Annuario ABAV, 2011, Accademia & Biennale. Passato, presente e futuro

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ANNUARIO

ACCADEMIA di BELLE ARTI di VENEZIA

Accademia & Biennale

Passato, presente e futuro

ILPOLIGRAFO



Accademia di Belle Arti di Venezia



ABAV ILPOLIGRAFO

annuario accademia di belle arti di venezia a cura di Alberto Giorgio Cassani

Accademia & Biennale

Passato, presente e futuro

2011


Annuario dell’Accademia di Belle Arti di Venezia a cura di Alberto Giorgio Cassani Annuario/Annuary 2011 Accademia & Biennale. Passato, presente e futuro Accademia & Biennale. Past, Present and Future per la realizzazione di questo numero si ringraziano in particolare Giulio Alessandri, Marta Allegri, Pierluigi Baldan Elisa Bertaglia, Pietro Cazzetta, Chen Bo, Gabriele Coassin Bice Curiger, Michele Dalosio, Angela Tiziana Di Noia, Carlo Di Raco Alessio Di Stefano, Elena Favaro, Carlo Federici, Diana Ferrara Alice Fontanelli, Eva Gatto, Elisabetta Marini, Manuela Mocellin Carlo Montanaro, Luigino Rossi, Laura Safred, Jennifer Salvadori Sileno Salvagnini, Franco Tagliapietra, Erilde Terenzoni Veronica Tronnolone, Atej Tutta, Gloria Vallese, Evelina Piera Zanon referenze fotografiche Le immagini riprodotte provengono dall’Archivio fotografico dell’Accademia e dagli archivi personali degli Autori, salvo dove diversamente indicato. Si ringraziano: Andras Nagy per le immagini pubblicate nel contributo di Bice Curiger e nella sezione “Eventi”; Stefano Bullo, Mattia Maragno, Simon Perathoner e Nežka Zamar per le immagini pubblicate nel contributo di Carlo Di Raco; Lorenzo Scaramella per la concessione dell’immagine pubblicata a p. 277 del testo di Alessandro Di Chiara

progetto grafico Il Poligrafo casa editrice Laura Rigon Copyright © settembre 2012 Accademia di Belle Arti di Venezia Il Poligrafo casa editrice Il Poligrafo casa editrice srl 35121 Padova piazza Eremitani - via Cassan, 34 tel. 049 8360887 - fax 049 8360864 e-mail casaeditrice@poligrafo.it ISBN 978-88-7115-782-5


Indice

13 Editoriale Alberto Giorgio Cassani 15 Presentazione Luigino Rossi 17 Presentazione Carlo Di Raco 19 ILLUMInazioni/ILLUMInations Bice Curiger dossier

Accademia & Biennale

Passato, presente e futuro 27 Joan Miró e la Biennale 1954 Sileno Salvagnini 41 Vittorio Pica. La successione ad Antonio Fradeletto attraverso la Biennale del 1914 Elena Manente 59 Origini della Pop Art inglese. Herbert Read ed Eduardo Paolozzi nei documenti conservati all’ASAC di Venezia Cristina Paltani 75 Una stagione singolare. L’arte contemporanea al Lido di Venezia nei primi decenni del Novecento Franco Tagliapietra 91 Una dannunziana invocazione al Fuoco. Amedeo Modigliani e Gabriele D’Annunzio Stefano Zampieri


107 Il film d’arte, il film d’artista, il film sull’arte e la Biennale di Venezia Carlo Montanaro 119 «Atelier Aperti», «Controluce», «Work in Progress». Le partecipazioni dell’Accademia di Belle Arti di Venezia alla 51. Biennale Arte del 2005 Gloria Vallese 133 Biennale Arte 2011. Le Accademie di Belle Arti alle Tese di San Cristoforo Carlo Di Raco saggi e studi 153 Un leone acquattato. Considerazioni sull’emblema e logo dell’Accademia di Belle Arti di Venezia Alfred Gutiérrez-Kavanagh 171 Il luogo teatrale. Dalla scena fantastica dei teleri di Vittore Carpaccio al nuovo spazio del teatro rinascimentale Ivana D’Agostino 201 Le bambole, mezzo e diffusione di moda nel secolo XVI Marco Tosa 219 Rifugi per bambini. Il Village sans frontières di Chen Zhen Alberto Giorgio Cassani 2 45 Quello Sconosciuto di Riccardo Caporossi. Riflessioni intorno a disegni inediti di Caporossi per lo spettacolo Sconosciuto Natalia Antonioli 263 Aphoriasmi. 8 Aforismi e aporie da un diario acritico Giulio Alessandri 273 Antinomie del bello Alessandro Di Chiara dipartimenti

2 87 Restauro del contemporaneo o restauro contemporaneo? Dal restauro alla riparazione, epigono materialista Vanni Tiozzo 307 Fragili pieghe: tra storia, disegno e incisione. L’opera-libro di Lorenza Troian Nedda Bonini, Diana Ferrara


315 Della luce di oggi. Riflessioni sul corso di Marta Allegri, Esercizi sulla luce Riccardo Caldura fondo storico, archivio, biblioteca, progetto tesi, progetti europei

325 “Alla speranza delle Belle Arti”. La biblioteca di Apostolo Zeno nel Fondo Storico dell’Accademia di Belle Arti di Venezia Angela Munari 337 Carlo d’Aquino, Vocabularium architecturæ ædificatoriæ, Antonio De Rossi, 1734 Aureliano Mostini 341 Le Effigi della Pinacoteca Corneliana e l’Accademia di Belle Arti di Venezia. Attività di ricerca e progettazioni multimediali per ArtNight 2011 Gloria Vallese 359 Il patrimonio storico, artistico, documentale dell’Accademia di Belle Arti di Venezia. Tra conservazione e promozione Erilde Terenzoni 365 I progetti di Guido Cirilli conservati presso l’Archivio Storico dell’Accademia di Belle Arti di Venezia Evelina Piera Zanon 379 Il restauro dei registri Matricole generali degli alunni dell’Accademia di Belle Arti di Venezia Evelina Piera Zanon, Pierangelo Massetti 383 “La materia del bene culturale”. Prevenzione, tutela e valorizzazione di un volume antico conservato nel Fondo Storico dell’Accademia di Belle Arti di Venezia Carlo Federici 385 Progetto tesi. Dai documenti conservati nel Fondo Storico dell’Accademia di Belle Arti di Venezia, anno accademico 2010-2011 Lorenza Troian 395 Il progetto Creatività, progetti e professioni per l’inserimento dei diplomati dell’Accademia nel mercato del lavoro artistico Laura Safred 401 Lavorare allo ZKM Centro per le Arti e i Media a Karlsruhe Valeria Cozzarini


eventi

413 Eventi 2011 Mostre, workshop, convegni, conferenze a cura di Eva Gatto appendici

461 Riassunti 473 Abstracts 487 Autori 491 Indice dei nomi


Editoriale L’«Annuario» dell’Accademia di Belle Arti di Venezia – che con questa nuova stagione vuole riprendere idealmente una prassi comune, in passato, da parte delle Accademie – intende far conoscere l’attività di ricerca svolta dalla nostra Istituzione all’esterno, non solo alle gemelle istituzioni italiane ed europee (in gran parte opportunamente inserite, a pieno titolo, nel sistema universitario), ma anche ad un pubblico più vasto di operatori culturali del settore delle arti visive. L’«Annuario» è organizzato in cinque sezioni: la prima, «Dossier», affronta un tema specifico dell’ambito dell’arte; la seconda, «Saggi e studi», ha carattere più miscellaneo; la terza, «Dipartimenti», aggiorna sulla didattica e sulla ricerca artistica svolta all’interno dell’Accademia; la quarta, «Fondo storico, Archivio e Biblioteca», informa sul patrimonio documentario custodito in Accademia e sugli studi e tesi ad esso dedicati; l’ultima sezione, «Eventi», è dedicata a convegni, conferenze e mostre organizzate dall’Accademia, che vedono coinvolti docenti e discenti. Se l’«Annuario» accoglie principalmente i contributi dei docenti dell’Accademia di Venezia, intende però ospitare al suo interno anche testi di studiosi di chiara fama provenienti da altre istituzioni, accademie italiane e straniere, università e istituzioni culturali (musei, biblioteche ecc.). Sua ambizione, infatti, è quella di costituire il “luogo di incontro” di esperienze, culture e saperi non ristretti alla secolare Istituzione veneziana, che accolga un orizzonte più vasto, che oggi non può essere che quello europeo e internazionale. Cercando di smentire la pur magistrale affermazione di Friedrich Nietzsche delle «cento profonde solitudini» che formano l’immagine di Venezia e che pur costituiscono «il suo incanto», vorremmo che, per quel che riguarda l’Accademia di Belle Arti di Venezia, l’«immagine per gli uomini del futuro» fosse invece quella di un arcipelago di saperi in dialogo tra loro.

Alberto Giorgio Cassani



In un mondo globalizzato in cui più esasperata è la sfida economica, credo debbano essere sempre maggiori gli sforzi di istituzioni culturali come l’Accademia di Belle Arti di Venezia, che ho l’onore di presiedere, nel recuperare la propria originaria vocazione di promotrici di cultura. Che non è orpello, un vuoto contenitore di cui ci si possa privare nei momenti di crisi, ma semmai l’elemento che può costituire, per l’Italia, quel quid in più che la distingua dalle altre nazioni. Per questo uno strumento come l’«Annuario», che dall’anno scorso si è deciso di ripristinare, può essere assai utile non solo per esibire al pubblico le molteplici attività che l’Accademia svolge, ma anche, se non soprattutto, nell’ottica della conservazione di quanto si attua, per documentare nel tempo ciò che si è fatto. Se non possedessimo infatti – e ciò costituisce, a livello micro, quello che più in generale è stato fatto lungo i secoli in ogni parte d’Italia, e che consente a quest’ultima di vivere quasi di rendita – le testimonianze del nostro passato – documenti, incisioni, disegni, libri, dipinti, gessi e così via, che gli anonimi nostri antenati hanno capillarmente raccolto, e che rappresentano l’eredità più vera dell’Accademia – ora saremmo senza memoria, privi di un tesoro che invece abbiamo. E quindi, lo ribadisco, occorre cura nel raccogliere dal presente affinché in futuro anche i nostri pronipoti ne possano godere. Luigino Rossi presidente dell’Accademia di Belle Arti di Venezia



L’Accademia di Belle Arti di Venezia, come sede primaria di alta formazione artistica e di ricerca, si propone di favorire lo sviluppo di un clima di apertura, che consenta ai giovani artisti e ai docenti che operano nella nostra Istituzione di confrontare costantemente gli esiti della propria ricerca con la produzione artistica e scientifica contemporanea. A tal fine, l’Istituzione si impegna nella realizzazione di iniziative espositive ed editoriali rivolte a evidenziare la vitalità della produzione artistica ideata nei Laboratori e a promuovere tutte le attività di studio e approfondimento sviluppate nell’Accademia. La nuova edizione dell’Annuario rappresenta un momento altamente significativo per la nostra Istituzione, offrendo un riferimento fondamentale per la valorizzazione delle attività dell’Accademia. Per la realizzazione di questo numero dell’Annuario si ringraziano, insieme al Presidente Luigino Rossi e ad Alberto Giorgio Cassani, tutti i docenti, gli studiosi e i giovani artisti che hanno offerto il proprio prezioso contributo; un ringraziamento particolare a Bice Curiger e alla Biennale di Venezia, che conferma la propria disponibilità istituzionale a collaborare con la nostra Accademia. Carlo Di Raco direttore dell’Accademia di Belle Arti di Venezia



dossier Accademia & Biennale Passato, presente e futuro



Sileno Salvagnini

Joan Miró e la Biennale 1954 *

Il momento di maggior successo dell’artista catalano in Italia, pressoché ignorato durante il ventennio fascista, fu in occasione della Biennale del 1954, quando venne allestita la mostra di Arp, Ernst e, appunto, Miró. L’idea di approntare una grande mostra sul Surrealismo accarezzò in realtà la Biennale dal secondo dopoguerra, come osserva Maria Cristina Bandera, venendo spostata nel tempo e mutata nella sostanza più volte. In particolare il Comitato di Esperti, nella seduta del 1 ottobre 1951, vista anche la difficoltà organizzativa, decise di «rinviare alla prossima Biennale [sc. 1954] le progettate mostre del Dadismo [sic], del Surrealismo, e quindi anche le mostre di Miró, Max Ernst ecc., nonché la mostra dell’Astrattismo, che potrebbero essere stabilite per l’edizione del 1954». Interessanti le considerazioni che furono fatte in occasione dell’inaugurazione della XXVI Biennale 1952: «Approfittando della presenza a Venezia della maggior parte dei membri del Comitato Internazionale di Esperti» – scrisse il presidente Giovanni Ponti – si decise di proporre «il piano generale per la parte culturale e storica della XXVII Biennale». Erano presenti Max Huggler, Gino Severini, Carlo Alberto Petrucci, Raymond Cogniat, Eberhard Hanfstaengl, Willem Jacob Henri Berend Sandberg, Pericle Fazzini. Si propose di fare mostre di Courbet, De Nittis, Munch e del surrealismo, partendo da precursori o ritenuti tali come «Blake,

* Il testo presente riprende parzialmente un saggio, dall’analogo titolo, che ho scritto per la mostra I giganti dell’Avanguardia. Miró, Mondrian, Calder e le Collezioni Guggenheim, catalogo della mostra (Vercelli, Arca di Vercelli, Chiesa di San Marco, 2 marzo - 10 giugno 2012), a cura di L.M. Barbero, Milano, Silvana Editoriale, 2012, pp. 57-92, organizzata dalla Peggy Guggenheim Collection di Venezia, che qui ringrazio. Ringrazio altresì l’Archivio Storico delle Arti Contemporanee La Biennale di Venezia per avermi gentilmente concesso le immagini riprodotte in questo testo. 1 Vedi M.C. Bandera, Il carteggio Longhi-Pallucchini. Le prime Biennali del dopoguerra 1948-1956, Milano, Charta, 1999, pp. 29 sgg.  Vedi Serie Arti Visive, b. 47, fasc. Piano XXVI Esposizione Biennale, ASAC, Venezia.


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sileno salvagnini

Füsli [sic], Odilon Redon, Félicien Rops», per seguire con surrealisti storici come «Dalí, Ernst, Masson, Picabia, Picasso, Magritte, Delvaux, Arp, Moore, Marcel Duchamp ecc.». Le risposte furono per lo più favorevoli. Per esempio, nella lettera del 3 agosto 1952, il direttore del Kunstmuseum di Berna Huggler si disse «interamente d’accordo e se la realizzazione fosse possibile, avremmo una mostra molto interessante». Una delle risposte più acute ed articolate fu quella di James Thrall Soby, che si dichiarò d’accordo sull’idea di fare una mostra su Courbet e Munch, mentre per De Nittis si limitò ad osservare di non conoscerlo abbastanza per emettere giudizi. Ottima a suo giudizio anche la mostra dei surrealisti, in merito alla quale osservò: Fra i precursori (XIX secolo) spero che vorrà includere Max Klinger, le cui stampe sono state ammirate assai da de Chirico e Max Ernst, e precorrono i surrealisti specie nell’uso del collage. Gli antecedenti tedeschi del surrealismo tendono [infatti] ad essere alquanto trascurati, e una piccola sezione di stampe del XIX secolo contribuirebbe ad eliminare questa mancanza. Quanto ai moderni, ci vorrebbe naturalmente un grande gruppo del primo de Chirico [...].

Le proposte divennero definitive con sostanziali cambiamenti nell’autunno del 1953, come si legge in una serie di lettere che Pallucchini scrisse al comitato di esperti, spiegando che si era optato per una mostra di soli tre artisti del Surrealismo, accompagnata da altre nei padiglioni dei singoli Paesi. Le lettere, pur simili, presentano alcune differenze. Prendiamo quella inviata a Longhi il 9 gennaio 1954: Faccio seguito alla mia lettera del 29 ottobre u.s. per informarti che il primitivo progetto della mostra storica del Surrealismo è stato modificato per varie ragioni, non ultima quella dello spazio limitatissimo data l’espansione della sezione italiana contemporanea, in una mostra di Ernst e una di Miró. Abbiamo consigliato ai vari paesi stranieri di presentare nei loro padiglioni o nelle sale che mettiamo a disposizione almeno alcuni degli esempi più notevoli del gusto surrealista che si distinguono nella loro cultura artistica. In sostanza, possiamo prevedere che il Belgio presenterà Magritte, Delvaux, Frits van der [sic: den] Berghe; la Francia Masson e Labisse; gli Stati Uniti Tanguy; la Germania Klee, la Spagna Dalì. In questo modo, uno dei tempi su cui si articolerà la prossima Biennale potrà essere il Surrealismo. La mostra di Miró dovrebbe trovare posto nella sala 46, dove la volta scorsa era Kokoschka; Ernst nella sala 45 dove la volta scorsa si trovava la Svezia. Abbiamo ancor a disposizione la sala 44 e il porticato 43 dove la volta scorsa era la Norvegia. Si tratta di uno spazio limitato dove pensavamo di ordinare una piccola mostra di Arp. Vorrei ora sentire la  Copia lettera dattiloscritta, in inglese, firmata dal presidente Giovanni Ponti, indirizzata a James Thrall Soby, datata 24 luglio 1954, ASAC, Serie Arti Visive, b. 58, fasc. Risultati della seduta del comitato Internazionale di esperti tenutasi il 15 giugno 1952. Proposte per la Biennale 1954.  Lettera dattiloscritta, su carta intestata «Berner Kunstmuseum», datata «Berna, 28 agosto 1952», ibid.  Lettera dattiloscritta, su carta intestata «The Museum of Modern Art New York», datata «July 31, 1952», ibid.


joan mirÓ e la biennale 1954

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tua opinione al fine di decidere al più presto sul completamento di questa rassegna, tenendo presente che Arp fu comunque presentato nel 1950 con cinque opere [...].

Naturalmente Pallucchini era una sorta di dittatore diplomatico della Biennale, per cui, se in quella a Longhi dava per scontato che Ernst e Miró fossero presenti chiedendo in sostanza il solo parere di Longhi su Arp, diverse erano le parti finali di quelle inviate agli altri del comitato. Ad esempio, a Paul Fierens, responsabile per il Belgio, scriveva: «In sostanza, noi possiamo già prevedere che il Belgio, dopo una breve introduzione di opere di Bosch, Bruegel ecc., presenterà Magritte [...] [seguono le stesse locuzioni della lettera a Longhi]». E ancora, verso la fine: Vi sarei assai riconoscente [sapere] se approvate che due delle tre sale di cui si può disporre nel padiglione centrale, e che sarebbero destinate al Surrealismo, siano date a Miró e ad Ernst. Per quanto riguarda Arp, sarei assai felice avere le vostre impressioni, ed eventualmente, la segnalazione dell’artista con cui gradireste sostituirlo [...].

Interessante ancora una volta la risposta di James Thrall Soby, che fra l’altro scriveva: Poiché non c’è spazio per documentare il Surrealismo da un punto di vista storico, penso abbiate fatto una scelta saggia su Ernst e Miró [nella traduzione allegata i nomi vengono invertiti, per cui si cambia completamente il significato], anche se quest’ultimo obietterà d’essere classificato come un surrealista, laddove, come sa, non è mai stato membro ufficiale del movimento. Ma Mirò a mio giudizio è il miglior artista della generazione di mezzo legata al Surrealismo e Ernst fu certamente una delle sue figure più importanti e significative, quindi merita largamente tale esposizione.

Non tutti però erano completamente d’accordo sulle scelte di Pallucchini; fra questi, Giulio Carlo Argan e, almeno in parte, Roberto Longhi. Il primo scris-

Copia lettera dattiloscritta del 9 gennaio 1954, riportata in M.C. Bandera, Il carteggio Longhi-Pallucchini..., cit., p. 193.  Copia lettera datata «Venise, le 16 Novembre 1953», indirizzata a «Prof. Paul Fierens, Conservateur en chef des Musées Royaux des Beaux Arts de Belgique, 9, rue de Musée, Bruxelles», ASAC, Serie Arti Visive, b. 58, fasc. Comitato internazionale di esperti, trad. mia. Nella risposta del 1 dicembre, Fierens dichiarò d’essere «completamente d’accordo con voi sul contenuto della vostra lettera»; lettera su carta intestata «Museée Royaux des Beaux - Arts del Belgique - Cabinet du Conservateur en chef», ibid.  Lettera su carta intestata «James Thrall Soby - 36 East 72nd Street, New York, 21, N.Y», datata «nov. 21, 1953», ibid. Da notare che la lettera poi proseguiva con altre interessanti osservazioni: Soby conveniva con Pallucchini sulla scelta di Tanguy, ma avanzava riserve sulla capacità del padiglione degli Stati Uniti di organizzare una mostra con altri artisti surrealisti in quanto «il Surrealismo è stato molto ammirato qui [...] ma ha dato pochissime opere veramente surrealiste di grande interesse e probabilmente il nostro più puro surrealista non è stato un pittore bensì un creatore di oggetti surrealisti – Joseph Cornell», di cui si poteva trovare traccia nel catalogo ristampato nel 1947 di Fantastic Art, Dada, Surrealism, ed. by A.H. Barr, essays by Georges Hugnet, New York, The Museum of Modern Art. Quanto a Man Ray, «è stato importante ma a quell’epoca viveva a Parigi». Soby chiudeva invitando Tanguy a inserire almeno qualche quadro di de Chirico, che aveva avuto un peso determinante su artisti come Magritte, Ernst «ed altri nell’Europa centrale». 


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sileno salvagnini

1. Lettera del direttore del Philadelphia Museum of Art Henry Clifford al segretario generale della Biennale di Venezia Rodolfo Pallucchini, 15 aprile 1954, ASAC, Venezia.


joan mirÓ e la biennale 1954

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2. Lettera dell’ispettore della Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti Giulio Carlo Argan a Rodolfo Pallucchini, 15 febbraio 1954, ASAC, Venezia.


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sileno salvagnini

3. Una delle litografie a colori presentate da Joan Miró alla Biennale del 1954, ASAC, Venezia.


joan mirÓ e la biennale 1954

4. Joan Miró, Il carnevale d’Arlecchino, 1924-1925, olio su tela, Buffalo, Albright-Knox Art Gallery, opera esposta alla Biennale 1954.

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carlo montanaro

1. Pubblicità del film Thais, di Anton Giulio Bragaglia, del 1917, nella rivista «Arte muta»,

I, 2, 31 dicembre 1916.


il film d’arte, il film d’artista, il film sull’arte e la biennale di venezia

2. Il manifesto La cinematografia futurista, Milano, 11 settembre 1916.

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carlo montanaro

3. Marcel Duchamp, originale seriale in stampa litografica del 1935 (Rotorelief Nr. 8, Cerceaux, ∅ cm 20), identico a quello usato nel film Anémic Cinéma, 1926.


il film d’arte, il film d’artista, il film sull’arte e la biennale di venezia

4. Opuscolo originale del film Dreams that money can buy, di Hans Richter, del 1947.

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Il luogo teatrale

Ivana D’Agostino

Dalla scena fantastica dei teleri di Vittore Carpaccio al nuovo spazio del teatro rinascimentale L’approfondita e fondamentale lettura iconologica a cui Ludovico Zorzi ha sottoposto l’analisi dei nove teleri di Vittore Carpaccio dipinti nell’arco temporale di circa dieci anni (1490-1498) sulla vita di sant’Orsola per l’omonima Scuola veneziana, oltre a sottolineare la fonte primigenia nel volgarizzamento di Niccolò Manerbi, coevo del testo latino della Legenda aurea di Jacopo da Varagine della fine del XIII secolo, rileva, soprattutto, la parzialità con cui la tradizione storiografica aveva visto fino ad allora (1988), nel dipanarsi della “storia della santa per immagini”, il prevalente influsso delle sacre rappresentazioni del tempo. Avendo lo studioso ricostruito l’originaria disposizione dei teleri lungo le pareti della Scuola prima dei rifacimenti seicenteschi a cui fu sottoposta, da qui ne deduceva lo snodo sequenziale di cui avvalersi per apportare anche alcune modifiche sostanziali alla disposizione delle scene carpaccesche, per come sono oggi collocate presso le Gallerie dell’Accademia. Ab origine, invece, i tre teleri  Il testo di Ludovico Zorzi è indispensabile alla comprensione del legame stringente che intercorre tra il racconto delle storie orsoliane di Vittore Carpaccio, i coevi drammi liturgici e le feste laiche delle momarie veneziane. L’elenco dei teleri di sant’Orsola riportato dallo studioso nelle prime pagine del libro – in conformità all’ordine progressivo con cui questi sono oggi mostrati presso le Gallerie dell’Accademia di Venezia, attraverso l’analisi degli episodi interni ai singoli teleri, dei quali costituiscono gli snodi narrativi di trapasso da un telero all’altro, la consultazione delle fonti e l’interpretazione iconologia delle immagini – viene riconvertito, alla fine del libro, in un secondo elenco conforme all’originario ordine sequenziale delle storie, dipinte in ogni caso in tempi cronologicamente diversi rispetto alla successione narrativa. Si riportano di seguito i titoli dei dipinti per come compaiono nell’ordine dell’allestimento delle Gallerie dell’Accademia di Venezia, e secondo l’ordine proposto da Ludovico Zorzi. Di essi non si dà l’analitica suddivisione interna degli episodi, che si cita solo come ordine numerico nel primo elenco. Disposizione attuale dei teleri presso le Gallerie dell’Accademia: 1) Gli ambasciatori inglesi giungono alla corte di Bretagna (2 episodi); 2) Il re di Bretagna congeda gli ambasciatori inglesi (episodio unico); 3) Ritorno degli ambasciatori inglesi alla corte d’Inghilterra (episodio unico); 4) Incontro dei fidanzati e partenza per il pellegrinaggio (4 episodi); 5) Il sogno di sant’Orsola (episodio unico); 6) Incontro dei pellegrini


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ivana d’agostino

delle Ambascerie stavano su di una parete, quello, il più grande, dell’Incontro dei fidanzati e partenza per il pellegrinaggio, era collocato sulla porta d’accesso, i quattro dell’Incontro dei pellegrini col Papa a Roma, Il sogno di sant’Orsola, l’Arrivo di sant’Orsola a Colonia e il Martirio di sant’Orsola e dei pellegrini trovavano posto sulla parete di fronte mentre l’ultimo, il telero/pala d’altare de La Gloria di sant’Orsola, stava sull’altare della sala della Confraternita. Zorzi, avvalendosi poi della datazione dei dipinti, la cui redazione non segue lo snodo logico della storia, suddivise le tele in tre gruppi, dalla cui analisi, confrontata filologicamente con documenti d’archivio e pittorici desunti dalla storia dell’arte e dalla storia del teatro, ne deduceva una complessità d’influenze ben più articolata e polifonica di quelle considerate dagli storici fino a quel momento. Prima di addentrarci nell’interpretazione iconologica dei teleri, raffrontandola con le molteplici espressioni del teatro umanistico del tempo, fiorente nelle corti italiane, sarà bene ricordare quale elemento unificante e preposto alla solennità cerimoniale e paludata sottesa a questo ciclo, come anche agli affreschi della Camera degli sposi a Mantova, ai Mesi di Palazzo Schifanoia a Ferrara e all’Adorazione dei Magi nella Cappella di Palazzo Medici a Firenze, l’assoluta volontà del committente – il principe o il borghese con aspirazioni aristocratiche o, come nel caso di Venezia, certo patriziato veneziano di devozione non solo orsoliana – di celebrarsi pubblicamente attraverso il trionfo di se stesso, del proprio casato, della propria corte, a cui alludono, anche a Venezia, i ritratti dei personaggi illustri, finanziatori del prestigioso apparato di teleri per la Scuola. Sia a Venezia che a Firenze si tratta della messa in scena di un soggetto religioso, lì preso a pretesto per raccontare, insieme al viatico di Orsola, del prestigio di Niccolò Loredan e dei nobili delle Compagnie della Calza, e qui per celebrare come in un corteo pubblico le glorie medicee attraverso una cavalcata sontuosis-

col Papa a Roma (episodio unico); 7) L’arrivo dei pellegrini a Colonia (2 episodi); 8) Il martirio di sant’Orsola e dei pellegrini (2 episodi); 9) La Gloria di sant’Orsola (telero/pala d’altare in un unico episodio). Disposizione dei teleri secondo l’ordine proposto da Ludovico Zorzi: 1) Partenza degli ambasciatori inglesi dalla corte d’Inghilterra (Zorzi ritiene che questo telero non raffiguri la partenza degli ambasciatori dalla Bretagna bensì dall’Inghilterra e argomenta la cosa, non ultimo, attraverso l’analisi dei costumi indossati dai personaggi. In questa logica risulta ovvio l’inizio del racconto da questo telero); 2) Congedo degli ambasciatori inglesi alla corte di Bretagna; 3) Ritorno degli ambasciatori inglesi in Inghilterra; 4) Incontro dei fidanzati e partenza per il pellegrinaggio; 5) Incontro dei pellegrini col Papa a Roma; 6) Il sogno di sant’Orsola; 7) L’arrivo dei pellegrini a Colonia; 8) Il martirio di sant’Orsola e dei pellegrini; 9) La Gloria di sant’Orsola. Cfr. L. Zorzi, Carpaccio e la rappresentazione di Sant’Orsola. Ricerche sulla visualità dello spettacolo nel Quattrocento, Torino, Einaudi, 1988, pp. 7-8 e 133-134.  Malgrado la famiglia de’ Medici a queste date detenesse il potere politico ed economico di Firenze, a cui, a breve avrebbe aggiunto anche il prestigio di due Papi medicei, Leone X (1513-1521) e Clemente VII (1523-1534), lo splendore aristocratico, ultimo traguardo da conquistare, fu raggiunto e consolidato solo più tardi da Cosimo, figlio di Giovanni dalle Bande Nere. Divenuto duca di Firenze nel 1537 nonostante l’appartenenza ad un ramo cadetto della famiglia, il matrimonio con Eleonora di Toledo, figlia del vicerè di Napoli e la successiva elezione a granduca di Toscana col nome di Cosimo I nel 1569, decretano il nuovo corso aristocratico della Casata dei Medici.


dai teleri di vittore carpaccio al teatro rinascimentale

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sima, di cui non siamo così certi che il fine sia esclusivamente quello dell’omaggio dei re orientali al Bambino divino. In entrambi i casi, sebbene il riscontro più stringente con l’affresco fiorentino sia nei teleri delle Ambascerie e in quello dell’Incontro dei fidanzati, non sembra casuale la scelta aristocratica dei soggetti. Orsola è principessa e probabilmente regina, se si accredita un’altra fonte che dà notizia della morte del padre di lei mentre era a Roma, come lo sono i re Magi, la cui origine orientale avvalora l’esibizione lussuosissima di costumi di foggia quattrocentesca alla fiorentina, sebbene risulti più evidente l’influenza della moda francese borgognona. Il dato non sorprende considerato lo stile gotico internazionale di Benozzo Gozzoli, sontuoso e miniaturisticamente descrittivo, incline a raffigurare in modo equivalente, nonostante la destinazione religiosa dell’affresco, la sacralità del trascendente con la parata della famiglia Medici e dei suoi sostenitori. E malgrado siano diversi gli affreschi medicei rispetto alla novità squisitamente veneziana dei teleri, identiche risultano le scelte autocelebrative dei committenti sottese ai soggetti religiosi esposti in luoghi di culto, e la rappresentazione sequenziale degli eventi in snodo paratattico – in questo simile anche ai coevi allestimenti teatrali – per entrambi di ascendenza protoumanistica e cortese. Coerente alle esigenze di committenze aggiornate culturalmente, come lo erano quelle fiorentina e veneziana, significativamente vincolate oltre che dal gusto anche da alleanze politiche e diplomatiche, questo modello stilistico di rappresentazione affermava il loro prestigio acclarandolo universalmente, con uno stile minuziosamente descrittivo e fiabesco in auge presso le corti internazionali. Lo studioso belga Guy de Terverant, attraverso lo studio comparativo di altre fonti storiche del XI e XII secolo con la Legenda aurea, che conosciamo quale ispirazione sostantivante del ciclo orsoliano, mise in evidenza, confrontando i dipinti carpacceschi con altri delle aree settentrionali – essendo Orsola una santa bretone la divulgazione del suo culto risultava più diffusa nell’Italia settentrionale e nel nord Europa – che nessuno di loro, includendovi anche gli affreschi di Tommaso da Modena a Treviso (1355-1357) e il coevo reliquiario di Memling del 1489, presentava quei caratteri di singolarità espressi nelle pitture del Carpaccio. Il taglio così fantasioso ed immaginifico che vi si esprime, oltre ad ispirarsi ai modi agiografici funzionali ad esaltare il significato didattico della storia di Orsola, secondo le caratteristiche della Legenda aurea, che così romanzava anche le altre storie di santi della compilazione, si doveva evidentemente anche ad altre fonti.

 In altre versioni della leggenda di sant’Orsola la principessa bretone è raggiunta a Roma dalla notizia della morte del padre. Tra le opere teatrali ispirate alla storia della santa regina, Ludovico Zorzi (Carpaccio e la rappresentazione di Sant’Orsola..., cit., p. 113 e nota 342) cita da: Il luogo teatrale a Firenze, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Medici-Riccardi, Museo Mediceo, 31 maggio 31 ottobre 1975), a cura di M. Fabbri, E. Garbero Zorzi, A.M. Petrioli Tofani, Milano, Electa, 1975, la messa in scena nel Teatro mediceo de La Regina sant’Orsola di Andrea Salvatori nel 1624 (schede 8.47 e 8.48-8.53 alle pp. 125-128 di E. Garbero Zorzi e A.M. Petrioli Tofani).


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La spettacolarità diffusa dei teleri esprime percettibile un sentore di festa cadenzata da un preciso cerimoniale – ciò si esprime nei teleri delle Ambascerie e dell’Incontro dei fidanzati, sebbene, come vedremo, non ne manchino anche in altri – riflesso di quanto in quegli anni a Venezia le nobili Compagnie della Calza veneziane andavano sontuosamente organizzando, attraverso varie forme di spettacolo: dalla cerimonia di Stato al corteo religioso sfilanti attraverso la scenografia dello spazio urbano, agli spettacoli profani delle momarie, costituiti da corteggi acquatici e viari. L’interesse per la festa profana non esclude l’influenza della sacra rappresentazione, una forma di spettacolo religioso di piazza ancora molto in auge nel Quattrocento, tant’è che proprio in quegli anni, malgrado il divieto del 1462, i frati del monastero dei Santi Giovanni e Paolo, vicini dei confratelli della Scuola di Sant’Orsola, avevano promosso una sacra rappresentazione dedicata alla santa bretone. Una maggiore influenza dallo spettacolo liturgico, più consono ad opere più marcatamente devozionali, si riscontra infatti nei primi teleri dipinti tra il 1490 e il 1493, l’Arrivo di sant’Orsola a Colonia, La Gloria di sant’Orsola e Il Martirio di sant’Orsola e dei pellegrini. Nell’Arrivo di sant’Orsola a Colonia, il primo ad essere eseguito nel 1490, come si deduce dalla mariegola di due anni prima che attivava la raccolta di fondi per questa commessa, la secchezza e precisione xilografica del segno rimandano alla diffusione della stampa a caratteri mobili, avvenuta a Venezia proprio in quegli anni, nonché all’influenza düreriana, mediata dalle xilografie e dal primo viaggio veneziano dell’artista di Norimberga, compiuto nel 1492. L’atmosfera sospesa e fiabesca che vi si coglie e le armature tedesche indossate dai soldati risentono dei romanzi bretoni e dei poemi cavallereschi, la cui influenza fu notevole nelle corti dell’Italia settentrionale. Ad essi, con uno stile calligrafico che ritroveremo anche nel telero del Martirio, Carpaccio uniforma la resa delle tende d’accampamento, delle armi e delle armature degli Unni trucidatori di Orsola e del suo seguito, restituendoci, attraverso una costumistica ed attrezzeria militare a lui contemporanea, l’atmosfera delle giostre e dei tornei. Il costume cavalleresco, inteso come attitudine militare e guerresca dell’aristocrazia medioevale, era stato riconvertito dalla cultura delle corti quattrocentesche nella formula della parata e del corteo, trovando nuove e fastose applicazioni nelle sfilate d’apparato. Così si riscontra alla corte aragonese di Napoli in un torneo di cavalieri abbigliati alla borgognona, e altrettanto documenta l’affresco della Corsa del Palio a Palazzo Schifanoia, celebrativo del trionfo di Borso d’Este e della sua corte. In esso trova forma il modello base della scena ferrarese, risolta come insieme di case contigue su di una tribuna rialzata, non dissimile da quello consolidato Il teatro umanistico ferrarese imposta su palco una scenografia, spesso comune anche al dramma liturgico, costituita da ambienti contigui praticabili, che nell’insieme ricostituiscono l’immagine fittizia di una città. I rimandi con la pittura del tempo, segnatamente con gli affreschi di Palazzo Schifanoia e la suddivisione degli spazi pittorici propria dei polittici medioevali e quattrocen


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dei paratattici luoghi deputati delle sacre rappresentazioni. Ancorché pressoché identici gli impianti della scena ferrarese per la sacra rappresentazione e quelli degli spettacoli laici delle commedie terenziana e plautina o da esse derivate – tanto da considerare possibile nella città estense alla fine del Quattrocento l’uso degli stessi palchi per entrambi gli eventi – emergono tuttavia sostanziali le differenze drammaturgiche. A fronte del “racconto in contemporanea” di episodi che si erano svolti in momenti temporalmente diversi – caratteristica, questa, delle Passioni medioevali, ancora in auge nel Cinquecento, come quella di Valenciennes del 1547, lontanissima dal principio unificante aristotelico –, la narrazione di un’unica storia che si sviluppa nello spazio di una città merlata, il cui prototipo si adombra proprio nelle case contigue della scena ferrarese, segna il punto di distanza dalle sacre rappresentazioni, muovendo il passo verso l’organizzazione coerentemente prospettica a punto di vista centrale, realizzata successivamente dalla rinascimentale scena all’italiana. Oltre che alla parata del torneo, la città proposta dalla scena ferrarese in questi anni si ispira anche all’icona di gusto ancora medioevale – un prototipo più antico è quello dell’immagine di Roma di Cimabue per Assisi – dell’emblema di Roma dipinto nella fascia superiore del mese dedicato a settembre nell’affresco di Palazzo Schifanoia. Della scena così standardizzata a Ferrara nel modello di città schematico con case contigue, sviluppato orizzontalmente sul palco merlato che finge una cinta muraria, troviamo riscontro nei Mænechmi, recitati in volgare per i festeggiamenti promossi da Borso d’Este nel carnevale del 1486, trovando impiego anche oltre questa data nella Betìa di Ruzante del 1525. La pubblicazione della prima edizione a stampa di Vitruvio nel 1486, curata da Sulpizio da Veroli e dedicata significativamente all’umanista cardinale Raffaele Riario, preceduta dalla pubblicazione postuma del De re ædificatoria dell’architettotrattatista Leon Battista Alberti, già dalla metà degli anni Cinquanta attivo nel programma di riqualificazione umanistica delle corti di Rimini e Mantova, danno allo studio dell’architettura classica una base più sistematica, rispetto agli approcci medioevali, con l’applicazione della nuova scienza prospettica, degli ordini classici e del canone di proporzionamento spaziale. Da qui il nuovo volto della città ideale: Ferrara conquisterà la leadership di “prima città moderna d’Europa” realizzando con Biagio Rossetti una nuova urbanistica con le addizioni erculea e di Borso d’Este. Esperimenti analoghi, finalizzati a qualificare in modo nuovo lo spazio urbano mediando tra la città esistente e i modelli vitruviani riconsiderati dalla trattatistica contemporanea, si riscontrano inoltre ad Urbino, a Pienza e a Firenze. teschi, sono attentamente analizzati in L. Zorzi, Il teatro e la città. Saggi sulla scena italiana, Torino, Einaudi, 1977, pp. 13-26. L’argomento è trattato anche da A. Chastel, Vedute urbane dipinte e teatro, in Teatro e cultura della rappresentazione. Lo spettacolo in Italia nel Quattrocento, a cura di R. Guarino, Bologna, il Mulino, 1988, pp. 289-299. La scena ferrarese è considerata anche in F. Perrelli, Storia della scenografia dall’antichità al Novecento, Roma, Carocci, 2002, pp. 45-49; S. Sinisi, I. Innamorati, Storia del teatro. Lo spazio scenico dai Greci alle Avanguardie, Milano, Mondadori, 2003, p. 76.


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1. Vittore Carpaccio, Incontro dei fidanzati e partenza per il pellegrinaggio, 1495, tela, cm 279 × 610, Venezia, Gallerie dell’Accademia.


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2. Benozzo Gozzoli, La cavalcata dei re Magi, part., 1460, affresco, Firenze, Palazzo Medici, Cappella dei Magi.

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3. Francesco del Cossa, Corsa del Palio, part. del mese di Aprile, 1471, affresco, Ferrara, Palazzo Schifanoia. 4. Scena della Passione di Valenciennes, miniatura di Hubert Cailleau, 1547, Parigi, Biblioteca Nazionale. 5. Vittore Carpaccio, Arrivo di Sant’Orsola a Colonia, 1490, cm 279 × 254, tela, Venezia, Gallerie dell’Accademia. 6. Scena multipla della Betìa di Ruzante, 1525 ca, Venezia, Biblioteca Marciana.

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7. Vittore Carpaccio, Commiato degli ambasciatori inglesi dalla corte di Bretagna, 1497-1498, tela, cm 278 × 589, Venezia, Gallerie dell’Accademia. 8. Vittore Carpaccio, Commiato degli ambasciatori inglesi dalla corte di Bretagna, part. di Sant’Orsola nella sua stanza con il padre e la nutrice seduta fuori dalla scena, 1497-1498, Venezia, Gallerie dell’Accademia. 9. Vittore Carpaccio, Ritorno degli ambasciatori alla corte d’Inghilterra, 1497-1498, tela, cm 297 × 526, Venezia, Gallerie dell’Accademia.

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10. Vittore Carpaccio, Incontro dei pellegrini con papa Ciriaco sotto le mura di Roma, 1493, tela, cm 279 × 305, Venezia, Gallerie dell’Accademia. 11. Doge con portatore di ombrello dogale in un corteo cerimoniale a Venezia nel XVI secolo. 12. Vittore Carpaccio, Partenza degli ambasciatori dalla corte d’Inghilterra, 1497-1498, tela, cm 281 × 252, Venezia, Gallerie dell’Accademia.

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Della luce di oggi

Riccardo Caldura

Riflessioni sul corso di Marta Allegri, Esercizi sulla luce Proporre come nucleo dell’attività didattica per un corso di tecniche plastiche il problema della luce, assumendola sia nelle sue declinazioni naturali e artificiali, significa ritrovare il senso non solo pratico e operativo, ma anche concettuale di un lavoro con lo spazio e nello spazio. La luce è ciò verso cui abbiamo poca o nulla capacità di osservazione, essendo il mezzo più pervasivo della nostra relazione con il mondo. La stessa abitudine che abbiamo con lo strumento fotografico non ci rende più consapevoli, anzi semmai il contrario, della presenza della luce e soprattutto di come questa possa essere oggetto non solo di osservazione, ma trasformarsi in una “materia” plasmabile. L’estrema diffusione della fotografia rischia di produrre piuttosto un qualche ottundimento rispetto alla nostra capacità di avvertire il fenomeno luminoso, ed è per questo che un lavoro sulla luce, può, come è stato effettivamente fatto, prendere le distanze dal mezzo fotografico, per ritrovarne quelle condizioni, antecedenti allo sviluppo di conservazione dell’immagine, che si basavano piuttosto sull’analisi degli effetti prodotti dal foro stenopeico, cioè su quel che accade fra un esterno luminoso e un interno oscurato. Poter lavorare con la luce implica partire da quel che di più pervasivo e immateriale ci circonda e cercare il modo di renderne avvertibile la presenza. Dunque è dal “qui e ora” della nostra condizione che si può ripartire, dall’osservare ciò che abbiamo intorno prestando attenzione, assumendo consapevolezza, verso ciò che ci permette l’osservazione stessa. Trovare i modi di sperimentare la nostra relazione con la luce significa partire dal “tutto pieno”, dalla pervasività luminosa nella quale siamo immersi operando per sottrazione: la luce è visibile soprattutto nel suo venir meno. La luce è visibile, sperimentabile, plasmabile, sottoponendola ad un processo di sottrazione. Lavorare con la luce vuol dire limitarne l’ubiquità, alfine di evidenziarne le proprietà e restituirne la residua visibilità in una qualche forma. Ed è questo processo di evidenziazione, per sottrazione, della luce che rende molto coerente averla posta al centro di un corso di tecniche plastiche: la forma scultorea, clas-


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sicamente intesa, si produce anch’essa per sottrazione di materia. Poter lavorare con la luce significa ricondurre il lavoro stesso a elementi costitutivi primari: la percezione e l’esperienza personale, la relazione fra luce e oscurità, fra esterno e interno, fra naturale e artificiale. La varietà di soluzioni formali che sono state esplorate e compiutamente proposte durante le varie fasi laboratoriali sono tenute insieme da una ricerca di tangibilità, di contatto, con una “materia” la cui complessità di aspetti che vi sono inclusi può irretire. Basti pensare cosa implica parlare di luce rispetto alla storia dell’arte, alla filosofia o alla teologia. Un orizzonte, questo, riprendendo l’osservazione sconsolata di uno storico come Hans Sedlmayr, che probabilmente non è più il nostro. Un processo profondo di «distacco dalla trascendenza» e il conseguente isolarsi nella sola immanenza, hanno avuto, come scrive ancora Sedlmayr, «gravi ripercussioni sia sull’esperienza della luce che sul suo concepimento artistico». L’esito di questo processo sarebbe la «perdita della trasparenza», a cui corrisponde una opacità della materia cromatica, e il rovesciamento di quella che per secoli era stata la naturale primazia della luce rispetto al colore, e non il contrario. «Da Cézanne in poi la luce viene, per così dire, ingoiata dal colore, da cui prima era indipendente e a cui era superiore». Un colore tutto terreno, completamente mondanizzato, privo di trasparenza diviene il segno inequivocabile di un progressivo eclissarsi della luce nella contemporaneità. Si sono riportate brevemente queste osservazioni dello studioso austriaco, in chiusura del suo saggio dedicato a La luce nelle sue manifestazioni artistiche almeno per accennare alla complessità inerente alla tematica della luce. Considerando il percorso che le arti, e la società nel suo complesso, hanno compiuto dalla soglia temporale indicata da Sedlmayr, cioè la fine del XVIII secolo, caratterizzata dagli esiti dell’Illuminismo; avendo ormai completamente assorbito quel processo di mondanizzazione della luce nell’arte di cui l’Impressionismo è stato il grande momento iniziale; avendo alle spalle il secolo che ha prodotto, dal punto di vista tecnologico, una sorta di trionfo della luce (l’elettricità come elemento di sviluppo dell’intero comparto industriale, la radicale trasformazione dei sistemi di illuminazione su scala urbana, la diffusione planetaria della fotografia ecc.), viene da chiedersi se della luce non si possa anche riconsiderare ciò che competeva alla sua sfera simbolica. Lavorare con la luce, farne o rifarne concreta esperienza come possibilità espressiva, di fatto lascia emergere un confronto con ambiti, conoscenze, visioni verso le quali sembrava esser venuto meno ogni contatto, quasi che solo a questo mondo competesse anche il più immateriale e pervasivo dei mezzi. Ci siamo allontanati molto, forse troppo, da un’aula di accademia dove si stanno svolgendo delle ricerche sulla luce richiamando, sia pur brevemente, una  H. Sedlmayr, Das Licht in seinen kunstlerischen Manifestationen, Mittenwald, Mäander Kunstverlag, 1979, trad. it. di P. Albarella, La luce nelle sue manifestazioni artistiche, a cura di R. Masiero, con una presentazione di R. Masiero e R. Caldura, Palermo, Aesthetica Edizioni, 1989, p. 68 (pubblicato per la prima volta in «Aesthetica pre-prints», 8, 1985).  Ivi, p. 69.


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tale complessità di aspetti? Probabilmente no, se si considera che l’ultima edizione della Biennale di Venezia aveva come tematica le “Illuminazioni”, esplicito gioco di parole fra la parola “nazione” e “luce”, indicando il fattore illuminante che l’arte riesce ad essere rispetto al paese di cui è ambasciatrice e testimone. Ma non si tratta solo della sottolineatura di una crescente rilevanza che la pluralità di paesi partecipanti vengono assumendo nell’insieme, e nella riuscita, della manifestazione veneziana. Se si rileggono le parole dell’introduzione di Bice Curiger – «Illuminazioni si incentra sulla luce. La luce è un classico tema dell’arte, adeguato a Venezia» – , il dichiarato richiamo a una disciplina e a un luogo specifico riconsidera nondimeno, della luce, la particolarità dell’esperienza che ne deriva, e dunque il valore della «comprensione intellettuale e intercomunicativa delle epifanie». A questo senso, ampio, della tematica delle “Illuminazioni” non è estranea nemmeno quella tonalità, che Sedlmayr avrebbe detto completamente mondana, propria dell’Illuminismo di cui spesso si sono criticate le conseguenze come modello idealizzante del razionalismo europeo-occidentale, ma di cui si cerca ora di rivalutarne alcune delle istanze fondamentali, soprattutto «[...] nel campo di battaglia in cui infuria il dibattito sui diritti umani». Dunque non solo una relazione fra paese e fattore illuminante – l’arte –, ma anche fra sopravvivenza e rivalutazione di istanze tipicamente moderne, quali quelle implicate negli esiti egualitaristici e solidaristici dell’Illuminismo, la cui luce tutta mondana della ragione, qualcosa ancora ci aiuta ad illuminare rispetto all’ambito della giustizia fra le genti. Se è di nuovo possibile prestare un’attenzione alla luce anche come fattore “illuministico”, questa attenzione convive con la riscoperta del valore “epifanico” della “Illuminazione”. In questo senso non è inutile ricordare come il concetto di “Illuminations” derivi da una precedente esperienza della curatrice svizzera svolta nella città in cui lei lavora. Cioè la presentazione dell’ultimo lavoro di grande rilievo di Sigmar Polke, prima della sua scomparsa nel 2010: le vetrate della chiesa in stile romanico di Grossmünster, nel cuore storico di Zurigo, chiesa fra le più importanti della Svizzera, anche perché è stata uno dei luoghi di maggior rilievo del movimento evangelico-riformatore, legato alla predicazione di Huldrych Zwingli. All’arte e alla sua relazione con una dimensione della manifestazione del sacro vanno d’altronde ricondotte le stesse pagine di apertura del catalogo della grande mostra veneziana, pagine che precedono, emblematicamente, qualsiasi altro testo scritto. Dedicate, come è noto, esclusivamente a capolavori, e a dettagli di essi, di un grande pittore del passato, Tintoretto, dove la luce gioca un ruolo fondamentale. Così come ha giocato un ruolo di grande rilievo per le sperimentazioni di una generazione di artisti che si vengono preparando a Venezia, ripercorrendo con altri mezzi e soluzioni tecniche, le inesauribili possibilità espressive generate Illuminazioni, in Illuminazioni Biennale arte 2011, catalogo della 54. Esposizione Internazionale d’Arte, Venezia, Marsilio, 2011, p. 43.  Ivi, p. 44.  Ibid. 


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1. Bodo Gaston Boehm, Ditroika, 2011, proiezione, part. dell’installazione, misure variabili. 2. Aran Ndimurwanko, Foglie, 2011, materiali vari, cm 150 × 40 × 25. 3. Sepideh Yeganehdoost, Roshanaei, 2011, argilla cruda e candele, installazione cortile Ca’ Foscari, Venezia. 4. Tommaso Ceccanti, Esercizio 2, cera, sole, lente, finestra, particolare dell’installazione.


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e , ISBN ----


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