L'amore al tempo della guerra. Lettere di Ottavia Arici ad Aleardo Aleardi, Il Poligrafo

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soggetti rivelati

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l’amore al tempo della guerra

lettere di ottavia arici ad aleardo aleardi a cura di Paola Azzolini

ILPOLIGRAFO


La storia delle donne è anche la storia di una progressiva, inarrestabile rivelazione. È stata, e continua ad essere, una vicenda multipla, complessa, stratificata, che intravede da sempre nelle forme del dialogo e della narrazione la possibilità di porsi in relazione ad altro, di esplorare nuovi territori e nuovi mondi, reali e concreti non meno che immaginari, simbolici, metaforici. Ecco così emergere, con questa iniziativa editoriale, un’attenzione privilegiata per la scrittura e per le scritture femminili, per i momenti successivi di questa rivelazione, per le pratiche e per i moduli espressivi che hanno costruito nel corso dei secoli una soggettività di per sé narrativa e dialogica: ritratti di donne che hanno lasciato una profonda impronta nella letteratura, nella filosofia, nell’arte, ma anche nella scienza, nella religione, nella politica, nella storia del costume. Un simile approccio non implica semplicemente un cambiamento di oggetto o di metodo, ma esige, soprattutto, uno sguardo differente sulle cose e sulla realtà, la capacità di porsi in ascolto, di rimettere in discussione modelli, chiavi di lettura, prospettive solo apparentemente consolidate, per procedere oltre i rigidi confini di materie e discipline “canoniche”. I ritratti e le storie “rivelate”, più che tracciare una galleria in qualche modo definitiva di personaggi e di momenti, vogliono allora evidenziare il carattere irriducibilmente rizomatico, carsico, non lineare, di ogni percorso di libertà e di emancipazione. L’immagine da utilizzare potrebbe essere verosimilmente quella di un vasto arcipelago, in cui sia possibile muoversi e navigare, sulla base dell’ispirazione del momento, senza dover fare affidamento su un percorso preordinato, su una rotta già stabilita in partenza. Ogni singolo frammento può infatti ricollegarsi a ciò che sta prima come a ciò che lo segue: l’identità femminile si è costruita nel tempo “sedimentando” eredità di vario tipo, facendo leva proprio sulla ricchezza di tutte le esperienze di vita disponibili. In modo del tutto analogo, la storia delle donne potrà così assumere i caratteri di un cantiere aperto, mobile e modificabile, sempre pronto all’acquisizione di dati e conoscenze. L’identità è una storia in cammino.


soggetti rivelati ritratti, storie, scritture di donne collana di studi coordinata da Saveria Chemotti

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l’amore al tempo della guerra lettere di ottavia arici ad aleardo aleardi 1848-1849 a cura di Paola Azzolini

ilpoligrafo


Copyright Š ottobre 2015 Il Poligrafo casa editrice srl 35121 Padova piazza Eremitani - via Cassan, 34 tel. 049 8360887 - fax 049 8360864 e-mail: casaeditrice@poligrafo.it www.poligrafo.it ISBN 978-88-7115-908-9


INDICE

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Quasi una storia

Paola Azzolini Lettere di Ottavia Arici ad Aleardo Aleardi

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1846

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1847

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1848

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1849

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Indice dei nomi e dei luoghi

1848-1849



l’amore aL tempO della guerra



quasi una storia

Paola Azzolini

Scrive Virginia Woolf che «l’arte di scrivere lettere sta nella capacità di suscitare emozioni, nel riportarci un giorno, un attimo, anche un solo secondo del tempo passato». Le lettere che seguono sono proprio la storia delle emozioni e della passione fra due protagonisti, quasi del tutto dimenticati: Ottavia Arici, figlia del letterato bresciano Cesare Arici, sposata a sedici anni a un tal Rinaldini che la abbandona con i tre figli ancora piccoli, e il poeta e patriota veronese Aleardo Aleardi, di cui restano tracce, ma esili, ormai solo nella nostra storia letteraria. Ottavia gli scrive assiduamente nel biennio 1848-1849, quando lui è lontano, cacciato in esilio dalle persecuzioni austriache, e nelle sue missive dà notizia con regolarità delle lettere ricevute. Ma le lettere di Aleardo a Ottavia non sono mai state trovate. La sua voce risuona soltanto come un’eco nelle righe scritte da lei, piene di notizie della guerra, ma anche del vissuto quotidiano, oscuro, monotono, fra le mura antiche della casa di Padova, e il chiasso dei figlioli. Per gli anni 1848-1849 di Aleardo restano invece alcune lettere inviate ai familiari, alla sorella Bice, al cognato Francesco Gaspari, a qualche amico fedele rimasto in patria. Si intrecciano al romanzo d’amore di Ottavia e Aleardo le avventure del fascio di lettere, sopravvissute ai viaggi, all’esilio. Aleardo, nonostante le sue infedeltà, i suoi umori incostanti, non volle mai disfarsi di queste carte, in cui era racchiusa non solo l’anima amante di Ottavia, ma quella dei figli di lei, la traccia degli amici, delle altre presenze, magari fugacemente incontrate, eppure care al suo cuore vagabondo, tutte voci che l’avevano confortato negli anni duri della lontananza. C’erano le lettere dei patrioti che condividevano il suo destino di esilio, le lettere diplomatiche, quelle familiari. Insomma un grosso fascio di

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paola azzolini

testimonianze, di passioni personali e politiche, in perfetto disordine. Dal pacco affiorano anche le missive di Luigi Carli, l’amatissimo tutore, di Nina Serego Alighieri e di altre corrispondenti femminili, sempre siglate con iniziali, talvolta rimaste irrisolte. Tutte queste lettere Aleardo se le portò appresso nei suoi pellegrinaggi fuori confine, nelle varie città italiane e straniere, dove fece tappa. A Genova le lasciò in custodia a un’amica, nobile di rango e gentile d’animo, Bianca De Simoni Rebizzo, che le conservò gelosamente, insieme ad altre carte di grande interesse politico, nella sua villa di San Vito al Bisagno. Bianca, fervente patriota, come altre donne del nostro Risorgimento, aveva ben chiari anche i limiti e le mediazioni di un’efficace azione politica o militare. Stratega migliore di tanti nomi famosi, leniva i bollori a volte eccessivi di Daniele Manin che aveva conosciuto a Venezia, dove rimase dal 1833 e per tutto il periodo della Repubblica veneziana. Nel 1848 il marito di lei, Lazzaro Rebizzo, venne inviato come incaricato d’affari a Venezia da Carlo Alberto e forse l’Aleardi lo conobbe allora. Quando nel 1848 Aleardo fu costretto a restare lontano da Verona, cercò ospitalità anche dai Rebizzo, nella loro villa di Albaro. Molti anni dopo, nel 1871, scrisse per Bianca, che era morta qualche tempo prima, nel 1869, un commosso epicedio in forma di lettera a Raffaele Rubattino, in cui ricorda la villa e la splendida ospitalità che lì aveva ricevuto. Un decennio dopo la sua partenza da Genova, quando era già stato stipulato l’armistizio di Villafranca del 1859 e per l’Italia correvano tempi almeno un poco migliori, l’Aleardi non si curò di richiedere all’amica le sue lettere, che non avrebbero più potuto essere una testimonianza politicamente pericolosa, ma solo cari ricordi. Così anche i fogli vergati con calligrafia chiara e nervosa dalla mano di Ottavia, talvolta con i segni delle lacrime e con appuntati riccioli di capelli, nastri, i piccoli nonnulla di cui si nutre la memoria dell’amore, rimasero negletti per settant’anni nelle soffitte della villa presso Genova, finché li trovò Ubaldo Mazzini, bibliofilo appassionato, lo studioso cui dobbiamo la loro prima edizione parziale, rimaneggiata, nel 1930.  Vedi Ubaldo Mazzini, Amori e politica di Aleardo Aleardi, L’Aquila, Vecchioni, 1930, 2 voll. Il libro, accuratamente preparato dal Mazzini, fu pubblicato postumo, poiché l’autore morì improvvisamente nel 1923.

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quasi una storia

Lui che ebbe in sorte di leggere, per primo, gli sfoghi appassionati di Ottavia, così racconta il loro ritrovamento: Fatto sta che le carte rimasero neglette per settanta anni in una soffitta della villa di Albaro, e che là io le ho potute raccogliere per la cortesia della gentile marchesa Ollandini. Le trovai nel massimo disordine, confuse insieme con carte di casa Rebizzo d’ogni genere, sepolte nel fondo di un cassone. Qualcuno prima di me, chissà quando? aveva messo le mani in quel carteggio, o per curiosità o per diletto, certo senza uno scopo definitivo, abbandonandole poi in quello stato. Alcune delle lettere della Arici mancavano, e non potei affermare che quelle d’altri fossero al completo; direi anzi che altre lacune esistevano indubbiamente. Mi è costato qualche veglia l’ordinarle, specialmente per le date, che mancano spesso e per le firme che si desiderano quasi sempre.

Mazzini infatti rivide accuratamente tutto il materiale fra cui c’erano le lettere di Ottavia, insieme a quelle di altre amanti e amiche, a varie testimonianze e alcuni inediti aleardiani. Ma le lettere di Ottavia, per il gusto e la sensibilità dei tempi, che erano poi il gusto e la sensibilità del Mazzini, furono molto spesso epurate e tagliate. Insomma il Mazzini procedette a una moralizzazione dell’epistolario e a una serie di aggiustamenti linguistici. Nel pubblicarle oggi abbiamo voluto restituire il loro stile originale, i loro contenuti appassionati, sentiti un tempo come trasgressivi, ma oggi solo più intensi e accattivanti. Per gli strani scherzi del destino e del mercato, proprio questo stesso fascio di lettere (probabilmente quasi tutte), a un certo momento, negli anni Settanta, comparve sul mercato antiquario. Ne entrò in possesso una libraia veronese, che lo vendette poi alla Biblioteca Civica di Verona, dove tuttora si trova custodito nelle buste del fondo aleardiano. L’epistolario aleardiano, dopo l’infelice tentativo di Gaetano Trezza l’indomani della morte del poeta, nel 1879, attende ancora un riordino e una pubblicazione non parziale, nonostante siano stati recuperati molti materiali degli anni dal 1860 alla morte del poeta. Esiste invece una vasta lacuna, in cui sopravvivono poche e rade testimonianze, proprio all’altezza del 1848-1849 e fino al 1853. In parte almeno questo vuoto, anche se manca la voce di lui, è riempito dalle lettere di Ottavia e degli altri corrispondenti che emergono dallo scartafaccio abbandonato e ritrovato.

Ivi, pp. 35-36.




paola azzolini

Trascrivendo la corrispondenza di Ottavia del 1847, 1848 e 1849, ordinando cronologicamente i materiali, prende corpo e sostanza una storia dimenticata, una storia d’amore e di guerra, insieme all’emozione dell’apparire dal fondo oscuro del tempo dei volti, sempre più precisi, di remoti fantasmi e soprattutto del volto di lei, la coraggiosa e infelice Ottavia. Sempre nella biblioteca veronese sono presenti anche le lettere successive di Ottavia ad Aleardo, circa una sessantina, del tutto inedite, già ordinate cronologicamente. Possiamo così guardare ancora più in là, oltre il limite cronologico cui fu costretto il Mazzini nel documentare quel che aveva trovato. Ottavia è la maga cui riesce bene, anche se soltanto nelle lettere, la magia che instaura la presenza e così per tutta la vita, in un tentativo cosciente e disperato di fare che sia ciò che non è. Coraggiosa, tenace, nelle lettere libera il suo sogno di felicità, quello cui ogni donna del passato (ma forse anche oggi) è disperatamente legata: esistere pienamente attraverso colui che si ama; nella vita di lui proiettare con totale dedizione la propria vita mancata, esistere insomma attraverso l’altro. Forse ci sono pochi altri documenti così chiari e appassionati di questa disperazione amorosa nel bosco fitto e poco esplorato di epistolari femminili che la storia ci ha conservato. Poche, pochissime donne del nostro Ottocento forse hanno detto come Ottavia la propria passione, il proprio desiderio, con accenti così sinceri, senza difese. Ma in questa vicenda di carte perdute e ritrovate va aggiunto ancora un capitolo. Nelle lettere di Ottavia ad Aleardo, raccolte da Ubaldo Mazzini nelle soffitte della villa di Albaro, nella casa dei Rubattino, c’è una vistosa pausa: esse si interrompono il 12 novembre del 1848 per riprendere solo il 17 febbraio del 1849. Sono 65 lunghissimi giorni. Ottavia non poteva non aver scritto ad Aleardo per un tempo così lungo. In realtà alcune lettere erano scomparse dal faldone che contiene tutte le carte per una serie di vicende che non siamo in grado di precisare, ma forse la ragione fondamentale è il loro contenuto. Sono lettere d’amore in cui sensualità e passione si incontrano in una mescolanza così intensa che scuote un po’ il lettore. O meglio: nel primo quarto del secolo XIX, quelle parole scritte da una donna parevano impudiche,

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quasi una storia

lesive del buon nome di una signora. Cavallerescamente gli studiosi misero tutto il fascetto incriminato e bollente in un angolo. Doveva essere fuori dalla vista, ma non scomparire del tutto. Sarebbe stato come uccidere la generosa e infelice Ottavia. Cominciò Ubaldo Mazzini che, anche quando un altro esploratore di biblioteche, Marino Ciravegna, venne in possesso delle lettere e le pubblicò, ma solo come castissimi stralci, non volle stamparle neppure in forma ridotta nel suo volume. Anzi, con sottile perfidia (solo i letterati sanno essere veramente cattivi!) rimandò a un articolo di Luigi Messedaglia sul locale quotidiano «L’Arena» del 29 giugno 1921, in cui il Ciravegna viene a chiare lettere definito “un incompetente”. Ma il Ciravegna da chi le aveva avute? Egli dichiarò di non sapere «per quali vicende siano infine passate nelle mani del mio buon amico A. Vernetti di Fresonara, che me ne ha fatto gentilissimo dono». In realtà si mostrò affatto reticente e pensò di aver già detto molto indicando, attraverso fitti veli, il nome della signora appassionata. Preferì perdersi in una difesa poco consistente dell’Aleardi e delle sue passioni, molte e concomitanti sempre. È toccato poi a chi racconta tutta questa storia scoprire in mezzo ai fogli leggeri del pacco di lettere, vergati dal segno minuto ed elegante, talvolta convulso e rapido di Ottavia, un quaderno di scuola, scritto con calligrafia regolare, con l’intestazione Alberto Vernetti, Lettere scritte dalla signora Ottavia Arici Rinaldini ad Aleardo Aleardi. 19 dicembre 1848 al 5 febbraio 1849 da Padova a Firenze. In calce al frontespizio un diligente bibliotecario, forse lo stesso trascrittore, segnala: «Gli originali di queste lettere si trovano presso il Rag. Alberto Vernetti - Torino, via Riberi n. 6 come da cartolina in data 19 maggio 1933 - (N. 834 del Prot. della Biblioteca Comunale di Verona)». Qualche tempo fa (siamo ormai nel XXI secolo!) un dottor Roberto Cavanna telefonò alla biblioteca veronese: voleva donare a titolo completamente gratuito 14 lettere inviate al poeta Aleardo Aleardi da un’amica. Le lettere erano di suo nonno, poi di suo padre e ora sue. Lì si trovano gli originali delle sette missive trascritte nel quaderno, che sono tornate a ricongiungersi con tutte le altre. In questo voluminoso epistolario Ottavia usa un linguaggio molto vicino al parlato, con presenze dialettali venete, qualche irregolarità

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grammaticale e un lessico ricco di espressioni familiari. Non usa con regolarità le maiuscole, né la punteggiatura e abusa di quei trattini che sono una caratteristica dello stile, non solo epistolare, dell’Ottocento. Abbiamo usato, tuttavia, un criterio di trascrizione particolarmente conservativo, limitandoci a normalizzare la punteggiatura, eliminando quasi sempre il trattino, regolarizzando l’uso della maiuscola. I nomi propri, se di personaggi storici, sono stati trascritti secondo la grafia in uso. E ora, autorizzati dal destino, possiamo tornare ad ascoltare la voce dimenticata di Ottavia.

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Lettere di Ottavia Arici ad Aleardo Aleardi

1848-1849



1846

A Verona, nella lunga via San Vitale, vicino all’incrocio con la trafficatissima via San Paolo, si apre ancora oggi il Fondachetto, una corte circondata da case un tempo di artigiani, fruttivendoli, calzolai. A metà circa dell’Ottocento, tutta questa parte della città era ancora attraversata dai canali formati dal ristagno della corrente dell’Adige, che proprio lì srotola il suo meandro più ampio. Una piccola Verona, da cui il toponimo che anche oggi la designa come Veronetta, tra lucide e ferme acque, talvolta maleodoranti, come il così detto Canale dell’Acqua Morta. Il quartiere era allora il tipico quartiere antico, in cui le case dei poveri, i rifugi dei mendicanti si mescolavano ai palazzi dei nobili. Poco più in là c’è tuttora la chiesa di San Paolo in Campo Marzio, e quasi di fronte il palazzo patrizio dei Giuliari. Al Fondachetto abitava nel 1846 il poeta Aleardo Aleardi, un nome che oggi pochi ricordano: Aleardi poeta è finito nello scaffale dei così detti minori, poco originali e ingiustamente lodati e acclamati in vita secondo molti dei suoi posteri. Anche le sue battaglie per la libertà e l’indipendenza dall’Austria, negli anni in cui valeva anche in letteratura l’impegno progressista, apparvero a molti ispirate da posizioni eccessivamente caute e moderate. Nella sua città, Verona, cui egli dedicò la prima edizione dei suoi Canti (1864), il nome di Aleardo Aleardi torna più volte: un ponte che porta al cimitero, una statua sul sagrato della chiesa romanica dei Santi Apostoli, un sala piena di libri nel palazzo della Società Letteraria, di cui lui fu l’anima negli anni ottocenteschi delle rivoluzioni. Ma questa fossilizzata fama postuma non vuol dire quasi più nulla. Il nome di Aleardi fa parte del paesaggio e gli anni, o meglio i due secoli, trascorsi dall’epoca della nascita (1812) l’hanno scolorito, trasformandolo in un’indicazione stradale senza un referente preciso. La sua statua, opera di uno scultore egregio della fine dell’Ottocento, lo Zannoni, riprende i lineamenti noti che si ritrovano su varie incisioni e lo ritrae nella

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Lettere di Ottavia Arici ad Aleardo Aleardi

sua piena maturità: capello lungo e bene acconciato, mustacchi, redingote; in mano un libro, quello dei suoi Canti, che l’indice tiene un poco aperto. La statua perse letteralmente la testa nel bombardamento che scosse la città alla fine della Seconda Guerra mondiale: era rotolata sul selciato sconnesso del corso Cavour. Recuperata, fu rincollata al suo posto e tutti tornarono a vederla solo come un segnale all’incrocio di due vie. Forse così è accaduto anche alla fama del poeta e patriota: qualche restauro c’è stato, ma non è stato in grado di rendere di nuovo visibile la sua umanità, la gentilezza, il contenuto eroismo, sepolti insieme alla sua negletta poesia. Nel 1846 Aleardo, nato conte Aleardi – che in realtà aveva mutato il suo nome di battesimo, Gaetano, un po’ troppo comune, con il più nobiliare Aleardo – è in condizioni di ristrettezza, anzi quasi povero dopo la morte del padre e della madre. Una perdita quest’ultima che lo aveva lasciato affranto e disperato e che aveva ancor più rinsaldato i legami con la sorella Bice. Accanto a lui e alla sorella era rimasto il tutore, il medico Luigi Carli, devotissimo ai suoi due pupilli e ammiratore fervente del genio poetico di Aleardo, cui si rivolge nelle sue lettere con l’entusiastico appellativo di «anima bella». Aleardo frequenta la gioventù dorata della città sul fiume ed è noto per i suoi versi antiaustriaci e per i sentimenti patriottici che manifesta audacemente ogni volta che gli è possibile e soprattutto nei salotti liberali e aristocratici, tutt’altro che numerosi nella Verona sonnolenta dell’epoca, che, molto ambiti, aprivano le loro porte nei palazzi delle famiglie più in vista. Alto, biondo, occhi cerulei, «di gentile aspetto», come il Corradino di Svevia di una sua famosa poesia, Aleardo è oggetto delle attenzioni di molte signore e signorine e lui volge gli occhi volentieri su un bel viso, una figurina slanciata, un piedino snello che fa capolino dall’orlo della veste. Ma intorno al suo cuore sono soprattutto due amiche, Nina Serego Alighieri, sposata nel 1841 al cugino Gozzadini e migrata a Bologna, e Caterina Bon Brenzoni, che, come lui, scrive versi, di lucido nitore classico. Il salotto di Nina e di Caterina è un covo di rivoltosi, prima entusiasti di Pio IX, poi in preda alla più nera delusione dopo il voltafaccia del papa, e infine esuli e combattenti nelle battaglie del 1848. Quando Caterina muore precocemente nel 1856 Aleardo la ricorda commosso nei versi di un’elegia:

 A. Aleardi, Ad una amica, inviandole le poesie di una cara defunta, in Id., Canti, Firenze, Barbera, 1867.

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1846 Io la morente all’ultime Ore non vidi; e me ne piange il core, Pensando pur che verso me la misera Nutria rancore: E mi lasciò così, senza una placida Ricordanza d’amor, senza un addio. E a perdonar di molte amare lacrime Le avevo anch’io. Nina, ricordi tu de’ nostri celeri Anni il mattin, quando fioriano unite, Come tre fide foglie di trifoglio Le nostre vite?

Il contrasto con Caterina, che non fu mai appianato, ci rimane ignoto, ma l’amicizia con Nina prosegue intatta fino alla morte di lui. In quegli stessi anni c’è un’altra donna che abita gli occhi e la mente del poeta con un’intensità ignota ai teneri moti dell’amicizia, una signora napoletana, Maria Hermann, divisa dal marito e arrivata a Verona in cerca di un po’ di pace. Qui la signora, bruna, occhi azzurri, temperamento vivace, polemico, trova non la pace ma Aleardo e ne nasce una relazione tesa, piena di alti e bassi, ma ne nascono anche i versi delle Lettere a Maria (1846) che fanno clamore e diventano in breve il livre de chevet di tutte le fanciulle romantiche. Chi sono queste signore innamorate del bellissimo poeta possiamo soltanto indovinarlo da alcune delle lettere dirette a lui che ci sono rimaste, di solito firmate con un’enigmatica sigla. Di Maria sappiamo poco e quel poco non pare molto convincente. “La bella dal caratterone”, come veniva chiamata per la sua abitudine di scrivere con caratteri grandi, vistosi, si lamenta della gelosia di lui; da parte sua lui vuole allontanarsi per sfuggire a un legame capriccioso e inconcludente. In questo tira e molla nessuno dei due è certo delle proprie decisioni. Alla fine, nel 1846, Aleardo decide di lasciare Verona e di tornare a Padova. In una lettera di un anno dopo a un’ amica carissima, Luigia Balzan, che gli resta accanto per tutta la vita, devota e silente, con cui niente mai vi fu di amoroso, scrive:

2 gennaio 1847 Io sono padovano: venni, s’intende, per studiare, per levarmi di dosso questa tediosa lebra di noia e di inazione, che mi facea triste e cruccioso il soggiorno a Verona. Là s’intende ero distratto, e radi 


Lettere di Ottavia Arici ad Aleardo Aleardi

[Aleardo a Francesco Gaspari] 12 agosto Del mio stato non ti dico: ho l’anima più nera e più sconvolta di una burrasca. Iddio ci ha abbandonati: o per meglio dire, ci ha abbandonati, quando ei vide che ponemmo più fede in un Re che in Lui, che nella gagliardia, nell’entusiasmo del popolo nostro. Quello che più mi fa piangere amaro però è la vergogna, la vergogna immeritata. Quantunque la lunga schiavitù ci avesse o corrotti, o snervati, quantunque (che se ne dicesse) né profondo, né universale fosse nelle masse il desiderio dell’indipendenza; quantunque in quattro mesi di lotta una mente altissima, un braccio sicuro e forte, un carattere irremovibile e venerato da tutti, non si siano per nostra sventura levati fuori dalla moltitudine, tuttavia io credo, che il combattimento per la sacra causa avrebbe avuto un esito meno sciaurato, se ci fossimo più fidati in noi; se avessimo organizzato il nascente entusiasmo; se non ci fossimo acquietati (quasi gente che sta spettatrice di una lotta che interessa altrui) dinanzi alle boriose promesse di un Re contro cui il passato parlava con terribile eloquenza. Iddio ci ha abbandonati...Una lezione di più che forse non andrà perduta. [Ottavia ad Aleardo] 14 agosto 1848 [...] Non dubitare. Tutto non è perduto – sono tornati a vita chi furono pianti per morti – finché ci batte il cuore così energicamente. Sperino libertà, ogni uomo pronto a tutto sacrificare, creda in una vicina liberazione. Qui m’abbraccerai, angiolo, il più bello che abbia fatto Iddio. Qui, qui nel nostro lettino da poveretti saremo felici; qui o altrove fossi meco, le mie braccia al tuo collo, attorno a noi i nostri figlioli, pregheremo Dio assieme, piangeremo assieme. Oh i miei figlioli ti fioriranno intorno affettuosi e grati, porteranno invidia a noi gli angioli del Signore. Se noi in estrania terra, ci coglierà, lungi dal nostro paradiso, dacché venne bruttato dallo straniero novellamen UM, II, XVII,

p. 91 e BCV, b. 1534.

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1848

te, noi sederemo mestamente sorridenti alla soglia del nostro Eden, come il tuo Abele dalle vesti color di perla. Oh, s’io t’amava ora t’adoro, perché la sventura ingrandisce, solleva. Vieni, o spirito elettissimo. Vedi ci ho bisogno di riposare, ho patito, ho pianto, i miei pochi capelli li ho sciolti, io ti stendo le braccia, il lume lo spegneremo poi. Son io che ti stendo le braccia, l’anima è giovane, più giovane energicamente, se il corpo è patito. Ci baceremo e piangeremo, piangeremo e ci baceremo assieme. Segnami la fronte. È tanto tempo che ti aspetto. Vien qua, ascolta. Il Bigio sta bene, il vedi. Tutti i tuoi son sani. La lettera andò. Fino Lei sta bene. L’Abate è in salute, ma ha l’anima angustiata. Il mio vicino, parente amico, sta meglio, e come puoi vedere, nulla sa de’ suoi. Dalla Lombardia: nessuna nuova; ieri non lasciavano andare all’Adige. All’armistizio non vonno obbedire le truppe. Oh, chi pensa a simili eroismi, vede che ogni soldato ha diritto a un altare. [...] La popolazione è come morta; vo’ dire che la morte è solo un po’ più di cupo che la gente di qui. Oh Dio ci protegga, uniti e affezionati. Scrivimi liberamente. Io non temo, il solito indirizzo poni e qui, dove io vivo come il solito. Fo’ impostare la presente da un tale e ti verrà o da Padova o da Treviso, nol so. Io vivo nella mia solita solitudine. [...] A Venezia il governo sventola colla bandiera italiana, la francese e la inglese. Che Dio ci aiuti; scrivimi. E tu mi bacia. [Seguono sul foglio con l’indirizzo tre letterine dei figlioli] Mio buon signore, ho chiesto alla mamma di potervi scrivere una parola e la parola è questa: che io le voglio bene, ma proprio molto. Il suo Checco Mio caro Aleardi, anche la Dida vuol darle un bacio. Caro fratello, il Sciocco ti ama tanto.

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È l’unico cenno al vergognoso armistizio di Salasco.




Lettere di Ottavia Arici ad Aleardo Aleardi

[Ottavia ad Aleardo] 17 agosto 1848 Mio Aleardo Stiamo tutti bene. È assai poca cosa in giornata. Io potrei scriverti lungamente, ma allora non l’imposterei la lettera oggi ed un minuto di pace tua mi è un paradiso. Eccoti la lettera de’ tuoi ed eccoti i baci miei. Oh Aleardo! siamo al fondo precipitati. Questa parte d’Italia sostiene degli infelici soltanto; oh, ti assicuro, allo squallore di adesso è da preferirsi il morire. Felice chi cadeva sul campo con la certezza in suo cuore della nostra liberazione e della gioia d’avervi contribuito. Non so qual vantaggio possa recarci la fermezza dei bresciani e dei Bergamaschi, ma è pur bene che si sostengano. Si cada onoratamente e allora la popolazione della perdita lascia la vergogna sulla fronte del vincitore. A Lugano 6 mila milanesi esuli. Domani passerà di qui Radetzky con 40 mila diavoli per attaccare Venezia. Finché un re era con noi, che la Francia si rifiutasse ma adesso... oh Dio! Ieri verso sera il maggiore dei miei figlioli fu nella tua stanza. Vi lasciò il lume, chiamato improvvisamente, e là il scordò. Esciamo, nel ritornare lui non era con noi. E alla posizione dove la via volta, vidi il chiaro in alto e volai a casa e salii – Pazzie! Io credetti tu fossi arrivato – Grazie! Vere grazie! Io non ho chiuso occhio – io ho parlato di te a me stessa e ho pianto come una puttina, come farebbe la piccola mia. A giorni son tre mesi che non ti veggo. Oh in cento giorni, ove cento tradimenti non avessero avuto luogo, saressimo liberi. Scrivimi, scrivimi. Io sono al mio solito paese e fo impostare la presente a Padova. L’Abate ti saluta. Il Santo poi pensa a te come più assai che a suo padre.

 BCV, b. 1534 e UM, II, XVIII, p. 92.  Ottavia va spesso in campagna a

sorvegliare i lavori delle sue proprietà; cenni a questi piccoli spostamenti sono in altre lettere.

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1848

[Segue sul verso, con l’indirizzo:] Mi si scrive il 14 agosto da Verona. Ieri abbiamo cantato un grato Te Deum in cattedrale. Suonarono le campane che stavano zitte fino dall’8 aprile, con tiri di cannone e Salve... intendiamoci, Salve militari, non Salve Regina, che ciascuno facea voto ruinasse il tempio, anco rimanendo sepolti chi non avea che patito. Ti scrissi il 30, il 5, il 12, il 14, ed oggi 17. Per tua norma le tue lettere mi giungono sempre intatte. Scrivi ciò che vuoi. Fammi tua. [Ottavia ad Aleardo] 18 agosto 1848 Aleardo mio, Se Dio una sol ora mi desse di vita l’impiegherei scrivendoti; vedi se e quanto desideri di starmi teco. Ora ti dirò molte cose ed incomincio da una che dovrei tacerti. Sta mattina per tempissimo era in piedi; avea bisogno di veder levare il sole e questo bisogno il sento quando sei lungi soltanto. Ero dunque di sopra e guardavo in là e pensavo a certe cose confuse; chiesta non avrei potuto dire altro che meditavo alla prossima liberazione e alla tua tornata. E andavo fantasticando e quasi a Dio chiedevo se la giornata del 28 ci fosse propizia di buone novelle, se la giornata del 28 si fosse alle nostre armi favorevole, ma il cuore nulla, proprio nulla mi presagiva. Ad uno di quei mamma ai quali tu eri, come io, avvezzo a sentire, discendo e mi do alle consuete cure. Ed i figlioli alla scola, io con la piccina alla chiesa. Tornata a casa, si suona il campanello, ma frettolosamente. È il Checco che mi prende a baciare e mi dice che mi vuol bene. In nome di Dio, il so, e Dio te ne ricompensi, ma tu il fai per interesse tanto scialacquo di carezze. Sono uccelli o sono conigli, ciò che vuoi? Niente di tutto questo – rispose – arrossendo – né uccelli, né conigli io ti domanderò più. È un signore di ottant’ anni, anzi cadente, che fu un signore e ora non ha più nulla. E l’è mancato sin l’aiuto di suo figlio e nipoti, anco ogni mezzo, ne dovea rimaner  BCV,

b. 1534 e UM, II, XIX, pp. 92-95.

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Lettere di Ottavia Arici ad Aleardo Aleardi

uno, non è vero, mamma? Non ha che la moglie, è ammalato, ma noi faremo di meno di tutto quello che dirai, ma soccorriamolo. Io resto come di sasso; mi lagno colla provvidenza d’esser sprovvista e faccio osservare che non possiamo ed il Checco era volato a farlo entrare; io diedi un napoleone d’argento. Ed il figlio disse prendendolo: mamma, non mi farai più di questi piaceri, se ti disobbedirò. Io non volli parlare all’onest’uomo; temevo lo potesse piegare una parola di conforto, risparmiai a lui un fastidio, a me troppo crudo dolore. Diede e volò via e ritornò a me e mi baciò: Vedrai, Dio anche oggi forse ti compenserà con qualche consolazione. E il vecchio, appoggiato ad un bastone, andava via e a me cadevano lacrime sul petto ed una mano posava sul capo del mio angiolo di carità. Ebbene: mi si recan lettere tue. Io la credetti opera di Dio, e subito diedi tue novelle a Soave dei quali ho settimanalmente novelle. Stan bene e scrissi al Tutore, e mandai tue nuove al degno Abate e fanno gran festa e dissi a Dio: Sii benedetto! Ricevei più tardi dal portiere novelle da V. Io sarei caduta di dolore, se non avessi avuto di conforto le tue parole. Erano parole di quell’Abate: 26, il Mincio è passato; Brescia è minacciata di tempesta. La zampa del cavallo di colui che fu trattenuto dal Pontefice Leone, lasciava meno deserti i luoghi del suo passaggio. Dio salvi la Lombardia, se v’è tempo. Le povere angioline novellamente scacciate dal loro paradiso, sono raminghe per le case. Oh quanta strage, quanti sacrifici! Dio abbia misericordia di chi sopravvisse. Quanto denaro più il flagello su di noi tutti per essersi energicamente divincolati? E finiva facendomi desolata. Ma io a persona non comunicai la lettera. Guai a chi pose lo scoraggiamento nel cuore dei fratelli, è peccato il farlo. In altra mi si avvisa (24) essere gli austriaci a Sona e Sommacampagna, fino a Cavalcaselle colla perdita di un bel cannone. Poi in altra più tardi che tutto il perso fu riconquistato. In altra d’oggi (sempre di là, 27) essere gli austriaci a Guidizzolo, Villafranca, Valeggio, Monzambano, fino a Montechiari: Radetzky non badare a nulla purché si vada innanzi; essere infernale l’allegrezza che il vecchio fa palese.

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Da Verona.

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1848

Altre notizie: gli austriaci si sono ritirati sul Po e sono sulla sinistra dell’Adige per quel tratto di Pontelagoscuro fino al mare. Fare i veneziani sempre piccole sortite; per cui sempre pochi, ma sempre feriti ci vengono da Piove e da Mestre. Arrivare sempre nuova truppa a Venezia, il che dimostra l’abbondanza dei nostri. Essere novellamente bloccata Trieste e pare che abbiano gran parte la flotta americana che, dicesi, abbia innalzata la nostra bandiera. Rivoli che fu difeso eroicamente con vittoria due volte dai piemontesi, è ora in mano dell’austriaco, ma vi lasciarono 300 morti, 4 generali, 76 ufficiali e 70 cannoni, e trovarono come spoglio il sito, ché era già intenzione cederlo. Fra i morti Pallavicino, già marito della figlia di Sepear. In quanto all’allargarsi degli austriaci è da notarsi che Mantova ha detto capitolare, se entro otto dì non venissero soccorsi, e l’altra notte venivan qui per un subito aiuto, e la città era fortunatamente provvista. Domani parte per il campo la riserva comandata da Welden coi suoi 5.000 giovinetti che piangono. Dunque come dicevo un corpo diviso in due, l’uno comandato da Radetzky, l’altro da D’Aspre, andarono in là con bandiera bianca. Il generale Manton francese andò con i suoi ufficiali per parlamentare. Ebbene! solite arti dell’Austria, fu fatto prigione, e con esso si avvicinarono all’esercito dei nostri. Si diedero a fuggire; allora il Duca di Savoia lasciò Rivoli, ed i Piemontesi ebbero il corpo che comandava D’Aspre collo stesso generale, non so se prigione, ma almeno tagliati fuori dell’azione, che vale lo stesso. Da venerdì 21 a tutto 27 gli austriaci perdettero 16 mila uomini. I disertori sono molti. Io, austriaca fino alle midolle, auguro agli austriaci quattro di queste vittorie, e basta. I nostri presero 40 cannoni, 17 stendardi e fecero 3000 prigionieri. Mentre gli austriaci cantan vittoria, i più disertano, e i graduati si fanno, per Dio, più pensierosi. E si fanno fortini a Padova verso la Porta San Giovanni e Santa Croce con cannoni che guardano fuori e dentro, perché nemico a loro è Dio e dappertutto son contornati da chi li odia. E a V. si dà ordine novello onde a tre colpi di cannone se di notte ogni finestra abbia la sua face, e dicevasi che il cannone si sentiva sotto Verona da gente poco da quella città discoste. Si teme perché i dolori e la morte degli italiani, agli italiani toccano il cuore, ma la fede è in ogni anima, te lo giuro. Presto vedremo altre assise.

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Lettere di Ottavia Arici ad Aleardo Aleardi

La ritirata dei nostri è uno stratagemma, come no? Dove sono andati quei valorosi? Alberto non è un traditore, no, e Dio non manca a chi l’invoca e noi gridiamo a Lui con fede antica. Fino a che si stavan rinchiusi in quella fortezza, non potevamo che guardarli. Non eran forse amici e fratelli nostri quei cittadini per agonia rispettabili? Che fare? Tirarli al largo. Ci duole sì, dei paesi da loro percorsi, non si può calcolare che le muraglie e i saccheggi per ogni dove, e vite spente. Libertà! Quanto tu sii dono di Dio lo mostran i sacrifici a cui son presti gli uomini d’ogni condizione, d’ogni sesso, d’ogni età. Dio esaudisci al nostro pregare! Mi fu detto che quelle due Signore di là stan proprio bene di salute. Il tutore mi scrive d’aver ricevuto la lettera che io li mandai, e che tu gli dirigevi. È scoraggiato, ed io ci sgrido; dice che tu non gli dici né di aver ricevuto le sue lettere, né quando vieni approssimativamente. Povero cuore! Quando gli austriaci saranno oltre l’Alpi, prima io non voglio vederti. Cristo! le pene nostre non son certo quelle che si patisce battendosi in campo. Là vi è il panico e la gloria, che che succeda è grandioso. Qui si muore di stenti e di rabbia. È un male che non ha nome. Mi scrive che dovrà lasciare la sua solitudine perché gli assassini in truppa vanno di nottetempo svaligiando le abitazioni; scrissi che, se vuole, qui è sempre atteso. Scrive che Beppino da 10 dì è assente, né si sa dove. Che si consoli io gli scrissi. Così ogni veneto il seguitasse nella eroica fuga. Chi è giovane, sano e non va, è un indegno. Se i veneti avessero dato uomini e denari come i Lombardi, saressimo ad altro partito sicuramente. Non so niente né del fratello, né del marito, né di quei quattro che mi sono una specie di cognati, nulla, nulla. Quello che è qui, è sempre preso dai dolori ed ha sempre la febbre, povera sua madre e povera anche me che faccio mie proprie le altrui sventure. Una lettera venuta miracolosamente colla posta da Brescia, mi dice dell’inviarsi che si farà al campo di tutta la Guardia Nazionale, vedete come ingrossa il nostro esercito. E dicono gli austriaci che la nostra polvere non fa fumo, e che le Di fatto la ritirata dei piemontesi si concluse con l’armistizio di Salasco. Il tutore, cioè Carli, risiedeva in campagna e si sentiva continuamente minacciato dalle scorrerie di bande di rapitori e briganti.  

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1848

nostre palle hanno una forza e se entrano solo per breve tratto, pure si muore. Hanno la benedizione di Dio! Qui denari... da non saper più che diavolo invocare e così sia e neanco i frati si sono risparmiati. Quel bravo uomo, signore, che ci era dubbio, fa il suo dovere italianamente e le sue scritture hanno dei sprazzi di fino, italianissimo intendimento. Vicenza è all’ultima miseria, ci fan di tutto e dicono che l’abbian acquistata con il nostro sangue e non sanno dire: rapita. Siccome non potendo parlare le bocche, si facean parlare... i muri e siccome ciò non è lecito, ogni proprietario è obbligato, sotto pena d’immediato arresto e d’essere tradotto innanzi al comando di guerra, di cancellare tutto ogni giornata. Di modo che bisognerebbe stare sempre col pennello in mano. Povera gente... povera davvero! Si dice qui che il Re di Sicilia sia il Duca di Genova, che sia stato riconosciuto dall’Inghilterra e dalla Francia, che un generale Bodin di quest’ultima abbia bombardato il forte di Messina per scacciarne i pochi realisti. Occorrendo, ricordate che il Lombardo e il Veneto devono essere, sono sorelle colla Sicilia; abbian tutte il medesimo aiuto, se il bisogno l’affligge. Il riconoscimento del re di Sicilia e il fatto di Messina affermerebbero il si per questo che chiedo: è vero che, deposti gli odi antichi, la Francia ha fatto alleanza con l’Inghilterra? e che in questa alleanza vi sia compagno il nostro re Alberto? Prego scrivimi di ciò. Le tue lettere da Parigi vengono con abbastanza sollecitudine e suggellate; insomma vengono, ma non partono. La lettera diretta a Bologna mi sarà consegnata, io l’aspetto come un figliuolo assente. Le tue lettere dirette a Padova portino sempre il nome E.S. Fermi, quelle a Bologna abbiano lo stesso nome, è cosa più prudente. Io le farò cercare qui e là, e là con quello e col mio vero nome le farò cercare. Quello della posta di qui dice: l’impiegato della posta non sa a quali confini manda questa lettera, sebbene le sia proibito, pensa che porti vantaggiose comunicazioni. Ed io: sia quell’uomo benedetto. Scrivi e manda ogni volta una riga per il bello e soavissimo paesino e due righe per il nostro buon papà della pilla del riso. Ti ricordi di quel giorno e di quell’ora? Fino adesso io me ne ram-

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La pilla è la macchina, funzionante a vapore, per la sgusciatura e brillatura del riso.

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Lettere di Ottavia Arici ad Aleardo Aleardi

mento. Se gioie ci aspettano, come avemmo dei dolori, moriremo d’allegrezza. L’Abate ti saluta. Ciò che mi scrivi di affari, cioè di questa domanda che ti fo, rispondi sul mezzo foglio che chiude la lettera, in voi, onde lo possa far vedere all’Abate che desidera sapere ciò che dimando. Il resto che vuol sapere la sposa, come alle spose si parla. Adoprerà sempre di quelle custodie per lettera perché servano di riscontro... Noi stiamo bene e questo è pure un dono di Dio, e più lo credo quando te ne posso dar novella. Non mi ammalerò, te lontano, vedrai. de Lamennais è la mia compagnia e assidua cura. Portamene l’originale al tuo ritorno e io te ne darò la traduzione, e tu amorosamente mi sorriderai e mi porrai una mano sul capo. Ora avvicinati che ti baci la faccia tutta quanta, che ti lisci i tuoi capelli biondi, che ti tocchi la svelta persona. Aleardo! Si, per Dio, ti credo e tu in me poni fede. Oh, amiamoci, Dio ci benedirà, Dio mi permette l’amarti, amor mio, in questa reale astinenza di vederci, non provi tu una certa voluttà nel patimento? Si vive coi morti, si vive coi lontani, quando si ama Dio e la patria, ma chi sente bassamente la passione, no. Come gli angeli s’amano, come la tua donna t’idolatro e come una religiosa i figli miei m’intornano, pregano per te, per l’Italia e per gli avi; e toccano con devozione e la croce, il ritratto dell’avo e il tuo e mi baciano, tutti allora ci segniamo: in nome del Padre, del Figliolo e dello Spirito. Tu dunque mi vedi dappertutto? Vedimi nel tuo cuore, ed ogni giorno che fa notte pensa a me, ed ogni volta che vai in chiesa, ed ogni volta torni a casa e quando sei solo con te, quando pensi all’Italia. Pensa a me, poveretta. Se il tuo viver discosto, portasse a noi vantaggio, il vorrei quasi, perché le nostre pene sono orrende, ma poiché a nulla giova, vedi, vedi... Ogni cosa degna opera, o elettissimo ingegno, e più ricco ritorna alla patria, ai parenti e a me. Beato te che conosci da vicino de Lamennais e quel Beranger le cui poesie leggevi col Beppino in una sera di quei sette giorni che fummo là dal Bigio. Beato te che quando rimani tutto solo, sei con la più alta creatura che io conosca. Come s’ameràn gli Italiani dopo aver te conosciuto! E qual conto si terrà di te! Vedi io sento una

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Si tratta dell’opera polemica di Lamennais, Parole di un credente (1834).

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gioia che solo si addice a madre, a sorella. Oh che sia madre, figlia, o sorella, o sposa, purché sia tua! Il Santo era infastidito dal caldo, io suggerii di farsi tagliare i capelli; ei mi rispose: “No, perché al Siocco grande non piacerei più”. Poverino! Ed il tuo bacio... lungo fino a che tu ritornerai. È la prima volta che io lo vorrei piccino, piccino. Un sogno mi è parso il passato, un sogno il presente, anche l’avvenire un sogno. Che sarà mai? Chiedilo a quel profeta dei nostri tempi, a quel santo vecchio le cui mani tu bagnasti di pianto: quando la nostra terra sarà libera? Quando torneranno i mariti alle spose, i figli alle madri, i padri ai bambini, che nell’assenza scorderanno le sembianze? Abbracciami, qua sul mio cuore riposa, o anima d’angiolo; fiori sieno sparsi, dove tu passi, e corona d’alloro accerchi la tua testa. Oh, ch’io t’accerchi delle mie braccia! E di G.T. non mi dici mai nulla? Perché? Non vivi spesso assieme? Guardami, i tuoi sentimenti accenna, ch’io capisco di volo tutto di te. Già dal 12 agosto Gar è partito per Venezia. Anche Aleardi vuole lasciare Parigi. Ne chiede licenza al Manin con una lettera dell’8 agosto.

[Ottavia ad Aleardo, s.d.] Mio angiolo Come dagli oppressi si ama la libertà, così io ti desidero. Mia creatura, tu che sai tutto, fa che io impari a dirti come ti ami; dì ch’io ti ascolterò, proprio ciò che indica ciò tutto che grandemente sento; ed io tel dirò e colle mani in atto di chi prega, poi ti ringrazierò... Sai ho peccato: ho tagliato fuori dalla lettera del Bigio quella bandierina, gli ho scritto, e gli ho chiesto scusa, ed ei mi perdonerà. Io l’ho baciata, e l’ho posta sotto il vetro che difende la tua santa immagine. Oh belli in eterno questi nostri colori!   

Si tratta di de Lamennais. G.T. è Tommaso Gar. Il tutore, più sopra, Luigi Carli. Solo in UM, II, XX, pp. 95-96.

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Ottavia, una giovane signora trentenne, figlia di Cesare Arici, noto letterato bresciano, dopo l’abbandono del marito, fuggito con un’altra donna, vive in ristrettezze con i tre figlioli ancora piccoli, a Padova, nel quartiere dei Carmini, affittando stanze agli studenti. Una sera di dicembre del 1846 una carrozza si ferma davanti alla sua casa: l’ospite è Aleardo Aleardi, il poeta già famoso che ha lasciato Verona e un amore tormentato. Tra il poeta di chiara fama per i suoi versi e per i sentimenti antiaustriaci, biondo e bellissimo, e la solitaria Ottavia nasce una passione intensa e per Ottavia fatale, destinata a segnare tutto il resto della sua vita. Quando Aleardo, coinvolto nella rivoluzione antiaustriaca, vive per due anni in esilio (1848-1849), Ottavia, dalla sua casa di Padova, gli scrive lunghe lettere quasi ogni giorno. In quei fogli c’è la loro storia d’amore, ma anche le vicende della guerra, il vissuto quotidiano, le notizie dei parenti e degli amici patrioti, quasi sempre rimasti negli annali della storia, tutti coinvolti nella tempesta che travolse l’Italia e il Lombardo-Veneto nei due anni cruciali, 1848-1849, del nostro Risorgimento. Il volume restituisce il testo originale, inedito, delle lettere di Ottavia, precedentemente ridotto ed epurato perché ritenuto troppo sincero e quindi lesivo del buon nome di una signora, facendoci ascoltare “in diretta” una delle rarissime confessioni d’amore femminili del nostro Ottocento. Paola Azzolini, italianista, ha pubblicato una serie di studi su Manzoni, Alfieri, Capuana (Liguori, 1988), un volume sulle scrittrici italiane del Novecento (Bulzoni, 2001), un commento alle Poesie e alle Tragedie di Manzoni (Marsilio, 1992), vari contributi allo studio della letteratura veronese. Ha curato, insieme a Daniela Brunelli, Leggere le voci. Storia di Lucciola, rivista manoscritta al femminile (Bonnard, 2007). Collabora a «Lettere italiane», «L’immagine», «Studi novecenteschi». Con il Poligrafo ha pubblicato Di silenzio e d’ombra. Scrittura e identità femminile nel Novecento italiano (2012) e ha curato, insieme a Patrizia Zambon, l’edizione del romanzo Maria Zef di Paola Drigo (2011).

in copertina Eugene von Blaas, The Love letter, 1870 ca collezione privata

e ,

ISBN ----


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