Annuario ABAV, 2013, Dall'oggetto al territorio. Scultura e arte pubblica

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ANNUARIO ACCADEMIA di BELLE ARTI di VENEZIA

Dall’oggetto al territorio Scultura e arte pubblica

ILPOLIGRAFO



Accademia di Belle Arti di Venezia



ABAV ILPOLIGRAFO

annuario accademia di belle arti di venezia a cura di Alberto Giorgio Cassani

Dall’oggetto al territorio Scultura e arte pubblica

2013


Annuario dell’Accademia di Belle Arti di Venezia a cura di Alberto Giorgio Cassani Annuario/Annuary 2013 Dall’oggetto al territorio. Scultura e arte pubblica From the Object to the Territory. Sculpture and Public Art comitato scientifico Gabriella Belli, Giuseppina Dal Canton, Martina Frank, Marta Nezzo Nico Stringa, Giuliana Tomasella, Piermario Vescovo, Guido Vittorio Zucconi redazione internazionale Laura Safred per la realizzazione di questo numero si ringraziano in particolare Diana Ferrara, Laura Safred, Evelina Piera Zanon referenze fotografiche Le immagini riprodotte provengono dall’Archivio fotografico dell’Accademia e dagli archivi personali degli Autori, salvo dove diversamente indicato. Si ringraziano: l’Archivio Luigi Nono per le immagini pubblicate nei contributi di Nicola Cisternino e nel contributo A colloquio con Nuria Schoenberg Nono; Giulio Secco per le immagini pubblicate nel contributo di Marco Tosa; Alberto Giorgio Cassani per l’immagine di p. 441.

progetto grafico e realizzazione editoriale Il Poligrafo casa editrice Alessandro Lise, Sara Pierobon, Laura Rigon Copyright © novembre 2014 Accademia di Belle Arti di Venezia Il Poligrafo casa editrice Il Poligrafo casa editrice srl 35121 Padova piazza Eremitani - via Cassan, 34 tel. 049 8360887 - fax 049 8360864 e-mail casaeditrice@poligrafo.it www.poligrafo.it ISSN 2280-4498 ISBN 978-88-7115-866-2


Indice

13 Editoriale Alberto Giorgio Cassani 15 Presentazione Luigino Rossi 17 Presentazione Carlo Di Raco dossier dall’oggetto al territorio Scultura e arte pubblica 21 Mnéme Mementum Monumentum. Monoliti, colonne e obelischi come cardini della costruzione dello spazio urbano Gaetano Cataldo 55 Architetture e sculture policrome a Venezia. L’immagine perduta della città antica Marco Tosa 81 L’opera totale: Daniel Spoerri e il suo Giardino Maria Alberti 97 “Forma viva”. Eredità e prospettive di un parco di scultura sull’Adriatico Majda Božeglav Japelj 105 La trasversalità dello spazio nella scultura María Jesús Cueto-Puente 123 “Être en ville”. Atelier de Design d’espace pour des pratiques urbaines créatives, contextualisées et maîtrisées Frédéric Frédout


147 Public art nell’arena pubblica italiana Orietta Berlanda 159 Note sull’immaginazione tecnologica. Contributo a un’estetica della media art Luca Farulli 165 Esperienze artistiche contemporanee fra ambiente e spazio pubblico Riccardo Caldura 1 89 Laboratorio integrato di Forte Marghera. Un contributo dall’interno Giulio Alessandri saggi e studi 193 La civetta sul ramo di perle. Note su Bosch e Venezia Gloria Vallese 237 Confrontare i volti umani: tecnologia e osservazione Bob Schmitt 2 49 Qualcosa su Artaud Natalia Antonioli 2 57 Riagendo (a) Ruota di Bicicletta. Parigi 1913 - Venezia 2013 Giulio Alessandri 2 69 Il segno nuovo di Arturo Martini Marina Manfredi 275 Il Suono giallo. Caminantes no hay camino hay que caminar 2 77 Nono-Vedova. Caminantes Nicola Cisternino 2 95 ...allora dare è quasi un voler ascoltare il silenzio stesso. Su Luigi Nono con Massimo Cacciari (Venezia, 2 luglio 2010) Nicola Cisternino 305 A colloquio con Nuria Schoenberg Nono 311 Verso una pedagogia dell’autodeterminazione artistica Alessandro Di Chiara 319 La retorica negli oggetti Roberto Zanon


dipartimenti

339 Biscotti d’artista per la 55. Biennale Roberto Zanon 343 “Non più Polio” ma non solo. Il Rotary di Venezia e la scuola di Incisione dell’Accademia nella sfida per la qualità della vita Carlo Montanaro 347 Grafica d’arte e tipografia d’autore Giovanni Turria fondo storico, archivio, biblioteca, progetto tesi, progetti europei

351 «Ad augendam Pinacothecam Corneliam». I disegni della raccolta dell’abate Giampietro Antonio Corner Paolo Delorenzi 3 69 Le carte dell’Accademia dal 1878 al 1950 Nadia Piazza 379 Nuove fonti per la storia della fotografia a Venezia. Il Fondo storico dell’Accademia di Belle Arti Sara Filippin 433 Venezia ed Erasmo: per una cultura di pace. Il programma europeo Erasmus nell’Accademia di Belle Arti di Venezia Antonio Fiengo eventi

4 39 Eventi 2013 Mostre, workshop, convegni, conferenze a cura di Miriam Pertegato appendici

485 Riassunti 495 Abstracts 505 Autori 507 Indice dei nomi



Editoriale

Alberto Giorgio Cassani

L’«Annuario» dell’Accademia di Belle Arti di Venezia – che con questa nuova stagione vuole riprendere idealmente una prassi comune, in passato, da parte delle Accademie – intende far conoscere l’attività di ricerca svolta dalla nostra Istituzione all’esterno, non solo alle gemelle istituzioni italiane ed europee (in gran parte opportunamente inserite, a pieno titolo, nel sistema universitario), ma anche ad un pubblico più vasto di operatori culturali del settore delle arti visive. L’«Annuario» è organizzato in cinque sezioni: la prima, «Dossier», affronta un tema specifico dell’ambito dell’arte; la seconda, «Saggi e studi», ha carattere più miscellaneo; la terza, «Dipartimenti», aggiorna sulla didattica e sulla ricerca artistica svolta all’interno dell’Accademia; la quarta, «Fondo storico, Archivio, Biblioteca, Progetto Tesi, Progetti Europei», informa sul patrimonio documentario custodito in Accademia e sugli studi e tesi ad esso dedicati; l’ultima sezione, «Eventi», rende conto di convegni, conferenze e mostre organizzati dall’Accademia, che vedono coinvolti docenti e studenti. Se l’«Annuario» accoglie principalmente i contributi dei docenti dell’Accademia di Venezia, intende però ospitare al suo interno anche testi di studiosi di chiara fama provenienti da altre istituzioni, accademie italiane e straniere, università e istituzioni culturali (musei, biblioteche ecc.). Sua ambizione, infatti, è quella di costituire il “luogo di incontro” di esperienze, culture e saperi non ristretti alla secolare Istituzione veneziana, il quale dia spazio a un orizzonte più vasto, che oggi non può essere se non quello europeo e internazionale. Cercando di smentire la pur magistrale affermazione di Friedrich Nietzsche delle «cento profonde solitudini» che formano l’immagine di Venezia e che pur costituiscono «il suo incanto», vorremmo che, per quel che riguarda l’Accademia di Belle Arti di Venezia, l’«immagine per gli uomini del futuro» fosse invece quella di un arcipelago di saperi in dialogo tra loro.

Alberto Giorgio Cassani



In un mondo globalizzato in cui più esasperata è la sfida economica, credo debbano essere sempre maggiori gli sforzi di istituzioni culturali come l’Accademia di Belle Arti di Venezia, che ho l’onore di presiedere, nel recuperare la propria originaria vocazione di promotrici di cultura. Che non è orpello, un vuoto contenitore di cui ci si possa privare nei momenti di crisi, ma semmai l’elemento che può costituire, per l’Italia, quel quid in più che la distingua dalle altre nazioni. Per questo uno strumento come l’«Annuario», che dal 2010 si è deciso di ripristinare, può essere assai utile non solo per esibire al pubblico le molteplici attività che l’Accademia svolge, ma anche, se non soprattutto, nell’ottica della conservazione di quanto si attua, per documentare nel tempo ciò che si è fatto. Se non possedessimo infatti – e ciò costituisce, a livello micro, quello che più in generale è stato fatto lungo i secoli in ogni parte d’Italia, e che consente a quest’ultima di vivere quasi di rendita – le testimonianze del nostro passato – documenti, incisioni, disegni, libri, dipinti, gessi e così via, che gli anonimi nostri antenati hanno capillarmente raccolto, e che rappresentano l’eredità più vera dell’Accademia – ora saremmo senza memoria, privi di un tesoro che invece abbiamo. E quindi, lo ribadisco, occorre cura nel raccogliere dal presente affinché in futuro anche i nostri pronipoti ne possano godere. Luigino Rossi presidente dell’Accademia di Belle Arti di Venezia



L’Accademia di Belle Arti di Venezia, come sede primaria di alta formazione artistica e di ricerca, si propone di favorire lo sviluppo di un clima di apertura, che consenta ai giovani artisti e ai docenti che operano nella nostra Istituzione di confrontare costantemente gli esiti della propria ricerca con la produzione artistica e scientifica contemporanea. A tal fine, è necessario che l’Istituzione si impegni nella realizzazione di iniziative rivolte a evidenziare la vitalità della produzione artistica ideata nei Laboratori e a promuovere tutte le attività di studio e approfondimento sviluppate nell’Accademia. L’«Annuario», giunto al quarto anno, costituisce un riferimento fondamentale per la valorizzazione delle attività dell’Accademia, offrendo alla storica Istituzione veneziana nuovi strumenti per approfondire, attraverso il dialogo, i contenuti e le tematiche che qualificano i nostri percorsi formativi. In tale direzione, l’Accademia di Venezia saprà arricchire le proprie prospettive consolidando le proprie peculiari metodologie didattiche, per ribadire le finalità e il ruolo della nostra Istituzione, in un contesto storico estremamente complesso e problematico. Per la realizzazione di questo numero dell’«Annuario» si ringraziano, insieme ad Alberto Giorgio Cassani, al Presidente Luigino Rossi e al Vicedirettore Sileno Salvagnini, tutti i docenti, gli studiosi e i giovani artisti che hanno offerto il loro prezioso contributo. Carlo Di Raco direttore dell’Accademia di Belle Arti di Venezia



dossier Dall’oggetto al territorio Scultura e arte pubblica

Se non ti vedi ancora bello, opera come opera lo scultore con una statua che deve diventar bella: da una parte elimina, dall’altra assottiglia, qui leviga, lì ripulisce finché sulla statua non appare un bel volto, così anche tu elimina ciò che è superfluo, raddrizza ciò che è storto, purifica e rendi luminoso ciò che è oscuro e non cessare di scolpire la tua statua finché il divino fulgore della virtù non risplenderà in te. Plotino, Enneadi, vi, 6, 9, 8-12



Gaetano Cataldo

Mnéme Mementum Monumentum Monoliti, colonne e obelischi come cardini della costruzione dello spazio urbano

1. La Mnéme e il Mementum La storia si fa partendo dallo studio dei “luoghi” della memoria collettiva, che siano luoghi topografici, come gli archivi, le biblioteche e i musei, o luoghi monumentali, come i cimiteri o le architetture, in senso lato; o ancora, luoghi simbolici, come le commemorazioni, i pellegrinaggi, gli anniversari o gli emblemi; infine, partendo dai luoghi funzionali, quali i manuali, le autobiografie o le associazioni. Tutti questi monumenti, nei quali è racchiuso uno specifico ricordo, hanno la loro storia. Jacques Le Goff, nella sua articolata trattazione dedicata alla memoria, cita le parole di Leroi-Gourhan: «A partire dall’homo sapiens la costituzione di un apparato della memoria sociale domina tutti i problemi dell’evoluzione umana». E non si può non essere d’accordo con questa riflessione, perché la memoria è un elemento essenziale di ciò che viene definita come «identità, individuale o collettiva, la ricerca della quale è una delle attività fondamentali degli individui e delle società di oggi, nella febbre e nell’angoscia». Mnemòsine, nella mitologia greca, era la madre delle nove muse, da essa generate in altrettante notti trascorse in compagnia di Zeus: ella richiama alla mente degli uomini il ricordo degli eroi e delle loro grandi gesta, da utilizzare in chiave didascalica come esempio. «La memoria appare un dono per iniziati, e l’anamnesis, la reminiscenza, al pari di una tecnica ascetica e mistica. Nelle dottrine orfiche e pitagoriche è l’antidoto all’oblio». La tecnica di memorizzazione greca, la mnemotecnica, sottolineava come imprenscindibile la distinzione fra loci e imagines, precisando il carattere attivo di tali idee nel processo di «rimemorizzazione (imagines agentes) e formalizzando la divisione fra memoria delle cose (memoria rerum) e memoria delle parole (memoria verborum). La memoria è la quinta operazione della retorica: dopo l’inventio (trovare cosa dire),  Jacques Le Goff, Memoria, in Enciclopedia Einaudi, direzione Ruggiero Romano, vol. 8, Labirinto-Memoria, Torino, Einaudi, 1979, p. 1104.  Ivi, p. 1078.


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la dispositio (mettere in ordine quel che si è trovato), l’elocutio (aggiungere a ornamento parole e immagini), l’actio (recitare il discorso come un attore con la dizione e i gesti)» la sintesi è, infine, nella memoria (memoria mandare “ricorrere alla memoria”). 2. Gli archetipi e il Monumentum La costruzione del patrimonio fisico urbano e territoriale è avvenuta lentamente attraverso la storia e con un insieme di miracolose coerenze collettivamente significative, oppure attraverso atti sapienti e di radicale semplicità. Porre la pietra sul terreno ha rappresentato una delle prime azioni dell’uomo dal momento della sua apparizione: questo gesto è coinciso con l’atto della riconoscibilità di un territorio nell’universo, all’epoca ignoto e ostile, determinandosi come azione preliminare alla configurazione o modellazione di uno spazio, la Raumgestaltung. Da qui nasce l’architettura, in chiave archetipica, con tutte le sue declinazioni e articolazioni e le sue sapienti azioni del delimitare, perimetrare, accumulare, costruire, abitare e, infine, pensare: le ultime tre azioni intese in chiave heideggeriana. La pietra è sempre servita come supporto per un eccesso di memoria: I cosiddetti “archivi di pietra” aggiungevano alla funzione degli archivi propriamente detti un carattere di pubblicità insistente, che puntava sull’ostentazione e la durevolezza di quella memoria lapidaria e marmorea. [...] Per Leroi-Gourhan, l’evoluzione della memoria, legata alla comparsa e alla diffusione della scrittura, dipende essenzialmente dall’evoluzione sociale e particolarmente dallo sviluppo urbano.

Infiggere una pietra nel terreno per individuare un luogo vuol dire anche memorizzare quel luogo, incidere nelle sinapsi neurologiche una traccia di riferimento: in tal senso va inteso il legame fra memoria/mnéme e monumento. In quest’ottica diventano più comprensibili le prime tracce mute della presenza umana con oggetti sparsi con apparente casualità nel territorio: si pensi ai menhir o ai dolmen diffusi nel sud dell’Inghilterra, in Irlanda, nel nord della Francia, in Spagna, Corsica, Sardegna, ma anche Puglia, e si riveda il loro significato alla luce di una nuova interpretazione semantica. Ripensando ai monumentali siti di Stonehenge, Avebury, Durrington Walls nel Wessex, alla Boney Valley in Irlanda o al Morbihan bretone è assodato che l’evidente presenza monumentale sul territorio, caratteristica nuova delle culture neolitiche, «fosse un elemento essenziale nel processo di conversione delle precedenti popolazioni mesolitiche ai nuovi modi sedentari della vita che caratterizzarono il periodo neolitico»: i monumentali megaliti «non sarebbero nient’altro Ivi, p. 1080. Gaetano Cataldo, Per una lettura del territorio: persistenze e tracce, in Programma di salvaguardia del patrimonio storico architettonico del territorio di Bari. Analisi, acquisizione e recupero, a cura di Stefano Serpenti, Gaetano Cataldo, Bari, Levante Editori, 1989, pp. 9-16: 10.  Jacques Le Goff, Memoria, cit., p. 1074.  «Il mutamento da nomade a stanziale delle popolazioni dalla caccia all’agricoltura favorì l’incremento demografico, in parte per via delle migrazioni e in parte per la maggiore disponibilità 


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che il riverbero delle condizioni umane soggiacenti». Il gran numero di manufatti lapidei eretti fu uno dei mezzi con i quali l’agricoltura dominante impose la sua presenza e il suo volere sulle società indigene dei cacciatori. Declinando il fenomeno, in Italia quelli che sono considerati menhir, in realtà, sono molto probabilmente non tutti ascrivibili al tardo Neolitico, bensì all’età romana e si tratta di limites degli agri della centuriazione romana. Un isolato menhir (fig. 1) è collocato lungo l’ex strada statale 98 in una posizione assolutamente paradossale, a un incrocio della viabilità della zona industriale derivata dalla rete viaria rurale, molto probabilmente coincidente con il confine fra l’Ager Varinus e l’Ager Botuntinus: è un monolite lapideo calcareo con sezione quadrata, alto circa 3,70 m, e con una sporgenza in sommità che gli conferisce un aspetto vagamente antropomorfo per via di due fori, simili a occhi, frutto dell’erosione. Recenti studi ne hanno modificata l’origine dal secondo millennio a.C. al periodo compreso fra il tardo-antico e l’Alto Medioevo, confermandone l’utilizzo come cippo di confine, spesso spostato nelle contese territoriali o nelle sistemazioni degli svincoli stradali. Anche in territori dove la presenza di tali manufatti lapidei è considerevole, come il Salento, è indubbio che la loro posizione diffusa, attualmente isolata all’interno dei centri urbani o sui sagrati delle chiese, e non aggregata come nei santuari neolitici più famosi della Normandia o della Cornovaglia, fa propendere verso questa seconda ipotesi; anche la lavorazione accurata, riconducibile a parallelepipedi snelli e di ridotta sezione, talvolta con sezione poligonale o circolare, inserisce questi manufatti in una koinè tecnologica più evoluta e più vicina a noi. È indubbio, comunque, che tali manufatti siano pur sempre testimonianze del passato e debbano essere, in ogni caso, considerati come monumenti nell’accezione più diffusa del termine, intendendo «un’opera della mano dell’uomo, creata allo scopo determinato di conservare sempre presenti e vivi singoli atti o destini umani (o anche aggregati di questi) nella coscienza delle generazioni a venire»; con la precisazione che «l’erezione e tutela di tali monumenti “intenzionali”, che possono essere rintracciate fin dai tempi più remoti e documentabili della cultura,

di cibo derivato dalla coltivazione delle terre», David Souden, Stonehenge. Mysteries of the Stones and Landscape, London, Collins & Brown ltd., 1997, trad. it. Stonehenge. Un paesaggio di pietre e di misteri, Milano, Corbaccio, 1998, p. 62.  Ibid.  Raffaele Ruta, La Puglia romana. Un paesaggio pietrificato, «Archivio Storico Pugliese», XXXIV, I-IV, 1981, p. 344.  Si trova al km 79+445 dell’attuale strada provinciale 231 “Andriese-Coratina”, declassata nel 2001.  Modugno. Guida Turistico-culturale, a cura di Anna Gernone, Nicola Conte, Michele Ventrella, Modugno, Associazione Pro Loco di Modugno, 2006, p. 151.  Frutto di frequenti delocalizzazioni da parte della popolazione.  Una recente e accurata pubblicazione riguardante la provincia di Lecce ne ha schedati 71 e menzionati altri 48 ormai scomparsi, seppur citati dagli storici locali; per un approfondimento si veda Cesare De Salve, Dolmenhir. Le sacre pietre del Salento, Galatina, Editrice Salentina, 2013.  Alois Riegl, Il culto moderno dei monumenti. Il suo carattere e i suoi inizi, a cura di Sandro Scarrocchia, Bologna, Nuova Alfa Editoriale, 1981, 19852, 19903, p. 27.


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non sono affatto cessate anche ai nostri giorni». Il valore soggettivo, inventato dall’osservatore contemporaneo, rafforza il concetto di monumento come opera di valore in quanto memoria. Si riveda, in tal senso, l’assiomatica definizione di tumulo fatta da Adolf Loos: il sepolcro e il monumento, è noto, sono per Loos le uniche forme architettoniche che possano, di pieno diritto, appartenere anche al campo dell’arte. Si tratta di un «archetipo elementare dell’architettura, [...] legato alla marcatura di un luogo, alla sacralità e alla memoria che è implicita nel termine e nel concetto stesso di “monumento”, oltre che ad una precisa forma geometrica». Nella categoria degli archetipi elementari dell’architettura rientra, senza dubbio, la colonna intesa come elemento di sostegno strutturale di origine naturale, sia di apparecchiature murarie sia di elementi monolitici, o caricata di carattere simbolico e celebrativo: in quest’ultimo caso la stessa è utilizzata come supporto e veicolo della memoria collettiva ed è collocata in aree urbane ad alta valenza, come le agorai, i fori, le piazze. Le colonne binate Un utilizzo certamente icastico dell’archetipo colonna è quello della sua sistemazione binata che va ben oltre il significato di colonna onoraria tout court, così come quelle presenti nel Foro romano, almeno a livello di basamento: in genere due colonne isolate, sistemate a qualche metro di distanza, sono caricate di enfasi simbolica e marcano con assoluta efficacia topologica un’area identificando un varco, un punto di passaggio o di ingresso a un luogo, prevalentemente sacro. L’immagine più diretta, consolidata nell’immaginario collettivo delle archai oltre che più antica in assoluto, è quella delle colonne binate presenti nell’atrio antistante il mitico Tempio di Salomone: le colonne di ordine salomonico, Jachin, la stabilità, Boaz, la forza, precedevano il santuario e il Sancta Sanctorum che ospitava l’Arca dell’Alleanza. Avranno grande «fortuna attraverso la mediazione delle colonne della “pergula” costantiniana di S. Pietro, iperbolizzata nel Baldacchino di Bernini». Va però sottolineato che la veduta prospettica (fig. 2) del Tempio di Salomone riportata nella Bibbia di Sisto V (1588) riporta le due colonne con fusto liscio separate dal muro del Santuario. 3.

Ibid. «Se in un bosco ci imbattiamo in un tumulo, lungo sei piedi e largo tre, disposto con la pala in forma di piramide, ci facciamo seri e qualcosa dice dentro di noi: qui è sepolto qualcuno. Das ist Architektur», Adolf Loos, Architettura, in Parole nel vuoto, trad. it. Sonia Gessner, Milano, Adelphi, 19722, 19823, pp. 241-256: 255; prima ed., in lingua originale, A. Loos, Ins Leere gesprochen Trotzdem, Wien-München, Verlag Herold, 1962.  Vittorio Ugo, I luoghi di Dedalo: elementi teorici dell’architettura, Bari, Edizioni Dedalo, 1991, p. 77..  Marcello Fagiolo, Architettura e Massoneria. L’esoterismo nella costruzione, Roma, Gangemi, 2006, p. 20.  Ibid.  


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Ribaltando il concetto, un esempio fra i tanti è quello delle cosiddette colonne terminali della via Appia Traiana nel porto di Brindisi che, marcando indubbiamente il luogo e identificandolo nella memoria collettiva, hanno indicato per secoli, con precisione, il punto terminale della strada consolare romana (fig. 3). Di là dalle ipotesi suffragate dagli ultimi scavi archeologici che hanno interessato l’area, è indubbio che le due colonne possano essere viste come punto terminale di una civiltà che si apriva verso Oriente e chi le superava doveva essere consapevole di poter andare incontro alle stesse incognite di chi valicava le Colonne d’Ercole atlantiche. La loro stessa sistemazione sul rilevato orografico urbano, dotato nel secolo scorso di un’ampia scalinata, in diretta connessione visiva con il porto, conferma il carattere simbolico e celebrativo dei manufatti, vero landmark territoriale. In fondo, due elementi verticali, che siano colonne isolate o piedritti incassati in un circuito murario, si configurano come porta o varco che introduce in uno spazio altro, forse ignoto ma certamente diverso topologicamente da quello che si sta lasciando: passare fisicamente fra due elementi verticali è un’azione che è sempre stata caricata di simboli in tutti i periodi della storia umana. Lo stesso vale per chi giungeva nel porto della città e doveva passare attraverso questa porta virtuale, priva di architrave ma densa dello stesso significato simbolico di un qualsiasi altro varco: doveva avere la consapevolezza di entrare nel cuore dell’impero. È indubbio che queste suggestioni siano il frutto dell’immagine collettiva di un sito, confermata anche dalle descrizioni dei viaggiatori, frutto di sovrapposizioni mentali stratificatesi nel tempo: oggi delle due colonne ne rimane solo una pressoché integra, mentre dell’altra resta solo il plinto, per via del suo forzoso trasferimento a Lecce come ex voto collettivo, rappresentato dalla statua del santo patrono, collocato nella principale piazza cittadina. L’idea del varco di passaggio è rimasta presente nell’immaginario collettivo almeno sino alla fine del XVII secolo, ben dopo il crollo, avvenuto nel 1528, della colonna trasferita nel capoluogo salentino. Ne fa testo l’incisione acclusa all’opera che descriveva le principali città del regno di Napoli, frutto dei viaggi dell’abate Pacichelli alla fine del Seicento e pubblicata postuma nel 1703: la veduta della città di Brindesi riporta, sulla destra con il numero 14, ancora le Colonne gemine (fig. 4). Molto più realistici sono l’acquerello di Louis Ducros (fig. 5) realizzato in occasione del Grand Tour del 1778, e l’incisione, degli anni Trenta del secolo successivo, di Domenico Cuciniello e Luigi Bianchi, realizzata in occasione del Viaggio pittorico nel Regno delle Due Sicilie: il punto di vista è identico, più ampio  Puglia ieri: Il Regno di Napoli in prospettiva dell’abate Gio: Battista Pacichelli, a cura di Cosimo Damiano Fonseca, rist. anast. Bari, Adriatica Editrice, 1976, § II, f. 155.  Il Mezzogiorno nelle antiche stampe. Immagini del Sud, a cura di Antonio Ventura, Lecce, Capone, 1997, fig. 109.  Francesco D’Andria, La via Appia in Puglia, in Via Appia. Sulle ruine della magnificenza antica, catalogo della mostra (Roma, Palazzo Ruspoli, febbraio-maggio 1997), a cura di Italo Insolera e Domitilla Morandi, Milano, Leonardo Arte, 1997, p. 98.


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5. La colonna superstite di Brindisi nella veduta del Ducros, 1778 (da Il Mezzogiorno nelle antiche stampe: Immagini del Sud, a cura di Antonio Ventura, Lecce, Capone, 1997, fig. 109).

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6. Le colonne gemine di Venezia in un’aura “turneriana” (foto G. Cataldo). 7. Le colonne gemine di Vicenza come diaframma urbano (veduta aerea da Microsoft® Bing Maps). 8. Le colonne gemine di Udine delimitano l’invaso plateale di piazza Contarena (veduta aerea da Microsoft® Bing Maps).


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9. La Colonna Traiana nel disegno di Fischer von Erlach, 1721 (da J.B. Fischer von Erlach, Entwurf einer historichen Architektur, Neudruck anastatischer, Verlag Haremberg, Dortmund, 1978, “Bibliophilen Taschenbücher”, 18). 10. Le colonne onorarie romane risemantizzate; Archivio Soprintendenza Archeologica di Roma, rilievi coop. Modus (da Roma di Sisto V. Arte, architettura e città fra Rinascimento e Barocco, catalogo della mostra [Roma, Palazzo Venezia 22 gennaio - 30 aprile 1993], a cura di Maria Luisa Madonna, Roma, Edizioni De Luca, 1993, p. 34).


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11. La Karlskirche di Vienna (foto Laura Safred). 12. Il Kabbalistic Lehrtafel, dipinto da Johann Friedrich Gruber tra il 1659 e il 1663, conservato nella chiesa della Trinità di TeinachZavelstein (da Adam McLean, The kabbalistic-alchemical altarpiece in Bad Teinach, «Hermetic Journal», 12, Summer 1981, pp. 21-26: 21).




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13. I rilievi delle guglie di Napoli: San Gennaro, San Domenico, Immacolata, rilievi di Neri Salvatori (da G. Salvatori, C. Menzione, Le guglie di Napoli: storia e restauro, Napoli, Electa, 1985, rispettivamente pp. 130, 123, 17). 14. Le sezioni delle guglie di Napoli: San Gennaro, San Domenico, Immacolata, rilievi di Neri Salvatori (ivi, p. 42).




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15. I tracciati delle piazze delle guglie di Napoli sovrapposte alla viabilità romana: il cardo maximo (a), il decumano maximo (b), il decumano inferiore (c). La sequenza, anche temporale, di realizzazione delle guglie va da destra a sinistra e parte da San Gennaro (1), quindi San Domenico (2) e, infine, l’Immacolata (3) (elaborazione grafica G. Cataldo su base veduta satellitare da Microsoft® Bing Maps). 16. La guglia di San Vito di Lequile (foto G. Cataldo).


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17. La guglia di Sant’Anna di Vernole (foto G. Cataldo). 18. La guglia di Sant’Oronzo di Ostuni (foto G. Cataldo). 19. La guglia dell’Immacolata di Nardò (foto G. Cataldo). 20. L’Osanna di Nardò (foto G. Cataldo). 21. La colonna di Sant’Andrea di Presicce (foto G. Cataldo).

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Architetture e sculture policrome a Venezia

Marco Tosa

L’immagine perduta della città antica Misterioso uomo dal triste destino! Sviato dalla vivezza della sua stessa fantasia e caduto nelle fiamme della sua stessa giovinezza! ancora ti rivedo nella mia immaginazione! una volta ancora la tua figura è sorta dinanzi a me!... No... non quale sei... nella tua fredda valle dell’ombra..., ma quale dovresti essere... mentre sperperi la tua vita in splendida riflessione in quella città di indistinte visioni, nella tua Venezia, marittimo Elisio, caro alle stelle dove le ampie finestre dei palazzi palladiani guardano con profondo e amaro significato entro i segreti delle sue acque silenziose. Edgar Allan Poe

Oscure immagini di fascino, permeate di presagi solo evocati quanto tangibili: ecco la Venezia che spesso ha prestato la sua multiforme immagine a poeti e scrittori che, in tale luogo, affinarono così sensazioni e patologie dell’esistere. Carcassa buia e tenebrosa o smagliante di bianca luce estiva, persa nella calura umida dello scirocco come l’ha narrata Thomas Mann in Morte a Venezia, oppure isolato spazio della mente e dei sentimenti, raccontata da Iosif Brodskij nel suo intimistico Fondamenta degli incurabili. Letture di parte, mai obiettive ma attraenti, di certo artefici e continuatrici di un mito inossidabile per questa città sull’acqua sempre meno civis e sempre più Atlantide. Un legame indissolubile unisce la città storica di Venezia alle pietre, costituendo ancora oggi un esempio unico di perfetto adattamento tra materiali diversi, sia dal punto di vista tecnologico e genetico, sia da quello storico e stilistico,

 Edgar Allan Poe, The assignation (1834), trad. it. L’appuntamento, in Id., Tutti i racconti. Il resoconto di Arturo Gordon Pym. Le poesie, trad. it., introduzione e note di Carla Apollonio, Milano, Bietti, 1972, p. 69.


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specializzato nei secoli al fine di dare forma e corpo a strutture architettoniche complesse e composite. Osservando Venezia oggi, la sensazione che ne deriva è che la pietra costituisca la “pelle” di tutta l’area urbana. Variegata, colorata, diversa nelle sue multiformi lavorazioni, la pietra è protagonista indiscussa dello splendore monumentale ed è percepita dall’osservatore come essenza stessa della città. Sulla pietra si cammina, la pietra orna le facciate delle case e delle chiese, definisce le linee architettoniche indicandone le strutture, al tempo stesso si mostra come ornato finissimo e colore. È riva e gradinata per fondamenta e scale, mezzo solido per transitare dal dominio incerto delle acque a quello certo della terra. Le pietre veneziane celano e trasformano difetti e mancanze, ornano all’inverosimile, sono delegate a essere indicazioni stradali, insegne di botteghe, capitelli per percorsi destinati alla preghiera popolare, certificano con la loro solidità la durevolezza che proprio non appartiene alla natura intima di questo luogo. Sì, perché Venezia si erge sul fango morbido delle sue isole, costretta a conquistare il terreno edificabile sottraendolo faticosamente all’acqua della laguna, indiscussa dominatrice, alla quale servitù non è mai riuscita a sottrarsi, con cui ha da sempre mantenuto un rapporto di conflittualità. Ma le pietre sono simbolo di forza e immutabilità, resistenza e stabilità, dalla notte dei tempi caricate di simbologie e significati tra i più vari, mistici, magici, filosofici; oggetto di collezionismo e ricercate per la loro bellezza, decretarono ai loro possessori uno status sociale decisamente elevato. Questo i veneziani, ricchi e vanitosi, lo compresero subito, delegando i materiali lapidei con i quali rivestirono case e monumenti a rappresentarli al meglio; dichiarazione imperitura di gloria, ricchezza, potere. Non solo pietra Per chi visita Venezia ai giorni nostri l’appagamento estetico è facile quanto totale, spesso preconfezionato da stereotipi ormai consolidati da anni e assimilati profondamente grazie alla loro diffusione popolare, più che mai sostenuti dal mercato turistico rappresentativo di questa era del low cost e del consumismo veloce che coinvolge ogni tipo di bene, compreso quello culturale. Tempi di visita sempre più veloci uniti alla superficialità, prerogativa del vuoto culturale di

Definizioni impiegate dai romani: lapis (pietra), termine generico utilizzato per indicare le pietre; marmora/marmor, termine che comprendeva tutte le pietre decorative e ornamentali suscettibili d’essere lucidate a specchio. I romani dedussero la parola marmor dal verbo greco marmairo che significava risplendere. Ne deriviamo che la parola marmo avesse un senso solo esteriore, prescindendo dalla natura geologica della roccia in questione; tale definizione generica è ancora oggi ampiamente diffusa e utilizzata quando ci si vuole riferire a pietre decorative e lucidabili, comunque intese come di pregio. Per notizie di vario tipo, tra cui storiche e acute osservazioni sulla moda di utilizzare pietre pregiate nell’edilizia romana, si veda la Naturalis Historia di Plinio il Vecchio, libro XXXVI. 


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massa, costruiscono per l’occhio meccanico del turista – abitualmente nascosto dietro un qualche tipo di obbiettivo atto a fissare raffigurazioni di ogni tipo, senza criterio o qualsivoglia capacità selettiva – l’immagine che ci si aspettava di questa città, conforme al mediocre gusto romantico che l’ha avvilita e svenduta. Degli antichi ornati fastosi di pietra, delle architetture composite e variegate oggi è possibile cogliere solo una parte più che altro strutturale e plastica, una sorta di scheletro sbiancato, supporto di antichi quanto perduti colori smaglianti uniti all’oro e destinati a integrare in una simbiosi perfetta quelle esibizioni scultoree di artisti, scalpellini e architetti. Un’odierna sorta di città fantasma, dunque, sfuocata e pallida, dove anche il colore vivace delle antiche pietre è nascosto sotto velature saline, modificato da cattivi trattamenti conservativi, da vandalismi pubblici e privati, dalla trascuratezza istituzionale, confuso sotto le scritte dei writers, città scrostata con fragili intonaci sgretolati dall’umidità, antichi supporti per affreschi variopinti, narratori di vicende mitologiche e sacre che celebravano con abilità le glorie della famiglia committente che così si mostrava al mondo nel lusso e nel fasto. Questo è quanto ci è pervenuto in seguito al trascorrere del tempo, alle aggressive condizioni ambientali della laguna, alle profonde trasformazioni storiche e di conseguenza sociali e urbanistiche che hanno modificato il sistema Venezia, avviandone la vera e propria decadenza, privandola della sua significanza politica che l’aveva fatta nascere e crescere rendendola unica. Lo stato veneziano, una democrazia costituita dagli aristocratici e gestita per dovere, viveva su un pratico equilibrio fra gli organi di potere. Nella complessa articolazione dei contrappesi e controlli reciproci, si esprimeva tutta l’originalità dell’architettura istituzionale. Per una decina di secoli nessuno aveva prevaricato, né persona, né organismo costituzionale; e chi avesse anche solo provato a pensarci era finito male. Costituiva a suo modo uno Stato di riferimento e sempre, nelle teorizzazioni e nelle esperienze che anticiparono la Rivoluzione francese e americana o quella napoletana, come nel dibattito degli Inglesi sulla forma del governo, o negli studi per la moneta dello Stato moderno, con Venezia ci si è dovuti confrontare.

Città mirabolante di colori e oro, architetture e ornati, così doveva apparire, dunque, la Serenissima, negli anni del suo splendore; perché mai parola potrà meglio definire un tale complesso decorativo e urbanistico. I viaggiatori e i cronisti furono attratti dalla leggenda di Venezia in concomitanza con la sua affermazione politica, commerciale e artistica; la città fu soggetto per descrizioni e migliaia di testimonianze che oggi ci permettono di immaginarla com’era. Pellegrini e ambasciatori, nobili europei e aristocratici, insieme a studiosi e artisti, contribuirono

 Testi fondamentali che documentano le ultime tracce superstiti della grande stagione veneziana dell’affresco esterno sono: Anton Maria Zanetti, Varie pitture a fresco de’ principali maestri veneziani. Ora la prima volta con le stampe pubblicate, in Venezia, 1760; Ludovico Foscari, Affreschi esterni a Venezia, settanta illustrazioni in sessantaquattro tavole fuori testo, Milano, Hoepli, 1936.  Paolo Scandaletti, Storia di Venezia, Pordenone, Edizioni Biblioteca dell’Immagine, 2012, p. 23.


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attraverso i loro scritti ad alimentare il mito, lasciandoci vivide immagini di vita quotidiana, feste, cerimonie e avvenimenti importanti. È indicativa in merito questa nota di Philippe de Commynes del 1498: Mi fecero sedere fra quei due ambasciatori, giacché l’essere seduti in mezzo è in Italia segno d’onore, e mi condussero lungo la strada principale, che essi chiamano il Canal Grande e che è molto largo. Le galee vi passano in mezzo e vidi vicino alle case navi di quattrocento tonnellate e più; io credo che sia la strada più bella che c’è in tutto il mondo e la più ben costruita, e attraversa tutta la città. Le case sono molto grandi e alte, di buona pietra e quelle antiche tutte dipinte, quelle fatte da cento anni in qua hanno tutte la facciata di marmo bianco, che giunge dall’Istria a cento miglia di là, con grandi pezzi di serpentino e porfido.

Le notizie che ci trasmette il Commynes sono comunicative al pari di una fotografia istantanea; possiamo comprendere subito la valenza rappresentativa del Canal Grande come percorso da parata per patrizi e nobili veneziani, il luogo perfetto per manifestare, tramite il decoro e l’architettura della facciata di casa, il proprio status sociale. La presenza delle navi ci rammenta la potenza commerciale, anima della ricchezza cittadina e sostegno della sua indipendenza, la tipologia degli edifici indica che il tessuto urbano era già compatto; avendo riempito le aree edificabili a disposizione, le case iniziavano a svilupparsi in altezza, abbandonando per sempre le precedenti tipologie a fondaco con torreselle derivate da modelli romani. La buona pietra citata ricorda materiali importati di qualità, per esempio i preziosi porfidi rossi e verdi, segnalando per gli edifici più antichi l’uso comune di dipingere e dorare parte degli ornati lapidei unitamente agli intonaci affrescati. Egli osserva anche come case più recenti siano invece già con facciate monocrome di pietra d’Istria, conformi così al trapasso dal gusto gotico a quello rinascimentale che, unitamente alla promulgazione delle leggi suntuarie durante il XVI secolo che proibirono l’uso dell’oro sulle facciate di edifici privati, decretò un nuovo stile decorativo e, di conseguenza, un progressivo sbiancamento degli apparati monumentali. Esemplari in questo caso sono la facciata di Ca’ Corner della Ca’ Granda, progetto elaborato intorno al 1537 da Jacopo Sansovino e iniziato a partire dal 1545. È importante sapere che queste fabbriche erano tenute in gran considerazione e imponevano costi e impegni elevatissimi per i committenti. Il figlio di Jacopo, Francesco Sansovino, nel 1581 scrisse in merito: È per tanto da far sapere che i principalissimi di tutti i palazzi del Canal Grande sono quattro, (parlo per architettura, per artificio di pietre vive, per magistero, o per

Philippe de Commynes, Mémoires, trad. it. Memorie, introduzione, traduzione e note di Maria Clotilde Daviso di Charvensod, Torino, Einaudi, 1960, pp. 439-440.  Per numerose quanto curiose notizie relative alle specifiche leggi suntuarie e sulla funzione della figura del magistrato delle pompe, si veda Giulio Bistort, Il magistrato alle pompe nella Repubblica di Venezia: studio storico, con premessa di Giulio Zorzanello e di Ugo Stefanutti, rist. anast. dell’edizione di Venezia 1912, Bologna, Forni, 1969. 


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grandezza di corpo e di spesa, percioche questi soli costano 200 mila ducati) cioè il Loredan a San Marcuola, il Grimano a San Luca, il Delfino a San Salvadore e il Cornaro a San Maurizio.

Le successive fabbriche di Ca’ Pesaro, i cui lavori presero avvio sotto la direzione di Baldassarre Longhena nel 1658, la monumentale quanto visionaria chiesa di Santa Maria della Salute, iniziata con la posa della prima pietra il 1° aprile 1631 senza che il governo veneziano avesse ancora scelto tra i due progetti, scelta che cadde su quello del Longhena – i lavori per la costruzione si protrassero per cinquantotto anni – e inoltre Ca’ Rezzonico, dove il Longhena lavorava nel 1682, sono altri esempi notevoli di tali rivestimenti in chiara pietra d’Istria. Prima di questa svolta estetica e formale il vero protagonista dell’architettura e della scultura era sempre stato il colore, considerato essenziale per dare forma a un complesso progetto decorativo e simbolico che si estendeva dall’esterno all’interno degli edifici, in una fluida continuità declinata in tutte le possibili forme artistiche e nelle più svariate materie. Pensare oggi alle pietre dipinte ci sorprende, provare a immaginarle è molto difficile: nel Rinascimento, tramite la rivalutazione della classicità, avvenuta attraverso il recupero del trattato in latino di Marco Vitruvio Pollione De architectura (35-25 a.C.), delle copie romane riferite a opere statuarie greche antiche perdute, rigorosamente senza colore, con la grande lezione di Michelangelo e del conseguente gusto per la scultura bianca, si sono formati e diffusi modelli estetici talmente forti e popolari da influenzare tutto il gusto a venire, non solo di studiosi e pubblico, ma anche degli stessi artisti. Scrisse a proposito di questo John Ruskin: Venne il gelo del Rinascimento e tutto perì. E i colori di questo autunno del primo Rinascimento, sono gli ultimi che appaiono in architettura. L’inverno che è venuto poi è senza colore e freddo; e per quanto i pittori veneziani lottassero a lungo contro la sua influenza, pure il torpore dell’architettura fini con l’aver ragione anche di essi, e le facciate degli ultimi palazzi non furono innalzate che con pietre nude.

Epigono di tutto ciò fu il neoclassicismo, il quale decretò che tutto in scultura doveva essere lithos leukos, sull’onda delle incalzanti scoperte archeologiche dell’arte classica antica che portarono alla formulazione di svariate teorie, spesso contrastanti tra loro. Tra queste prevalse la concezione di Johann Joachim Winckelmann al quale si deve la visione (ancora oggi diffusa e attuale tra storici e studiosi) volta a considerare la scultura candida e perfetta, assoluta nella sua identità Francesco Sansovino, Venetia citta nobilissima et singolare, descritta in XIV libri da M. Francesco Sansouino. Nella quale si contengono tutte le guerre passate, con l’attioni illustri di molti senatori. Le vite dei principi, & gli scrittori veneti del tempo loro. Le chiese, fabriche, edifici, & palazzi publichi, & priuati. Le leggi, gli ordini, & gli usi antichi & moderni, con altre cose appresso notabili, & degne di memoria, stampata in Venetia, appresso Domenico Farri, f. 144 r.  John Ruskin, The Stones of Venice, 3 vols, London, Smith, Elder & Co., 1951-1953, trad. it. Le pietre di Venezia, introduzione di John D. Rosenberg, con i disegni originali dell’autore, Milano, Rizzoli, 1987, pp. 350-351. 


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1. Venezia, Campiello San Vidal, San Marco. Parte di una lastra di marmo romano con epigrafe, probabilmente recuperata dalle rovine di Altino o Aquileia, impiegata come elemento di cornice di una finestra. 2. Elementi architettonici di un antico edificio bizantino prospiciente il Canal Grande integrati nella fabbrica costruita successivamente. Colonne, capitelli, bassorilievi e cornici realizzati in rosso di Verona, pietra d’Istria, marmo.


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3. Venezia, Ca’ Barbarigo a San Vio, Canal Grande, edificio costruito nel XVI secolo, facciata rimaneggiata nel 1886 con l’attuale copertura a mosaico a tessere di paste vitree. Nonostante la datazione e i materiali diversi, questa decorazione a tutto campo restituisce con immediatezza l’immagine delle dimore private affrescate con soggetti grandiosi e tinte brillanti, tipiche nella Venezia cinquecentesca. 4. Venezia, Crosera Santo Stefano angolo Calle dei Orbi, San Marco. Insegna di pietra d’Istria con bassorilievo raffigurante una calzatura settecentesca, emblema della Scuola dei Calegheri tedeschi, 1659, cm 13 × 26.


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5. Venezia, chiostro del convento di Santo Stefano, San Marco. Sarcofago del doge Andrea Contarini, arca pensile sorretta da due mensole che inquadrano un’iscrizione con ai lati l’arma dei Contarini (scudo e corno dogale). Sul fronte dell’urna, al centro, è raffigurato Cristo in trono in atto benedicente con ai lati l’annunciazione: Vergine a sinistra e Arcangelo con cartiglio a destra. Bordi con motivi di dentelli e foglie rampanti. Pietra d’Istria, breccia verde antico (1382 ca). Vivaci cromie recuperate quasi integralmente dal restauro: sono leggibili i colori nero, rosso, marrone-bruno, con estese dorature ancora uniformi nella stesura originale.


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6. Sarcofago del doge Andrea Contarini: part. di Cristo in trono. 7. Sarcofago del doge Andrea Contarini: part. dell’Arcangelo con cartiglio e iscrizione.

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8. Venezia, Chiostro del convento di Santo Stefano, San Marco. Arca funeraria a cassone pensile con cornice aggettante, colonnine angolari, sorretta da due mensole, realizzata in pietra d’Istria. Sul fronte si trova l’arma della famiglia Soranzo; scudo gotico antico bipartito orizzontalmente con banda trasversale, posto tra due medaglioni con croce, ripetuti anche ai lati dell’urna (XIV secolo). Cromie: azzurri e dorature, tracce di rosso (forse Bolo) sulle mensole e sull’urna.


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9. Venezia, Chiostro del convento di Santo Stefano, San Marco. Formella con altorilievo in pietra d’Istria: Madonna degli alberetti. La Madonna è raffigurata in trono con in braccio il bambino che tiene in mano una colomba, e posta tra due alberi all’interno di una struttura architettonica gotica con colonne tortili e arco (XV secolo). Sono ben visibili i resti della ricca coloritura antica: rosso, azzurro, verde, ocra, rosa. Parti architettoniche, trono e aureole hanno tracce di dorature.


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10. Venezia, ingresso al convento di Santo Stefano, San Marco. Giovanni Buora, lunetta con altorilievo di pietra d’Istria raffigurante sant’Agostino benedicente e con libro aperto, in piedi tra i Santi Guglielmo di Aquitania (sinistra) e Nicola da Tolentino (destra) che gli sorreggono il piviale; sotto e ai lati del santo vi sono due coppie di confratelli genuflessi, doppia cornice con intreccio e dentelli, 1485-1490. Resti evidenti di cromie antiche nelle parti riparate dall’azione dilavante della pioggia, i restauri del 1994 hanno fatto emergere tre strati di dipintura eseguiti con lo stesso colore ma in tonalità diverse, coperti da uno strato di biacca sovrapposto in epoca austriaca. Colori presenti: rosso, blu, biacca, verde, nero, rosa, bruno, marrone, grigio e resti di dorature. 11. Lunetta di sant’Agostino, part.

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Architetture e sculture policrome a Venezia

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12-13. Venezia, Chiesa di Santo Stefano, San Marco. Capitelli in pietra d’Istria e rosso di Verona con volute angolari a foglia di acanto, sormontati da un abaco con cornice modanata e scolpita a sostegno degli archi della navata centrale (XV-XVI secolo). Azzurro localizzato nei fondi dei capitelli e della cornice dentellata che incornicia gli arconi soprastanti, dorature presenti nei motivi fogliati, nei profili dell’abaco e nei dentelli delle cornici. Colore blu e dorature sono probabilmente ridipinture ottocentesche, ma chiariscono efficacemente le intenzioni degli antichi progetti decorativi.


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Gloria Vallese


la civetta sul ramo di perle. note su bosch e venezia

1-3. Jheronimus Bosch, Santa crocifissa, trittico, insieme e particolari, firmato nel pannello centrale «Jheronimus Bosch», Venezia, Palazzo Grimani (© 2014 foto Scala, Firenze, su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali).

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4. Vittore Carpaccio, Incontro dei fidanzati e partenza dei pellegrini, dal Ciclo di Sant’Orsola, part., tempera su tela, firmato e datato 1495, Venezia, Gallerie dell’Accademia (© 2014 foto Scala, Firenze, su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali).


la civetta sul ramo di perle. note su bosch e venezia

5-6. Vittore Carpaccio, Miracolo della Croce a Rialto, particolari, tempera su tela, Venezia, Gallerie dell’Accademia (© 2014 foto Scala, Firenze, su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali).

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Gloria Vallese

7. Jheronimus Bosch, Trittico degli Eremiti, part. del pannello sinistro, olio su tavola, firmato nel pannello centrale «Jheronimus Bosch», Venezia, Palazzo Grimani (© 2014 foto Cameraphoto / Scala, Firenze). 8. Jheronimus Bosch, Allegoria (Il Bosco che sente e vede), disegno a penna e bistro, Berlino, Staatliche Museen - Preussischer Kulturbesitz, Kupferstichkabinett, KDZ 549r (© 2014 foto Scala, Firenze / BPK - Bildagentur für Kunst, Kultur und Geschichte, Berlin).


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9. Jheronimus Bosch, San Gerolamo in preghiera, olio su tavola, Gand, Museum voor Schone Kunsten (foto Scala, Firenze).

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10. Jheronimus Bosch, Tentazioni di sant’Antonio, trittico, insieme a sportelli aperti, olio su tavola, firmato nel pannello centrale «Jheronimus Bosch», Lisbona, Museu Nacional de Arte Antiga (De Agostini Picture Library / Scala, Firenze).


la civetta sul ramo di perle. note su bosch e venezia

11. Jheronimus Bosch, Tentazioni di sant’Antonio, trittico, part. del pannello centrale, Lisbona, Museu Nacional de Arte Antiga (De Agostini Picture Library / Scala, Firenze) . 12. Jheronimus Bosch, Trittico degli Eremiti, pannello sinistro, part., Venezia, Palazzo Grimani (© 2014 foto Cameraphoto / Scala, Florence, su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali).




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Gloria Vallese

13. Jheronimus Bosch, Tentazioni di sant’Antonio, trittico, part. del pannello centrale, Lisbona, Museu Nacional de Arte Antiga (De Agostini Picture Library / Scala, Firenze).


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14. Jheronimus Bosch, Tentazioni di sant’Antonio, trittico, part. del pannello centrale, Lisbona, Museu Nacional de Arte Antiga (foto José Pessoa, Instituto Português de Museus, Divisão de Documentação Fotográfica). 15. Gian Paolo e Gian Carlo Ranieri da Reggio, orologio, quadrante verso la piazza, 1499, Venezia, Torre dell’Orologio (foto John Volpato). 16. Gian Paolo e Gian Carlo Ranieri da Reggio, orologio, quadrante verso le Mercerie, Venezia, Torre dell’Orologio (foto Paolo della Corte).




alessandro di chiara

1. William Blake, Newton, 1795, incisione, cm 46 × 60, Londra, Tate Gallery.


Verso una pedagogia dell’autodeterminazione artistica

2. William Blake, The Ancient of Days, 1794, acquaforte, acquerello, cm 23,3 × 16,8, Londra, British Museum.




ISSN -

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,

ISBN ----


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