possibile separare la figura del giocatore dal gioco complessivo; ciascuno di loro può anche avere molti altri ruoli (cittadino, professionista, padre di famiglia ecc.), ma la sua identità di giocatore vale solo fintantoché egli partecipa al gioco comune. Ciascun elemento della figurazione trova la sua identità nel rapporto con gli altri elementi; al contempo, se variasse uno degli elementi, la stessa figurazione (l’universale determinato) subirebbe un cambiamento del suo assetto complessivo. Il secondo suggerimento deriva dal confronto critico con il gioco primario. Elias elabora questo esempio per farci comprendere la priorità delle relazioni rispetto alle unità sociali. Al contempo, andando al di là di un approccio puramente teorico, egli è costretto a ricorrere a concetti e nozioni (equilibrio di forze, 

Ivi, p.  ss.

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rapporto di potere, conflitto, necessità della sopravvivenza) che si presentano necessariamente come storicamente determinati, e non possono in alcun modo essere posti come fondamento teorico di tutte le relazioni sociali. In altre parole, ponendo l’esempio proposto come gioco primario, egli corre il rischio di estendere a tutte le indagini sociali un determinato modo di concepire il conflitto, l’equilibrio, il potere. Inoltre, egli pone come petizione di principio il fatto che le relazioni sociali vadano sempre pensate come modalità per raggiungere un equilibrio di forze a partire da un conflitto originario e pre-sociale. La manifestazione più evidente di ciò si ha nell’ultima parte del suo testo, dove egli si pone il problema del perché gli Stati nazionali costituiscano delle unità sociali che godono di una priorità rispetto ad altre. Egli risponde richiamando il gioco primario, e afferma che gli Stati godono di una priorità perché «si tratta di unità che hanno controllato in modo relativamente rigoroso l’uso della violenza fisica all’interno del rapporto con i loro membri, mentre li hanno contemporaneamente preparati e spesso incoraggiati ad usare la violenza fisica contro coloro che non ne facevano parte». Poco oltre, egli afferma che la funzione primaria dell’associazione «è quindi la difesa dalla distruzione fisica a causa di altri, oppure la distruzione fisica di questi altri». Non potendo utilizzare il termine “Stato”, che non è esistito in tutti i tempi e in tutti i luoghi ma ha al contrario uno stretto rapporto solo con gli ultimi secoli della storia europea ed occidentale, egli propone di chiamare queste associazioni primarie «unità difensive ed offensive», oppure «unità di sopravvivenza». Va obiettato ad Elias che lo Stato non ha e non può avere una priorità peculiare di per sé; ciò contraddirebbe uno dei fondamenti stessi della sua riflessione, ovvero la priorità della figurazione sull’unità sociale, in quanto avremmo un’unità sociale (lo Stato, appunto) che possiede una priorità (e quindi, almeno parzialmente, un’autonomia) rispetto alle altre unità socia  

Ivi, p. . Ibid. Ibid.




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li e inevitabilmente rispetto alla figurazione stessa. L’impressione è che Elias cada qui in una sorta di profezia che si autoavvera: lo Stato non ha una priorità logica di per sé, ma ad Elias pare che ce l’abbia proprio perché ha preliminarmente definito i rapporti sociali come originariamente fondati sul conflitto e su una lotta pre-sociale per la sopravvivenza solo a partire dalla quale prenderebbe forma la “socialità”. Modelli e astrazione

Riassumendo, l’attraversamento di Elias evidenzia l’importanza del privilegiare la costellazione di assetti di relazioni rispetto alla pretesa di identificare statiche unità sociali. Al contempo, il confronto con il gioco primario ha indotto a dubitare della possibilità di costruire – perlomeno in ambito sociologico – modelli che possano prescindere dalla dimensione storica, quindi dalla contingenza e dalla temporalità intrinseca degli elementi che li costituiscono. In sociologia, costruire un modello astorico e atemporale della prassi di ricerca teorica non sembra sia possibile. Il sociologo francese Pierre Bourdieu si è spinto fino ad affermare che lo stesso processo di comprensione di una situazione sociale a partire da un modello è ampiamente deficitario. Gli elementi empirici, contingenti, storicamente determinati non possono infatti, a suo avviso, essere incasellati in un modello costruito a priori, ma implicano necessariamente delle pratiche che hanno un ruolo costitutivo nella formulazione di quelle strutture, norme, regolarità sulle quali si fonda la prassi di ricerca di tipo sociologico. Senza spingersi fino a negarne preventivamente l’utilità, è forse possibile preservare l’utilizzo dei modelli considerandoli come degli schemi storicamente determinati (e, pertanto, inevitabilmente contingenti) di riduzione di complessità all’interno di uno spaccato di situazione sociale, o all’interno dell’universale determinato di un contesto. Possiamo considerare il modello una specifica attività di astrazione. Abstrahĕre significa “tirar fuori” un qualco

Cfr. P. Bourdieu, Per una teoria della pratica (), trad. it. di I. Maffi, Milano, Raffaello Cortina, .

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sa di universale da un insieme di particolari: processi di astrazione sono impliciti a tutti i livelli della nostra attività mentale. Ad esempio, ogni singola parola del nostro linguaggio è frutto di un processo di astrazione: è un universale che tiene assieme, che unifica, un certo numero di particolari. La parola “cane”, ad esempio, comprende tutte le differenti razze e varietà di questo mammifero domestico. Se ci viene richiesto di pensare ad un cane, ognuno penserà a un animale con caratteristiche diverse (mantello, colore, grandezza ecc.); tuttavia, in base ad alcune caratteristiche biologiche presenti in tutti i cani, li si unifica sotto un unico nome. La parola “cane” è un universale astratto: non esiste nella realtà empirica il “cane”, ma esistono solo i singoli cani effettivamente esistenti. Questo processo di astrazione, che permette a ciascuno di noi di riconoscere questo animale quando ce lo troviamo di fronte, è compiuto dal nostro cervello spontaneamente: si tratta di una capacità di astrazione acquisita senza pensarci nei primi anni di vita, in parallelo con l’acquisizione della lingua madre. Per identificare un cane, non abbiamo bisogno né di riflettere né di studiare: è un atto che compiamo, appunto, spontaneamente. Accanto ai processi di astrazione che acquisiamo spontaneamente – tramite il linguaggio e non solo – ve ne sono altri che non sono spontanei, e che richiedono una specifica riflessione, un processo di ricerca: si tratta di quei processi astrattivi che sono tipici della scienza. I processi di astrazione sono propri non solo della sociologia, ma di ogni disciplina che aspiri a porsi ad un livello di scientificità. Ci si può spingere fino al punto di dire che fare scienza, in fondo, significa svolgere processi di astrazione. Quando Newton ha scoperto la legge di gravitazione universale, egli ha indicato una formula universale che unifica sotto una stessa legge tutti i corpi che cadono; per essere più precisi, egli ha formulato una legge che dimostra che tutti i corpi si attraggono in modo direttamente proporzionale al prodotto delle loro masse e inversamente proporzionale alla loro distanza elevata al quadrato. Newton ha formulato una connessione valida universalmente, in tutti i tempi e in tutti i luoghi, tra due corpi. Tuttavia, questa formulazione non era implicita nel linguaggio: c’è stato bisogno

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di un processo specifico del pensiero – di una prassi di riflessione scientifica – che la portasse ad emersione. Da quel momento, però – finché non sarà formulata un’eventuale legge ancora più precisa – essa vale universalmente. La formulazione dei modelli in sociologia può essere utile per tentare di cogliere quegli elementi universali che rappresentano delle costanti all’interno di un certo contesto sociale. I sociologi hanno utilizzato lo strumento della creazione di modelli in maniera ampia ed estremamente differenziata. I due modelli che sono stati presi qui in considerazione hanno la pretesa di abbracciare orizzonti di esperienza molto estesi: il primo, quello di Parsons, pretenderebbe di essere un modello esplicativo dell’universale delle relazioni sociali; il secondo, quello di Elias, intenderebbe essere un modello che funge da matrice di tutti gli altri modelli sociologici possibili. I modelli sono tuttavia molto più spesso utilizzati per scopi più limitati, e, in questi casi, sono meno esposti a possibili critiche teoretiche di fondo. Solo per fare un esempio, si considerino le seguenti immagini proposte dal sociologo William Foote Whyte nel suo importante volume Street Corner Society.



W. Foote Whyte, Street Corner Society. Uno slum italo-americano (), a cura di M. Ciacci, Bologna, il Mulino, .

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Il sociologo statunitense intende qui riportare l’usuale e tipica conformazione della conversazione tra ragazzi di varia appartenenza sociale negli incontri ad un angolo di strada del quartiere di Cornerville. Dai ripetuti incontri e dalla loro attenta osservazione, Foote Whyte riesce a dedurre le posizioni e i ruoli nelle abituali conversazioni, dalle quali riesce a ricavare delle interessanti conseguenze sociologiche. Egli utilizza molto questi semplici modelli per identificare le modalità in cui si formano gang, club e organizzazioni del racket all’interno dello slum di Cornerville. I modelli possono essere utilizzati per tentare di creare schemi che riducano la complessità del reale e che mettano in evidenza le costellazioni di relazioni il più possibile stabili all’interno di un contesto dato. Ciò che si deve tenere sempre presente, però, è la specificità dell’oggetto della sociologia, ovvero l’azione umana: un oggetto strutturalmente contingente, mobile, e storicamente mutevole. La validità dei modelli non può pertanto avere la stessa stabilità e durata della legge di gravitazione newtoniana. Un modello sociologico varrà, all’interno di un universale determinato, fintantoché persistono le relazioni di fondo di quell’universale. Con questa accortezza di tipo storico e concettuale, non vi è motivo per non fare uso dei modelli in sociologia: essi possono al contrario rivelarsi degli straordinari strumenti di ricerca, nonché delle ottime strategie per riassumere e semplificare gli esiti delle proprie ricerche. Individuo e società Nella riflessione sui modelli, ci si è imbattuti in modalità di relazione tra particolare e universale. È stato brevemente richiamato il rapporto tra la parola (l’universale, “cane”) e gli elementi empirici che la parola designa (i particolari, i singoli cani concretamente esistenti). Oppure, rivolgendosi alla ricerca scientifica, si è nominato il rapporto tra i corpi (particolari) e la legge della loro reciproca attrazione (la legge di gravitazione universale). Rapporti tra particolare e universale attraversano di necessità tutte le discipline scientifiche: uno di essi riguarda in modo particolare il sapere sociologico, si tratta del rapporto tra individuale e

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II FARE RICERCA IN SOCIOLOGIA ALCUNE QUESTIONI FONDAMENTALI

Il problema dell’oggettività della ricerca Si pongono ora in questione alcune problematiche fondamentali che emergono nel momento in cui ci si propone di fare ricerca in ambito sociologico. Come in ogni indagine, il primo aspetto fondamentale è la scelta e la delimitazione del tema: inevitabilmente, si fondono e confondono qui una serie di elementi di carattere teorico e fattori banalmente contingenti, quotidiani. Anche nei classici che hanno segnato la storia della sociologia la scelta del tema è spesso derivata da una serie imponderabile di eventi casuali, come la vittoria – magari inaspettata – di una borsa di studio vincolata all’analisi di una determinata questione, la richiesta di un professore, l’adesione ad un gruppo di lavoro che già stava affrontando un determinato problema ecc. Si lasceranno da parte questi aspetti di carattere contingente, che hanno un’indubbia importanza, ma sui quali c’è poco da dire, se non che fanno parte della quotidianità di ciascun ricercatore, e determinano decisioni, talvolta anche percorsi e scelte di vita. Ci si concentrerà invece su quelle questioni che stimolano la riflessione teorica. In primo luogo, è normale pensare che la scelta del tema della ricerca sia vincolata a un determinato interesse. Può non trattarsi di un interesse individuale, ma piuttosto di un intero gruppo di ricerca; oppure dell’interesse di un’istituzione, che bandisce un finanziamento al fine di favorire una ricerca su una determinata questione. Tuttavia, è indubitabile che, ove ci si ponga in ricerca, lo si faccia a partire da una domanda, da una

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questione da risolvere, e dal desiderio di voler perlomeno provare a cercare delle risposte. Per semplicità, si presuppone qui che l’interesse della ricerca sia determinato dal singolo ricercatore. Ogni interesse possiede entro sé un certo carico valoriale: ciò vale per tutte le discipline, ma il problema si pone in modo particolare nelle discipline che si occupano dell’agire umano. In questo caso emerge in modo molto più marcato la dimensione etica della ricerca. Per dimensione etica si intende che la ricerca presuppone necessariamente – e non può evitarlo – un rapporto con il giusto e l’ingiusto. Le categorie di giusto/ingiusto sembrano essere infatti costitutivamente legate alla dimensione dell’agire umano. Ogni ricercatore avrà pertanto, di fronte al problema che si pone, una posizione precostituita; tale posizione potrà essere più o meno approfondita, più o meno infarcita di pregiudizi, più o meno marcata; tuttavia, senz’altro ogni essere umano che si ponga l’obiettivo di fare ricerca in ambito sociale parte da una serie di convinzioni, di orientamenti che precedono l’inizio della ricerca e anzi ne orientano l’interesse. Si può formulare il primo problema che si pone di fronte al sociologo nei seguenti termini: fino a che punto la sua ricerca deve essere o sarà un tentativo di confermare ciò che già pensa riguardo alla questione posta? Fino a che punto invece egli lascerà (e sarà disposto a farlo) che la ricerca stessa modifichi la propria posizione in merito alla questione? Se la ricerca non fosse altro che un tentativo di confermare ciò che già si pensa, è chiaro che essa non sarebbe in realtà una ricerca, ma un sofisticato esercizio retorico. In questo caso, la pratica scientifica non sarebbe nient’altro che un raffinato esercizio linguistico, volto ad attribuire una parvenza di scientificità a delle opinioni precostituite. In questo primo caso, scienza ed opinione differirebbero nella forma, ma nei contenuti sarebbero esattamente la stessa cosa. Non solo in ambito sociologico ma anche in quello filosofico, raramente si è giunti a formulare una tesi così radicale e distruttiva sul rapporto tra opinione e verità. Nel caso opposto, il ricercatore, una volta posti i termini della ricerca, dovrebbe essere in grado di sospendere i propri (pre)giu-

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dizi, e farsi guidare interamente dalla prassi scientifica, correndo il rischio di arrivare a risultati radicalmente differenti rispetto alle proprie posizioni iniziali. Si pone qui in questione il tema dell’avalutatività della ricerca scientifica. Il ricercatore dovrebbe farsi guidare dalla scienza stessa, la quale dovrebbe essere in grado di neutralizzare interamente le opinioni e le posizioni di partenza del ricercatore, e di raggiungere risultati oggettivi, basati su meri fatti, e non condizionati dalla sfera valoriale. Differentemente dalla prima posizione (che renderebbe impossibile pensare la sociologia come scienza), questa seconda opzione è stata non solo ampiamente sostenuta, ma è divenuta senz’altro una delle posizioni dominanti. Anch’essa, tuttavia, va incontro a non pochi problemi. In primo luogo, presuppone una separazione radicale tra l’essere umano e il ricercatore, tra l’umanità e la professione. Una volta entrato nella dimensione della ricerca, l’essere umano, trasformatosi in “ricercatore”, dovrebbe essere in grado di sospendere completamente le proprie opinioni, i propri giudizi, la propria visione del mondo, per farsi guidare unicamente dalla musa della scienza. Parallelamente, la scienza acquisterebbe un’oggettività che la renderebbe del tutto indipendente dalla propria collocazione sociale e storica (ma anche la scienza è un prodotto della storia e della società!). Pensata necessariamente al singolare (più scienze potrebbero raggiungere risultati diversi e opposti, e farci ricadere nel campo dell’opinione), la scienza sembrerebbe possedere una sorta di aura magica in grado di farci raggiungere risultati che sono del tutto indipendenti da posizioni valoriali. In realtà, dietro a questa idea di scienza come pratica avalutativa si cela una presa di posizione ben precisa nei confronti della realtà sociale, che presuppone una netta separazione tra fatti e valori. Più che ergersi a musa del vero e del falso – perlomeno nella posizione teorica divenuta dominante – questa separazione pretende di tenere distinte le due sfere, assegnando alla ricerca scientifica il solo compito di verificare i fatti, e lasciando l’indagine sulla validità dei propri valori ad altre vie, che possono anche non essere quelle del sapere scientifico. Su questa strada, si è giunti ad una posizione estrema, eppure ancora molto diffusa

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nel senso comune: quella di attribuire una vera scientificità solo a quei saperi che raggiungono risultati materiali verificabili e dotati di immediata utilità, come ad esempio la chimica farmaceutica o l’ingegneria, oppure a quei saperi che, pur nell’astrazione dei loro risultati, raggiungono esiti che – almeno ad uno sguardo non approfondito – appaiono del tutto indipendenti dal giudizio di valore di chi li ha formulati, come la fisica e la matematica. Le discipline che si occupano delle forme di azione umana, come la filosofia pratica, la sociologia, la scienza politica, sarebbero invece delle scienze solo in senso lato, in quanto risulterebbe impossibile svincolare i loro risultati dalle posizioni di valore, inevitabilmente ideologiche, di chi li ha pensati. La questione è complessa. Da un lato, il ricercatore non può usare la scienza per confermare opinioni preconfezionate. Se si considera che la ricerca scientifica dovrebbe avere come fine quello della ricerca di una qualche verità, è chiaro che questo atteggiamento finirebbe per abdicare al senso stesso della prassi scientifica. Anche la prospettiva opposta pare però particolarmente problematica: specialmente in ambito sociale, una ricerca che dichiari costitutivamente di non poter dare orientamenti e indicazioni sull’agire – su che cosa è giusto fare e non fare – rischia di sfociare in un esercizio sterile, fine a se stesso. Al contempo, una pratica completamente avalutativa è in realtà impossibile. Nel momento in cui si pone in ricerca, il ricercatore non può smettere di essere un essere umano: la ricerca scientifica è una delle forme dell’agire umano e, in quanto tale, non può mai sottrarsi alla domanda sul senso dell’agire. Weber e la “relazione al valore”

La questione che si pone è quella di riuscire a mediare tra la posizione valoriale e la validità della pratica scientifica. Un tentativo di affrontare il problema è stato fatto da Max Weber all’interno dei cosiddetti scritti metodologici, che, in lingua italiana, sono stati tradotti e curati da Pietro Rossi in un’edizione dal titolo Saggi sul metodo delle scienze storico-sociali. Si tratta di una serie di  Cfr. M. Weber, Saggi sul metodo delle scienze storico-sociali, cit. Per quanto concerne l’edizione critica tedesca, i testi sono ora raccolti in Max Weber-Gesamtausgabe,

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in una giornata nuvolosa. Nel caso cominci a piovere, è molto probabile che aprirà l’ombrello per ripararsi dalla pioggia. È presumibile inoltre che non lo farà solo lei, ma che lo faranno tutte le persone che in quel momento stanno camminando e che non hanno dimenticato l’ombrello. Questi banali comportamenti quotidiani ci consentono di fare una serie di osservazioni. In primo luogo, l’azione dello svegliarsi prima delle otto o di aprire l’ombrello in caso di pioggia è altamente probabile, ma non ha la stessa necessità degli eventi fisici o biologici il cui campo di studio è oggetto di altri saperi. La puntualità al lavoro o l’apertura dell’ombrello non accadono con la stessa necessità con cui un cane produce una spontanea salivazione nel momento in cui gli si presenta qualcosa da mangiare, o pensa che lo si stia facendo, per ricorrere al noto esempio pavloviano. Potrebbe accadere che un giorno la sveglia non suoni, o che il lavoratore sia ammalato, e in questo caso la regola dell’alzarsi prima delle otto verrebbe “trasgredita”. Potrebbe accadere che, nell’andare al lavoro a piedi, ci si accorga di avere l’ombrello rotto, e si riterrà quindi inutile provare ad aprirlo in caso di pioggia. Va inoltre considerato il caso seguente: per quanto poco probabile, è pur possibile che un giorno il lavoratore decida di stare a letto, e di non andare al lavoro senza un motivo esplicito, semplicemente perché non ne ha voglia. Oppure che decida di non aprire l’ombrello perché quel giorno ha voglia di bagnarsi, di prendere la pioggia. Certo, si tratta di eventi improbabili, e non ripetibili ad libitum, se si vuole evitare un licenziamento o un raffreddore. Dobbiamo però considerare che si tratta di trasgressioni possibili. Aristotele esprime questa specificità dell’azione umana in modo breve ed efficace, sottolineando come sia proprio dell’agire umano il poter essere sempre differente rispetto a com’è. L’elemento della volontà, dell’arbitrio individuale, comporta che quell’evento peculiare chiamato azione umana – ovvero l’oggetto dell’indagine del sociologo – sia dotato di un grado di imprevedibilità sui generis, non riconducibile alla prevedibilità di altre discipline. Sarebbe però errato considerare che l’elemento dell’arbitrio individuale renda le azioni umane imprevedibili. Al contrario,

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vi sono situazioni in cui l’azione umana – dato un determinato contesto sociale – è altamente prevedibile. È il caso delle azioni collettive, e in particolare dei cosiddetti fenomeni di massa. Se in una giornata nuvolosa, a un concerto in uno stadio frequentato da migliaia di persone, a un certo punto comincia a piovere, è pressoché certo che si noteranno spuntare un numero imprecisato ma senz’altro elevato di ombrelli. Su queste regolarità della vita quotidiana le istituzioni politiche e sociali hanno impostato aspetti fondamentali della loro struttura e del loro funzionamento. Puntando sul fatto che le persone vanno al lavoro tra le  e le  del mattino, che molte usano la radiosveglia e che molte altre si recano al lavoro in auto, le radio hanno fissato il loro prime time (la fascia oraria in cui si prevede di avere maggiori ascoltatori) appunto tra le  e le  del mattino. Il prime time della televisione è invece la cosiddetta prima serata: si prevede infatti, correttamente, che molte persone si soffermino a guardare un programma televisivo la sera, magari dopo cena, dopo aver provveduto a tutte le incombenze della giornata. La diffusione della visione via web e tramite altri dispositivi elettronici, come il computer e gli smartphone, e la diffusione della cosiddetta tv on-demand hanno certamente sfasato e rimodulato l’utenza della prima serata televisiva, la quale però, almeno al momento in cui si scrive, è ancora presente e ha ancora una certa importanza. Le banche conservano nelle loro casse una quantità di denaro inferiore rispetto alla somma dei risparmi dei loro clienti: una parte di quel denaro viene riservato a investimenti e alla speculazione finanziaria. Lo possono fare perché l’evento che tutti chiedano di prelevare tutti i loro risparmi contemporaneamente è molto improbabile. Malgrado la maggior parte delle persone, se intervistate sulla questione, affermeranno di non essere influenzate dal marketing e dalla pubblicità e di decidere in autonomia, le aziende continuano a investire in prodotti pubblicitari, e lo fanno in misura così ingente che pare che la pubblicità sia la seconda voce di spesa a livello mondiale: sanno infatti che una pubblicità ben costruita e ben collocata su giornali, radio, web, televisione aumenterà in modo rilevante il numero degli acquirenti. Si pensi inoltre al più recente fenome-

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no degli influencer, alcuni dei quali ricevono migliaia di euro sulla base della previsione che se indosseranno un determinato abito le sue vendite commerciali aumenteranno sensibilmente. Gli esempi legati alla nostra vita sociale potrebbero essere innumerevoli. Su tale capacità di previsione si fonda anche parte della scientificità delle scienze sociali. Se una persona è provvista di solo cinquanta euro, con i quali dovrà vivere un’intera giornata e nottata, è prevedibile che spenderà una grossa percentuale di quei soldi – molto probabilmente superiore all’% – per le prime necessità, ovvero mangiare, bere e dormire. Se una persona è invece provvista di una cifra cento volte maggiore, è altamente probabile che spenderà in beni di prima necessità solo una piccola percentuale di quel denaro, probabilmente inferiore al %. Sulla base di questa previsione, e contando sul fatto che ci potranno certo essere singole eccezioni, ma che un numero ingente di persone rispetterà tendenzialmente tale comportamento, possiamo giungere alla formulazione della seguente legge: al crescere dell’ammontare di denaro che una persona possiede, diminuirà progressivamente la percentuale di quel denaro spesa in beni di prima necessità. Questa semplice correlazione è fondamentale all’interno del calcolo economico del rapporto tra costi e benefici, e trova il proprio utilizzo in molti ambiti differenti, dalle statistiche statali alle indagini di mercato ecc. Il ripetersi omogeneo e reiterato di comportamenti, ciò che abbiamo chiamato la regolarità di determinate forme di azione sociale, è pertanto un buon punto di osservazione per il sociologo. Non è certo l’unico e, come si dirà oltre, non è forse neppure quello fondamentale. È però senz’altro estremamente utile per cominciare a comprendere le forme essenziali dell’azione sociale all’interno del taglio di ricerca prescelto. Su queste regolarità si fondano la maggior parte degli strumenti di ricerca di carattere quantitativo. Si può pertanto affermare che una delle cose che un sociologo deve fare nel corso della sua ricerca è cercare di osservare, comprendere e – ove la ricerca lo renda necessario – misurare il ripetersi di comportamenti omogenei. A questo punto è oppor-

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tuno compiere un ulteriore scarto nell’analisi. La semplice osservazione e rilevazione dei comportamenti reiterati non è infatti sufficiente. La complessità dell’agire umano è tale che sarebbe certamente superficiale e alfine errato e fuorviante limitarsi alla mera registrazione delle regolarità dell’azione. L’agire umano mostra senza dubbio un certo rapporto tra l’azione e la sua durata. Determinati comportamenti, individuali e collettivi, si ripetono per un tempo indefinito che permette di osservarli e talvolta di misurarli. Tuttavia, se si vuole provare a comprenderli, si deve necessariamente ricorrere ad una serie molto stratificata e articolata di categorie. Se osserviamo delle api intente nella costruzione di un alveare, non ci sarà difficile cogliere delle regolarità nella loro azione collettiva. Tali regolarità possono essere studiate, come per tutti i fenomeni, sotto varie angolature e a differenti livelli di profondità. Tuttavia, ci si trova di fronte a un fenomeno che si ripete nello stesso modo da sempre. Le api non vivono una dimensione storica, e per quanto complessa sia la spiegazione di quel loro agire, il fenomeno osservato sarà in ultima analisi di carattere unitario, e sempre uguale a se stesso. Se osserviamo invece l’architettura umana, non sarà difficile constatare che gli esseri umani hanno modulato infiniti modi diversi di provvedere alle loro costruzioni. Il fenomeno della peculiare volontà umana, quell’elemento di arbitrio che è stato nominato in precedenza, quasi come un impaccio nell’analisi, ritorna ora a rendere altrettanto complessa l’interpretazione del fenomeno della regolarità dell’agire. Si proverà ora ad avanzare un’analisi perlomeno parziale di tale complessità. Prima di procedere, va ricordato che tali regolarità di azione non hanno mai un valore universale in senso assoluto, ma vanno sempre ascritte a quell’universale determinato che costituisce l’orizzonte della ricerca (ad esempio, tutti coloro che parlano una determinata lingua, che praticano un tale costume, che vivono in un determinato sistema economico ecc.). Bourdieu ha dimostrato come certi ragionamenti e le correlate abitudini in ambito economico, come ad esempio quelli a partire dai quali è possibile formulare la legge dell’utilità marginale, non hanno

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Michele Basso

Concetti e storia

SAGGI

Michele Basso CONCETTI E STORIA

Cos’è la sociologia? Come la si pratica? Attorno a queste domande ruota l’indagine sviluppata in queste pagine, a partire da un confronto con gli studiosi che hanno contribuito in modo essenziale al sorgere della sociologia come disciplina dotata di un autonomo statuto epistemologico (Weber, Durkheim, Simmel, Tönnies), o che ne hanno fornito importanti paradigmi interpretativi, quali Elias e Parsons. Nel riflettere sui fondamenti teorici della disciplina, è necessario soffermarsi sul rapporto tra gli strumenti di indagine e le conoscenze di ambito storico: sia che si occupi di raccolta empirica di dati e informazioni o della scelta di adeguate formulazioni concettuali, il sociologo si trova di fronte – per la natura specifica del suo oggetto di ricerca – a eventi, fatti, azioni, concetti contingenti e storicamente determinati. Il comprendere la natura specificamente storica del proprio ambito di ricerca è, quindi, fondamentale. Con un linguaggio proprio della disciplina ma allo stesso tempo divulgativo, questo volume si propone come una riflessione introduttiva adatta a chi voglia accostarsi ai fondamenti della sociologia.

Sui fondamenti della sociologia

Michele Basso, dottore di ricerca in Filosofia politica e storia del pensiero politico, è docente a contratto in Sociologia presso il Dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell’Antichità dell’Università degli Studi di Padova. Ha studiato presso l’Università di Padova, la LMU di Monaco di Baviera e il Max-Planck-Institut für europäische Rechtsgeschichte di Francoforte sul Meno. Tra le sue pubblicazioni, la monografia Max Weber. Economia e politica fra tradizione e modernità (Eum, ). Ha recentemente curato la traduzione dal tedesco dell’opera Il costume di Ferdinand Tönnies (Morcelliana, ).

George Grosz, Ricordo di New York, da Primo Portfolio di George Grosz, -

e

in copertina

,

ISBN ----

ILPOLIGRAFO


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