Diavoli e inferni nel Medioevo. Origine e sviluppo delle immagini dal VI al XV secolo, Il Poligrafo

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Laura Pasquini

DIAVOLI E INFERNI NEL MEDIOEVO Origine e sviluppo delle immagini dal VI al XV secolo introduzione di Gian Mario Anselmi

ILPOLIGRAFO



biblioteca di arte 8



Laura Pasquini

diavoli e inferni nel medioevo Origine e sviluppo delle immagini dal vi al xv secolo

introduzione di Gian Mario Anselmi

ilpoligrafo


Il presente volume viene pubblicato con un contributo del Dipartimento di Filologia classica e Italianistica, del Dipartimento di Storia Culture Civiltà e del Dipartimento di Beni Culturali dell’Alma Mater Studiorum Università di Bologna

progetto grafico Il Poligrafo casa editrice Laura Rigon © copyright giugno 2015 Il Poligrafo casa editrice 35121 Padova piazza Eremitani – via Cassan, 34 tel. 049 8360887 – fax 049 8360864 e-mail casaeditrice@poligrafo.it www.poligrafo.it ISBN 978-88-7115-895-2 www.poligrafo.it


indice

7 Introduzione Gian Mario Anselmi

13 i. diavoli e inferni fra vi e xiv secolo

41 ii. l’inferno dantesco 45 Torcello 49 Il vultus trifrons 54 Il “bel San Giovanni” 57 Metamorfosi

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75 Bibliografia

iii. dopo la commedia...



introduzione Gian Mario Anselmi

Il Diavolo evoca molte parole, immagini, paure, discorsi, favole, persino beffe e proverbi; coinvolge dalla notte dei tempi ogni ceto sociale, si insinua nelle coscienze del colto come dell’incolto, è il doppio ineluttabile del nostro vivere. È l’abitante e protagonista degli Inferni di ogni fede o credenza e l’Inferno è l’incubo che ci perseguita. In sostanza Diavolo e Inferno sono la condensazione visionaria del Male che coesiste da sempre con l’uomo. Ovvero siamo di fronte al tema principe delle religioni, delle filosofie, delle coscienze anche laiche. Nel mondo contemporaneo sempre più “desacralizzato”, come amava ripetere Pasolini, un mondo scettico e disincantato rispetto allo stesso millenario corredo di Diavoli e Inferni, grava comunque il senso opprimente del Male; anzi il Male, denudato dopo la “morte di Dio” di ogni alibi diavolesco e di Inferni ultraterreni, appare quasi più terribile, annidato nella banalità del nostro vivere quotidiano se solo sappiamo riflettere sulle grandissime pagine di Hannah Arendt. Eppure per molto tempo e nella cultura occidentale, specie dal tardo antico alle soglie della modernità, il Male ha vestito panni e immagini precisi e sempre più definiti, come ben mostra Laura Pasquini nelle pagine di questo volume: il volto e i volti del demonio, le “geografie” degli Inferi hanno affiancato credenze e speculazioni con crescenti e vaste rappresentazioni iconografiche e si sono accampati in tanti testi letterari e non solo. Dagli scarni accenni delle Sacre Scritture si è venuto costituendo un immaginario diabolico e infernale sempre più dettagliato e inquietante collocato al centro di mosaici, affreschi, quadri, tavole, miniature, bassorilievi, pagine letterarie, prediche, proverbi e discorsi orali. E in questo contesto, dal tardo Medioevo in avanti (e nelle immagini che Laura Pasquini ci illustra ciò è molto chiaro) con un ruolo decisivo di Dante e della sua Commedia.

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Certamente il Medioevo ha contribuito in modo decisivo al consolidarsi di questo corredo visionario: la paura della morte collimava con la paura delle pene infernali e degli aguzzini prescelti, i Diavoli appunto. Ma anche in vita il timore dell’infernalità demoniaca era costante: non dimentichiamo mai che per l’uomo medievale ma anche per quello rinascimentale il Mondo era “pieno” di presenze invisibili che circondavano l’esistenza dell’uomo. Esseri benefici certo come santi, angeli custodi, la stessa Vergine Maria “intermediaria” principale col Dio fatto uomo. Ma vi erano anche gli spiriti dei defunti, i fantasmi e, al limite della fede cristiana, gli antichi esseri delle tradizioni popolari, specie nordiche, elfi, fate, creature incantate e magiche. E infine vi era, Signore incontrastato delle tenebre e temutissimo, il Maligno. Ogni evento inquietante, ogni tentazione fuori dalla volontà dei Comandamenti, ogni turbativa malvagia dell’ordine naturale delle cose, ogni incantesimo ammantato di tinte fosche era diretto frutto del demonio, Inferno in terra, prefigurazione pallida delle terribili pene che attendevano il malvagio all’Inferno vero e proprio. Dante non fece che “normare” magistralmente questi incubi, dando volti e personalità letterarie ai demòni e architettando una geografia infernale insuperabile e insuperata. Tanto che ancora oggi, volendo pensare all’Inferno, è in definitiva il testo dantesco che si presenta per primo alla nostra immaginazione, testo che è stato fonte sterminata per secoli in ogni campo dell’immaginario e persino oggi nei film, nelle serie televisive e in tanti generi letterari. Dante non inventò ovviamente tutto ciò dal nulla. Molti spunti gli vennero, come è dimostrato nel volume, da mosaici, affreschi, miniature, immagini che gli erano ben presenti. Molte suggestioni inoltre gli erano state veicolate da una letteratura altomedievale ma anche duecentesca in cui demòni e Inferno spadroneggiavano: le prediche con il vasto campo dell’omiletica, forme molteplici di sacre rappresentazioni, testi di poesia sacra e penitenziale con richiami costanti al Regno del Male e alla sua corte di servitori. Certo Dante vi aggiunge non solo la geniale creatività della sua poesia ma anche la straordinaria inserzione, nell’Inferno cristiano, di antiche figure mitologiche classiche (da Minosse a Gerione ai Centauri), efficacissima sintesi tra lasciti antichi e credenze cristiane che egli sa calare persino tra le oscurità dell’Inferno e nel popolo dei suoi abitanti dannati per l’eternità. Del resto, e non caso, nelle pagine che seguono si mostra bene come molte iconologie cristiane medievali attingano ad antichissime iconologie pagane e mitologiche. Una prova in più, se ce n’era bisogno, della incredibile capacità di Dante di attestarsi a ponte di epoche diverse attraverso una potenza immaginativa unica. Non a caso l’ammiratore per eccellenza di Dante, il suo primo grande “lettore” ovvero Boccaccio, nel Decameron inscena, nella quarta giornata, un memorabile, terribile affresco del Male che alberga fra gli uomini, veri demòni mascherati da uomini, e specie maschi persecutori di donne, padri, mariti, fratelli in una vera galleria di dolore e malvagità che solo la decima giornata (degli esempi magnanimi) saprà risarcire. E, nella quin-

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introduzione

ta giornata, la “caccia infernale” della novella di Nastagio è certo l’omaggio di Boccaccio a un genere popolare molto diffuso ma anche alla visionarietà di Dante, un pezzo di Inferno calato di peso, pauroso e terribile, nella Pineta di Classe. Eppure Boccaccio comincia anche a introdurre qualche tassello “ridicolo” intorno al Diavolo e al suo regno infernale: la spassosa metafora sessuale che attraversa, geniale inno alla vita e al godimento dei sensi, tutta la novella di Alibech e di Rustico monaco nella terza giornata (III, 10) è incentrata sul “rimettere il diavolo in Inferno”. Il Diavolo può quindi essere derubricato anche a gioco di doppi sensi, a macchietta di un divertito teatrino di pratiche erotiche: una detronizzazione che apre la via a una lunga storia di “diavolerie” buffe e grottesche praticamente fino ai nostri giorni. Infatti qualcosa comincia a cambiare nella grande letteratura umanistica e rinascimentale. Demòni e Inferno continuano ad alimentare gli incubi dei credenti, specie a livello popolare, ma nei testi letterari osserviamo minore terrore e irrazionalità, una ripresa più metaforica che visionaria e penitenziale della figura del demonio o della natura degli Inferi: insuperato certamente resta, in quella temperie, Leon Battista Alberti, specie l’Alberti delle Intercoenales e del Momus, in cui il Male diviene il malessere del mondo nel suo degrado morale della dignità civile e religiosa in toni che saranno poi alla base dell’Elogio della follia di Erasmo. Così come accade anche nel Charon di Pontano. Ma non possiamo dimenticare neppure tanti efficacissimi narratori quattro-cinquecenteschi sulle orme di Boccaccio, da Masuccio Salernitano a Bandello al Lasca. Nel mondo fiammingo e nordico poi, nella pittura specialmente, la figura demoniaca ritorna con grandissima frequenza e con tratti che spesso rasentano il grottesco più che il pauroso: quasi a contaminare con questa cifra tanti dei percorsi già indicati; e in tal senso basti pensare a personalità (strettamente legate a vari aspetti della cultura italiana anche letteraria) come Van Der Veyden, Memling, Dürer, Bosch e tanti altri. È significativo quindi, come ben dimostra Laura Pasquini anche per l’iconologia, che in letteratura si assista parallelamente, come già si accennava, a una sorta di “umanizzazione” ora bonaria, ora sarcastica e grottesca, ora comica del Diavolo. Il processo di laicizzazione avviato da Boccaccio e dall’Umanesimo produce i suoi effetti: il demonio spesso non è terribile ma è preso in giro, appare frastornato egli stesso dalle malvagità degli uomini quando non ne è vittima addirittura. È il caso invero emblematico della novella di Belfagor arcidiavolo di Machiavelli. Qui il Diavolo è già il “buon diavolo” del lessico moderno, innocuo in definitiva e costretto a tornarsene in fuga all’Inferno per fuggire dall’avidità tormentosa e infernale di uomini e donne, di cui lui, il Diavolo, è la vittima. Letteratura paradossale certamente ma che ci suggerisce, attraverso la lama acuminata e sarcastica del lessico machiavelliano, l’idea che l’Inferno purtroppo è già fra noi e perfino i demòni lo fuggono. L’ossimorica figura del “buon diavolo” non a caso entra con tanta popolarità nella nostra lingua e ne diviene immagine comunissima. Il Diavolo detronizzato a maschera da Carnevale

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(anche in senso letterale) fa il paio con un Inferno che perde l’aura così terribile delle età più antiche. La cultura della Controriforma non a caso cerca di nuovo di rilanciare il terrore per l’Inferno e per le pene riservate ai dannati nonché la raffigurazione esemplare del Diavolo: tele, affreschi, melodrammi e cantate, testi letterari penitenziali abbondano. Purtroppo abbondano anche i supplizi, i roghi di streghe, gli autodafé, quasi a volere a forza portare concretamente in terra il Maligno nelle sue incarnazioni fra quegli uomini e donne imputati di esserne la voce e di esserne posseduti. Di qui la crescita tra Cinque e Seicento di innumeri trattati di demonologia come un filone di studi memorabile, da Graf a Camporesi, ha ben messo in luce nelle sue molteplici valenze. La rappresentazione letteraria più alta di questa temperie culturale (prima dei moderni, dei Don Giovanni e dei Faust) nel mondo cattolico è certamente data dalla Liberata di Tasso, poema del Cosmo, in cui il dispiegarsi dei demòni e delle legioni infernali a conciliabolo contro Goffredo e la Crociata è motore primo della narrazione di un confligere che riguarda tutto l’ordine dell’universo, dalla lotta fra Cielo e demòni fino agli intimi conflitti amorosi dei cuori dei protagonisti. Ma il demonio e le visioni infernali si dispiegano contestualmente in tutta Europa anche nel mondo protestante alimentando un immaginario tenebroso in molto teatro tragico elisabettiano ad esempio o in testi narrativi e trattatistici del mondo germanico. Insomma la cultura cristiana sia cattolica che protestante sembra dar corpo alle sue inquietudini e angosce enfatizzando il potere del Maligno in senso tragico per attivare paura e terrore (la splendida rappresentazione di tale temperie riuscì a darla Manzoni con la notte dell’Innominato nei Promessi sposi) come forma di controllo sociale prima ancora che etico (rimandiamo agli studi di Alberto Natale). Ma il contraltare del buon diavolo beffato e detronizzato, così come inventato da Machiavelli e dagli umanisti, non è bandito affatto e resiste nei travestimenti carnevaleschi, nella commedia dell’arte, nelle commedie teatrali, nei generi narrativi, nelle opere buffe quasi a esorcizzare la cupa atmosfera di persecuzioni in atto durante l’ancien régime un po’ dovunque. Il seguito, specie a partire dal Settecento, è altra storia che va ben oltre i paletti che ci eravamo prefissati in questo volume: ma è una storia in cui periodicamente in tutti i campi dell’arte le visioni infernali o i demòni ora terribili, ora con il contraltare goffo e sarcastico delle loro caricature, si affacciano con prepotenza. Il Male non scompare, non è mai scomparso, non smette di ferirci. Mutano solo il segno e i contorni delle sue incessanti rappresentazioni.

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diavoli e inferni nel medioevo


A mio padre per la Commedia condivisa, quella di Dante, quella della vita...


i. diavoli e inferni fra vi e xiv secolo

Se Dio è colui che è, il Diavolo è colui che cambia. Nulla di più vero e facilmente dimostrabile quando si analizzi l’evoluzione dell’immagine del Male attraverso i secoli di mezzo. Nessuna singola rappresentazione può esprimere compiutamente la natura sfaccettata e complessa del demonio, che si manifesta proprio attraverso la diversità e la varietà delle sue metamorfosi. Le prime apparizioni del Diavolo, ancora nell’arte paleocristiana, possono ricondursi a un vero e proprio “bestiario del Maligno”, che attinge in primo luogo alla biblica suddivisione fra animali puri e impuri, prospettata già in Levitico (11) e Deuteronomio (14,3-20), su base moralistica prima ancora che igienica, e alle valenze fortemente negative mantenute da alcuni di essi nei Vangeli1. Un ruolo fondamentale nella codificazione di un bestiario del Male va attribuito al Physiologus 2, trattato di storia naturale moralizzata composto in greco, probabilmente alla fine del II secolo, da un ebreo di Alessandria convertito al cristianesimo, oltre che alle omelie sul libro del Genesi di Padri della Chiesa come Basilio di Cesarea o Ambrogio (PL, XIV, coll. 123 ss.) e agli scritti di Eucherio di Lione, Isidoro di Siviglia e Rabano Mauro: tutte opere cui i bestiari latini e romanzi3 poterono attingere copiosamente precisando ulteriormente il bestiario del Male dove figurano in particolare il serpente (fig. 1), il drago (fig. 2), la scimmia (fig. 3), il gatto (fig. 4), il grifone (fig. 5), il basilisco (fig. 6), il centauro (fig. 7), l’onagro (fig. 8) e in genere tutti i rettili e gli anfibi (fig. 9), con un discorso 1 Cfr. J. Baschet, s.v. Diavolo, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, V, Roma 1994, pp. 644-650, ma vedi p. 647; G.M. Pintus, Il Bestiario del diavolo: l’esegesi biblica nelle “Formulae spiritalis intellegentiae” di Eucherio di Lione, «Sandalion», 12-13, 1989-1990, pp. 99-114. 2 Cfr. Il Fisiologo, a cura di F. Zambon, Milano 1975. 3 Cfr. Bestiari medievali, a cura di L. Morini, Torino 1996.

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capitolo primo

a parte per il leone, simbolo di Cristo o del demonio a seconda dei contesti. Di certo il nobile felino è simbolo del demonio quando appare smascellato da Sansone, come, per fare un esempio, nel mosaico pavimentale della chiesa dei Santi Pietro e Orso ad Aosta del XII secolo (fig. 10)4, o quando, quadruplicato nelle membra, può essere inteso quale temibile manifestazione dell’Anticristo nel mosaico pavimentale della cattedrale di Otranto (fig. 11)5; è invece certamente rappresentazione di Cristo incarnato quando si trova attorniato dai simboli dei quattro evangelisti come accade nel Codex Aureus di St. Emmeram, databile intorno all’850 d.C. (Monaco, Bayerische Staatsbibliothek, ms. 14000, f. 16v, fig. 12)6. Proprio nelle fattezze ferine, il Diavolo si palesa attorno alla metà del V secolo nell’iconografia del Christus militans 7 fra gli ornati a stucco del battistero degli Ortodossi di Ravenna (450 ca, fig. 13), dove Cristo giovane e imberbe, che nella mano destra sostiene una croce astata e nella sinistra un libro aperto, calpesta vittorioso un leone e un serpente, simboli eviden-

4 L. Pasquini, in collaborazione con R. Perinetti, I mosaici di S. Orso ad Aosta, in Actes du IXe Colloque International de l’Association internationale pour l’étude de la mosaïque antique AIEMA (Roma, 5-9 novembre 2001), Parigi 2006, pp. 329-338. Sui bestiari scolpiti nelle basiliche romaniche e sull’ambivalenza del leone vedi anche M. Pastoureau, Storie di pietra. Timpani e portali romanici, fotografie di V. Cunillière, trad. di L. Bianco, Torino 2014, pp. 23-25. 5 Per cui vedi L. Pasquini, L’iconografia del mosaico, in M. Fasano, L. Pasquini, G. Barba, Otranto, il mosaico, il viaggio di Seth. Ricerche per il documentario di creazione “Il viaggio di Seth ad Otranto”, prefaz. di F. Cardini, Bologna 2009, pp. 88-173, in part. pp. 109-113 dedicate al leone quadricorpore. Fu Ippolito a sviluppare e ad approfondire il tema dedicandovi un intero volume, il De Antichristo: «Poiché dunque le scritture preannunziarono Cristo come leone, la stessa cosa è detta anche dell’Anticristo. Così dice infatti Mosè: Cucciolo di leone è Dan, e balzerà fuori da Basan [...] Come infatti dalla tribù di Giuda è nato il Salvatore, così pure dalla tribù di Dan nascerà l’Anticristo [...] Poiché dunque il nostro Signore e salvatore Gesù Cristo, il Figlio di Dio, per il suo carattere regale e glorioso è stato preannunziato come un leone, allo stesso modo le Scritture proclamano in anticipo che l’Anticristo sarebbe stato simile a un leone, per il suo carattere tirannico e violento. L’ingannatore vuole infatti assimilarsi in tutto al Figlio di Dio. Leone il Cristo e leone l’Anticristo. Re il Cristo e re terreno l’Anticristo [...] Circonciso venne il Signore nel mondo, e quegli verrà nella stessa maniera. Il Signore inviò apostoli a tutte le genti, e quegli allo stesso modo invierà falsi profeti. Il Signore diede un sigillo ai credenti ed egli parimenti lo darà. Il Signore resuscitò e mostrò la propria carne come un tempio e quegli resusciterà il tempio di pietre a Gerusalemme, ridarà tutto il paese e i suoi confini ai Giudei, il cui popolo richiamerà dalla schiavitù e si proclamerà loro re [...] E gli infedeli lo adoreranno come un dio, piegheranno le loro ginocchia davanti a lui scambiandolo per il Cristo, poiché essi non comprenderanno come egli sia falso e ingannatore». Su Ippolito vedi l’ed. a cura di E. Norelli, L’Anticristo. Ippolito, Firenze 1987, da cui si trae, a brani, la presente traduzione, in part. dalle pp. 73, 75 e 81. Vedi inoltre il cap. dedicato a Ippolito in F. Sbaffoni, Testi sull’Anticristo, secolo III, Firenze 1992, pp. 23-62. Più in generale sull’argomento, cfr. B. McGinn, Vision of the End. Apocalyptic Traditions in the Middle Ages, New York 1979, in part. il cap. dedicato al “Patristic Apocalypticism”, pp. 14-27 e M.C. Paczkowski, La lettura cristologica dell’Apocalisse nella chiesa prenicena, «Liber Annuus», 46, 1996, pp. 187-222 e in part. su Ireneo e Ippolito le pp. 212-214. 6 Si veda in proposito A.M. Schmidt, Il linguaggio delle immagini. Iconografia cristiana, Roma 1988, a proposito del leone le pp. 75-82 e in part. p. 79, fig. 25. 7 L. Pasquini, La decorazione a stucco in Italia fra Tardo Antico e Alto Medioevo, Ravenna 2002, p. 31, fig. 24.

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diavoli e inferni fra vi e xiv secolo

temente del Male. Il tema, derivato dal repertorio iconografico imperiale8, verrà replicato ancora a Ravenna nella decorazione parietale della facciata interna di Santa Croce, oggi scomparsa, nel sarcofago detto di Eliseo Profeta o Pignatta, nel mosaico che sovrasta la porta d’accesso nella Cappella Arcivescovile (fig. 14) e nella lunetta della porta urbica presso il palatium di Teodorico raffigurato a mosaico nella navata destra di Sant’Apollinare Nuovo (qui compare il solo serpente con evidente riferimento al tema già svolto nella chalchè costantinopolitana). Fatta eccezione per questi e altri rari esempi di discussa interpretazione – si veda in specie l’episodio della lotta fra il gallo e la tartaruga nel mosaico pavimentale della basilica teodosiana di Aquileia, interpretato generalmente come contrasto fra luce e tenebre, fra Bene e Male (fig. 15)9 –, bisogna senza dubbio constatare come la presenza del demonio nell’arte cristiana occidentale rimanga un fatto del tutto sporadico almeno sino al IX secolo. Si possono tuttavia annoverare alcune apparizioni significative che dimostrano come peraltro l’idea del Male non abbia ancora individuato – di fatto non accadrà mai – una trasposizione figurativa univoca: rimane invece, come un eterno inganno, l’ambiguità della compresenza di forme del tutto umanizzate o ancora antropomorfe ma fortemente contaminate da elementi ferini. Nella basilica di Sant’Apollinare Nuovo, ancora a Ravenna (sec. VI), fra i pannelli figurati che si allineano sulla parete sinistra della navata centrale, troviamo la prima trasposizione figurata del testo di Matteo (Mt 25,31-46) che, attraverso la metafora della separazione fra le pecore e i capri, preannunzia il giudizio divino alla fine dei tempi (fig. 16). Le fattezze dell’angelo malvagio, associato ai capri, sono qui ancora del tutto antropomorfe, difficilmente distinguibili da quelle della creatura angelica disposta alla destra del Salvatore. L’unica distinzione è dovuta al colore blu notte di vesti, chiome e ali, che potrebbe rappresentare il cielo atmosferico, dove in antico si localizzavano gli esseri caduti e cacciati dal cielo superiore, quello igneo, da cui deriverebbe allora il colore rosso della veste dell’angelo associato al gregge di pecore10. 8 La vittoria dell’imperatore sul nemico inteso come Male. In una monetazione della Zecca di Ravenna l’imperatore Valentiniano viene raffigurato con la croce astile nell’atto di trafiggere il serpente con testa umana. La medesima iconografia compariva in una pittura a encausto nel protiro della chalchè costantinopolitana: qui l’imperatore Costantino era effigiato tra i due figli nell’atto di trafiggere con una lancia un serpente dal volto umano simboleggiante il nemico sconfitto (probabilmente Licinio); lo stesso motivo verrà successivamente replicato in un rilievo della colonna coclide di Arcadio a Costantinopoli, quindi nei solidi di Marciano (450-457) e del suo successore Leone (457-474). Cfr. ancora Pasquini, La decorazione a stucco, cit., p. 31 e relativi riferimenti bibliografici alle note. 9 Per cui cfr. L. Pasquini, Il gallo e la testuggine nel mosaico pavimentale della basilica teodoriana: per togliere le tenebre e fare luce sul noto tema iconografico, in Atti del XV Colloquio dell’Associazione Italiana per lo Studio e la Conservazione del Mosaico - AISCOM (Aquileia, 4-7 febbraio 2009), a cura di C. Angelelli, C. Salvetti, Tivoli 2010, pp. 587-598. 10 Cfr. J.B. Russel, Il diavolo nel Medioevo, Bari 1987, p. 95; Baschet, s.v. Diavolo, cit., p. 645; G. Minois, Piccola storia del diavolo, Bologna 1999, p. 42; Y. Christe, s.v. Giudizio

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ii. l’inferno dantesco

Giunti al XIV secolo e trattando dell’immagine del demonio, non possiamo trascurare il fondamentale apporto della Commedia dantesca alla formazione di alcuni peculiari moduli espressivi nella produzione figurativa dei secoli XIV e XV. L’immagine di Lucifero, così come Dante la delinea nel canto XXXIV dell’Inferno (figg. 169-170)1, va analizzata tenendo conto di tutta una serie di elementi di natura dottrinale e dogmatica, desunti in primo luogo dalla teologia scolastica2, senza tuttavia sottovalutare il peso che nell’ideazione

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Da vedere ancora il fondamentale saggio di Battaglia Ricci, Viaggio e Visione, cit., pp. 15-73, cui si rimanda senz’altro anche per il ricco repertorio bibliografico e illustrativo. Molti suggerimenti sul tema sono già presenti in A. Graf, Miti, leggende e superstizioni del Medioevo, rist. anast. dell’ed. Torino 1892-1993, 2, Bologna 1965, nel cap. dedicato alla “Demonologia di Dante”, pp. 79-139. Cfr. inoltre: L. Ulrich, Luzifer und Christus (1953), in Sehen und Wircklichkeit bei Dante mit einem Nachtrag über das Problem der Literaturgeschichte, Frankfurt am Main 1957, pp. 121-131 (“Analecta Romanica”, 4); J. Freccero, Infernal Inversion and Christian Conversion (Inferno XXXIV), «Italica», 42, 1965, pp. 33-41; Id., The Sign of Satan, «Modern Language Notes», 80, 1965, pp. 11-26; Palgen, Dantes Luzifer, cit., in part. pp. 71-79; A. Ciotti, s.v. Lucifero, in Enciclopedia Dantesca, III, Roma 1971, pp. 718-722; A.K. Cassel, The Tomb, the Tower and the Pit: Dante’s Satan, «Italica», 56, 1979, pp. 331-351; J.B. Friedman, Medieval Cartography and ‘Inferno’ XXXIV. Lucifer’s Three Faces Reconsidered, «Traditio», 39, 1983, pp. 447-456; Morgan, Dante and the medieval other world, cit., in part. pp. 21-23; E.P. Nassar, The Iconography of Hell: From the Baptistery Mosaic to the Michelangelo Fresco, «Dante Studies», 111, 1993, pp. 53-105. 2 Cfr. il cap. intitolato “Il diavolo e scolastica” in Russel, Il diavolo nel Medioevo, cit., pp. 115-151 e pp. 159-174, ma vedi anche A. Ghisalberti, Dante e il pensiero scolastico medievale, Milano 2008.

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capitolo secondo

dell’immagine dantesca poterono avere alcuni rilevanti precedenti letterari e, per altro verso, talune rappresentazioni di carattere figurativo3. Prima di soffermarci sulle fattezze del «vermo reo che ’l mondo fóra» (Inf. XXXIV, 108), dobbiamo innanzi tutto sottolineare come anche Dante, cui dovevano essere ben noti i precedenti scritturali e iconografici del cruciale antefatto riassunto nel v. 16 del XXXIV canto («la creatura ch’ebbe il bel sembiante»), riproponga il tema della Caduta degli angeli ribelli, con significativi ritorni tematici, in più luoghi nelle tre cantiche. In linea con la tradizione teologica e figurativa di cui si è detto4, Dante, che già nel Convivio definiva i demòni quali «intelligenzie che sono in esilio della superna patria» (III, 13), richiama il mito della Caduta nel VII canto dell’Inferno (v. 12) quando allude alla cacciata dei ribelli vinti dall’arcangelo Michele che «fé la vendetta del superbo strupo» e nel IX, dove si ribadisce che essi furono «cacciati dal ciel, gente dispetta» (v. 91). La ribellione si colloca inoltre immediatamente dopo la creazione, come si deduce da Par. XXIX, 49-51: «Né giugneriesi, numerando, al venti / sì tosto, come de li angeli parte / turbò il suggetto d’i vostri alimenti». Il contrasto tra bellezza primitiva, il «bel sembiante» di Inf. XXXIV, 16, e la conseguenza mortificante della colpa si coglie ancora in Purg. XII, 25-27: «Vedea colui che fu nobil creato / più ch’altra creatura, giù dal cielo / folgoreggiando scender, da l’un lato». Se il tema della superbia intesa come causa prima della Caduta viene richiamato in Par. XXIX, 55-57 («Principio del cader fu il maladetto / superbir di colui che tu vedesti / da tutti i pesi del mondo costretto»), in Par. XIX, 46-48 la colpa di Lucifero sembra configurarsi anche come negligenza rispetto alla luce rivelatrice della grazia, ovvero come imprudente e intempestiva ribellione dell’intelligenza angelica all’intelligenza somma e infinita di Dio: «E ciò fa certo che ’l primo superbo, / che fu la somma d’ogne creatura, / per non aspettar lume, cadde acerbo». Da qui deriva pure per contrasto l’inerme degradazione dell’angelo più bello, punito dalla giustizia divina per quel peccato di superbia che, sprofondandolo nelle viscere della terra «da tutti i pesi del mondo costretto» (Par. XXIX, 57), lo condanna a simbolo e

3 Sulla rilevanza delle arti figurative nella Commedia dantesca cfr. innanzi tutto: G. Petrocchi, s.v. Dante Alighieri, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, V, Roma 1994, pp. 623-627, cui si rimanda anche per la bibliografia pregressa; C. Kleinhenz, Dante and the Tradition of Visual Arts in the Middle Ages, «Thought», 256, 1990, pp. 17-26; Id., Mito e verità biblica in Dante, in Dante. Mito e Poesia, Atti del secondo Seminario dantesco internazionale (Monte Verità, Ascona, 23-27 giugno 1997), a cura di M. Picone, T. Crivelli, Firenze 1999, pp. 367-389, in part. il paragrafo intitolato “Dante e l’arte della Bibbia”, pp. 385-389; L. Battaglia Ricci, Ragionare nel giardino. Boccaccio e i cicli pittorici del Trionfo della morte, Roma-Salerno, 20002, in part. il cap. dedicato a “Dante e l’arte figurativa”, pp. 65-71; Ead., Immaginario visivo e tradizione letteraria nell’invenzione dantesca della scena dell’eterno, «Letture classensi», 29, 2000, pp. 67-103; Ead., Viaggio e Visione, cit., pp. 15-73. Sempre fondamentale rimane inoltre il volume di G. Fallani, Dante e la cultura figurativa medievale, Bergamo 19762, nonostante le perplessità espresse dall’autore (pp. 78-81) riguardo all’effettivo rapporto esistente tra alcune delle rappresentazioni figurative di cui si tratterà in questo contributo e la costruzione dell’immagine infernale operata da Dante nella prima cantica della Commedia. 4 Si veda supra, pp. 22-25.

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l’inferno dantesco

incarnazione dell’abiezione generata dal peccato nel luogo più lontano da Dio, che rappresenta la privazione dell’essere e la totale negazione della grazia. Nel canto XXXIV gli esiti dell’eterna condanna del «primo superbo» si concretizzano nella rappresentazione della smisurata e mostruosa figura di Lucifero5, corpo grave e denso, sprofondato sino al centro della terra, ovvero al punto «al qual si traggono d’ogne parte i pesi» (v. 111), stretto nella ghiaccia di Cocito, soverchiato dal peso di tutte le malvagità del mondo. L’apparizione di Dite, antitesi suprema e irriducibile della Divinità, è annunziata con uno squillo di tromba e con il v. «Vexilla regis prodeunt inferni» che si configura come evidente parodia6 dell’inno di Venanzio Fortunato (il vescovo di Poitiers vissuto nel VI secolo), riferito alle braccia del Crocifisso donato da Giustino II a santa Radegonda ed entrato nella liturgia cristiana7. La significativa aggiunta della specificazione inferni appare già come un segnale di allarme per l’apparizione del mostro immane, di cui si individuano dall’incipit, nell’atto che sembrerebbe celebrarne il tripudio, l’effettiva meschinità e impotenza. Il re dell’Inferno si presenta nelle forme di un enorme ordigno bellico (dificio), suggerendo l’idea di uno smisurato mulino le cui pale siano mosse dal vento. Alle approssimazioni con cui si apre il canto, ingannevoli e terrificanti, si oppone la descrizione successiva, essenziale e incisiva, dello «’mperador del doloroso regno», che sembra placare l’iniziale tensione nella constatazione quasi ‘penosa’ del suo stato. Il mostruoso angelo ribelle (che «contra ’l suo fattore alzò le ciglia») si con-

5 Cfr. in primo luogo: B. Nardi, L’ultimo canto dell’Inferno, «Convivium», 25, 1957, pp. 141-148; J. Freccero, Satan’s Fall and the “Quaestio de acqua et terra”, «Italica», 38, 1961, pp. 99-115; G. Petrocchi, Il canto XXXIV dell’Inferno (Lectura Dantis Scaligera), Firenze 1963; B. Nardi, La caduta di Lucifero e l’autenticità della “Quaestio de aqua et terra” (Lectura Dantis Romana, n.s.), Torino 1959; A. Pezard, Le dernier chant de l’Enfer, in Letture dell’“Inferno”, a cura di V. Vettori, Milano 1963, pp. 397-427; A. Vallone, Il canto XXXIV dell’Inferno e l’estremo intellettualismo di Dante, in Nuove letture dantesche, III, Firenze 1969, pp. 191-208; G. Stabile, Cosmologia e teologia nella Commedia: la caduta di Lucifero e il rovesciamento del mondo, «Letture classensi», 12, 1983, pp. 139-173; S. Pasquazi, Canto XXXIV, in Lectura Dantis Neapolitana. Inferno, a cura di P. Giannantonio, Napoli 1986, pp. 623-641; R. Ceserani, Canto XXXIV. Lucifer, in Lectura Dantis. Inferno, a Canto-by-Canto Commentary, a cura di A. Mandelbaum, Berkeley - Los Angeles - London 1998, pp. 432-439 e Id., Un felice incontro, cit., pp. 1-14. 6 Sull’immagine del demonio intesa quale parodia del Cristo trionfante nel repertorio iconografico medievale, con particolare riguardo alle rappresentazioni del Giudizio universale, cfr. E.H. Kantorowicz, The King’s two bodies. A study in mediaeval political theology, Princeton 1957, in part. le pp. 61-78 e 88-93; A. Ladis, The Legend of Giotto’s Wit and the Arena Chapel, «The Art Bulletin», 68, 1986, pp. 581-596, in part. p. 586; D.A. Bidon, La mort au Moyen-age, 13.-14. siècle, Paris 1998, in part. pp. 273-289; Ruda, Satan’s Body, cit., pp. 319-350. Sul medesimo concetto applicato al testo dantesco e in specie all’immagine di Lucifero nel canto XXXIV si vedano inoltre: Freccero, Infernal Inversion, cit., pp. 33-41; Id., The Sign of Satan, cit., pp. 11-26; G. Gorni, S. Longhi, La parodia, in Letteratura italiana, a cura di A. Asor Rosa, V, Le questioni, Torino 1986, pp. 459-487; G. Gorni, Parodia e scrittura in Dante, in Dante e la Bibbia, Atti del convegno internazionale promosso da Biblia (Firenze, 26-28 settembre 1986), a cura di G. Barblan, Firenze 1988, pp. 323-340; Morgan, Dante and the medieval other world, cit., p. 22; Ceserani, Un felice incontro, cit., pp. 1-14. 7 Per cui si veda anche: G. Brugnoli, s.v. Venanzio Fortunato, in Enciclopedia Dantesca, V, Roma 1971, p. 913.

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capitolo secondo

figura come una massa enorme, dalle incommensurabili proporzioni, cui non si può trovare elemento alcuno di comparazione. Il contrasto tra la bellezza passata e la bruttura presente, richiamato dal v. 34 («S’el fu sì bel com’elli è ora brutto»), ribadisce il tema della ribellione alla volontà divina e rimarca, nella contrapposizione perentoria tra Bene e Male, il vuoto spirituale della condizione attuale, la non essenza, cioè l’assenza di Essere che san Tommaso individuava come connotazione ultima del Male8. Nel concepire l’immagine estrema del demonio, Dante poté di certo usufruire di un nutrito repertorio di rappresentazioni letterarie e figurative. Un rilevante precedente testuale, già chiamato in causa come eventuale fonte ispiratrice di alcune fondamentali soluzioni figurative, va individuato nella Visione di Tungdalo9 dove già si descrivevano, con ricchezza di dettagli, anche cruenti, i tormenti subiti dai dannati nell’abisso infuocato dell’Inferno. L’autore della visione riferiva di una bestia di incredibile grandezza e ineffabile orrore che superava per mole tutte le montagne che egli aveva mai visto. I suoi occhi brillavano come carboni accesi, la sua bocca si spalancava enorme e dal volto sfavillava una fiamma inestinguibile. Vi era poi quella terribile bestia seduta su uno stagno ghiacciato che divorava tutte le anime che riusciva ad afferrare, per poi defecarle e sottoporle nuovamente al medesimo supplizio. È alla fine del racconto che Tungdalo vede il principe delle tenebre, il nemico del genere umano, più grande di qualsiasi altra bestia che egli avesse visto prima nell’Inferno. Nero come un corvo, aveva la forma umana dalla testa ai piedi, ma anche la coda e molte mani. Con le membra e le articolazioni legate da grosse catene ardenti di ferro e di bronzo, l’immane mostro scagliava e disperdeva col respiro le anime dei dannati per tutte le contrade dell’Inferno. Questa bestia era denominata Lucifero, la prima creatura di Dio. La mole immensa e incomparabile del demonio dantesco, assieme all’idea della ghiaccia di Cocito, oltre a numerosi dettagli caratterizzanti altri diavoli della Commedia, potrebbero già reperire, come si vede, legittimi riscontri in questo testo visionario del XII secolo. Non possiamo tuttavia trascurare il ruolo che le fonti figurative poterono interpretare per Dante, uomo del Medioevo, attento osservatore di ogni forma d’arte, disegnatore lui stesso10 e necessariamente immerso in quel ricco repertorio di immagini di cui si sono sinora tracciate le linee. Analizzare particolari fonti iconografiche, prese in esame per le eventuali implicazioni col testo dantesco, non significa tuttavia recuperare sommarie affinità di 8 Sul Male inteso come negazione dell’Essere in Dante come pure in Tommaso d’Aquino cfr. Russel, Il diavolo nel Medioevo, cit., pp. 168-169. 9 Per cui si veda in primo luogo: A. Wagner, Visio Tnugdali. Lateinisch und Altdeutsch, Erlangen 1882, in part. pp. 16, 27 e 35; Palgen, La “Visione di Tundalo”, cit., pp. 129-147; Id., Dantes Luzifer, cit., pp. 58-70; Palmer, Visio Tnugdali, cit.; Pfeil, Die «Vision des Tnugdalus», cit. Cfr. inoltre: Russel, Il diavolo nel Medioevo, cit., pp. 158-159 e la nota 14 con precisi rimandi bibliografici; Morgan, Dante and the medieval other world, cit., pp. 3 e 22; Baschet, Les justices de l’au-delà, cit., pp. 103-104; Ceserani, Un felice incontro, cit., p. 10. 10 Si veda in primo luogo R. Assunto, La critica d’arte nel pensiero medioevale, Milano 1961, pp. 159-163, 167, 248.

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diavoli e inferni fra vi e xiv secolo

1. Il serpente. 2. Il drago.


laura pasquini

3. La scimmia. 4. Il gatto.


diavoli e inferni fra vi e xiv secolo

5. Il grifone. 6. Il basilisco.


21-24. Salterio di Stoccarda, sec. IX, Stoccarda, WĂźrttembergische Landesbibliothek, Cod. Bibl. 2. 12, ff. 107r, 107v, 6v, 10v.



25. Salterio di Stoccarda, sec. IX, Stoccarda, WĂźrttembergische Landesbibliothek, Cod. Bibl. 2. 12, f. 56r. 26. Il dio Cernunno della mitologia celtica.


27. Il satiro della mitologia classica. 28. Bes, divinità minore dell’antico Egitto.


29. Benedetto tentato dal Diavolo, affresco di scuola umbro-marchigiana, sec. XV, Monastero di Subiaco, chiesa superiore, seconda campata. 30. La guarigione del monaco indemoniato, affresco di scuola umbro-marchigiana, sec. XV, Monastero di Subiaco, chiesa superiore, seconda campata.


31. Stefano di Giovanni di Consolo detto il Sassetta, Polittico dell’Arte della Lana, predella: Sant’Antonio battuto dai diavoli, 1423, Siena, Pinacoteca nazionale.


laura pasquini

44. Le tentazioni di Cristo, Londra, British Library, ms. Arundel 157, f. 6v, 1240.


diavoli e inferni fra vi e xiv secolo

45. Le tentazioni di Cristo, Londra, British Library, ms. Arundel 157, f. 6v, 1240.


laura pasquini

162. L’Inferno nell’Hortus Deliciarum della badessa Herrade von Landsberg , sec. XII.


diavoli e inferni fra vi e xiv secolo

163. Giudizio universale, porzione dedicata all’Inferno, Tuscania, Santa Maria Maggiore, arco trionfale, fine sec. XIII. 164. Il Giudizio affrescato sulla controfacciata della basilica di Santa Maria ad Cryptas presso Fossa in provincia dell’Aquila, fine sec. XIII.


laura pasquini

189-191. L’Inferno di Coppo di Marcovaldo e partt., 1260-1270, Firenze, Battistero di S. Giovanni, cupola.


diavoli e inferni fra vi e xiv secolo


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,

ISBN ----


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