cover magnano 2014.11.12.qxp:graghie1.qxd
24-11-2014
14:54
Pagina 1
Renato Guttuso, Cactus sul golfo di Palermo, 1978
e 15,00
in copertina
ILPOLIGRAFO
ISBN 978-88-7115-872-3
IL DESERTO DI GIOBBE
Giovanni Magnano di San Lio, nato a Catania nel 1934, dove si è laureato in Giurisprudenza, vive e lavora a Roma, città in cui svolge la professione forense. Nel 2008 ha pubblicato Le foglie d’acanto. Sicilia del XIX secolo: ritratto di un mondo nobiliare in declino (L’Autore Libri Firenze).
Giovanni Magnano di San Lio
Una grande famiglia siciliana si affaccia sull’alba del Novecento ricca di un patrimonio culturale e morale tramandato dai suoi antenati, la cui memoria è tenuta costantemente viva dallo straordinario diario trovato fra le carte dell’insigne capostipite. Quattro generazioni di Bennato di Santa Lucia si troveranno ad attraversare da protagoniste il ventesimo secolo. Il terremoto di Messina, le guerre mondiali, il fascismo e l’occupazione nazista, fino al disastro di Chernobyl sono alcune delle tappe che orientano i protagonisti della vicenda verso la ricerca del bene comune. Il «deserto» del titolo si fa dunque emblema di una condizione drammatica, ma più ancora di una precarietà esistenziale che affonda le proprie radici nella ferinità dell’uomo novecentesco, proteso allo sterminio dei propri simili, tra aspirazioni interventistiche, volontà di potenza e soluzioni finali. Il risveglio della coscienza civile, del senso di giustizia, della vocazione alla politica come forma di autentico servizio nei confronti della collettività saranno strumenti di rinascita, consapevolezza e catarsi. In questo romanzo corale e pieno di vita Giovanni Magnano di San Lio tratteggia un grande affresco della società siciliana – e italiana – tra la fine dell’Ottocento e gli ultimi decenni del Novecento, raccontando la storia di una famiglia che, nonostante le tragedie vissute sulla propria pelle, risulta essere, parafrasando Tolstoj, una famiglia felice che non assomiglia a nessun’altra famiglia felice.
Giovanni Magnano di San Lio
IL DESERTO DI GIOBBE POLIGRAFIE
ILPOLIGRAFO
poligrafie
voci, storie, narrazioni
5
Giovanni Magnano di San Lio
IL DESERTO DI GIOBBE
ilpoligrafo
Copyright Š novembre 2014 Il Poligrafo casa editrice srl 35121 Padova via Cassan, 34 (piazza Eremitani) tel. 049 8360887 - fax 049 8360864 e-mail casaeditrice@poligrafo.it www.poligrafo.it ISBN 978-88-7115-872-3
INDICE
11 I. 18 II. 29 III. 37 IV. 49 V. 65 VI. 80 VII. 95 VIII. 105 IX. 118 X. 125 XI. 135 XII. 144 XIII. 157 XIV. 170 XV. 175 XVI. 181 XVII. 191 XVIII. 202 XIX. 211 XX. 221 XXI.
La scommessa Il filo d’oro Adamo La cassaforte Magda Gli zii Don Padre Martin La catastrofe La pazienza di Giobbe Jolanda L’aquilone Schuster, Leandro e Antonio Don Nicola, Mosè e le suore di Santa Brigida Alba tragica Il postino della speranza Impegno civile Democrazia Follia dell’anofele Clausura L’onorevole Aux personnes!... Aux personnes! (trentotto anni dopo)
Chi fa il male odia la luce e se ne allontana. Colui invece che pratica il bene arriva alla luce. Giovanni, III, 20-21 Il cammino verso il progresso sarà ripreso il giorno stesso in cui gli uomini avranno capito che la violenza non è forza ma ostacolo e che la forza è giustizia, verità, libertà, dolcezza, pace. Joseph Alphonse Gratry, 1805-1872 A coloro i quali “sanno”, i quali conoscono la “verità” e credono di essere in dovere di attuarla, noi dobbiamo opporre il principio che noi conosciamo la verità se e finché abbiamo la possibilità di negarla. Luigi Einaudi, Prediche inutili, 1962 Si è creduto insomma che, in un grande Stato, la giustizia sociale potesse avanzare e consolidarsi senza la libertà politica e ci si è illusi che le libertà personali, familiari, sindacali e locali potessero salvarsi senza la libertà politica. Alcide De Gasperi, dal discorso ai cattolici belgi, 20 novembre 1948
ai miei fratelli Magnano di San Lio ai miei fratelli Rizza alla memoria di Salvatore Indelicato, Pietro Lo Giudice e Toto Mauceri
il deserto di giobbe
I. LA SCOMMESSA
“È bella da togliere il respiro”, disse Michele Paternò a Francesco Raddusa e a Pietro Bennato alludendo alla giovane seconda moglie dell’ormai attempato barone Gravina della Verdura. “L’ho incontrata stamattina”, continuò disegnando con un gesto nell’aria le curve di una bella donna, “...bella... bellissima!... con quello sguardo voglioso e con il desiderio che trasuda da tutto il corpo. E ne ha ben ragione... tutto quel ben di dio non si cuoce certo al lumicino che a fatica è in grado di accendere quel rimbecillito di suo marito”. E giù a ridere tutti come matti. “Sarà vogliosa come tu dici”, interloquì Francesco, “ma non ti illudere che sia pane per i nostri denti o per quelli di chiunque altro. Quella lì, amici miei, si è fatta sposare dal vecchio barone nella speranza che tiri presto le cuoia... così potrà sprofondare il suo voglioso sedere su quell’invitante patrimonio che lui, senza figli, le lascerà... finché lui sarà in vita, quella nobildonna starà ben attenta a tenere due piedi in una scarpa... che è come dire che terrà le gambe ben serrate, ci metto la mano sul fuoco”. “Fandonie!”, sbottò Pietro che dei tre era il più taciturno,“forse non sarà pane per i denti degli altri... ma lo è per i miei! Sono pronto a scommettere quel che volete che in capo a un mese la baronessa scivolerà sotto le coltri del mio letto”. Michele lo guardò incuriosito ma, conoscendolo bene, declinò la scommessa. “Io ci sto”, disse invece Francesco, “sono sicuro che i tuoi tentativi rimarranno frustrati dai calcoli patrimoniali della Gravina. E poi, che interesse vuoi che possa avere una donna di 11
giovanni magnano di san lio
trent’anni nei riguardi di un pivello alle prime armi. La voglia, amico mio, chiama l’esperienza che sia in grado di soddisfarla”. Protese la mano destra su un’immaginaria bibbia e disse solennemente: “Giuro che camminerò pubblicamente scalzo per due mesi se tu riuscirai nel tuo intento”. Ridendo si strinsero la mano davanti al testimone a conferma del patto. Solevano trascorrere così le tiepide serate di quel fine settembre 1873, muovendo senza fretta i loro passi per via Stesicorea. Senza meta. Tranne quella di progettare qualcosa che insaporisse le loro esistenze prive di tensioni. Pietro aveva compiuto da poco diciott’anni e la prospettiva di intraprendere gli studi superiori gli aveva dato finalmente l’occasione per un primo importante scontro con il padre. Lo scontro era latente fin dalla sua più tenera età e il loro rapporto era passato attraverso un rosario di scaramucce più o meno serie, che dapprima – fino a quando Pietro aveva dieci anni – erano state sedate per l’interposizione della madre; e poi, dopo la sua scomparsa, avevano lasciato il segno ogni volta di più corrodendo progressivamente l’intensità e la pacificità di quel rapporto. La causa di quelle scaramucce non riguardava certo l’andamento degli studi di Pietro, nei quali egli si era sempre cimentato con grande successo fin dai primi approcci, ma l’atteggiamento di distacco e di disimpegno che don Sergio notava nel figlio sia nei riguardi degli stessi studi sia verso tutti i valori – amore amicizia rispetto tolleranza cultura – che da oltre un secolo costituivano le stelle polari della vita dei Bennato di Santa Lucia. Le scaramucce si erano quindi verificate con regolarità quasi quotidiana soprattutto per l’alterigia e l’indifferenza ostentate da Pietro nei rapporti con le sorelle – ivi compresa Angelina che pur lo adorava – e con i dipendenti e nei riguardi dei programmi attuati dal padre per il miglioramento della qualità della vita nei fondi di sua proprietà. Pietro riteneva che chi era nato villano non sarebbe mai stato in grado di modificare di una virgola il suo status e che quindi tutta quella profusione di mezzi finanziari avesse l’unico effetto di sottrarre a lui e agli altri membri della famiglia tutto un ventaglio di possibilità personali e
12
il deserto di giobbe
di posizioni di potere. Non parliamo poi dei rapporti con le donne, nei quali Pietro manifestava tutto il suo cinismo provocando, ogni volta che trapelava qualche indiscrezione, uno stato di tristezza in don Sergio che non riusciva a distaccarsi dalla concezione che di tali rapporti avevano avuto sia il padre che lui. Ma l’occasione per il primo vero scontro fra i due si era presentata al momento della scelta dell’indirizzo degli studi superiori che Pietro avrebbe dovuto seguire. Don Sergio riteneva che nell’agricoltura fossero racchiuse le prospettive di vita del figlio e che egli, una volta che si fosse immedesimato in tali prospettive, avrebbe finito col mutare anche i suoi atteggiamenti verso gli altri e verso la vita in generale. Ma immedesimarsi avrebbe significato accettare anche il sacrificio e le sofferenze insiti in ogni attività fortemente motivata; che era proprio ciò da cui Pietro rifuggiva, convinto com’era che, non sussistendo valori trascendenti, della vita valesse solo non lasciarsi sfuggire ogni possibile occasione di piacere e di potere. “Ritengo”, gli aveva detto in quei frangenti don Sergio, “che sia opportuno imprimere ai tuoi studi superiori un indirizzo agrario in modo da affinare le tue competenze per la migliore gestione del patrimonio di famiglia”. “A me”, gli aveva risposto seccamente Pietro sospettando un tranello, “dell’agricoltura non mi importa un bel fico secco. E un diploma di istruzione superiore sarà per me utile solo come un fiore da portare all’occhiello”. “Non sono d’accordo”, aveva replicato don Sergio con tono suadente, “ognuno di noi ha il dovere di contribuire al progresso della società in cui vive”. “Ma che dovere e dovere!”, lo aveva interrotto bruscamente Pietro alzando il tono della voce, “Ma che progresso e progresso! I doveri li hanno gli altri verso di me e non viceversa. E il cosiddetto progresso è tutto un imbroglio che serve solo a far alzare la cresta a chi deve stare sottomesso. E per tagliar corto a questa discussione ti dico che ho già deciso di seguire i corsi di giurisprudenza che non mi obbligano ad una costante frequenza. Avrò così l’opportunità di cogliere della vita ogni lusinga”.
13
giovanni magnano di san lio
Quel tono sfrontato e arrogante addolorò visibilmente il padre, ma ciò non impensierì minimamente Pietro che di lì a qualche giorno si trasferì a Catania. Appena il tempo di guardarsi attorno e iniziò a frequentare il circolo dei nobili, scoprendo ben presto affinità elettive con Michele Paternò e Francesco Raddusa coi quali decise poi di coabitare nel centro della città in un appartamento in prossimità dei Quattro Canti. Sabato 4 ottobre Pietro varcò il cancello di villa Gravina della Verdura che da Leucatìa sovrastava il panorama della città. Esibì al gallonato portiere il biglietto di invito che in vista del consueto ricevimento di fine settimana era riuscito a procurarsi per intercessione della famiglia di Michele Paternò. Senza tradire la minima emozione salì la rampa di scale che conduceva all’immenso e prezioso salone delle feste. Con passo sicuro andò incontro alla padrona di casa e, esibendosi in un galante baciamano, “Pietro Bennato di Santa Lucia”, le disse con carezzevole voce, “vi è grato per l’invito ed è incantato di fare la vostra conoscenza”. E proseguì nella carezza sfiorandola con lo sguardo da capo a piedi. “Vi auguro di trovarvi a vostro agio nella mia casa”, gli rispose tutto d’un fiato la baronessa con voce talmente impacciata da mostrare di aver sentito quella lunga, invadente, stimolante e graditissima carezza. Dopo un rapido e disinteressato sguardo d’insieme al salone, ormai animato dal cicaleccio del fior fiore della crema catanese, Pietro si fece indicare da un cameriere il padrone di casa e con passo disinvolto si diresse verso la sua vittima predestinata, che, ignara di quanto il suo giovane interlocutore stesse tramando, si dichiarò lieta della conoscenza e, con mano tremante per l’età e la malferma salute, offrì al giovane ospite tartine al salmone e vermouth rosso. Poi, scusandosi, si congedò da lui per dare inizio assieme alla baronessa alle danze sull’abbrivio di un lento motivo suo-
14
il deserto di giobbe
nato a bella posta per consentirgli di dare il la alla festa senza che la sua malferma costituzione ne risentisse troppo. Terminata la sofferta esibizione e ritiratosi in buon ordine il barone, l’orchestra propose pezzi via via più giovanili, dei quali Pietro con calcolata freddezza snobbò i primi tre. All’inizio del quarto si inchinò alla baronessa e, trafiggendola con un’occhiata studiatamente intensa, le chiese l’onore di guidarla nella danza. La nobildonna, abbozzando un sorriso, farfugliò qualcosa di incomprensibile ma che era molto affine ad un sospiro di liberazione da un’attesa durata troppo a lungo. Con cadenze prestudiate il giovane la cinse a distanza poggiandole la mano destra sulla pelle lasciata scoperta dall’ampia scollatura posteriore e, dopo i primi passi, lentamente e quasi impercettibilmente l’attrasse sempre di più a sé fino a quando non sentì la carezza dei suoi seni, che, a quel tanto atteso contatto, furono scossi da un brivido. La mano di Pietro scese allora carezzevole lungo la schiena di lei, che, con i sensi ormai in subbuglio, si lasciò sempre più serrare al giovane corpo del partner, di cui sentì, attraverso il contatto delle guance, il sensuale respiro lambirle il lobo dell’orecchio. Percependo, ormai inarrestabili, i fremiti del corpo della baronessa, “è fatta!...”, pensò Pietro, e con mossa fulminea quanto guardinga fece scivolare una chiave nella sua mano sussurrandole al tempo stesso con tono imperioso. “Lunedì alle due del pomeriggio vi aspetto nella mia casa ai Quattro Canti”. Presagendo ormai di uscire vittorioso dalla scommessa Pietro informò quella sera stessa i suoi amici della fausta evoluzione delle cose. Francesco lo guardò con aria un po’ scettica. Poi, presentendo il peggio, cercò di porre degli ostacoli fra lui e un’eventuale sconfitta. “Non potrai cantar vittoria”, gli disse, “se non ci darai prove inoppugnabili... dell’impallinatura della baronessa”. “Ah! È così, eh?”, gli rispose Pietro. E, dopo aver riflettuto un attimo... “La prova inoppugnabile, come tu dici”, proseguì seccato, “l’avrai. Non ho nulla in con-
15
giovanni magnano di san lio
sibile prepotenza il fatto che gli aranci pretendessero, per produrre frutti, di essere copiosamente abbeverati e concimati. “Se non farete come gli ulivi”, diceva rivolgendosi a quelle ignare e incolpevoli piante, “che non pretendono né acqua né concime, io vi farò estirpare e sostituire con gli ulivi!” A proposito di tale sua sconcertante pretesa e delle decisioni che ne conseguirono e che furono a lungo oggetto delle chiacchiere della città, gli accadde un giorno di incontrare, sul treno Catania-Lentini, il dottor Chiara, suo conoscente, da poco medico condotto a Lentini. Mentre conversavano del più e del meno il medico ebbe l’ardire di riferirgli, mostrando di condividerle, le critiche, sentite dai suoi pazienti, sulla sostituzione degli aranci con gli ulivi. Don Pietro rimase silenzioso fino alla fine del soliloquio del dottor Chiara. Poi si alzò in piedi e, ignorando l’incauto suo interlocutore e rivolgendosi al fattore che gli sedeva accanto “don Gaetano”, gli disse indicandogli il medico, “costui chiacchiera troppo, conviene trovar posto in un’altra carrozza”.
48
V. MAGDA
L’affusolato e snello vaso di vetro poggiato sul lato sinistro della scrivania, di fronte al letto, ondeggiò e cadde in frantumi sul pavimento. Giuseppe si svegliò di soprassalto non tanto per il rumore provocato dalla caduta del vaso quanto per l’opprimente sensazione di essere assediato da un incubo. Aveva la fronte madida di gelido sudore ed era scosso da un indomabile ànsimo. Di scatto abbandonò la posizione supina sedendosi sul letto, quasi per scacciare gli incubi che di solito aggrediscono in quella posizione indifesa. Negli ultimi rantoli di sonno aveva provato l’orribile sensazione che il terreno gli mancasse sotto i piedi e che il suo corpo si avvitasse in un baratro senza fine. Si passò più volte la mano sulla fronte e sugli occhi per far cessare quello stato di agitazione che riteneva causato da un brutto sogno di cui non ricordava più nulla. Ma mentre tentava di rifugiarsi nell’illusione della veridicità di tale sua spiegazione si ricordò di aver percepito, negli ultimi attimi di dormiveglia, il tonfo sordo di un oggetto che andava in frantumi. Si passò con più energia la mano sulla fronte per cancellare anche quell’impressione; ma più insisteva in quel tentativo più quel tonfo si riproponeva alla sua memoria con carattere di realità. Girò lo sguardo verso sinistra alla ricerca della rasserenante fiammella del lumino di cera posto sul comodino. Notò che la sveglia che gli era accanto segnava le 5 e 23. Scese dal letto per sedare con il movimento quell’oscuro stato di agitazione. Prese il lumino in mano per farsi strada verso la scrivania, sulla quale, alla sua memoria visiva, qualcosa appariva fuori posto, anche se non riusciva a centrare mentalmente l’usualità dell’immagine. Poi la 49
giovanni magnano di san lio
tremula luce del lumino fece danzare dinanzi ai suoi occhi i frammenti del vaso sul pavimento. Sorpreso tentò di aggrapparsi ad una ragione rasserenante – “qualche sbadato ha posto ieri il vaso troppo in bilico sul bordo del tavolo!” – ma anche quell’illusione durò solo un attimo fin quando le tessere della sua memoria, accostandosi l’una all’altra come a formare un mosaico, gli rammentarono che l’incubo era iniziato prima del tonfo del vaso. Alzò di scatto gli occhi verso il lampadario e quell’improvvisa intuizione trovò conferma nella sua sinistra ballata. “Il terremoto!”, mormorò – e di scatto si avventò verso la porta, ne girò nervosamente la maniglia e uscì nel corridoio dirigendosi di corsa verso la vicina stanza della madre che sapeva sola, essendo don Pietro, come al solito, assente da casa. Nel corridoio incrociò il tigrato gatto di casa che, con il pelo insolitamente ispido, correva e miagolava sconvolto dalle onde magnetiche sprigionate dal sisma. Giuseppe trovò la madre già in piedi intenta a tenere a bada la paura con l’accensione di un lumino davanti all’immagine votiva di San Policarpo, venerato per i suoi taumaturgici poteri contro la furia dei terremoti. Le carezzò la testa scomposta e ormai quasi grigia e ne ricevette una rassicurante stretta di mano. Poi aprì gli scuri della finestra e, al chiarore del lampione elettrico dell’illuminazione pubblica, notò su via Stesicorea un disordinato viavai di persone che, impaurite dalla sensazione del sisma, avevano abbandonato, nel precario abbigliamento in cui ciascuno era stato sorpreso, le loro abitazioni in cerca di serenità lontano da mura proditoriamente vacillanti. Anche Giuseppe e la madre scesero in strada con l’improbabile speranza di carpire qualche notizia su quel terremoto. Nessuno sapeva ovviamente nulla di preciso anche se in molti ostentavano saccenza sull’origine vulcanica di quel tremito. “Segnale certo”, diceva uno quasi con affetto, “che ‘u mungibeddu4 ne sta preparando qualcuna delle sue!” 4
Vocabolo dialettale con cui i catanesi indicano affettuosamente l’Etna, derivante dall’accostamento della parola latina mons, monte, a quella araba gibel,
50
il deserto di giobbe
“Del resto”, aggiungeva un altro, “viviamo da sempre con quel bestione in casa e sappiamo che non farebbe mai male ad una mosca. Ed è poi”, sorrideva, “così dabbene ed educato che con questi suoi tremiti avverte che sta preparando qualcosa. Così chi ha della roba da salvare ha tutto il tempo per farlo”. E giù tutti a ridere non perché in effetti ci fosse molto di cui ridere, ma per annacquare nell’ilarità collettiva la tensione di quel terribile risveglio. Giuseppe e sua madre, risalendo per via Stesicorea, si diressero verso la casa di Angelina e Gustavo, sospirando di sollievo ogni volta che incrociavano e abbracciavano qualche loro amico o conoscente. Non arrivarono però a compiere neanche metà del tragitto che scorsero Angelina e Gustavo con Attilio e Gisa, i quali, avendo avuto la stessa pensata, percorrevano la via in senso inverso. E mentre si scambiavano le impressioni su quella tragica levataccia furono interrotti da una squillante e familiare risata. “Non credo ai miei occhi nel vedervi in piedi a quest’ora che invece è per me abituale. Comincio a sospettare che abbiate avuto paura del terremoto!” Nitto non rinunciava mai alle sue battute di spirito. Nitto Quintavalle era figlio di un facoltoso commerciante di calzature che vendeva al pubblico in un elegante negozio di via Stesicorea, poco distante da casa Bennato. Dal padre, fine venditore, aveva assorbito l’affabilità e la cortesia del tratto, alle quali si aggiungeva una singolare carica di allegria e di arguzia di cui madre natura lo aveva generosamente dotato. L’agiatezza della famiglia gli aveva consentito di proseguire negli studi oltre le medie superiori e di tentare, primo fra i suoi, il salto di qualità dei corsi universitari. Aveva così cominciato a frequentare, diciottenne, le lezioni di diritto; lì, poco dopo, aveva conosciuto Giuseppe e, superando le remore frapposte dal difmonte: e così, rafforzativamente, monte monte, quasi ad indicare il monte per antonomasia.
51
giovanni magnano di san lio
ferente livello sociale, era riuscito a penetrare nel suo animo. I due erano divenuti in breve amici per la pelle, guardati dapprima per traverso da don Pietro che borbottava sovente su quel rapporto fra Giuseppe e il figlio di uno scarparo. Ma quei mugugni si erano gradatamente smorzati al quotidiano impatto con le maniere gentili e rispettose di Nitto, pronto alla battuta appropriata che, senza strafare, sapeva sempre trarre dalla sua inesauribile verve. Ai tempi dell’università, tramite Giuseppe Nitto, aveva conosciuto Attilio e Gisa: il primo, sulle orme del padre, era studente in lettere antiche; mentre la seconda, come usava a quei tempi per le ragazze siciliane di buona famiglia, seguiva i corsi di italiano, storia, francese, pianoforte, pittura, matematica ed economia domestica, per lei tenuti dall’istitutrice privata signora Smeraldi. Ma a Gisa quel menage riduttivo non bastava a soddisfare l’esuberanza dell’indole e le ansie della mente. Si sentiva come dimezzata da quel secolare e immutabile destino femminile che la costringeva ad imparare passivamente il mestiere di donna, forzando la sua crescita in una campana di vetro e privandola quindi della possibilità di misurarsi con le difficoltà del mondo esterno e con i bisogni e le aspettative degli altri. Pensava ai talenti che facevano ripetutamente capolino nel diario di don Pietro Maria, che più volte essa aveva avidamente divorato, e le sembrava che i suoi rimanessero sotterrati sotto uno spesso strato di arida argilla senza possibilità di luccicare e di dare frutto. Si rendeva conto come fosse arduo remare contro una corrente resa quasi invincibile dal soffio di millenari costumi. Ma non si arrendeva e spesso confidava la sua sofferenza ad Attilio e Giuseppe, che, cresciuti in una famiglia di nobili tradizioni, non erano però in grado di darle niente più che sterili e rassegnate parole di solidarietà. Fu invece l’amicizia con Nitto a dischiuderle uno spiraglio di vita. Non soggiacendo, per estrazione sociale, a certi formalismi di un’educazione troppo rigida, il giovane aveva la disponibilità a recepire quelle ansie e la sensibilità della ricerca di risposte non
52
il deserto di giobbe
evasive. Condivise con Gisa la convinzione che un così insormontabile steccato fra uomini e donne non poggiasse su ragioni plausibili quale certo non era quella inneggiante ad una pretesa superiorità maschile, che su altro non poteva obbiettivamente contare che sulla disparità di forza puramente fisica. Ma come evadere da quella situazione di disagio? Nitto si rendeva conto che non sarebbe stato onesto da parte sua spingere Gisa nel vicolo cieco di un’aperta ribellione, all’interno del quale essa avrebbe cozzato contro la muraglia di una mentalità plurisecolare. La convinse perciò a seguire il criterio dei piccoli passi, tentando di volta in volta di agganciare un traguardo che fosse al momento apparso come raggiungibile. Dal canto suo l’aiutò perorando presso Giuseppe e Attilio il suo graduale inserimento nelle loro molteplici attività culturali e sociali. Per il resto essa trovò, sempre su consiglio di Nitto, terreno favorevole nella sensibilità del padre, che stravedeva per quella figlia e fu ben lieto di autorizzarne l’inserimento nell’affidabile gruppo frequentato da Attilio, Giuseppe e Nitto. Gisa conquistò così una sua dimensione umana ben oltre i limiti allora prefissati dalla sua fatale condizione femminile. Non raggiunse certo traguardi per i quali sarebbe occorso ancora quasi un secolo di paziente erosione di detriti; ma si trattava pur sempre di una condizione a quei tempi certamente insperata. Il suo entusiasmo di neofita giovò anche ai suoi compagni di cordata, tanto che i quattro amici divennero ben presto inseparabili. Non vi era attività culturale che non li vedesse vivacemente inseriti, né occasione che non li trovasse impegnati, con generosità e dedizione, a tentare di correggere talune storture sociali e a lenire le altrui sofferenze. Furono affettuosamente soprannominati i quattro moschettieri per il legame che li avvinceva e per la prontezza del loro intervento ad ogni occasione che si presentasse. Lasciati i vecchi ai loro ormai rasserenati discorsi, Giuseppe, Attilio, Nitto e Gisa, per farsi un’idea più reale delle conseguenze del terremoto, si diressero di buon passo verso piazza del duomo.
53
giovanni magnano di san lio
assunto ormai da anni, di sanare la piaga ancora aperta e sempre purulenta delle ristagnanti malsane acque del lago. Vedeva che occorreva accelerare e concludere il progetto di bonifica dopo il rallentamento causato dalla guerra e, dopo, dalla speranza che il problema si risolvesse con l’impiego contro l’anofele dei nuovi efficaci prodotti portati dai liberatori americani. Ma dopo qualche mese di speranze la perfida anofele trovò una nicchia di convivenza con quei potenti insetticidi. E tornò, quasi rafforzata, a dominare incontrastata e a seminare con ritrovata forza e cattiveria nuove sofferenze. Giuseppe comprese che non si poteva più attendere e stipulò idealmente un patto di ferro con il suo indimenticato nonno che gli sembrava lo incitasse dall’al di là a combattere e vincere la battaglia con quel maledetto lago.
180
XVII. DEMOCRAZIA
Mentre Giuseppe tracciava sicuro la strada che avrebbe condotto alla bonifica del lago maledetto, l’Italia tutta cambiava volto e si rivestiva a nuovo. Dopo la liberazione di Roma ci vollero ancora altri dieci mesi di quella terribile e sanguinosa guerra per abbattere la linea gotica e cacciare i nazifascisti dal resto della penisola. L’alito rovente di quel drago cessò di mietere altre vittime mercoledì 25 aprile 1945 con la resa definitiva dell’invasore tedesco. Poco dopo, anche il resto dell’Europa respirò di sollievo. I due dittatori morirono a distanza di pochi giorni l’uno dall’altro, il duce giustiziato dai partigiani e il fürer suicida nel suo rifugio sotterraneo a Berlino. L’Italia era distrutta. Distruzione materiale, sofferenza morale, disorientamento spirituale dopo la caduta dei falsi idoli. In più i siciliani vissero sulla loro pelle altri due anni di turbolenze innescate assieme dal banditismo, dal rifiorire della mafia e dal movimento separatista. Vi fu in quei due anni la follia della costituzione clandestina di un esercito per la separazione dell’isola dall’Italia; vi furono, a Catania, conati insurrezionali che trovavano linfa anche nelle condizioni di miseria di cui tutta l’Italia soffriva dopo la lunga guerra; vi fu il primo maggio 1947 a Portella della Ginestra la strage di chi era accorso con gioia alla festa del lavoro. Ma vi furono anche la lungimiranza e la determinazione di alcuni nuovi uomini politici, sia a Roma che nell’isola, che scongiurarono l’incubo che quella follia provocasse un fiume di sangue.E così fu con fermezza
181
giovanni magnano di san lio
estirpata la piaga del banditismo, non quella della mafia che aveva antiche radici anche nello spirito dei siciliani. Fu tolta l’acqua che rinvigoriva le verdi radici del secessionismo isolano con la concessione di una speciale autonomia amministrativa regionale che salvò il principio dell’unità dello stato. Lentamente cominciò a rimarginarsi anche la ferita inferta nelle carni dei Santa Lucia dalla tragica scomparsa di Pietro Maria. “Mamma! Mamma!” Peppino festante andò incontro a Cristiana. “Ecco cosa mi ha dato il nonno!” E fece tintinnare sotto i suoi occhi le chiavi del palco di prima fila al teatro Bellini. “E come mai ti ha dato queste chiavi?” chiese Cristiana fingendosi sorpresa. “Mi ha chiamato stamattina dal balcone e sono sceso a casa sua. Mi ha offerto il latte caldo con la brioche. C’era anche la nonna. Poi mi ha detto che la vita riserva a tutti momenti di gioia e momenti di dolore e che la nostra famiglia è stata duramente provata l’anno scorso con la scomparsa di papà”. Cristiana lo abbracciò mentre cominciava a singhiozzare. “Mi ha poi detto”, si riprese dalla commozione, “che il cammino non può essere interrotto e che lui e la nonna hanno già vissuto abbastanza e non si sentono di partecipare ad eventi cittadini... e che il cammino deve quindi riprendere da noi giovani”. “Ha detto”, proseguì, “che fra pochi giorni ci sarà un evento straordinario, con cui l’intera città riprenderà a vivere... l’inaugurazione della stagione lirica con la prima dell’opera preferita da papà, la Norma, e che era giusto che lui e la nonna non partecipassero. Ma che le nuove generazioni devono dare un segno di ripresa del cammino. E così mi ha dato le chiavi del palco di famiglia e mi ha detto di andare alla prima con i miei amici di scuola”. Era visibilmente commosso e si rifugiò nell’abbraccio materno. “Sapevo già di questa decisione del nonno”, gli disse con sincerità Cristiana, “perché me ne aveva parlato. Siamo veramente fortunati ad averlo in famiglia. E tu piuttosto preparati. Ripassa la lezione suonando i dischi della collezione di papà!” 182
il deserto di giobbe
Per Peppino e i suoi quattro amici del cuore fu un giorno memorabile quel giovedì otto novembre 1945. Non avevano mai visitato il teatro Bellini, che si presentò alla loro vista in tutto il suo splendore. C’era il pienone delle grandi occasioni. Veramente, come aveva detto il nonno, i catanesi tentavano quel giorno di riprendere a vivere cercando di trarre dal vigore dell’opera belliniana la voglia di superare le grandi difficoltà del dopoguerra. Peppino consegnò le chiavi all’addetto in livrea che lo accompagnò assieme ai suoi amici fino al palco. Si affacciarono estasiati su quella sala splendida per luci, stucchi, ori e affreschi e animata dal vivace brusìo delle persone che prendevano posto in platea e nei palchi. Rimasero rapiti dalle note solenni della sinfonia conclusa con lo straordinario incalzare dei violini. Poi le grandi voci di Maria Caniglia, di Beniamino Gigli e di Fedora Barbieri posero il sigillo a quell’indimenticabile serata. A Lentini nelle elezioni comunali di domenica 17 marzo 1946, l’anziano Castro conquistò la maggioranza assoluta con diciotto seggi su trenta e fu eletto sindaco con l’appoggio anche dei consiglieri comunisti di Marino. Il risultato era scontato; ma quelle prime elezioni libere furono una festa per la grande novità che la democrazia aveva imposto: la partecipazione delle donne al voto, escluse ingiustamente nell’Italia prefascista. Fu come se esse raddrizzassero la schiena curva liberandosi di colpo dal servaggio delle retrovie. Si presentarono così ai seggi elettorali con i capelli e i vestiti in ordine e con il volto segnato dalla fierezza della partecipazione alle scelte importanti della comunità. Le più vecchie di loro furono le prime a mettersi in fila di buon mattino in attesa di ricevere la scheda elettorale. La gran parte di esse erano analfabete e, spinte dall’orgoglio del grande evento, avevano avuto un bel daffare nei giorni precedenti a chiedere spiegazioni sul modo di esprimere correttamente il voto ed evitarne così l’annullamento. Questo valeva anche per gli uomini; e non solo per il loro eventuale precario rapporto con la lettura e la scrittura ma anche perché disabituati dalla ventennale dittatura a maneggiare 183
giovanni magnano di san lio
quell’arma della scheda elettorale che veniva consegnata per la prima volta nelle loro mani. I rappresentanti dei partiti politici, che tiravano ognuno acqua al proprio mulino, si erano resi conto di questa esigenza della maggior parte degli elettori, donne o uomini che fossero, e avevano aperto degli uffici in cui veniva spiegato agli iscritti cosa dovessero esattamente fare nel segreto del seggio per esprimere il voto a favore della propria fazione. Indipendentemente dai partiti sorsero spontaneamente anche dei centri di informazione gestiti da entusiasti volontari della democrazia che spiegavano con obbiettività e senza partigianerie quale fosse il modo corretto di espressione del voto, lasciando alla coscienza individuale la scelta del colore. Gisa ed Elena erano anch’esse volontarie non inquadrate in alcuna organizzazione di partito e ritennero di doversi impegnare in quell’attività di illuminazione mettendosi a disposizione dei loro dipendenti per ogni utile spiegazione tecnica. precisando loro che ogni voto sarebbe stato legittimo indipendentemente dalla sua destinazione a seconda del sentimento di appartenenza di ognuno. “Noi siamo per il voto al partito cattolico”, dicevano a chi chiedeva loro un orientamento, “ma siete liberi di preferire anche altri... anche Castro o Marino, se ritenete che i loro programmi siano più conformi ai vostri ideali e tutelino meglio i vostri interessi”. Si percepiva così in giro un’aria nuova e fresca che odorava di libertà; dappertutto per strada e nelle piazze si formavano capannelli in cui si discuteva, anche animatamente, pro e contro programmi e orientamenti. Affollati erano poi i comizi cui i cittadini partecipavano in massa attratti dalla novità e ansiosi di apprendere e di formarsi una propria idea politica. Tutti, nel giorno delle elezioni, mentre erano in fila in attesa di entrare nei seggi elettorali, rinverdivano le nozioni ricevute nei giorni precedenti confrontandole con quelle in possesso di chi li precedeva o li seguiva nella fila. Ci fu anche qualche baruffa dovuta all’esplosione di passioni politiche contrapposte a lungo represse nel ventennio precedente. Ma era questa 184
il deserto di giobbe
l’acqua che inumidiva le radici della giovane democrazia e garantiva a ciascuno l’orgoglio di pensarla come voleva ed evitava così l’adesione acritica ad un pensiero unico imposto dall’alto. In seguito quella giovane pianta si irrobustì e pervase la mente e il cuore degli italiani a tal punto che qualche anno dopo De Gasperi, rivolgendosi a lei come ad un essere vivente, le augurò che i poeti, gli scrittori, i pittori, gli scultori, gli architetti e i musicisti ne celebrassero nelle loro opere la bellezza e l’armonia. A livello nazionale la prima grande giornata del suffragio universale fu quella del due giugno 1946, in cui gli italiani furono chiamati a scegliere fra monarchia e repubblica e ad eleggere contemporaneamente i rappresentanti dell’assemblea costituente che avrebbero formulato e approvato il testo della nuova costituzione per sostituire l’ormai ingiallito e incartapecorito statuto albertino. Furono momenti di grande passione, in cui lo scontro delle opposte fazioni fu durissimo sul dilemma fondamentale che investiva il vertice del nuovo stato, mentre per il resto tutti erano d’accordo sulla necessità di una nuova costituzione che dettasse le regole della convivenza democratica per un lungo periodo di tempo ed evitasse il pericolo di nuove dittature. Il dilemma fra monarchia e repubblica appassionò e divise anche la famiglia. “Io scelgo la monarchia”, diceva Giuseppe ai suoi, “l’ho servita per una vita anche durante la Prima Guerra mondiale e non posso dimenticare che furono i Savoia gli artefici del Risorgimento e dell’Unità d’Italia”. “Non sono affatto d’accordo con te”, lo contestava combattiva Cristiana, “questa monarchia ha troppe responsabilità per la copertura concessa al regime fascista e per lo smantellamento della democrazia e per il varo delle leggi razziali”. “Nonno, ti voglio un bene dell’anima”, interveniva anche l’adolescente Peppino carezzandogli la mano, “ma sono d’accordo con la mamma, anche perché il re non lo puoi scegliere e se ti capita un cretino... sei proprio fritto!” “Anch’io”, diceva Angelino, “la vedo come Cristiana, sopratutto se penso alla vigliaccheria di re Vittorio che abbandonò Roma dopo l’armistizio”. 185
cover magnano 2014.11.12.qxp:graghie1.qxd
24-11-2014
14:54
Pagina 1
Renato Guttuso, Cactus sul golfo di Palermo, 1978
e 15,00
in copertina
ILPOLIGRAFO
ISBN 978-88-7115-872-3
IL DESERTO DI GIOBBE
Giovanni Magnano di San Lio, nato a Catania nel 1934, dove si è laureato in Giurisprudenza, vive e lavora a Roma, città in cui svolge la professione forense. Nel 2008 ha pubblicato Le foglie d’acanto. Sicilia del XIX secolo: ritratto di un mondo nobiliare in declino (L’Autore Libri Firenze).
Giovanni Magnano di San Lio
Una grande famiglia siciliana si affaccia sull’alba del Novecento ricca di un patrimonio culturale e morale tramandato dai suoi antenati, la cui memoria è tenuta costantemente viva dallo straordinario diario trovato fra le carte dell’insigne capostipite. Quattro generazioni di Bennato di Santa Lucia si troveranno ad attraversare da protagoniste il ventesimo secolo. Il terremoto di Messina, le guerre mondiali, il fascismo e l’occupazione nazista, fino al disastro di Chernobyl sono alcune delle tappe che orientano i protagonisti della vicenda verso la ricerca del bene comune. Il «deserto» del titolo si fa dunque emblema di una condizione drammatica, ma più ancora di una precarietà esistenziale che affonda le proprie radici nella ferinità dell’uomo novecentesco, proteso allo sterminio dei propri simili, tra aspirazioni interventistiche, volontà di potenza e soluzioni finali. Il risveglio della coscienza civile, del senso di giustizia, della vocazione alla politica come forma di autentico servizio nei confronti della collettività saranno strumenti di rinascita, consapevolezza e catarsi. In questo romanzo corale e pieno di vita Giovanni Magnano di San Lio tratteggia un grande affresco della società siciliana – e italiana – tra la fine dell’Ottocento e gli ultimi decenni del Novecento, raccontando la storia di una famiglia che, nonostante le tragedie vissute sulla propria pelle, risulta essere, parafrasando Tolstoj, una famiglia felice che non assomiglia a nessun’altra famiglia felice.
Giovanni Magnano di San Lio
IL DESERTO DI GIOBBE POLIGRAFIE
ILPOLIGRAFO