RAPSODIE collana di musicologia
1
Marco Angius
Come avvicinare il silenzio La musica di Salvatore Sciarrino
ILPOLIGRAFO
progetto grafico e redazione Il Poligrafo casa editrice redazione: Alessandro Lise copyright Š maggio 2020 Il Poligrafo casa editrice 35121 Padova - via Cassan, 34 (piazza Eremitani) tel. 049 8360887 - fax 049 8360864 e-mail casaeditrice@poligrafo.it www.poligrafo.it issn 2724-0401 isbn 978-88-9387-121-1
INDICE
Nota alla seconda edizione
7
11 Preambolo
13 Ricognizioni
53
Un’immagine di Arpocrate
77
Vanitas e altre anamorfosi
93
Il simulacro del tempo
99
Lohengrin. Azione invisibile
113
Musiche per Dante
135
Infinito nero
155
Cantare con silenzio
177
Le voci sottovetro
199
Macbeth. Tre atti senza nome
appendice
testi di salvatore sciarrino
221 Premessa
223
Conoscere e riconoscere
231
Lettera a un giovane scrittore
233
Lettera a una studentessa
235 237 239
Opere di Salvatore Sciarrino citate
Indice tematico Indice dei nomi
Nota alla seconda edizione
A tredici anni dalla sua uscita, Come avvicinare il silenzio torna in un’edizione rinnovata e con nuovi contributi: un capitolo dedicato a Efebo con radio (1981), lavoro per voce e orchestra che rappresenta una sorta di distillato dell’opera Cailles en sarcophage (atti per un museo delle ossessioni) (1979-1980), più due lettere inedite del compositore pubblicate in appendice. Nel frattempo la produzione di Salvatore Sciarrino ha continuato ad ampliarsi in tutte le direzioni, quasi rincorsa dagli innumerevoli contributi accumulati fino ad oggi. In questo ambito, il presente volume mantiene e rivendica un profilo autonomo tentando, oltre l’agguerrita impostazione analitica, una via che mostri piuttosto la logica dei processi compositivi mediata dalla mia personale esperienza interpretativa nei confronti della musica di Sciarrino. Apparso e accolto come una meteora nel panorama musicologico italiano, questo libro ha lasciato tracce sensibili in diverse trattazioni successive, costituendo peraltro una fonte diretta grazie alle molteplici discussioni con il compositore avvenute, a più riprese, dal 2000 al 2007 (ma iniziate in realtà nel 1990, a monte della tesi di laurea sull’opera pianistica discussa all’Università di Bologna). [M.A.] Padova, marzo 2020
COME AVVICINARE IL SILENZIO
per Maria, un domani
PREAMBOLO
Tranne il capitolo introduttivo, il volume raccoglie la rielaborazione di alcune letture analitiche apparse fra il 2002 e il 2004 sul trimestrale «Hortus Musicus». Mentre gli scritti originari seguivano liberamente i momentanei interessi d’approfondimento, la disposizione attuale si accorda cronologicamente col catalogo delle opere di Sciarrino. Senza la pretesa d’esser esaurienti, i presenti contributi costituiscono un’introduzione a-sistematica e insieme sistematica alla galassia sciarriniana. Sono appunti pervasi da una metodologia innovativa e non convenzionale ma sempre più necessaria, tentativo di percorrere nuove strade di ricerca musicale per mezzo di concetti precisi e non approssimativi, ora più vicini alla genesi di gesti e oggetti sonori inauditi. Se, infatti, la tradizione viene sommersa da stratificazioni che ne arricchiscono le possibili letture ma rendono più faticosa l’esegesi, il moderno è invece assai meno vago di quanto si creda, sebbene spesso accompagnato dall’insofferenza dei contemporanei che lo riconoscono problematico; così il moderno passa di moda per essere solo in seguito riscoperto e rivalutato a distanza, senza coinvolgimenti diretti. Individuare e indicare i concetti-base dell’organizzazione musicale illumina sia alcune intenzioni dell’autore sia il legame, nel contesto culturale, con le altre discipline; in altre parole possiamo accedere al significato dell’opera, alla sua struttura e alle prassi costruttive che la determinano. Possiamo sostenere che in tutte le epoche i compositori s’identifichino nei concetti organizzativi del loro tempo: si tratta di formule e numeri provenienti dalla scienza, venuti alla portata di molti attraverso la divulgazione. Nel proporre una chiarificazione di alcuni di questi principi organizzativi e delle posizioni percettive di Sciarrino, gioca senz’altro a mio favore essere un interprete cui la sua musica è naturalmente familiare; altrettanto deter
minante risulta la conoscenza dei suoi scritti, delle interviste e, soprattutto, i lunghi colloqui avuti con lui. Proprio questa informazione diretta mi ha aiutato a definire gli spunti concettuali e soprattutto quelli indispensabili per una ricollocazione analitica efficace. Il libro è articolato in dieci capitoli più o meno corrispondenti ad altrettanti percorsi compositivi: De o de do (1970), Un’immagine di Arpocrate (1974-1979), le opere anamorfiche (in particolare Vanitas e una serie di lavori orbitanti intorno a questo tema), Efebo con radio e Lohengrin, i cicli su soggetto dantesco (Sui poemi concentrici e la mole di musiche per la Commedia), e siamo oltre la soglia degli anni Novanta; il settimo e l’ottavo capitolo trattano due pezzi diversissimi ma intimamente correlati da comuni articolazioni temporali (Infinito nero e Cantare con silenzio), mentre il nono è dedicato alle elaborazioni di musica antica e ai molteplici soggetti gesualdiani (come Le voci sottovetro). L’ultimo capitolo si concentra sul Macbeth del 2002 (Tre atti senza nome), momento di sintesi assai importante nell’ambito dell’intera produzione sciarriniana. A siglare il volume, una sorta di succinto viatico scritto da Sciarrino all’inizio degli anni Novanta e intitolato emblematicamente Conoscere e riconoscere: seppur rimasto a lungo stranamente inedito, esso contiene una dettagliata serie di riflessioni e considerazioni sull’atto compositivo in relazione ai fenomeni della percezione e ai diversi contesti storico-sociali. Per quanto schematico e forse incerto rispetto ai testi successivi, esso getta però delle basi teoriche sostanziali, destinate a trattazioni più estese (Le figure della musica) o variegate (Carte da suono).
RICOGNIZIONI
Come ci appare oggi la musica di Sciarrino? È un dato di fatto che essa si distingua da tutte le altre. Prescindendo dai vari generi esplorati dall’autore, questa musica ci ha resi spettatori di un fenomeno senza precedenti: il rovesciamento delle normali prospettive d’ascolto. Si spalanca la notte. Un latrato lontano, i grilli, il silenzio che rende assoluti gli eventi sonori più minuscoli. Le voci e le voci delle cose, ma anche tutta una rosa di naturalismo d’estrema immediatezza, gli elementi della realtà umana compresi i disturbi della radio, i segnali di linea del telefono così ingigantiti da ingoiarci (ma è solo un’orchestra). E poi le esplosioni, il liquefarsi dei suoni metallici, il vuoto dilatato che ci fissa. Lo sgretolarsi delle pietre, il grido animale racchiuso negli strumenti, il vento e il fiato. Non distinguiamo più chi respira: siamo noi? L’esecutore? Ci destiamo dentro il suono, al centro, la percezione del mondo ne viene rigenerata. Normalmente la musica invita a un’espressione altrui, mentre Sciarrino coglie alcuni suoni restituendoli in una loro oggettività illusoria, attraverso un sintetico repertorio di rappresentazioni. Dunque l’immersione nel suono avviene in quanto l’ascoltatore reagisce quasi a stimoli ambientali: il concetto stesso di ambiente sonoro come esperienza mentale – che appare diretta e non mediata – è ciò che caratterizza la musica di Sciarrino. Abbiamo innanzi una produzione vasta e differenziata che, con esiti sensibilissimi o violenti, attraversa molti decenni; essa è tuttora in rapida evoluzione anche se alcune sue caratteristiche permangono linguisticamente costanti. Questa musica presenta un rigore incon-
come avvicinare il silenzio
fondibile eppure si dà come un organismo vivente, è fortemente geometrica, ma sfugge: come misurarla? Come definire le sue continue, improvvise variabili? Per avere un’idea delle difficoltà che incontra l’approccio analitico dobbiamo ricorrere al paragone tra la geometria euclidea e la teoria dei frattali: la prima, con le sue figure rigide, è incapace di avvicinarsi alla realtà fisica se non in maniera approssimativa; la teoria dei frattali invece è nata proprio per misurare il mondo fisico. Possiamo fare un esempio elementare: a fronte della regolare irregolarità di un semplice ciottolo i solidi geometrici restano ideali, estranei e del tutto muti. I frattali sono nati per misurare le coste, dal golfo più grande a quello prodotto da un singolo ciottolo. Anche l’enigma degli alberi, così unitario a partire dall’aspetto generale sino alla nervatura più minuta di una foglia, si fa conoscere per mezzo dei frattali, e così le pianure, le montagne e tutte le forme del mondo intorno a noi, o il nostro stesso corpo. Sciarrino racconta di essere partito dalla riflessione che micro e macrocosmo coincidono e di essere stato spinto in questa convinzione dall’osservazione diretta della natura. È un caso singolare che, a partire dal 1968, realizzasse abnormi edifici sonori con una rigorosa anticipazione del concetto di oggetto frattale. Ciò avviene qualche anno prima della formalizzazione teorica di Mandelbrot (1981), ed è sorprendente che l’intuizione artistica possa anticipare una formulazione scientifica muovendo da un contesto assolutamente indipendente. Da poco trasferitosi a Roma, nel 1979 Sciarrino era rimasto colpito da alcune pitture tibetane dove al centro, in grande e a colori, troneggiava una divinità: il fondo dorato di queste pitture era riempito da file monocrome della stessa divinità ma di dimensioni assai più piccole. Ciò che dei frattali riguarda precipuamente il discorso compositivo di Sciarrino è la proprietà dell’auto-somiglianza (l’applicazione di un unico criterio a tutti gli strati dimensionali, come nel caso degli alberi) che permea più vistosamente alcune tra le opere del primo periodo. È l’epoca di De o de do per clavicembalo (1970), lavoro dalle caratteristiche frattaliche esemplari, rimasto fino ad oggi mai analizzato. Tutta la composizione presenta, alla lettura, una sequenza di elementi notati in crome che scorazzano nello spazio; all’ascolto ci investe un’interminabile colata di suono metallico talora discontinuo e a grumi (la densità media del flusso sonoro si mantiene costantemente elevata).
ricognizioni
Come nelle espansioni rizomatiche, è difficile analizzare la singola irregolarità disseminata in un ricorrere periodico: è tuttavia possibile considerandola nel suo contesto. Ecco perché un approccio corretto a questa musica deve iniziare dal generale – per divisione – e non dal particolare – per somma – essendo al suo interno costituita analogamente al mondo organico, esattamente come partiamo dalla fisionomia di un essere vivente per conoscerlo in tutti i suoi aspetti. De o de do (titolo eteronomo rispetto alla fisionomia del pezzo e derivante da formule tribali australi) presenta un trattamento strumentale spinto verso una concezione davvero estrema; il timbro del clavicembalo ne esce infatti completamente trasfigurato sia per mezzo di una fisionomia delle aggregazioni e delle articolazioni interne (ovvero attraverso gli elementi percettivi stessi), sia per la massima velocità richiesta all’esecutore. E le figurazioni, così ispide, graffianti eppure così fuse, giungono ai limiti di una conversione elettronica delle particelle acustiche. Le possibilità manuali sono condotte oltre la soglia abitualmente sostenibile tra notazione e azione esecutiva ma, aspetto piuttosto inverosimile per l’epoca, questi tentativi sono frutto di uno studio sui limiti della percezione, inquadrato con coscienza storica e non come semplice dato stilistico praticamente conseguito. L’iterazione di figure sempre simili e sempre diverse sfrutta la riconoscibilità dei nuclei sonori, senza per questo dover rinunciare ad uno svolgimento discorsivo inedito, fatto di salti, continuità e cesure frequenti: «differenza e ripetizione», ci ricorda Deleuze, si oppongono soltanto in apparenza. [...] La differenza, infatti, come qualità di un mondo, non si afferma se non attraverso una specie di auto-ripetizione che percorre mezzi svariati e riunisce oggetti diversi: la ripetizione costituisce i gradi di una differenza originale, ma la diversità rappresenta d’altra parte i livelli di una ripetizione non meno fondamentale.
Il principio di De o de do è ternario, cioè ogni livello di articolazione impiega multipli e sottomultipli del numero 3; il criterio viene utilizzato rigorosamente sebbene la realizzazione comporti irregolarità che paiono casuali e sono invece volontarie, in quanto rappresentano l’imprevedibile varietà della vita. Queste composizioni sorprendono proprio per alcune caratteristiche e comportamenti che ricordano, a tratti, il mondo degli esseri organici: se ciò incrementa le difficoltà di memorizzazione per l’esecutore, è tuttavia fonte di scoperta sempre rinnovata per l’ascoltatore.
come avvicinare il silenzio
In altre parole l’interprete, per Sciarrino, media tra l’ideatore e ciò che è impossibile o inaudito ai più. Cominciamo dunque ad analizzare la forma nel suo insieme, scendendo attraverso articolazioni progressivamente più piccole, giù fino alle singole cellule, costituite di tre note. A parte i suoni-sfondo (elemento costante di tutta la musica di Sciarrino), sarebbe assai difficile determinare fino a che punto la zona della liquidità competa alle micro-articolazioni più interne del tessuto fonico, ossia fin dove si spinga la fusione sonora delle figurazioni. In ogni caso il fenomeno della liquefazione è un dato ineludibile all’atto di ascoltare o eseguire il brano: A
9 macro-sezioni (3 × 3) (flusso)
B ogni sezione è costituita da 27 gruppi separati (9 × 3)
zona del paese di fondo
C ogni gruppo consta di 3 elementi
(spesso seguiti da un glissato con funzione di punteggiatura o tranciante, a seconda che esso possieda una dimensione ridotta o espansa) D ogni elemento è formato da 3 cellule E ogni cellula è di due tipi: una croma seguita da due notine o da un glissato-trillato corto F ogni componente-base di ciascuna cellula, escludendo il glissato di separazione, è di 3 note
zona competente alla liquidità
(particelle)
a/b All’inizio del pezzo le macro-sezioni non fluiscono ininterrottamente, giacché intervengono tre pause a spezzarle ciascuna in quattro tronconi. Bisogna subito notare che stiamo usando i numeri non per misurare proporzioni bensì per contare unità sonore, cioè fenomeni individuabili e percepibili. Altrettanto importante sottolineare che il criterio ternario applicato a strutture geometriche comporta una sorta di ambiguità numerica. L’atto geometrico del misurare implica di per sé questa ambiguità, una contraddizione che si viene a creare tra il numero e la realtà. Qualche esempio: nel contare un centimetro dobbiamo arrivare alla fine dell’ultimo millimetro, cioè all’inizio del centimetro 2. Lo sa bene ogni direttore d’orchestra: per avere intera una battuta di 4/4 bisogna includere il battere successivo, cioè contare fino a 5 per l’effettiva chiusura del suono (e della relativa campata temporale). Nel raggruppare le unità
ricognizioni
della realtà percettiva questa oscillazione tra due numeri (nel nostro caso il 3 e il 4) implica una riflessione insieme ovvia e non scontata. Dunque tre pause inserite in un continuum lo dividono in quattro, senza che l’autore tradisca la ternarietà prescelta. E in De o de do, costruito ternariamente, si presenta sovente uno sconfinamento verso il 4. Dicevamo delle prime macro-sezioni. Esaminiamone i tronconi: – il primo è una sequenza di 16 gruppi, seguita da una pausa; – il secondo, notevolmente più breve, è di 6 gruppi ed è seguito da una pausa; – il terzo, più breve ancora, conta 3 gruppi ed è seguito da una pausa; – il quarto, di 2 gruppi, s’aggancia con il primo gruppo della sezione successiva. Le pause intermedie di 9/8 (3/8+3/8+3/8) vanno progressivamente accorciandosi con l’avvicendarsi delle sezioni: la loro proporzione infatti si divide per 3 ed ogni pausa infine esita in un istante di respiro ( ’ ) prima di assorbirsi nel continuum stesso. La clessidra che riduce le pause, trapassando nella dimensione opposta, si rivolta in una corona che prolunga nella memoria la cicatrice originaria (dove s’interrompeva il flusso). Ecco lo schema: Sezioni Pause
WE WE WE II J WE WE III E J WE IV , E J , V (continuum) E VI (continuum_____________) , Z I
Z
VII (continuum____________________________)
Z
VIII (continuum____________________________) IX (continuum____________________________)
come avvicinare il silenzio
Grande sonata da camera (1971), diagramma generale
ďœłďœ˛
ricognizioni
I fuochi oltre la ragione (1997), pagina di diagramma
ďœłďœł
come avvicinare il silenzio ambientali. In tal senso, che è quello originario, Vanitas è anche un’ipotesi di teatro povero. Poiché nella dilatazione allucinatoria del tempo la musica viene così spazializzata da non sopportare altra messa in scena della propria nudità.
Sarà forse per l’ossessiva reiterazione delle immagini sonore o per la maniacale stilizzazione dei gesti che nulla passa inosservato in questo superbo prodotto di postmodernismo musicale; anche il riferimento all’anamorfosi della canzone scelta, di cui un brandello di tessuto armonico viene stirato strutturalmente fino a farne la base di sostegno dell’intera composizione, sembra aprirsi a ventaglio su una stratificazione plurima di significati e interrelazioni meta-temporali. Oltre gli ammiratissimi Baltrušaitis e Lacan (quest’ultimo già citato da Sciarrino in Cailles en Sarcophage del 1979), una delle fonti ideali dell’opera può essere ravvisata nel Dramma barocco tedesco di Walter Benjamin (altro autore presente nel libretto di Cailles con estratti da Immagini di città), mentre tutti i frammenti poetici seicenteschi sono stati ricomposti secondo il polo di attrazione dei due baricentri ideali (il concetto di vuoto appunto e quello di natura morta). Il piano complessivo di questa moderna allegoria può essere così sintetizzato:
Ivi, p. 79. «L’impossibilità di divenire invisibili» è il titolo delle note di sala per la prima esecuzione assoluta di Vanitas: questo titolo, racconta il compositore, fu «sognato la notte tra il 13 e il 14 novembre 1981 in riferimento alla cruda fisicità degli oggetti inanimati» (riportato ora in Sciarrino, Carte da suono, cit., p. 77). Jacques Lacan, Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964), Einaudi, Torino 1979. Il tema dell’anamorfosi viene trattato nel capitolo VII, “Lo sguardo come oggetto a” alle pp. 81-92. Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1980. Il riferimento riguarda, in particolare, il secondo capitolo del libro, “Allegoria e dramma barocco”, pp. 162-253. I frammenti ricomposti sono: «Rosa quae moritur / Unda quae labitur / Mundi delicias docent fugaces. / Vix fronte amabili / Mulcent cum labili / Pede, praetervolant larvae fallaces» (sonetto anonimo in latino il cui testo si trova musicato in un mottetto di Antonio Vivaldi per soprano e archi: O qui coeli terraque serenitas, seconda aria, RV 631); «E un diluvio di fiamme a poco a poco / scioglie / scioglie, quasi cometa, il crine ardente/ per minacciar la morte» (da Giovan Leone Sempronio); «Oracolo de’ boschi / anima delle selve/cittadina dell’ombre, ombra sonante / stridul’aura infelice / dell’altrui parlar vago / invisibil imago» (da Giovan Battista Marino); «And the great bell has toll’d, unrung, untouch’d» (da Robert Blair); («Ce beau flambeau qui lance une flamme fumeuse / Sur le vert de la cire éteindra ses ardeurs / L’huile de ce Tableau ternira ses couleurs / Et ses flots se rompront à la rive écumeuse» (da Jean De Sponde); «Das Mündlein von Korallen / Wird ungestalt / Mit Rosen schmück ich Haupt und Haare / Die Rosen tauch ich in den Wein» (da Martin Opitz); «Komm Trost der Nacht, o Nachtigall! / Lass deine Stimm mit
vanitas e altre anamorfosi M. Parish - H. Carmichael Stardust (Pulvis stellaris) Jurgis Baltrušaitis Anamorfosi (Introduzione)
Anonimi Rosa G.L. Sempronio
Jacques Lacan Il Seminario (XI)
Marea di rose
VANITAS
Ultime rose Lo specchio infranto
L’eco Giovan Battista Marino Robert Blair Albrecht Dürer Melencolia I
Walter Benjamin Il dramma barocco tedesco M. Opitz J.C. Günther C. von Grimmelshausen
J. De Sponde
Louis Aragon Contre-chant (da Le fou d’Elsa)
Leggere le ellissi in senso anti-orario partendo dall’Introduzione
Le cinque, ininterrotte sequenze che compongono Vanitas sono precedute da un preambolo «senza tempo» affidato al violoncello e al pianoforte: già le increspature dei tremoli di armonici del primo adombrano la principale linea melodica di tutta l’opera, articolata in una lunghissima messa di voce dal nulla e uno scioglimento discendente – ma zigzagante – che a sua volta si perde nel vuoto. Con questa figurazione discendente la voce esce per così dire fuori di sé, dissolvendosi fuori registro. Sopra un’eco ripetuta con effetto doppler siamo inavvertitamente proiettati nel primo angolo di Vanitas: Rosa. Come già prefigurato in Melencolia I, i rintocchi accordali del pianoforte sono distanziati al punto da impedire ogni possibile tentativo di risalita alla concatenazione armonica originaria e, nelle rare occasioni in cui sembrano sfiorarsi (ossia sono figuralmente contigui: ), producono l’impressione di un conato d’aggregazione iniziale ed estremo. Le tipologie accordali sono tre: l’accordo “per sottrazione” già considerato in Melencolia I, l’accordo sforzato con vibrato “applicato”
Freudenschall/Aufs lieblichste erklingen!» (da Johann Christian Günther); «Die Rose zieret meine Flöten» (da Hans Jakob Christoffel von Grimmelshausen).
come avvicinare il silenzio
al pedale di risonanza e l’accordo “muto” che utilizza solo il secondo scappamento della tastiera. Di questi ultimi due Sciarrino dice: da altri accordi, smorzati a rapidi impulsi, si ricava una sorta di vibrato: esso si perde nella risonanza. Ancora, l’uso del secondo scappamento, da solo, sottrae il suono protagonista e lo allontana, suscitando in primo piano un vuoto psicologico, come se un altro pianoforte suonasse “di là”. Nel silenzio, poi, emerge la risonanza di fondo; e s’intuisce la dimensione dei grandi spazi, inabitati; un vuoto infinitamente echeggiante, dove fluttuano la voce e il suo doppio vibrante, il violoncello – quasi fantasmi lirici d’un usignolo: un vuoto orlato, come un vestito cinese.
Tutto questo primo pannello è avvolto in un silenzio notturno, interrotto solo da una breve incursione pianistica (batt. 56), ossia da un vortice che è anche una piccola “finestra” dimensionale sul movimento successivo (Marea di rose). In questo luogo siderale e fuori dal tempo anche i “lamentosi” mordenti semitonali della voce e del violoncello (in eco o per seste sovrapposte) sono abbellimenti congelati di un’altra epoca che qui tornano ad essere nuovamente funzionanti e ricontestualizzati. Talvolta questo schiacciante “buio acustico” viene bruscamente solcato dai colpi accordali del pianoforte (batt. 106), mentre in altri casi la voce si lascia cadere nel vuoto con lenti glissati discendenti che si infrangono letteralmente proprio sugli accordi “vibrati”: l’invenzione compositiva di questo elemento, dalla curva discendente gradualmente accelerata, si ritrova citata perfino nella colonna sonora di un celebre film di fantascienza, di poco successivo a Vanitas. Se il silenzio acustico è lo sfondo anodino di Rosa, un vertiginoso horror vacui invade Marea di rose, secondo luogo di Vanitas; qui le distorsioni “sintetiche” prodotte dai glissati di armonici del violoncello colmano le fasi periodico-rotatorie dei vortici pianistici, curvando pla-
Questa particolare forma di sintesi sonora utilizza solo l’attacco dell’accordo mentre la vibrazione del pedale di risonanza ne cattura i transitori di estinzione, prolungandoli sotto forma d’eco: ciò crea l’illusione che il pianoforte possieda un meccanismo occulto per ottenere il vibrato. Sciarrino, Carte da suono, cit., p. 79. Si tratta di un esplicito riferimento intervallare ai Kindertotenlieder di Gustav Mahler (1900-1904). Il compositore Vangelis, autore della colonna sonora del film Blade Runner (1982), era presente alla prima esecuzione scaligera di Vanitas.
vanitas e altre anamorfosi
sticamente la superficie prospettica di fondo (il testo è tratto da Giovan Leone Sempronio). La scrittura “a mulinello” del pianoforte ricorda le immagini di un fotogramma scattato con un intervallo troppo lungo in cui i singoli movimenti finiscono col sovrapporsi: in realtà la musica mette qui a nudo proprio il delirio della prospettiva curva, la duplicità illusoria di un tempo in continuo scorrimento eppure sempre nello stesso luogo. Tre tempi differenziati convergono dunque sulla scena: un vortice pianistico che trivella lo spazio circostante flettendosi per gradi cromatici contigui (tempo I o periodico-frazionato), le scosse fulminee dei glissati del violoncello (tempo II o discontinuo-accelerato) e la linea melodica dilatata della voce che, saltuariamente, viene catturata nell’orbita del turbine pianistico (tempo III o discontinuo-rallentato). Con l’ultimo impulso sintetico del pianoforte lo scenario si sposta improvvisamente sul peplo fluttuante dell’Eco, momento centrale di Vanitas, fraseggiato però in 3/4: la trasparenza delle quinte vuote arpeggiate coniuga l’idea di una meccanica orbitalità al distacco vero e proprio dalla materia, adombrando l’inseparabile mito speculare di Narciso. Il mutamento ternario delle misure (3/4) rispetto alla precedente articolazione quaternaria, ospita ora il flusso di arpeggi e la loro inerzia di moto, dando così l’illusione di una propagazione ad infinitum. Eppure queste ondate multiple s’insabbiano episodicamente proprio negli accordi “triangolari” di Stardust, rammentando come la trama interna continui a svolgersi anche al di sotto delle vicende in primo piano (proprio la verticalità condensata di questi accordi funge da centro gravitazionale delle figure arpeggiate interrompendo il tessuto impal
Cfr. anche D’un faune, per flauto in sol e pianoforte (1980). In una bellissima lettura del mito ovidiano Blanchot afferma che «la dimensione mitica di questo mito è che la morte vi è presente quasi senza essere nominata, con l’acqua, la fonte, il gioco floreale di un incantesimo limpido che non s’apre sul senza fondo terribile del sotterraneo, ma che lo specchia pericolosamente (follemente) nell’illusione di una prossimità di superficie. [...] Eco l’ama non lasciandosi vedere, essendo così una voce senza corpo, condannata a ripetere per sempre l’ultima parola – e null’altro – quella che chiama Narciso all’incontro e a una sorta di non-dialogo, a un linguaggio che, lungi dall’essere il linguaggio da cui dovrebbe venirgli l’Altro, non è che allitterazione mimetica, rimata, di una parvenza di parola» (in Blanchot, La scrittura del disastro, cit., pp. 145-146). Nel 1984 Sciarrino compone Raffigurar Narciso al fonte (per due flauti, due clarinetti e pianoforte), una sorta di studio sulle rifrazioni duplici di una stessa figura, sullo sdoppiamento percettivo delle immagini sonore e sulle fratture discorsive provocate dall’apertura di piccole “finestre” spazio-temporali.
come avvicinare il silenzio
pabile delle oscillazioni). Il rintocco di una quinta vuota ipergrave incastra l’eco del pezzo precedente sul successivo verso di Blair (batt. 52-56: «and the great bell has toll’d unrung, untouch’d») e segna così il giro di boa di questo terzo quadro attraverso un’ampia “finestra” retrospettiva su Marea di rose (le batt. 47-58 dell’Eco sono cioè omologhe alle batt. 27-38 di Marea): il ritorno delle figurazioni arpeggiate (batt. 59) si dissolve negli accordi-fantasma di Stardust (compresa la loro sottilissima eco ottenuta col solo doppio scappamento) e nei richiami dei grilli (violoncello, batt. 91 e sgg.) che si propagano all’interno del movimento successivo (Lo specchio infranto, batt. 1-36). Questa forma non suona dunque schematica, proprio perché si serve di una serie di incastri tra diversi momenti formali. Come già ricordato per il Canto degli specchi, lo Specchio infranto – pulvis stellaris – ove si svela l’anamorfosi è in gran parte basato sulla de-scrittura anamorfica dello Studio op. 25 n. 1 di Chopin; in un luogo dove nulla è uguale a se stesso o a ciò che sembra, si spalancano le porte del simulacro iperrealista, della geometria “organica” e del mondo dei frattali. Al continuum pianistico si oppone ora una riconoscibile discontinuità degli eventi: le rotture degli specchi, simulate da cluster violentissimi che disperdono l’energia degli impatti in uno sbriciolamento sonoro, provocano l’apertura di finestre dimensionali d’impronta naturalistico-mimetica, nelle quali si affacciano immagini di sconvolgente verosimiglianza. La prima frattura (violoncello, batt. 36) concentra l’attenzione sul ticchettio di un orologio a pendolo che risuona nel vuoto come fosse gigantesco: l’effetto, letteralmente inventato da Sciarrino, consiste nel pizzicare con l’unghia la II corda oltre il ponticello e, alternativamente, sfiorare la I col polpastrello. Il secondo iato è a batt. 62, dove riemerge inaspettato il verso dei grilli (violoncello, batt. 62-64), subito troncato da un cluster pianistico; i cluster agiscono qui come interruttori gestaltici, attivando o disattivando “finestre” meta-temporali limitrofe con l’istantaneità del montaggio cinematografico. Il fine è quello di aprire la prospettiva d’ascolto su più paesaggi simultanei facendo affiorare tracce mnesiche e spingendo l’opera verso l’acme drammaturgico: le interruzioni si fanno più pressanti (pianoforte, batt. 64, 76, 83 e 87) finché la morte muore («et moritur mors», batt. 83-84) e si smaschera l’anamorfosi (violoncello, batt. 87-88). Un monologo notturno ed agitato apre le Ultime rose, estremo pendant di Rosa (cosa di più teatrale dell’attore che osserva il proprio volto allo specchio?):
vanitas e altre anamorfosi Das Mündlein von Korallen Wird ungestalt. Mit Rosen schmück ich Haupt und Haare, Die Rosen tauch ich in den Wein. Komm Trost der Nacht, o Nachtigall! Lass deine Stimm mit Freudenschall Aufs lieblichste erklingen! Die Rose zieret meine Flöten.
All’usignolo evocato dal testo di Günther («Komm Trost der Nacht, o Nachtigall!», batt. 24-31) risponde una melopea lontanata che s’insinua negli spazi conclusivi del Lied prima di perdersi nel vuoto di un’eco infinita (violoncello, batt. 74): la serie degli armonici sgranati dal violoncello – che imitano un flauto lontano – viene anticipata dalla recitazione della voce, la cui linea melodica d’apertura si muove tra distese sillabazioni omoritmiche e vocalizzi con messe di voce sospese nel vuoto. Gli accordi-ombra, nelle tre diverse tipologie, sono gli unici eventi pianistici di questo finale: oltre che segnare un tracciato ectoplasmatico del silenzio, essi sembrano cercarsi lungo distanze sempre più insostenibili e metafisiche, presentando inoltre alcune varianti armoniche che li rendono ancor più intensi. I glissati della voce echeggiano in quelli del violoncello che li rispecchia in forma rovesciata (batt. 44-46 e 48-50); l’armonico dell’arco diventa ora un suono fumoso, ulteriore fondo svelato solo a tratti. Questi cambiamenti alternati di carattere e colore (vicinanza/lontananza, chiarezza/opacità, lucidità/follia) ostacolano volutamente la focalizzazione delle immagini e la percezione stessa del divenire drammaturgico (anche l’effetto doppler con cui si dileguano le duplicazioni dei mordenti suggerisce una spazialità virtuale intorno alla voce): sono figure metamorfizzate in pure rifrazioni, segnali acustici destinati a perdersi nel nulla fin dal loro primo apparire, tracce di gesti che evaporano istantaneamente come aloni di fiato su vetro.
La discesa del glissato del violoncello (dal si al reb ) occupa circa un decimo del 6 2 tempo di esecuzione di tutta l’opera. Tecnicamente l’effetto è ottenuto afferrando «la corda fra pollice e indice per glissare più lentamente possibile. Quando sarà stato percorso un sufficiente tratto di corda passare impercettibilmente al polpastrello premuto. Il cambio delle arcate non deve avvertirsi. La durata generale del glissato, alle prime esecuzioni, si aggirava intorno ai 4 minuti primi» (da una nota finale dell’Autore alla partitura).
IL SIMULACRO DEL TEMPO
Seduti in una sala da concerto, aspettiamo che la musica inizi. Invece giunge un flusso di frantumi: canzoni e annunzi radiofonici inframmezzati a lunghi sfrigolii elettrici, come si trattasse di segnali di ricezione, d’interferenze casuali. Alcuni suoni ci sembrano vicini e chiari mentre altri sono lontani e indecifrabili. L’impressione, dopo pochi istanti, è di essere davanti a una grande e immaginaria radio a valvole la cui virtuale manopola è azionata in modo irregolare. Quest’anomala esperienza musicale si verifica puntualmente quando viene eseguito Efebo con radio di Salvatore Sciarrino, per voce e orchestra; il brano, composto nel 1981, intreccia in modo semplice e inequivocabile molteplici dimensioni d’ascolto. Per comodità di lettura, dobbiamo anzitutto distinguerne i livelli globali: – una piccola orchestra sinfonica (acustica) simula un mezzo tecnologico; – l’orchestra si sdoppia in due funzioni principali, creando però l’illusione di tante orchestrine e suoni-disturbo per i più disparati frammenti di canzoni; – l’origine di questi frammenti di musica commerciale, che hanno caratterizzato gli ascolti radiofonici precedenti l’adolescenza di Sciarrino, consiste in canzoni anteriori al 1950, perlopiù americane, trattenute oltreoceano durante la guerra; – la voce svolge un ruolo doppio, in quanto canta con le orchestrine e interviene con annunci parlati; «Quando bambino giocavo con la radio», ricorda il compositore, «essa costituiva un generatore di suono elettronico, rudimentale ma
come avvicinare il silenzio
abbastanza ricco». Vi è dunque, in Efebo con radio, un aspetto diaristico, intimo, di memoria personale, ma anche uno più documentaristico che consiste nel rendere con tocchi accennati la fisionomia della radio italiana dei primi anni Cinquanta e insieme suscitare un’atmosfera d’epoca. In ciò è ovviamente implicita una ricerca sulle canzoni di quegli anni; i flash di musica leggera, ad esempio, suonano arrangiati con il colore che contraddistingue le orchestrazioni all’americana. Nell’insieme Efebo rappresenta una prova suprema d’illusionismo percettivo tale che, quando venisse trasmesso e recepito su di una vecchia radio, la differenza tra suono/contenuto e mezzo tecnologico/contenitore tenderebbe paradossalmente a scomparire. Per l’ascoltatore, infatti, l’opera riprodotta non sarebbe separabile dall’apparecchio che la trasmette; inoltre, spiega il compositore, ciò che in tutte le altre composizioni sono i suoi suoni, la materia preziosa con cui plasma il suo universo, «qui è umilmente ridotto a disturbo delle trasmissioni o, più spesso, allo sfrigolante passaggio da una all’altra, che è come il connettivo sonoro dell’intero lavoro». Costruito come un singolare lungometraggio sonoro, Efebo con radio incarna la molteplicità linguistica e morfologica di un’opera musicale prossima al simulacro acustico o «ibrido genetico» (secondo una delle ricorrenti definizioni di Sciarrino), dalla caratteristica patina sonora e con cuciture testuali fittizie quanto ineffabili (i testi delle canzoni combaciano solo raramente con quelli originali). Se i suoni elettrici, prodotti dagli archi secondo una scrittura tipicamente sciarriniana, vengono subito scambiati per segnali di una radio a onde medie (anche per l’emissione di frequenze sovracute che li connotano), il gioco delle interferenze sposta ambiguamente il piano d’ascolto e lo modula su brandelli musicali e testuali. La casualità apparente di queste interferenze, pur basate su di un potere mimetico, viene contraddetta da ritorni variati che inducono il dubbio di un continuo déjà vu. Ecco, di seguito, l’inizio del pezzo.
il simulacro del tempo Testo Battute in un low un sos- pian sai che stringi -mor sognar It had to be you così... mai nessu- (roco) con te ciel -stri cuor vel tuo (voce di attore adulto che finge tenerezza) ...e dimmi bambino che fai qui tutto solo? Labbra vien amor
3 5 7 9 12 14 14 15 15-16 17-18 18 21 23 25 27 30 33-34 37 38-40
Più avanti, la voce autosimula una percezione confusa del segnale: (decisa) comunicati commerciali
64
(maschile, roco) per mangiarti meglio!
66
(voce acuta di bimbo) piangi? -oi et moi, dance avec moi
67-69
Mamma (tenorile) speak low (normale) maman (infantile)
73-74
(voce tremolante, baritonale) -ques fleurs, quelques rubans, Billet doux, lettres d’amant,
83-87
(annunziatrice distaccata) L’Azienda Autonoma Strade Statali comunica: sono chiusi al transito i seguenti passi e valichi alpini: Piccolo San Bernardo, Gran San Bernardo, Sempione, Spluga, Stelvio, Giovo, Pordoi, Falzarego, Montecrocecarnico, Previl (roco, quasi incomprensibile) Causa interruzio-
122-130
come avvicinare il silenzio
Le combinazioni interne sono articolate in: a) violini I/viole 1-2/violoncelli 1-2 b) violini II /viole 3 e 4/violoncelli 3 e 4 c) contrabbassi
a) Ai violini primi (con viole 1-2 e violoncelli 1-2) sono affidati rari interventi così distribuiti: glissati-tremolati di armonici (violini 1-4), trilli di armonici (violini 5-8), con l’unica eccezione a batt. 275 (jeté, violini 5-8). I glissati collegano i ritorni ciclici degli eventi o li dilatano nel tempo ritardandone il giro successivo. b) A ciascuna parte viene affidato un solo suono così da ottenere, per mezzo di entrate successive regolari, uno spettro armonico composito ma senza una successione rettilinea dell’ordine frequenziale (dal suono più grave al più acuto o viceversa) ossia, secondo un processo di composizione e dissolvenza che attraversa tutti e tre i Poemi, seguendo un ordine spezzato a zig-zag. Tale spettro appare qui in quattro forme principali sottoposte a trasformazioni di tipo combinatorio che agiscono sui criteri di successione dei suoni così da rifrangersi in figurazioni speculari (batt. 43-45, 60-64, 70-73, 78-82, 95-99, 126-131, 163-167, 174-183, 473-476, 479-482, 510-514) o ripetizioni in tremolo (214-218, 228-236, 285-287): «all’iridescenza che fa da struttura comune, su un altro strato s’alternano grandi onde di suono. Le tre onde della respirazione cosmica sono aspri suoni delle ance, e soffi, e pioggia di fuoco celeste (archi) nell’Inferno». c) I pizzicati-glissati discendenti (o “spari”) sono eseguiti dai quattro contrabbassi in controtempo all’interno della battuta o della terzina acèfala (a eccezione delle battute 52, 270, 311, 319, 381, 518, dove avvengono scambi con parti della sezione di violoncelli) e sono presenti solo in questo primo Poema. Questa figura si presenta sempre in combinazione coi colpi di lingua dei fagotti (vedi più avanti alla sezione Fiati) e l’input della terza grancassa: tre elementi che possono essere letti anche come unico impulso composito. Più avanti si svela l’affinità dei pizzicati-glissati con le “meteore” di battuta 36 (contrabbassi I e II) che appaiono come glissati discendenti di armonici all’unisono in entrate ravvicinate: una remine-
Sciarrino, Carte da suono, cit., p. 160.
musiche per dante
Sui poemi concentrici, particolare del grafico preparatorio per lo strato delle iridescenze
ďœąďœ˛ďœą
come avvicinare il silenzio
scenza del Lohengrin che si presenta poi moltiplicata (batt. 55, 285-86, 374-75) o isolata (batt. 195). fiati L’impiego dei fiati segue un criterio di parziale sottrazione nel corso delle tre parti: oboi e fagotti suonano soltanto nel primo Poema, il clarinetto basso nel primo e terzo, la tuba nei primi due. Ciò si deve anche alla presenza di diversi solisti e, conseguentemente, a sfumature di carattere ambientale. a) Legni – colpi di lingua rapidissimi (fagotti 1/2 e controfagotto). Anche questa figura è propria solo della prima Cantica e, come già detto sopra (cfr. Archi/c) è associabile ad un solo evento sintetico. – multifonici con attacco sincrono, “sospesi” in controtempo (oboi, fagotti e clarinetto basso) e a fascia prolungata o in pulsazioni periodiche (batt. 249-250, 322-323, 332-333): queste ultime anche sfalsate in imitazione per ottenere cangianze timbriche (batt. 446). Sono utilizzati due soli suoni multipli. – jet-whistles (flauti 1/2) e flatterzunge (flauti e clarinetto). I glissati dei flauti si accompagnano sempre al colpo muted della terza grancassa (componente grave di questi timbri inarmonici), mentre i flatterzunge si intrecciano contrappuntisticamente a quelli degli ottoni (vedi sotto), catturando suoni dello spettro armonico degli archi (vedi sopra Archi/b, per prolungarne o anticiparne la risonanza. b) Ottoni Gli ottoni (nella prima Cantica: due corni in fa, due trombe, due tromboni e tuba) presentano due modi di emissione: soffio liscio o flatterzunge (anche in impasto simultaneo). Come per i multifonici dei legni, Sciarrino utilizza i soffi sia in modo continuo che a impulsi sequenziali (batt. 246-247) e così per i flatterzunge, echeggianti all’unisono i tremoli degli archi. Va sottolineata anche l’estrema riduzione quantitativa di questi interventi (tacet: batt. 356-386, 389-440, 443-514).
Il riferimento si trova al n. 50 della partitura. L’uso dei glissati sulla corda sfiorata o d’armonici è del resto già presente nella produzione di Sciarrino fin dagli esordi (cfr. in proposito il Secondo Quartetto per archi del 1967).
musiche per dante
c) Violoncello solista Suona in interventi rari ed isolati, sempre con strettissimi glissati di armonici, secondo una riconoscibile scrittura strumentale sciarriniana: «il maggior numero di oscillazioni nella durata prescritta. Eseguire come un vibrato ampio e nervoso (ma senza premere il dito; molto vicino al ponticello!)». POEMA II
«Usciti dalle viscere della terra ecco un frinire per il Purgatorio, dove il giorno s’alterna alla notte e i grilli alle cicale». Questo secondo pannello (come il terzo) è perfettamente simmetrico al precedente nel ritorno temporale degli eventi: ripercorriamo da capo lo stesso itinerario con sottili ma tangibili variazioni, mentre vediamo nascere nuovi cicli di rivoluzione intorno alle combinazioni spettrali (ovvero le figurazioni degli Archi/b). Abbiamo già sottolineato il mutare dell’orchestrazione per sottrazione di suoni e strumenti, mentre il continuum realizzato prima dalle lastre e grancasse viene ora sostenuto dai violini l in tremoli d’armonici a impulsi frazionati (che richiamano, in secondo piano, il canto diurno delle cicale) o ininterrotti (canto notturno dei grilli): violini I " " "
1-2 (batt. 12-538) = impulsi frazionati in terzina (hoquetus), all’unisono con vl. 3-4 3-4 (batt. 11-538) = tremolo ininterrotto all’unisono con vl. 1-2 5-6 (batt. 11-538) = impulsi frazionati regolari (hoquetus), all’unisono con vl. 7-8 7-8 (batt. 11-538) = tremolo ininterrotto all’unisono con vl. 5-6
In questo modo Sciarrino sostituisce ai colori scuri e sotterranei delle percussioni nel Poema I, un suono-sfondo che rende l’orizzonte
Si vedano le altre opere dedicate a questo strumento come le Variazioni del 1974, i Due studi dello stesso anno e Vanitas, per voce, violoncello e pianoforte (1981). Dai «segni e avvertimenti» della partitura. Sciarrino, Carte da suono, cit., p. 160. Relativamente a questi espliciti richiami naturalistici vedi, ad esempio, i già citati Lohengrin (in particolare il Prologo attraverso una finestra aperta e la prima scena, nn. 6 e 45) e Vanitas (L’eco, batt. 103-110, Lo specchio infranto – pulvis stellaris – ove si svela l’anamorfosi, batt. 62-64), ma anche, nell’ambito della produzione cameristica, Codex purpureus II (1984), per quartetto d’archi e pianoforte.
come avvicinare il silenzio
È curioso notare che, senza voler compiere un’operazione filologica vera e propria (e probabilmente disinteressandosene), il compositore colga in questo caso un lato paradigmatico della prassi compositiva dei madrigali di Gesualdo rispetto a quelli monteverdiani, come osserva altrove Lorenzo Bianconi: alla epigrammaticità musicale di Gesualdo e soci, tutta fondata sulla traslitterazione musicale di un “concetto”chiuso nel giro di poche immagini poetiche “aculeate”, i sonetti petrarcheschi e mariniani del sesto libro di Monteverdi sostituiscono superfici sonore distese, grandi contrapposizioni tra episodi a voci piene ed episodi solistici (dove talvolta le voci sole individuano i personaggi di un dialogo amoroso).
In base a queste peculiarità compositive della scrittura gesualdiana, potremmo dunque confrontare l’elaborazione di Sciarrino come segue: Scrittura gesualdiana
Battute
Elaborazione di Sciarrino
Omofonico-imitativa 1-7 voce-strumenti (crotali con l’arco) Omofonico-diatonica 8-13 variazioni dell’agogica (senza perc.) Cromatico-imitativa 14-18 campane tubolari " " 19-29 solo strumenti Mista 30-36 madrigalismo con eco rovesciata Diatonico-imitativa 37-40 solo strumenti Mista 41-47 ripresa variata di batt. 30-36 Diatonico-imitativa 48-52 ripresa variata di batt. 37-40
La sfida di Sciarrino è quella di restare fedele alla sostanza musicale di Gesualdo rinunciando a gran parte del testo cantato; colpisce intanto il madrigalismo speculare sulla parola «gridando» ripetuta pp in eco, il colpo di campana tubolare (batt. 18) che fa da pendant a quello dei crotali insieme al resto dell’ensemble («Ahi», batt. 19), la correzione del manoscritto con l’aggiunta di un diesis all’originaria nota fa dell’originale (flauto basso, batt. 24) cui segue un fruttuoso rovesciamento del contrappunto, le oasi oniriche delle batt. 34 e 45 (quest’ultima appoggiata sul colpo di slap del clarinetto – batt. 46 – con effetto di piz Lorenzo Bianconi, Storia della Musica, vol. 4: Il Seicento, Edt, Torino 1985, pp. 7 e 22.
le voci sottovetro
zicato), la percussione che scatena momenti di contrasto con le zone più rarefatte (batt. 39-40 e 49-50), suscitando associazioni timbriche dal sapore spiccatamente etnico (in senso “partenopeo”o “tibetano”). L’archetto del violoncello sotto le corde nella battuta finale, inoltre, produce un duplice risultato: da un lato sintetizza in un solo attacco la componente grave e quella acuta (I e IV corda, altrimenti udibili solo separatamente o su due strumenti con l’arco in posizione normale), dall’altro modifica l’aura della misura agendo spazialmente sui parametri timbrico-percettivi.
Le voci sottovetro, Tu m’uccidi, o crudele, batt. 19-23
Mentre la voce è caratterizzata da repentini mutamenti di carattere, gli strumenti ripercorrono i sentieri del testo – non cantato – fornendo la risultante musicale di quelle immagini crude e lacerate. Per quanto riguarda la Canzon francese del Principe, terzo brano della raccolta, Sciarrino ha lavorato direttamente sul manoscritto (di attribuzione gesualdiana) che presenta notevoli ripensamenti: le fioriture, in una prima stesura sobrie e appena abbozzate, vengono successivamente sviluppate (da Gesualdo?) con interventi di farcitura. È più che plausibile l’ipotesi che il lavoro fosse destinato all’archicembalo ideato da Nicola Vicentino o a un ensemble strumentale, così come forte è la parentela con le contemporanee Stravaganze di Giovan
come avvicinare il silenzio
ni Maria Trabaci e Giovanni Macque: nessun rimando all’andamento e alla struttura discorsivo-temporale delle forme madrigalistiche (tranne un lieve accenno alle battute 19-20 e 56-58), mentre un cromatismo folle quanto spregiudicato si oppone ad accordi consonanti, privilegiando un costante intreccio imitativo. L’alternanza e combinazione di questi due principi (imitazione e fioritura) nello stile della canzone variata s’identifica perfettamente con un aspetto essenziale della logica compositiva sciarriniana, ovvero con la sospensione/interruzione del flusso discorsivo (e temporale) mediante eventi che modificano la direzione dell’ascolto e della percezione. Le relazioni e trasformazioni che si innestano su questi cambiamenti di rotta finiscono con l’incidere sulla macrostruttura stessa della composizione: l’abbellimento, del resto, è la cifra stilistica su cui Sciarrino lavora praticamente dall’inizio della sua attività di compositore. Nella Canzon francese queste lunghissime fioriture creano dei vuoti armonici talmente estesi da costituire episodi autonomi dal contesto complessivo del brano (vedi per esempio le battute 10, 21-22, 27, 29, 43-44, 59-62, 66-67) mentre, da un punto di vista microformale, esse segnano sempre il passaggio da una sezione alla successiva, come se la solidità della struttura imitativa delle voci si liquefacesse di volta in volta disperdendosi in pulviscoli melismatici. Schematizzando abbiamo: Battute 1-11 11-16 16-23 23-29 29-45 46-56 56-68
esposizione: soggetto e controsoggetto sogg. per diminuzione controsogg. per diminuzione controsogg. rovesciato e per dim. con frammenti di coda frammenti del sogg. per dim. combinati con l’originale sogg. per aggravamento definitiva dispersione di sogg. e controsogg. nelle figurazioni melismatiche
La scrittura sciarriniana affida al trio d’archi l’incipit dell’esposizione, con l’uso costante di sordine da studio, più pesanti di quelle ordinarie e dal profilo timbrico maggiormente opaco (batt. 1-6: dall’organico stavolta sono esclusi pianoforte e percussioni). Inesauribili le soluzioni proposte da Sciarrino, che scindono le figurazioni melismatiche tra i diversi strumenti (vl./vla./fl. bs., batt. 10; vla./cr. ingl., batt. 27; vl./ cl. bs, batt. 35; vcl./vl./vla./fl. bs., batt. 43-44; cl. bs./vl./vla.,batt. 67),
le voci sottovetro
moltiplicano il virtuosismo dell’originale gesualdiano con raddoppi cangianti (vl./cl. bs., batt. 21; vl./fl. bs., batt. 59-61 e 64; fl. bs./cl. bs., batt. 65; vcl./cl. bs., batt. 66; vla./fl. bs., batt. 67), articolano i trii in due cori battenti (batt. 46-49), distendono la notazione in calzanti messe di voce lungo gli archi di tensione delle figurazioni veloci (batt. 43, 61-63, 65-66), puntualizzano gli spostamenti del baricentro armonico con impulsi che scuotono la rete polifonica dall’interno (fl. bs./cl. bs., batt. 43; vcl./fl. bs., batt. 54) e, ancora, sfiorano la materia acustica in impalpabili mormorii ai limiti dell’udibile (batt. 65-68) o esplorano, rivitalizzandole, innumerevoli possibilità di riverberazione a distanza di singoli suoni (bicordo pizzicato e flautato di vl./vla., batt. 63, con armonico in eco del flauto basso e dissolvenza incrociata del corno inglese). Il quarto e conclusivo pezzo, Moro, lasso, presenta soluzioni ancora diverse; intanto il testo viene ripreso integralmente e la presenza della voce non è più frammentaria o episodica come in Tu m’uccidi, ma diventa filo conduttore dello svolgimento discorsivo (le parti più interessanti vengono infatti estratte e trasformate in una sorta di lied). Il trattamento strumentale restituisce invece il clima allucinato della composizione attraverso una serie di cambiamenti della logica operativa di base. Interessante notare come lo stesso Carl Dahlhaus avesse già evidenziato i punti di contatto di questo madrigale con Dolce mio ben di Nicola Vicentino, confrontando le due concezioni del cromatismo: Vicentino intendeva dunque la composizione come un contrappunto in astratto: un contesto di intervalli trattati come specie diverse, terze o seste senza più precise determinazioni. La differenza fra terza o sesta maggiore o minore è contrappuntisticamente irrilevante. [...] Le alterazioni cromatiche ed enarmoniche con cui Vicentino sperava di restaurare i meravigliosi effetti degli antichi generi musicali, dal punto di vista compositivo appaiono come aggiunte ornamentali. Il cromatismo, che nella valutazione estetica pare la sostanza, contrappuntisticamente risulta l’accidente. La tecnica cromatica di Gesualdo ha come presupposto proprio questa distinzione fra struttura e colorazione, fra contrappunto astratto e alterazioni che danno il colore: il regolare trattamento della dissonanza si mescola col cromatismo più radicale.
La forma del brano può essere così riassunta: Carl Dahlhaus, Zur chromatischen Technik Carlo Gesualdos («Analecta musicologica» IV, 1967, pp. 77-96), pubblicato in Il madrigale tra Cinque e Seicento, a cura di Paolo Fabbri, il Mulino, Bologna 1988, p. 211.
come avvicinare il silenzio
Soprattutto la canzonatura comica del servo nei confronti del padrone, con l’inversione dei ruoli/parte, giunge a proposito verso la fine della tragedia, quando cioè l’innesto di un tono ironico supera irresistibilmente quello tragico e il capriccio di Macbeth deve attendere l’autorità del servo: quest’ultimo, dapprima vittima, diventa ora il suo aguzzino (Macbeth: «Dammi l’armatura!»; Servo: «è presto»; Macbeth: «voglio metterla»; Servo: «voglio metterla», con vocina in falsetto, batt. 38-44). Il coro interviene una sola volta a metà della scena («È morta la regina», batt. 89-94), mentre la seconda parte di questo pannello vede la sortita del soldato di vedetta in un passo di estremo e concitato virtuosismo («Signore dovrei riferire/ma non ho parole», batt. 176-189) fino alla dissolvenza madrigalistica in aliti ventosi (Macbeth: «Dài vento, soffia/distruzione vieni», batt. 194-206). Segue un breve intermezzo strumentale, «La perfidia», affidato sostanzialmente al quartetto d’archi dell’ensemble in buca e aggiunto dal compositore avanti la prima rappresentazione per dare respiro scenico al portamento generale dell’opera. Per ascoltare le stesse cose che tornano diverse c’è infatti bisogno di qualcosa di sostanzialmente nuovo che distolga l’attesa dalla continuità degli eventi: ciò costituisce anche un importante accorgimento per evitare che ogni ritorno diventi semplicemente meccanico. La scrittura di questo enigmatico movimento (ossia la scrittura di voci fatte strumento ma anche del suo esatto contrario) è al tempo stesso monodica e monadica: due morfologie principali, una con messa in voce e l’altra con figure brevi e velocissime, si alternano all’unisono isolate da pause acustiche intermolecolari. Quest’articolazione fatta di piccole ondulazioni inizia ad intorbidarsi con graduali battimenti microtonali, fissandosi ossessivamente intorno a un medesimo inciso motivico (batt. 15-19) per confluire in una ripresa (batt. 20); prima che il processo si riattivi in maniera simmetrica (batt. 35-38) l’episodio viene bruscamente interrotto (batt. 39, ens. 1 e 2). La scelta finale della seconda scena si ripresenta anche alla fine della «perfidia» per agganciarsi con la seguente scena terza. Essa ruota intorno al passaggio dei poterimaschere tra Macbeth e Macduff, siglando così circolarmente anche la struttura drammaturgico-musicale dell’opera: i richiami speculari alle prime due scene dell’atto I, fuse in un unico blocco, producono l’effetto di una caduta irreversibile e a spirale, essendo peraltro incrementate dalla frequenza delle intermittenze spazio-temporali già sottolineate a proposito delle scene iniziali.
macbeth. tre atti senza nome
Macbeth (2002), appunti per il diagramma del Congedo
come avvicinare il silenzio
Macbeth (2002), diagramma del Congedo
macbeth. tre atti senza nome
Macbeth (2002), diagramma definitivo del Congedo