soggetti rivelati
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Angela Veronese
eurosia a cura di Patrizia Zambon Marta Poloni
ilpoligrafo
La storia delle donne è anche la storia di una progressiva, inarrestabile rivelazione. È stata, e continua ad essere, una vicenda multipla, complessa, stratificata, che intravede da sempre nelle forme del dialogo e della narrazione la possibilità di porsi in relazione ad altro, di esplorare nuovi territori e nuovi mondi, reali e concreti non meno che immaginari, simbolici, metaforici. Ecco così emergere, con questa iniziativa editoriale, un’attenzione privilegiata per la scrittura e per le scritture femminili, per i momenti successivi di questa rivelazione, per le pratiche e per i moduli espressivi che hanno costruito nel corso dei secoli una soggettività di per sé narrativa e dialogica: ritratti di donne che hanno lasciato una profonda impronta nella letteratura, nella filosofia, nell’arte, ma anche nella scienza, nella religione, nella politica, nella storia del costume. Un simile approccio non implica semplicemente un cambiamento di oggetto o di metodo, ma esige, soprattutto, uno sguardo differente sulle cose e sulla realtà, la capacità di porsi in ascolto, di rimettere in discussione modelli, chiavi di lettura, prospettive solo apparentemente consolidate, per procedere oltre i rigidi confini di materie e discipline “canoniche”. I ritratti e le storie “rivelate”, più che tracciare una galleria in qualche modo definitiva di personaggi e di momenti, vogliono allora evidenziare il carattere irriducibilmente rizomatico, carsico, non lineare, di ogni percorso di libertà e di emancipazione. L’immagine da utilizzare potrebbe essere verosimilmente quella di un vasto arcipelago, in cui sia possibile muoversi e navigare, sulla base dell’ispirazione del momento, senza dover fare affidamento su un percorso preordinato, su una rotta già stabilita in partenza. Ogni singolo frammento può infatti ricollegarsi a ciò che sta prima come a ciò che lo segue: l’identità femminile si è costruita nel tempo “sedimentando” eredità di vario tipo, facendo leva proprio sulla ricchezza di tutte le esperienze di vita disponibili. In modo del tutto analogo, la storia delle donne potrà così assumere i caratteri di un cantiere aperto, mobile e modificabile, sempre pronto all’acquisizione di dati e conoscenze. L’identità è una storia in cammino.
soggetti rivelati ritratti, storie, scritture di donne collana di studi coordinata da Saveria Chemotti
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Angela Veronese
eurosia a cura di Patrizia Zambon Marta Poloni
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Il presente volume è stato pubblicato con un contributo del Dipartimento di Studi Linguistici e Letterari dell’Università degli Studi di Padova
Copyright © dicembre 2013 Il Poligrafo casa editrice srl 35121 Padova piazza Eremitani - via Cassan, 34 tel. 049 8360887 - fax 049 8360864 e-mail: casaeditrice@poligrafo.it ISBN 978-88-7115-844-0
INDICE
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Angela Veronese, Eurosia, 1836 Patrizia Zambon
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Angela Veronese e la cultura veneta del primo Ottocento Marta Poloni
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Nota al testo
Angela Veronese Eurosia
63 74 83 96 108 121
i.
La Pietà ii. L’Amore iii. La Seduzione iv. L’Infedeltà v. La Morte vi. La Punizione
appendice bio-bibliografica
133
Nota biografica
147
Nota bibliografica
introduzioni
Angela Veronese, Eurosia, 1836
Patrizia Zambon
Di Angela Veronese i lettori oggi conoscono quasi esclusivamente le Notizie della sua vita scritte da lei medesima. Recuperate da Manlio Pastore Stocchi, con l’operazione rabdomantica di un lettore coltissimo che è insieme anche un filologo del testo e uno storico penetrante e acuto della storia letteraria veneta e italiana, per l’edizione nella Collezione in ventiquattresimo dell’Editrice Le Monnier, nel 1973 riportarono all’attenzione della storiografia letteraria una scrittrice del primo Ottocento italiano della quale si erano, francamente, perdute le tracce. Pastore Stocchi accompagnò la sua riedizione, che comprendeva anche alcuni testi di Rime scelte, con un fondamentale saggio di introduzione nel quale diede conto di ciò che di Aglaia Anassillide si sapeva nella tradizione di testi e degli studi: le annotazioni memoriali e amichevoli di Benassù Montanari, giunte alle stampe nel 1854; quelle agre e definitorie di Mario Pieri corcirese, 1850; le configurazioni già letterarie di Niccolò Tommaseo, 1840 e 1849, e quelle convenzionali di Luigia Codemo, 1872; l’articolato spessore, anche documentario, dell’affettuoso ‘necrologio’ dell’amico Luigi Carrer, 1859; infine le pagine informative degli Appunti letterari di Augusto Serena, 1903. Il testo stesso delle Notizie della sua vita poi ha certo contribuito a tracciare un profilo della storia umana e letteraria di Angela Veronese che negli ultimi decenni si è abbastanza consolidato. «Io nacqui sul finire del secolo xviii in riva alla Piave – inizia con un incipit così curiosamente familiare, per i lettori del Nievo delle Per la bibliografia pregressa e contemporanea su Angela Veronese si veda la Nota bibliografica in questo volume.
patrizia zambon
Confessioni, Angela Veronese nel raccontare le Notizie della sua vita scritte da lei medesima nel 1826 –, in una villetta chiamata Biadine, situata alla punta del Bosco Montello, verso il levante, poco distante da Treviso e pochissimo da Possagno, patria dell’immortale Canova. Mio padre di nome Pietro Rinaldo, mia madre Lucia erano povere ed oneste persone... L’uno era di professione giardiniere, l’altra figlia d’un fabbro». Era il 19 dicembre 1778, estrema stagione d’Arcadia, e per la Serenissima ancora stagione di vita splendida in villa: sono i due estremi che in qualche modo segnano la vita letteraria di maggiore notorietà di Angela. Figlia di un giardiniere che lavorava i parchi suntuosi e ornati delle ville patrizie disseminate nella campagna trevigiana, Angela vi immerse la fantasia, sedotta parimenti dalle statue mitologiche che quei parchi abitavano quanto dalle storie che esse evocavano, raccontate dalla passione di un aiutante del padre cui si richiedeva di leggere «ora il Tasso, ora l’Ariosto, ora il Cicerone del Passeroni, ed ora l’Omero del Boaretti». Imparò a scrivere, cosa non comune alle bambine della sua condizione sociale, ribelle a disciplina di scuola e tuttavia tanto ansiosa della scrittura da ingegnarsi a conoscere le lettere calcandole una a una da un foglio appoggiato contro il vetro; imparò anche l’armonia dei versi, imparò a compitarli sui ritmi metastasiani, e divenne così per i signori che quelle ville abitavano il sogno d’Arcadia tradotto in realtà, una pastorella vera che componeva poesia. Cresciuta tra il giardino in villa e il palazzo veneziano degli Zenobio, protetta dalla contessa Spineda, chiamata da Isabella Teotochi nei saloni e viali di villa Albrizzi, Aglaia Anassillide – il nome arcade univa al nome di una delle Grazie quello latino del Piave, Anaxus – incontrò i grandi della poesia veneta del primo Ottocento, Cesarotti, Pindemonte e Foscolo, e una folla di eruditi e Angela Veronese (Aglaia Anassillide), Notizie della sua vita scritte da lei medesima. Rime scelte, a cura di Manlio Pastore Stocchi, Firenze, Le Monnier, 1973, p. 34. Ivi, p. 41. Di alcuni singolari sviluppi del dibattito settecentesco in tema di intellettualità femminile dà conto Luisa Ricaldone in alcuni dei Dodici studi. Margini del Settecento, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2006. Sull’interazione tra natura e cultura, tra esperienza reale e processo letterario del fantasticare, come elemento fondativo della personalità artistica di Angela Veronese scrive osservazioni attente e interessanti Giovanna Pastega nel curare la sezione Angela Veronese (Aglaia Anassillide) nel collettivo Le stanze ritrovate. Antologia di scrittrici venete dal Quattrocento al Novecento, Mirano-Venezia, Eidos, 1991.
angela veronese, eurosia, 1836
nobiluomini che le prestavano attenzione e la invitavano a recitare le sue poesie, a pubblicarle anche, come un aggraziato fenomeno di moda, l’«ineducata figlia del bosco» che alle loro conversazioni mancava. Notevole in effetti è l’intreccio di personalità del milieu culturale veneto del tardo Settecento e poi dei primi decenni dell’Ottocento napoleonico e neoclassico, per non dire apertamente protoromantico, che lei tratteggia nella rievocazione delle Notizie e del quale tratta il secondo saggio di questa introduzione. La vita, a quanto si sapeva, avrebbe poi presentato la sua realtà, e «la canora, la gaia satirichetta Aglaia» avrebbe prosaicamente sposato un cocchiere, Antonio Mantovani, con il quale si sarebbe stabilita a vivere a Padova una vita in cui la poesia si sarebbe compressa via via sempre più, e sarebbe diventata memoria. Non rinuncia totale: frequentò ancora amicizie letterarie – spicca quella di Luigi Carrer, nel 1813 fu ascritta alla Accademia degli Agiati di Rovereto, nel 1836, registra puntualmente Pastore Stocchi, pubblicò una novella, Eurosia, nel cui frontespizio l’autrice si dichiara Accademica Tiberina. Ma la stagione di Parnaso per lei poteva dirsi identificata con la giovinezza, con il gruppo delle Rime pastorali, più volte edite tra 1807 e 1819, alle quali aveva affidato il canto lieve di una sua fresca sensibilità naturale, e più di una sua passione di letteratura, di una natura armoniosamente abitata da grazie e pastori e incaute ninfe, da una raffigurazione d’Amore fragile quanto la poesia. Sappiamo che Angela Veronese morì a Padova l’8 ottobre 1847. Ma a questo condiviso ritratto d’artista, in fondo da lei stessa fornito e poi nel lavoro di riscoperta motivatamente consolidato; tutto costruito sull’immagine della ragazzina e poi della giovane donna intenta a una vicenda di poesia insieme spontaneistica e colta; entrato nella descrizione del tessuto culturale di un Veneto di tardo Settecento, nel quale la civiltà veneziana illanguidisce ma non soccombe, e illumina anzi con singolare originalità di forme e fors’anche di si Secondo il ritratto «rapido, ma vivo e affettuoso» dei versi che le dedicò Benassù Montanari sull’albo dei visitatori della casa di Petrarca ad Arquà: ma per la storia, e la lettura critica della presenza di Veronese nella letteratura veneta tra Sette e Ottocento si veda il saggio di Manlio Pastore Stocchi che introduce l’edizione moderna delle Notizie della sua vita, al quale devo anche – con molto altro – l’indicazione dei versi di Montanari.
Angela Veronese e la cultura venetA del Primo Ottocento
Marta Poloni
Vestito di panno grigio oscuro, senza alcun segno di moda, li suoi capegli rossi radati come quelli d’uno schiavo, il suo viso rubicondo tinto non so se dal sole oppure dalla natura, li suoi vivacissimi occhi azzurri semi-nascosti sotto le lunghe palpebre, le sue labbra grosse come quelle d’un Etiope, la sua sonora ed ululante voce.
Con queste parole, quasi spiazzanti nella loro franchezza, Angela Veronese descrive Ugo Foscolo, frequentatore di villa Spineda, a Breda, e di villa Albrizzi sul Terraglio, nobile dimora che la celebre Isabella Teotochi Albrizzi aveva fatto diventare, all’inizio d’Ottocento, «un centro di vita artistica e mondana». In questi luoghi la poetessa conosce un cospicuo numero di personalità illustri. Proprio la frequentazione di questi ricchi salotti consentirà a Veronese di entrare in contatto con la nobiltà e con una lunga serie di letterati: da Cesarotti a Memmo, da Carrer a Dall’Ongaro, che contribuiranno in maniera decisiva all’affermazione della sua fama. Angela Veronese si presenta infatti come una figura curiosa, vera figlia della campagna, contadina non solo letteraria, che ama comporre e declamare versi, tanto che in lei pare incarnarsi il mito dell’Arcadia. Affascinati dalla sua originalità e da una personalità non certo banale, molti uomini illustri si avvicineranno a lei, stringendo talvolta delle amicizie durature e manifestando un sincero affetto verso la «pastorella del Sile».
Angela Veronese (Aglaia Anassillide), Notizie della sua vita scritte da lei medesima, a cura di Manlio Pastore Stocchi, Firenze, Le Monnier, 1973, p. 82. Ivi, p. 62.
marta poloni
Tutto un mondo di letterati veneti del tardo Settecento e della prima parte del secolo nuovo viene così evocato nel tessuto esplicitamente in citazione delle Notizie della sua vita, a volte richiamati in rapidi tocchi, altre volte lungamente definiti nella loro rete di rapporti, nei testi redatti e scambiati, nei luoghi e negli incontri della loro socialità dotta e mondana. Incedono sotto lo sguardo ammirato di Veronese le gentildonne dei salotti e dei saloni (e parchi) in villa, prima di tutto, Isabella Teotochi Albrizzi, a cui Angela dona «un fiore ed un epigramma», ricevendo in cambio «la traduzione dell’Eneide dell’Annibal Caro, e le Metamorfosi di Ovidio tradotte dall’Anguillara». Veronese trascorre presso villa Albrizzi parte della sua adolescenza e ricorderà per sempre con grande affetto quel periodo in cui «la eccellentissima famiglia [...], che passava tre mesi dell’anno a villeggiar sul Terraglio, mi colmava di carezze e regali ogni volta ch’io le presentava o fiori o poesie». Negli anni successivi la poetessa otterrà la protezione di altri nobili, come la trevigiana contessa Spineda, «una Signora bellissima, ridente, colta, spiritosa e saggia», che nella «malinconica villa» che è Breda di Piave, prende sotto la sua ala protettrice la fanciulla, esprimendole sincero affetto e interesse, «perché a suo dire trovava in me qualcosa di singolare oltre alla poesia»; sarà lei una delle maggiori promotrici del successo della «pastorella del Sile», in quanto la nobildonna la condurrà sovente con sé come una sorta di dama di compagnia, «avendo ella moltissime relazioni con persone colte ed erudite, parlava a tutti con gentilezza della sua Saffo-giardiniera, come solea chiamarmi, e mi presentava alla sua numerosa conversazione». È proprio la contessa Spineda che presenta Angela a Ugo Foscolo. Densa di nomi e di presenze è la società degli uomini illustri (poeti, verseggiatori, o comunque letterati): il conte Alessandro Pepoli, «noto autore drammatico, emulo dell’Alfieri e sperimentatore di nuove forme teatrali»; Jacopo Vittorelli, le cui anacreontiche, secondo la valutazione di alcuni dei lettori coevi, sono significativamente nella
Ivi, p. 76. Il Terraglio è la strada delle ville che corre tra Mestre e Treviso. Ivi, p. 81. Ivi, p. 82. Si veda la nota di Manlio Pastore Stocchi, ivi, p. 70.
angela veronese e la cultura veneta del primo ottocento
storia della poesia di Aglaia; i colti: l’abate Bernardi, Quirico Viviani, Giovanni Zuccala, l’abate Dalmistro; il poligrafo, poeta e sarcastico epigrammista Francesco Zacchiroli, con cui Angela intrattenne una corrispondenza della quale ci è pervenuto un frammento; i traduttori e divulgatori: Giuseppe Urbano Pagani Cesa, che tradusse l’Eneide e versi di Gessner, Bürger, Wieland; Girolamo Silvio Martinengo, traduttore del Milton del Paradiso perduto; Giustina Renier, la traduttrice del Macbeth e dell’Otello di Shakespeare, che, amichevole, le diede il soprannome di «giardiniera del Parnaso». Al di sopra di tutti sta Melchiorre Cesarotti. Fui presentata [...] al Cesarotti, che dietro alle mie notizie avute dall’Ab. Bernardi ardea di voglia di vedermi. Mai più mi figurava tanta amabilità in un vecchio, né tanta indulgenza in un letterato. [...] Direi molto più parlando di quest’uomo insigne, che io appellerò mio genio benefico.
Lo scrittore, che conosce Angela ormai nel primo Ottocento, dimostra sin da subito una notevole attenzione verso la più giovane poetessa che accoglie sotto la sua ala protettrice. Cesarotti conduce Aglaia a Selvazzano, dove sorge la tenuta in cui l’intellettuale si rifugia nell’ultimo periodo della sua vita, da lui chiamato Selva di Giano, ove in un picciol tratto di terreno si vedea ciò che avrebbe offerto una vasta campagna, cioè: boschetto sacro agli estinti suoi amici, viale detto dei pensieri, grotta di Tetide, collina col gabinetto delle Naiadi, sala d’Iside etc. Tutto ciò era circondato da una limpid’acqua, a lui più gradita di quella d’Ippocrene.
Intrecciare un’amicizia con uno dei più importanti autori contemporanei ha delle ripercussioni importantissime sulla carriera di Aglaia Anassillide: All’onoratissimo Signore Francesco Zacchiroli, Viceprefetto di Conegliano, Padova, 26 febbraio 1813. Inedita, Biblioteca Civica di Padova, sezione storica. Risulta interessante notare come Angela Veronese in questo testo dimostri un profondo affetto verso Zacchiroli salutandolo con grande dolcezza: «Bondì mio dolce Amico, ti amo candidamente, e mi chiamo tua con tutta l’efficacia del sentimento». Il giudizio nei suoi confronti che viene invece espresso in Notizie della sua vita scritte da lei medesima è oltremodo negativo: «mi gli presentai con la falsa convinzione che fosse amabile come le sue canzonette», p. 89. Angela Veronese, Notizie della sua vita scritte da lei medesima, cit., p. 103. Ivi, pp. 92-94. Ivi, pp. 94-95.
Angela Veronese eurosia
Come vivere potea Senza speme, nel dolor? L. Carrer
I
LA PIETÀ
La riva occidentale del fiume Piave, lungo la costiera della bella villa Narvesa, offre uno dei più vaghi punti di vista, di cui va tanto pomposa la nostra Italia. Si veggono al di là del fiume le ridenti colline di Conegliano, e più vicino quelle di Collalto, e sul vertice della più agevole il pittoresco castello di San Salvatore. Verso il mezzogiorno una immensa pianura si estende oltre il guardo umano, e quasi confina con l’Adriatico; alla parte orientale il maestoso bosco Montello, e verso il settentrione le altissime Alpi Giulie. Fra queste ed il bosco fa il suo gran giro il fiume Piave e passa orgoglioso or propizio ed or funesto a quelle amene pianure. L’aria è purissima, il bosco armonioso pei canti degli uccelletti, la campagna fertile di frutta, di biade, di bestiami. I paesani sono cortesi ed allegri, le villanelle allegre e gentili. Sul finire di una dolce giornata di aprile passeggiava, leggendo un romanzo storico sentimentale, il conte di C..., ricco signore di que’ contorni, quando se gli avvicinò una ragazzina, che lo scosse dalle sue profonde riflessioni sul romanzo, e timidamente gli dimandò s’egli era il signor medico. Il conte guardò questa fanciulla, che spirava da’ suoi vestiti una decente povertà. Era una bella biondetta, di nove anni incirca; graciletta e pallida come il genio della malinconia.
L’autrice appone qui la seguente nota d’autore: «[N.d.A.] Ma quanto non è più bella questa magica vista descritta dall’autore dell’Inno alla terra in un suo romanzo che vedrà fra non molto la luce, e di cui sarei ben contenta che questo mio potesse essere considerato il precursore». Si tratta con tutta probabilità del romanzo di Luigi Carrer, Osanna, allora in fase di redazione, e che l’autore, amico di Aglaia, avrebbe lasciato inedito. Su questa vicenda si veda il saggio di Marta Poloni, in questo volume.
angela veronese
– No, mia cara, – disse il conte – io non sono il medico; ma, ditemi, che cosa volete da lui? – Vorrei – rispose ella – che venisse subito da mia sorella Eurosia ammalata da pochi giorni; il nostro parroco disse che conviene donarla al paradiso, perché ha una malattia che non la conosce neppur egli; venite a vederla, signore; la nostra casupola è quella – e la indicò col dito – vicina al bosco, con quel grande albero di dietro; fatemi la carità di venire, ci siamo in due passi. Più per consolar di qualche moneta la povera famigliuola che per visitare l’inferma, il conte andò dietro la piccola conduttrice alla casupola del grand’albero. Voi vedete, miei cari leggitori (se ne avrò) che il conte oltre ad esser ricco era anche di buon cuore. Appena arrivato alla siepe della casupola, un cane abbaiò senza muoversi da un angolo del cortile, ed un povero maiale (giacché conviene nominare tutti i personaggi) alzò il grifo dal lato ov’era sdraiato, come un sultano sull’origliere, e grugnì di gioia alla vista della fanciulla ch’era la sua custode. Una vecchierella, che stendeva una camicia al sole, vedendo entrare il conte nel cortile, si levò il suo cappello di paglia per rispetto, come si fa alla immagine di un santo. La fanciulletta gridò: – Nonna, questo signore guarirà la povera Eurosia. – Il cielo gli renda il merito della sua carità – disse la vecchia, e corse, a dispetto della sua età, ad aprire la porta della camera ov’era l’inferma. Ella giacea in un letticciuolo, avvolta in biancheria grossolana ma nettissima. Sopra una cattiva tavola vi era un crocefisso, ed un lume d’olio che crepitava per finire, segno ch’era stato acceso tutta la notte. A canto al letto sopra una seggiola di paglia v’era un boccale con acqua, in cui galleggiava un pezzo di pane abbrustolito, un vasello con entro un ramo di ulivo, ed una corona di devozione. Eurosia giaceva con la testa volta un po’ verso il muro, come volesse cercare riposo nell’ombra. I suoi bellissimi capelli, biondi come l’ambra, cadeano in disordine sul collo e velavano un seno che non giungeva ancora ai diciotto anni. Il conte la guardò con pietosa curiosità, poi le disse dolcemente: – Eurosia, Eurosia, come vi sentite? La inferma volse appena il capo alla voce che le era ignota, aprì languidamente due grandi occhi azzurri, semicoperti da lunghe palpebre ed ornati da due ciglia bionde, folte e finissime.
eurosia
– Chi è questo signore? – diss’ella con una voce debole e soave come quella della speranza. Il conte rispose: – Sono un vostro amico, lasciatemi sentire il vostro polso; – ed Eurosia alzò dalla coltre lentamente una mano, che potea servir di modello a Canova per quella di Ebe. Egli conobbe dal polso che la febbre era in declinazione, e l’inferma in un’estrema debolezza; lasciò sdrucciolare alcune monete sul letticciuolo, e partì fra le benedizioni della vecchierella e le tacite lagrime della povera Eurosia, tornando alla sua abitazione tutto commosso dalla compassione e dalla gioia di aver fatto un’opera buona. Lasciamolo là, e torniamo alla casupola. Gl’individui che componevano questa famigliuola erano cinque, cioè: Eurosia, la sua sorellina, un suo fratello già arruolato soldato e partito per Mosca, del quale da più mesi non sapevasi nulla, la vecchierella e suo figlio, padre dei tre primi, e capo di casa. Questi si chiamava Paolo, e faceva il tessitore. Il giorno, in cui la provvidenza mosse la mano del conte a consolare la sua famiglia, il povero maestro Paolo non era in paese, ma aveva passata la Piave prima del giorno ed era ito a Sacile a portar un rotolo di tela ad una signora che stimava molto il suo lavoro perché era ben eseguito e discretissimo di prezzo; forse quest’ultima qualità era per lei la più seducente. Antonio Canova era stato artista di contigua vicinanza all’ambiente geografico e certamente culturale di Angela Veronese, che aveva vissuto laddove le sue sculture erano presenze familiari, comunitariamente dibattute e commentate, e altamente ammirate; si vedano particolarmente i libri di Isabella Teotochi, Opere di scultura e di plastica di Antonio Canova descritte da Isabella Albrizzi nata Teotochi, Firenze, Molini, Landi e Comp., 1809, e in nuova edizione aumentata, Pisa, presso Niccolò Capurro, 1821-1824 (oggi, a cura di Manlio Pastore Stocchi e Gianni Venturi, Bassano del Grappa, Istituto di Ricerca per gli Studi su Canova e il Classicismo, 2003); e lo studio Elena Bassi, Lina Urban, Canova e gli Albrizzi. Tra ridotti e dimore di campagna del tempo, Milano, Scheiwiller, 1989. Quanto ad Aglaia, si veda Fiori anacreontici sparsi su la tomba di Canova da Aglaja Anassillide, Udine, pei Fratelli Mattiuzzi, 1822: il soggetto dei versi di Angela è appunto la Ebe di Canova (la statua del 1816, l’ultima delle quattro statue dedicate dallo scultore a questo soggetto, è oggi alla Pinacoteca Civica di Forlì). La storia si sviluppa nel territorio collinare a nord di Treviso; ambientata a Nervesa, ai piedi del Montello, spazia nel suo sguardo d’apertura sul paesaggio pausato ed elegante di una zona davvero precipua del territorio veneto, finita l’asprezza affaticata della montagna e prima che si apra l’uniformità della pianura. Sacile è in Friuli, oggi nella provincia di Pordenone; nella nota documentaria che appone alle pagine paesaggistiche d’apertura del Conte pecorajo – pressoché tutti i romanzi del primo Ottocento di ambien-
angela veronese
La moglie di maestro Paolo era morta da due anni per una perniciosa, che il medico non avendo conosciuto che troppo tardi, si scusò con la sentenza siam nati tutti per morire. E qui conviene fare una bella riflessioncella: gran bravo medico! Il nostro tessitore tornando a casa sua andava facendo i suoi calcoli (e chi non ne fa?) sul poco danaro già avuto di venticinque lire venete, prezzo del suo lavoro. In questi calcoli entravano alcuni debituzzi, fatti, non per vizi ma per necessità, la paga del medico, quella dello speziale, ed anche (non senza un po’ di ribrezzo paterno) la spesa del funerale della povera Eurosia. – Poh! – andava ripetendo – Non ci resta neppur un soldo per vivere!... Ma Dio provvederà. E con questo soliloquio era giunto al passo della Piave, ove dovea sborsare alcuni centesimi che aveva ommesso ne’ suoi calcoli. Passò la Piave e da lì a poche miglia arrivò alla sua casupola, dove incontrò nell’entrare nel cortile il signor dottore Covolo, che aveva l’ordine apposito di non abbandonare l’ammalata dal non mai lodato abbastanza conte di C... che ne aveva preso tutto l’interesse. Maestro Paolo, vedendo il dottore che usciva, esclamò: – È forse morta poveretta? – No, – rispose l’eccellentissimo – non è morta, e vi assicuriamo che non morirà (in quei tempi i medici parlavano col plurale e con l’assoluto). Il dottore partì, ed il tessitore rientrò nella sua casupola. – Come sta Eurosia? – Sta meglio, – rispose la vecchierella che si nomava (giacché non l’ho detto finora) madonna Pasqua; – sta meglio, e guarirà dandole di ora in ora una medicina che si chiama china, e ristorandola con brodo. – Brodo! – ripeté maestro Paolo – ov’è questo brodo? – e con suo grande stupore vide una pentola che bolliva allegramente come in un giorno di nozze.
tazione contadina esplicitano il loro tributo all’apertura dei Promessi sposi, così adeguata e strutturalmente condivisibile, peraltro – Nievo ne definirà la contiguità d’area, terra friulana in cui si parla «il vernacolo Trevisano (nel distretto di Sacile fra Piave e Livenza)».
eurosia
– Chi fu?... dove avete trovato?... – e non potea dir altre parole per la contentezza. Prima che madonna Pasqua rispondesse: – È tutta carità del conte tale –, il nostro osservatore avea veduto due bei capponi appesi ad un trave della affumicata cucina, ed una bottiglia, su cui era scritto in un pezzo di carta cipro vecchio, oltre ad un cestino di ciambelle sul desco, il quale non aveva sostenuto per lo passato che povere agresti vivande, cioè polenta, legumi, erbaggi, frutta ed acqua; vino solamente di festa, oppure quando maestro Paolo aveva riscosso danaro fuori di speranza. La febbre, che minacciava la debole complessione d’Eurosia, fuggì dalla chinachina, come fugge un malfattore dalla Giustizia. Il brodo ed il cipro ristabilirono la sua salute; dopo un mese di felice convalescenza acquistò con molto vantaggio il vigore, la floridezza e la verginale avvenenza. Ella incominciò ad alzarsi di buon mattino, cioè col sole, e dopo avere assettata la sua cameretta si portava all’orticello, coglieva alcuni fiori sbucciati con l’alba ed ancor rugiadosi, li recava alla chiesa innanzi all’altare di santa Eurosia protettrice dei campi; indi tornata alla sua casupola si metteva a dipanare il filo, di cui faceva la tela suo padre. Ora conviene lasciare la casupola, e ritornare all’abitazione del conte. Oltre ad una deliziosa situazione era delizioso tutto ciò che l’arte aveva aggiunto alla natura. Un casino di campagna con tutti i suoi comodi, un grazioso giardinetto, un brolo di piante fruttifere, un laghetto, una collinetta ed un lungo stradone di castagni selvatici che terminava in un rocolo, ossia uccellaia, ove si tendevano insidie ai tordi ed ai beccafichi. Quest’ultima delizia era un forte invito a tutti gli amici e conoscenti del conte. Tra i primi, e che si potea veramente dir amico, era certo signor Alberto di Venezia; età trent’anni incirca, figura ben proporzionata, un po’ curvetta, come sono tutti quelli che attendono troppo allo studio, una fisionomia formata in cielo e data ad un uomo per piacer sulla terra, due occhi neri, un guardare così umano, che vi si leggeva tutta la bontà e la sensibilità del suo cuore, La descrizione evoca quella che nelle Notizie della sua vita scritte da lei medesima (cfr. ed. a cura di Manlio Pastore Stocchi, Firenze, Le Monnier, 1973, p. 36) si dà di villa Albrizzi, dove sono presenti «un orto e un brolo»; orto che ritorna, accanto a un suntuoso «viale di alberi fruttiferi», anche nelle parole con cui viene delineata Ca’ Zenobio (ivi, p. 47).
Nel 1836, in una Milano capitale, anche editoriale, della stagione romantica in Italia, Angela Veronese pubblica il romanzo breve Eurosia, ma il frontespizio del volume, qui riproposto in una nuova edizione, reca ancora la firma di Aglaja Anassillide, pseudonimo utilizzato da Angela nelle sue Rime pastorali. Figlia di un giardiniere, la scrittrice era figura già nota nel milieu culturale veneto del tardo Settecento, dove incarnava un topos letterario arcadico, quello della “pastorella” che compone versi. Il ritratto della tradizione aveva poi precocemente condannato l’“ineducata figlia del bosco”, divenuta prosaica moglie di un cocchiere, all’oblio. La novella Eurosia svela invece una stagione finora sottovalutata della scrittura di Angela Veronese e restituisce all’autrice un posto di riconoscibile rilievo nella letteratura italiana in prosa del primo Ottocento, di cui descrive alcune fondamentali tendenze. La vicenda di Eurosia sviluppa, infatti, un tema che sarà canonico nel romanzo ottocentesco d’area settentrionale, di impostazione realistica e di interessi sociali: quello dell’insidia perpetrata dal potente che mira a sopraffare la giovane popolana. In queste pagine, pur dimostrando di saper orecchiare non poche delle forme della narratività coeva, dal Manzoni della “ventisettana” al romanzo inglese settecentesco delle sedotte e sconfitte, Angela Veronese, come scrive Patrizia Zambon nella sua introduzione , “si dimostra scrittrice di originale elaborazione e di realistica consistenza”. Marta Poloni si è laureata in Filologia moderna presso l’Università di Padova con una tesi su Angela Veronese in arte Aglaja Anassillide (1778-1847). Patrizia Zambon insegna Letteratura italiana contemporanea all’Università di Padova. È autrice di Letteratura e stampa nel secondo Ottocento (Edizioni dell’Orso, 1993); Il filo del racconto (Edizioni dell’Orso, 2004); Scrittrici: Scrittori, saggi di letteratura contemporanea (Il Poligrafo, 2011). Ha curato l’edizione dei carteggi di Anna Zuccari con Angiolo Orvieto e con Marino Moretti (Guerini, 1990 e 1996); l’antologia Novelle d’autrice tra Otto e Novecento (Bulzoni, 1998); gli Scritti giornalistici alle lettrici di Ippolito Nievo (Carabba, 2008); ha curato Fine d’anno (Carabba, 2005), i Racconti e Maria Zef di Paola Drigo (Il Poligrafo, 2006 e 2011), oltre agli atti del convegno Paola Drigo. Settant’anni dopo (Serra, 2009).
in copertina Luigi Cima (Villa di Villa di Mel 1860 - Belluno 1944), Contadina, part., 1896, collezione privata
e 18,00
isbn 978-88-7115-844-0