Ricostruzione Inventario Progetto. Recostruction Inventory Project

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Quaderni di Composizione architettonica collana del Curriculum Composizione architettonica della Scuola di Dottorato Architettura, CittĂ e Design 6



UniversitĂ Iuav di Venezia Scuola di Dottorato Architettura, CittĂ e Design Curriculum Composizione architettonica

Ricostruzione Inventario Progetto Reconstruction Inventory Project a cura di / edited by Gundula Rakowitz e Carlotta Torricelli

with English translation

ilpoligrafo


Università Iuav di Venezia Scuola di Dottorato Architettura, Città e Design Curriculum Composizione architettonica coordinatore Carlo Magnani comitato scientifico e consiglio di curriculum Benno Albrecht, Armando Dal Fabbro Agostino De Rosa, Antonella Gallo Pierluigi Grandinetti, Carlo Magnani Eleonora Mantese, Giovanni Marras Mauro Marzo, Maurizio Meriggi Luca Monica, Patrizia Montini Zimolo Raffaella Neri, Gundula Rakowitz esperti: Carlos Martí Arís, Gianni Fabbri Giorgio Grassi, Luca Ortelli, Antonio Monestiroli Luciano Semerani, Guido Zuliani tutor: Riccarda Cantarelli, Cristiana Eusepi Andrea Iorio, Luigi Pavan, Carlotta Torricelli

traduzioni Alex Gillan progetto grafico e cura redazionale Il Poligrafo casa editrice redazione Alessandro Lise copyright © giugno 2018 Il Poligrafo casa editrice 35121 Padova piazza Eremitani - via Cassan, 34 tel. 049 8360887 - fax 049 8360864 e-mail casaeditrice@poligrafo.it www.poligrafo.it ISBN 978-88-9387-055-9

La collana “Quaderni di Composizione architettonica” raccoglie ricerche incentrate sui procedimenti compositivi del progetto di Architettura intesi come dispositivi e tecniche specifiche di conoscenza delle relazioni tra figura, costruzione e contesto nella storia dell’architettura e della città. L’indagine approfondita sull’esperienza compositiva di alcune importanti figure e opere dell’architettura intende dimostrare il percorso di formazione dell’opera per individuare categorie operative praticabili al presente. Gli scritti di questa collana, accompagnati dalle rielaborazioni tematiche del Dottorato, ribadiscono l’importanza dello studio della composizione come forma di conoscenza dell’architettura, della città, del paesaggio.

Si ringrazia l’architetto Luigi Snozzi per la gentile concessione delle immagini del progetto per la ricostruzione di Braunschweig (1979), utilizzate per la copertina del volume e alle pp. 126, 127.


Indice

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Nota delle curatrici Gundula Rakowitz, Carlotta Torricelli

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Premessa. Ricostruzione: un luogo mentale? Carlo Magnani

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Urbicidio Benno Albrecht

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Infrastrutturazione e progetto di ricostruzione Antonio De Rossi, Carlo Magnani

41

Per un inventario operativo. Il caso Pesaro Armando Dal Fabbro

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La ricostruzione dell’identità. L’isolato urbano a Milano dopo la guerra Raffaella Neri

75

La Martella e Spine Bianche a Matera. L’architettura di una protratta ricostruzione Luca Monica

91

Piano, architettura, composizione. Auguste Perret e la ricostruzione di Le Havre Andrea Calgarotto

111

Dialettica della ricostruzione Gundula Rakowitz, Carlotta Torricelli

133

Una ricostruzione continua Pepe Barbieri

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Note biografiche

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English text



RICOSTRUZIONE INVENTARIO PROGETTO


Nota delle curatrici Gundula Rakowitz, Carlotta Torricelli

Nel corpo della città, testimonianza materiale delle culture degli uomini, la distruzione sospende il tempo e, nella simultaneità di sguardi che la rovina produce, nasce la visione della ricostruzione come ricerca di potenzialità ancora inespresse. I contributi raccolti nel volume prendono le mosse dal tema della ricostruzione per affrontare il problema più ampio della definizione di immaginari capaci di assumere i conflitti – ossia le stratificate fratture – come parte attiva di un nuovo disegno, dove le condizioni relazionali costituiscono la trama per una narrazione discontinua, ma radicata nello spazio. La forza produttiva della memoria alimenta il pensiero progettuale, innestando gli interventi su un terreno trattato non come suolo inerte, bensì come sistema stratificato di segni, rintracciabili e misurabili attraverso un inventario operativo. Se Voltaire nel suo Poema sul disastro di Lisbona o esame di quest’assioma: “tutto è bene” affidava alla umana “speranza” il senso della storia, il pensiero – oggi – di un progetto ricostruttivo non può sussistere a meno di una radicale messa in questione della reiterazione di una centralità antropizzante incapace di ripensare lo spazio di esperienza all’interno di un orizzonte di aspettativa, secondo una coimplicazione di dimensioni temporali e spaziali che qualifica l’evento distruttivo come spazio di nuova sperimentazione. La catastrofe è intesa come momento di distruzione materiale, ma anche, etimologicamente, come rivolgimento o rottura di un equilibrio morfologico e strutturale. In essa è così compresa la possibilità di permanenza dell’immateriale e dell’immaginazione produttiva, che dal frammento, come impossibilità di ripetere l’origine, costruisce nuovi ordini, nuove architetture, nuove città. Questa è anche resistenza della memoria, occasione per un mutamento radicale e necessario, nell’ottica della ridefinizione del profilo della città e del suo ruolo nella costruzione del territorio. Crisi e rinascita, dunque, cancellazioni e nuove visioni. Ciascuna distruzione, di ogni tipo, definisce un limite che necessita di risposte, mantenendo aperta la tensione tra autorialità del progetto e lavoro dell’immaginario collettivo, che il progetto ricostruttivo assume a condizione del mutamento di paradigma che gli è proprio. Nella contemporaneità, le identità del territorio, del paesaggio e dello spazio urbano hanno perso la loro valenza e hanno visto i loro limiti dissolversi, rendendo necessaria la ridefinizione di questi termini non soltanto sul piano morfologico, ma rispetto a una nuova idea di cittadinanza. Come cittadini di una terra sottoposta a una reiterata e diffusa devastazione dell’ambiente e della cultura urbana, affiancata alle programmatiche distruzioni belliche, ma ancora più come architetti, siamo chiamati oggi all’impegno nell’elaborazione di un punto di vista operativo. Esso deve rendersi capace di scardinare la sistematica coincidenza tra ricostruzione materiale e speculazione economica, che ha fatto del terrore – terror, secondo l’interpretazione che Franco Farinelli dà del Codice Giustinianeo, sarebbe la radice di territorium, cioè lo spazio governabile, anziché terra – uno strumento di profitto. Queste sono le ragioni per cui i temi svolti in questo volume non sono definiti da un’area geografica o da un ambito storico. I saggi – elaborati a partire dai contributi al


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Il seminario Ricostruzione Inventario Progetto, a cura di Gundula Rakowitz e Carlotta Torricelli, si è tenuto il 26 maggio 2017 presso la Scuola di Dottorato dell’Università Iuav di Venezia a Palazzo Badoer. Questa iniziativa si pone in continuità con i risultati scientifici ottenuti nell’ambito dei precedenti seminari promossi dal Curriculm in Composizione architettonica e pubblicati in: I limiti dell’architettura. Ai limiti dell’architettura, a cura di C. Magnani, M. Marzo, Padova, Il Poligrafo, 2016; Invenzione della tradizione. L’esperienza dell’architettura, a cura di A. Gallo, G. Marras, Padova, Il Poligrafo, 2017.

seminario organizzato nell’ambito delle attività promosse dal Curriculum in Composizione architettonica della Scuola di Dottorato dell’Università Iuav di Venezia1 –, insieme agli estratti delle ricerche di Dottorato in corso o recentemente concluse, declinano una composita serie di possibilità operative che, oltre a ribadire il ruolo paradigmatico di alcune esperienze, apre domande urgenti sul presente, riflettendo sulle relazioni tra architetti e progetti, tra città e territorio, che devono oggi essere rimesse al centro della riflessione. Nel libro, alla narrazione di vicende specifiche si alternano riflessioni più generali sul ruolo della cultura progettuale nell’ambito della ricostruzione. La riflessione su questi temi chiama in campo l’urgenza del presente e l’incertezza delle prospettive future. A queste istanze il progetto è chiamato a rispondere definendo strategie per una idea di città e ricostruendo, o ritrovando tra linee interrotte, architetture per la città.



Premessa Ricostruzione: un luogo mentale? Carlo Magnani

Bernard Sylvanus, World map / Planisfero, 1511, particolare. Bernard Sylvanus, World map / Planisfero, 1511, detail.

1. Nelle sue molteplici accezioni, da quella medico-chirurgica a quella letteraria, da quella burocratica a quella architettonica, il termine ricostruzione descrive un campo di intervento in cui la cosa e la funzionalità preesistenti sono il punto di partenza. In tutti i casi ogni tipo di prassi implica un’adeguata conoscenza dell’oggetto preesistente, analisi e interpretazione, giudizio e uso di tecniche che rappresentano un determinato livello di sviluppo delle conoscenze. Non è un assoluto: tecniche, tecnologie e disponibilità finanziarie non sono universalmente distribuite. Nel campo dell’architettura il termine ricostruzione sembra avere un’adeguata pertinenza di senso. Ma si può formulare l’ipotesi che l’uso comune della parola, intesa come modalità di affrontare un problema di emergenza, non sia solo un accadimento storicamente determinato e legato a eventi catastrofici, ma anche un luogo mentale da considerare con attenzione all’interno del quale il rapporto fra storia, memoria, spaesamento e futuro si dia in forma eccezionale1. L’emergenza mette in discussione il fattore temporale, il suo scorrere all’interno di una continuità governata, per gli aspetti trasformativi degli elementi fisici, da un complesso sistema di poteri e diritti proceduralizzati. Il necessario prevalere di azioni orientate allo scopo evoca finanziamenti e poteri eccezionali, cioè fuori dalla consuetudine, per affrontare una frattura del tempo e lo spaesamento, sradicamento che essa determina. La frattura temporale connessa a quella spaziale sembrerebbe descrivere una condizione spesso evocata e desiderata dai paradigmi di una razionalità astratta che hanno anche alimentato visioni novecentesche di rifondazione delle strutture urbane. Ma le macerie raccontano storie materiali, affettive, simboliche e qualsiasi ricominciamento si trova di fronte al bivio del ritorno “tranquillizzante” e spesso impossibile allo status quo oppure dell’affrontare l’incognita di collocarsi in un’altra condizione secondo altri paradigmi, possibilmente migliori, di sicuro diversi. Tutto ciò ovviamente senza confondere i primi interventi di soccorso con il processo di ricostruzione che ha di per sé tempi medio-lunghi. Già questo è un passaggio difficile, per non confondere forniture con ricostruzione, il riaffacciarsi a una quotidianità possibile con ricostruzione. La frattura del tempo e dello spazio cancella luoghi e vite, consegna a un presente sospeso memorie, ricordi e un futuro che in molti casi si vorrebbe che restituisse il passato, cioè altrettanto spesso ciò che non può più essere. Quello che sembra irripetibile, affrontando la morfologia urbana, è proprio il divenire del tempo, il suo stratificarsi materiale nelle forme fisiche delle città e dei manufatti. Quindi ricostruzione e trasformazione sono intimamente e strutturalmente connesse. Così il problema si sposta su quali siano i paradigmi di razionalità e gli strumenti tecnici che presiedono ai processi di ricostruzione-trasformazione, intrecciandosi con quelli del miglioramento delle condizioni abitative e con la storia delle città. Tutto ciò almeno per la città europea, da Le Havre a Milano, da Colonia a Matera, da Berlino a Pesaro, sullo sfondo della crisi dei Ciam alla ricerca di un’altra modernità, con un ulteriore aspetto


12 Carlo Magnani | Premessa. Ricostruzione: un luogo mentale?

da considerare che riguarda, in molti casi, la sostituzione della popolazione residente o un suo spostamento in relazione anche allo sviluppo delle capacità attrattive dei centri maggiori con i conseguenti fenomeni dell’inurbamento. I “quartieri” – da quelli del primo dopoguerra in Germania e in Austria, a quelli dei piani INA-Casa in Italia o dei Grandes Ensambles in Francia, fino alle New Towns inglesi, nel secondo dopoguerra – sono testimonianza, pur nella loro grande diversità, della ricerca di morfologie urbane e di principi orientati allo scopo che, tuttavia, permangono nella loro eccezionalità senza riuscire a costituirsi come esempi nei casi migliori e a governare i processi generali, con qualche rara eccezione da Copenaghen2 a Barcellona3. E qui cominciano le difficoltà nel confrontare la consistenza delle preesistenze e le nuove soluzioni, in che modo memoria e futuro si intrecciano attraverso permanenze e innovazioni, conferme e alterità. In che modo il nuovo si configura come progetto di consolidamento, densificazione o diradamento della città esistente oppure in che modo allude a un’altra modalità, radicalmente diversa, di configurare gli insediamenti umani, sovrapponendosi o sconfinando nel problema dell’espansione della città. Dunque un’altra città, forma di critica alla città esistente, dapprima città compatta, poi progressivamente solo la città della congestione e dell’automobile che si riproduce in modo autonomo e autoreferenziale fino al generale e diffuso fenomeno di costruzione di periferie in parallelo alla crescita di fenomeni di marginalità economica, sociale e culturale, dalla città informale alla città generica. 2. La forma e la dimensione della proprietà fanno la differenza, nonché la concezione del diritto proprietario e la sua collocazione nell’ambito dell’utilità sociale4 tra proprietà pubblica5 e proprietà privata, possibilità d’uso6 e completa disponibilità del bene7. Non si tratta di riprendere le argomentazioni di Hans Bernoulli8 già chiaramente espresse fin dal 1945 sul diritto di superficie, quanto riflettere piuttosto su come l’accumularsi di limiti alla «assoluta e completa disponibilità del bene» abbia differenti genealogie, da quelle igienico-sanitarie di origine ottocentesca, a quelle volte a salvaguardare i diritti di terzi come le distanze dai confini e gli affacci, a quelle più recenti di obblighi prestazionali come i coefficienti illuminotecnici o quelli relativi al risparmio energetico, per arrivare a quelli sul tipo d’uso e alle altezze e agli standard di derivazione urbanistica o alle forme di tassazione e tariffazione dei consumi. Tutto ciò costituisce un insieme di “garanzie” socialmente accettate, limiti dunque imposti alla «assoluta e completa disponibilità del bene» in cui ciascun aspetto genealogico ha finalità positive volte al miglioramento del prodotto tra aspetti redistributivi e aspetti prestazionali. Prodotto e prestazioni appunto, che hanno costituito un sistema procedurale che si riproduce in modo automatico in parallelo alla riproduzione di burocrazie ad hoc costrette ad occuparsi più della legittimità degli atti che delle finalità progettuali dei materiali esaminati. La corporativizzazione degli apparati e la frammentazione dei poteri e delle competenze completano un quadro la cui progressiva complessità di gestione, nei casi migliori, alimenta lo sviluppo di tecni-


Carlo Magnani | Premessa. Ricostruzione: un luogo mentale? 13

che adeguate. dalle matrici multicriteria fino alle ipotesi di totale automatizzazione delle decisioni attraverso l’adozione di algoritmi, certo le uniche forme in grado di affrontare big data, ma che già legittimano che le cose accadano indipendentemente9, senza riflettere sui limiti dello strumento sia di derivazione matematica che di traduzione in linguaggio-macchina, relativi alle regole di costruzione logica degli input che trasformano gli output in accadimenti. Dunque numerosi sono i limiti posti alla «assoluta e completa disponibilità del bene», tutti di natura strettamente quantitativa sulla base di un’ipotetica coincidenza fra quantità e qualità. Ma «può avvenire allora qualcosa che ripugna alla ragione, cioè che il discontinuo venga applicato a grandezze essenzialmente continue. Ed è appunto il caso del tempo e dello spazio»10. Infatti ciò che resta escluso è la convergenza attorno a principi insediativi di lunga durata, principi che caratterizzino lo spazio a venire della parte urbana cui si riferiscono, che ne indaghino la fertilità originaria, riscattando una modernità ridotta a stile, spesso a maniera, dal confinamento a una natura puramente oggettuale e sostanzialmente decorativa dello status quo11. «Da ciò deriva una condizione di impotenza di cui si cade vittima [...] Mancano gli strumenti per spezzare ciò che nella lingua e nel pensiero si è irrigidito in opinione comune, in doxa, e nel solco della quale siamo costretti»12. 3. Nel 1755 una parte della città di Lisbona viene distrutta da un terremoto13. Il processo di ricostruzione, oltre che avvenire in tempi rapidi, consente di realizzare una intera parte urbana che, disposta sul terreno livellato, presenta i caratteri di una morfologia urbana certo eteronoma, ma complementare e in connessione con le altri parti, il cui simbolo può essere considerato l’elevador di Santa Justa realizzato in seguito nel 1901. Alterità e riforma sociale si intrecciano nell’opera di ricostruzione14, inventando meccanismi e tecniche di gestione economica e giuridica di un progetto ad alta complessità. La perequazione compensativa è lo strumento che consente di impostare un riaccatastamento propedeutico alla struttura morfologica della nuova parte urbana. Oggi potremmo dire che rappresenta un progetto in cui pubblico e privato hanno giocato una partita unitaria. Anche la Parigi di Haussmann può essere considerata una grande forma di ricostruzione in cui la forma della proprietà è oggetto di riforma nell’ambito di una diversa idea di città e di società, in cui l’idea di classificazione delle abitazioni malsane diventa uno dei motori del processo. Le avventurose invenzioni finanziarie del Barone della Senna portarono alla definizione del prestito pubblico necessario per sostenere i lavori come “investimento a reddito”15 fino ai rilievi della Corte dei Conti, che porteranno alla liquidazione della Cassa dei Lavori di Parigi. Pochi decenni fa a Berlino le proposte di J.P. Kleihues porteranno alla definizione di “ricostruzione critica” dapprima per la parte ovest della città e successivamente, sulla base dei principi di H. Stimman, per il piano per il centro di Berlino. Il principio della città particellare (Parzellenstadt) comporta addirittura la ricostruzione dei catasti precedenti agli espropri storici. Ciò rappresenta il


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tentativo di ritrovare una continuità morfologica nell’ambito di una visione critica della ricostruzione delle città tedesche del secondo dopoguerra, mettendo in atto procedure complesse fino alle regole per i concorsi di progettazione per la realizzazione delle opere. Egualmente si potrebbero esaminare da questo punto di vista, nell’intreccio tra diritti, valorizzazione, nuovi attori, poteri, molti processi di trasformazione urbana come ad esempio Hafen City ad Amburgo e altri ancora. In tutti i casi accatastamento e morfologia urbana appaiono intimamente legati, delineando un prodotto sociale di grande complessità che mette in gioco una molteplicità di tecniche e di strumenti. Così «si possono incontrare non già procedure cognitive, ma strutture d’ordine, statuti di disciplinamento nei quali sono stati distribuiti gli oggetti, i termini di riferimento di una cultura», ma «rimpiazzare strutture di oggetti compatti con schemi di tipo relazionale e con delucidazioni dell’uso può costituire uno dei più significativi punti di approccio con i dibattiti scientifico-filosofici dell’epoca moderna»16. Ciò che si delinea dunque non è solo la possibilità di analizzare i casi di ricostruzione classificati come tali a seguito di eventi catastrofici di varia natura, ma che la nozione stessa di “ricostruzione” possa essere assunta come un luogo mentale all’interno del quale il rapporto tra passato e futuro, tra tempo e spazio si interrogano reciprocamente attorno a statuti culturali e sociali fondanti un’epoca storica. 4. Da questo punto di vista si può tentare di rileggere il susseguirsi degli accordi internazionali sui cambiamenti climatici da Rio (1992) a Kyoto (1997) a Parigi (2015) come il tentativo di mettere a fuoco i limiti di un ciclo dello sviluppo e delle sue modalità, di cui le forme di urbanizzazione costituiscono un aspetto del tutto rilevante sullo sfondo dei processi di antropizzazione più generali. Al di là dell’aspetto non da poco relativo al numero di paesi che hanno firmato gli accordi, a testimonianza della enorme diversità delle situazioni del mondo, a essi si accompagna l’affannosa ricerca di nuovi paradigmi dall’economia circolare alla smart-city per arrivare alle ipotesi del riciclo connesso a quello di rigenerazione urbana e, almeno nel nostro paese, alla retorica del “no consumo di suolo” che, a sua volta, si affianca a forme di patrimonializzazione della memoria tanto onnicomprensive quanto pervasive, quasi a delineare uno sguardo rivolto solo al passato e rassegnato o non interessato al futuro, con infiniti equivoci sul senso della tradizione17 e dell’identità18 , termini di uso fin troppo comune che forse, riferiti ai fenomeni fisici, hanno meno margini di ambiguità che nelle scienze sociali in generale. «Tocca ora al futuro, deprecato perché inaffidabile e ingestibile, finire alla gogna ed essere contabilizzato come voce passiva, mentre il passato viene spostato tra i crediti e rivalutato, a torto o a ragione, come spazio in cui la scelta è libera e le speranze non sono ancora screditate»19. La ricerca di nuovi paradigmi s’impone, dunque, come condizione necessaria per un’operatività coerente che ricollochi l’attività del progetto al centro di rinnovati orizzonti di senso. La percezione della finitezza dello spazio e forse del tempo, una considerazione più attenta alle risorse non rinnovabili dovrebbero alimentare


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un nuovo sguardo che assuma i paradigmi della ricostruzione per rivolgersi all’intero mondo contemporaneo. Le “norme di garanzia”, cui si è precedentemente accennato, sembrano residui di un’altra fase dello sviluppo, e anche gli aspetti più recenti relativi al risparmio energetico parlano sì del consumo di risorse, ma si riducono a definire un campo di prestazioni a meccanismo generativo del bene immutato. Infatti, «far capo alla norma e al sistema di norme significa anche imboccare la strada di una separazione netta fra produzione e applicazione del diritto, fra comando e vita, fra un comando che si esaurisce in un testo e la vita che continua e diviene malgrado il testo»20. Oggetti, più che processi, prodotti, più che relazioni, forniture, più che visioni ecologiche e sistemiche, infrastrutture più che infrastrutturazione. L’apparentemente semplice passaggio dal catasto agricolo al catasto urbano rappresenta un punto fondamentale dello statuto del suolo per il quale il riaccatastamento è principio di morfologia urbana, prodotto sociale complesso che non ha rappresentanza sociale all’interno dei progetti di infrastrutturazione21. Non tanto nuovi più sofisticati algoritmi, quanto forse una rivalutazione dell’esperienza. «Su un versante l’esperienza è parte integrante di un progetto di conoscenza; dall’altro, nomina ciò che le sfugge. Su un versante, può essere programmata e essere oggetto di un protocollo; dall’altrodesigna ciò che si acquisisce solo estensivamente, nel corso del tempo, senza rendersene conto [...] Questa seconda forma di esperienza si basa non sull’innovazione, ma sulla capitalizzazione»22. Proprio l’esperienza, certo per la città europea, ma non solo, sembra mettere in evidenza lo stretto legame fra forma della proprietà e morfologia urbana attorno al carattere della parte di città e all’ordine tipologico del suo farsi23. Inoltre la struttura morfologica, nel definire o congelare i rapporti fra pubblico e privato, assume i connotati di forma di permanenza di lunga durata. Dunque assumere il punto di vista di una necessaria ricostruzione comporterebbe una radicale revisione dei meccanismi generativi delle forme dell’antropizzazione, rispetto alle quali la stessa concezione del mercato immobiliare e delle sue anomalie andrebbe ricollocata all’interno di una visione generale di un rinnovato processo di infrastrutturazione, al fine di riconsiderare i rapporti fra politiche pubbliche e interventi privati. In tale contesto si può sostenere che la morfologia urbana assuma i caratteri di bene comune, componente primaria del welfare, così come la nozione di paesaggio, inteso come la forma visibile di un buon funzionamento ambientale, si presenti, in una visione di area vasta, come una forma di infrastruttura primaria per la qualità della vita. «Ne risulta un cambiamento profondo. Diritti fondamentali, accesso, beni comuni disegnano una trama che ridefinisce il rapporto tra il mondo delle persone e il mondo dei beni [...]. Intorno ai beni comuni si propone così la questione della democrazia e della dotazione di diritti d’ogni persona»24. La generazione di valore affidata a semplici atti amministrativi e a supporti finanziari di ritorno a breve e totalmente deterritorializzati sembra inadeguata di fronte ai nuovi orizzonti. L’analisi della processualità dei fenomeni non può essere solo constativa e troppo spesso ex-post; il rapporto fra obiettivi, processi e strumenti può essere ricostituito attorno a patti territoriali che restituiscano orizzonti di senso all’insieme delle tecniche di


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progetto. “Prendersi cura” significa anche restituire voce al tempo, uscire fuori dalle forniture preconfezionate, dal prodotto finito, come cercano di dimostrare S. Polo a Brescia tentando di restituire al progetto pubblico la crescita della città, La Bicocca a Milano intrecciando il tema delle aree dismesse con quello del policentrismo della città estesa e infine Malagueira a Evora in Portogallo più tradizionale per i meccanismi attuativi, ma che assume preesistenze, antropologia e geografia come materiali di progetto. Progetti e procedimenti complessi per ricusare il modello delle gated communities oppure per non concludere con Suketu Mehta: «Bombay rappresenta il futuro della civiltà urbana del pianeta. Che Dio ci aiuti»25.


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1 Ciò senza evocare necessariamente i grandi miti dell’area mediterranea legati alla ricostruzione, sempre eguale e sempre diversa, dal Tempio di Salomone (cfr. recentemente G. Rakowitz, Tradizione, traduzione, tradimento, Firenze University Press, Firenze 2016) alla Nuova Roma, e sul ruolo dell’interpretazione dal Talmud al Cardinale C.M. Martini. 2 C. Torricelli, Oresund. Istanze di nuova visione, in I limiti dell’architettura. Ai limiti dell’architettura, a cura di C. Magnani, M. Marzo, Padova, Il Poligrafo, 2016. 3 Il riferimento è alle trasformazioni urbane degli ultimi trent’anni. 4 Costituzione Italiana, art. 42: «la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti». 5 Considerata per la giurisprudenza italiana ancora a garanzia del debito pubblico. 6 G. Agamben, Creazione e anarchia. L’opera nell’età della religione capitalista, Vicenza, Neri Pozza, 2017. 7 C. Schmitt, Il Nomos della Terra, Milano, Adelphi, 2011. 8 H. Bernoulli, La città e il suolo urbano (Zurigo 1945, Milano 1952), qui Venezia, Corte del Fontego, 2008. 9 R. Calasso, L’innominabile attuale, Milano, Adelphi, 2017. 10 Ibid. 11 V. Gregotti, Quando il moderno non era uno stile, Milano, Archinto, 2018. 12 F. Jullien, Una seconda vita, Feltrinelli, Milano 2017; confronta anche «Ardeth», 1, 2017 (Torino, Rosenberg & Sellier). 13 J.A. Franco, Una città dell’illuminismo. La Lisbona del Marchese di Pombal, Roma, Officina, 1972. 14 C. Olmo, Architettura e storia, Roma, Donzelli, 2013. 15 P. Lavedan, Amici e nemici di Haussmann: prestiti ed espropri, in P. Lavedan, R. Plouin, J. Hugueney, R. Auzelle, Il Barone Haussmann, Milano, Il Saggiatore, 1978. 16 G. Gargani, Il sapere senza fondamenti, Torino, Einaudi, 1975. 17 C. Magnani, Tradizione, invenzione, architettura, in L’invenzione della tradizione, a cura di A. Gallo, G. Marras, Padova, Il Poligrafo, 2017. 18 F. Remotti, L’ossessione identitaria, Roma-Bari, Laterza, 2010. 19 Z. Baumann, Retrotopia, Roma-Bari, Laterza, 2017. Le considerazioni di Baumann si estendono all’intera compagine sociale. 20 P. Grossi, Mitologie giuridiche della modernità, Milano, Giuffrè, 2007; da cui le osservazioni critiche avanzate nei confronti del positivismo giuridico e del rapporto fra giustizia e diritto nell’impostazione di origine illuminista. 21 Cfr. sulla impropria invasività della lex mercatoria: K. Polanyi, La grande trasformazione (Londra 1944), Tori-

no, Einaudi, 1974; e il lungo dibattito e stratificazione legislativa e normativa sulla questione dello ius aedificandi in Italia. 22 F. Jullien, Una seconda vita, cit. 23 C. Aymonino, Il significato delle città, Roma-Bari, Laterza, 1975. 24 S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Roma-Bari, Laterza, 2012. 25 S. Mehta, Maximum city, Torino, Einaudi, 2007.



Urbicidio Benno Albrecht

Oggi siamo di fronte alla Terza Guerra mondiale strisciante, o a qualcosa di simile a una guerra civile globale, permanente, non convenzionale, asimmetrica, locale e mobile, ma con effetti e riverberi a grande scala1. Quello a cui assistiamo è un cambiamento sostanziale della forma della guerra, o della non pace perpetua, che vede un progressivo aumento del coinvolgimento dei civili, come vittime e bersagli, rispetto al passato. La conseguenza è che le città sono diventate, al contrario del passato, il campo di battaglia preferenziale e la loro distruzione, dall’alto o dal basso, uno degli obiettivi strategici primari. Se c’è qualcuno che distrugge, ci sono altri che devono ricostruire e mettere a posto, oppure c’è solo posto alla rassegnazione, che Adorno interpreta: Sarebbe cinico affermare, dopo le catastrofi (che si sono verificate) e nell’attesa delle future, un piano mondiale verso il miglioramento, che si manifesti nella storia e che la migliori. Non c’è una storia universale che conduca dal selvaggio all’umanità, ma certo una che porta dalla fionda alla megabomba.2

Uno degli argomenti di stringente attualità nel campo dell’impegno civile e in quello operativo dell’architettura è come affrontare le conseguenze degli urbicidi, della violenza deliberata verso le città, della loro distruzione e della cancellazione intenzionale della memoria collettiva di pietra. La guerra oggi si combatte in contesti urbani e «L’urbicidio è una forma di genocidio, la fondamentale forma illegittima di guerra moderna nella quale la popolazione civile, in quanto tale, è obiettivo di distruzione da parte di forze armate»3. Bisogna riflettere sulle conseguenze degli urbicidi, che coinvolgono paesi anche distanti dagli epicentri delle sofferenze e delle distruzioni, che riguardano la possibilità dell’accoglienza degli scampati e dei profughi, del loro ritorno al paese d’origine e della possibile ricostruzione delle città offese dalla follia degli uomini. È necessario pensare alle possibili strategie di realizzazione di campi profughi, vicini alle aree interessate dagli urbicidi, alle modalità della ricostruzione delle città distrutte e alla necessaria conservazione della memoria di pietra. Il termine urbicidio ha avuto nuova risonanza4 nel pensiero sociologico riguardo la città grazie al filosofo americano Marshall Berman, che nel 1981 descriveva i fenomeni di degrado urbano del South Bronx e le sue conseguenze sociali: «Queste persone colpite appartengono a una delle più grandi comunità d’ombra nel mondo, vittime di un grande crimine senza nome. Diamo un nome ora: urbicidio, l’uccisione di una città»5. Il protagonista dell’urbicidio è il modernismo di Robert Moses6, il progettista della The Cross Bronx Expressway. È una critica agli aspetti faustiani della modernità. È la traumatica esperienza della guerra moderna in Europa, dopo la dissoluzione della ex Jugoslavia, che rilancia il termine in modo globale. La distruzione del vecchio ponte di Mostar, lo Stari Most, il 9 novembre 1993, da parte delle forze croato-bosniache, sancisce con evidenza il fenomeno degli urbicidi7, ed è un dibattito che prende corpo tra gli architetti e nelle riviste di architettura8. È anche l’esempio principe su cui esercitare la riflessione contemporanea sul significato militare e politico della distruzione deliberata delle memorie di pietra e del cosciente annientamento di ogni forma di urbanità. Qaboun, Damasco, 2014. Qaboun, Damascus, 2014.

La comprensione delle violenze che le città come Vukovar, Mostar e Sarajevo hanno affrontato è diventata popolare tra gli osservatori della dissoluzione della ex Jugoslavia, inducendo una codifica retorica


32 Antonio De Rossi, Carlo Magnani | Infrastrutturazione e progetto di ricostruzione


Infrastrutturazione e progetto di ricostruzione Antonio De Rossi, Carlo Magnani

Tabula Peutingeriana, CodexVindobonensis 324, Vienna, Österreichische Nationalbibliothek; inserita dal 2007nell’Elenco delle Memorie del Mondo (Memory of the World Register) dell’UNESCO. Estratto: l’immagine mostra i Balcani, l’exJugoslavia, l’Adriatico con l’isola di Cefalonia, la Puglia, la Calabria, la Sicilia e la costa libica di fronte. Tabula Peutingeriana, Codexvindobonensis 324, Wien, Österreichische Nationalbibliothek; included since 2007in the Memory of the World Register of UNESCO. Extract: image showing the Balkans, exYugoslavia, the Adriatic sea with the island of Cephalonia, Apulia, Calabria, Sicily and the Lybian coast.

Le fasi di crisi e di ristrutturazione del sistema economico e produttivo sono da sempre accompagnate da una riconcettualizzazione delle visioni e delle politiche che presiedono i processi di infrastrutturazione dello spazio. Dove col termine di infrastrutturazione si intendono non soltanto le infrastrutture della mobilità, ma tutte quelle attrezzature che sottendono lo sviluppo economico del territorio, e la cui stessa conformazione morfologica incide sull’organizzazione funzionale dello spazio. Schematicamente si può dire che la fase espansiva, economica e insediativa che in Italia ha caratterizzato il decennio a cavallo del passaggio di secolo è stata accompagnata da tre atteggiamenti progettuali nei confronti dell’infrastrutturazione segnati da logiche diverse e in parte contraddittorie. L’inseguimento incrementale dei fenomeni di dispersione insediativa; la realizzazione di mega-opere al di fuori dei quadri programmatori, in deroga alla pianificazione di grande scala e con caratteri di eccezionalità ed emergenzialità; la dismissione di ingenti aliquote di capitale fisso territoriale, ritenute improduttive in termini di puro esercizio economico. Questi tre atteggiamenti condividono matrici comuni: la valutazione della singola opera – esistente o in progetto – al di fuori di una visione integrata capace di farsi carico del funzionamento complessivo del sistema di infrastrutturazione; l’attenzione esclusiva per le valenze funzionali dell’opera in sé, con la sottovalutazione degli effetti indotti dalla dimensione morfologica dell’intervento sul territorio; un’idea di progetto come attrezzatura e dotazione dello spazio, trascurando il potere performativo dell’opera di infrastrutturazione. Alla radice di queste matrici comuni vi è l’estromissione del valore del concetto di spazio dalle discorsività concernenti lo sviluppo economico e l’organizzazione produttiva e funzionale del territorio. Questo tema dello spazio e delle sue strutturazioni assume particolare rilievo in relazione a un momento storico, come quello contemporaneo, in cui le morfologie e i paesaggi sembrano vivere un processo di consunzione e di progressiva riduzione a stereotipi figurativi. Non si tratta di una mera questione di dematerializzazione o di virtualità in rapporto alle nuove tecnologie e percezioni del reale. Anzi, si potrebbe dire che oggi non vi è nulla di più duro della forma delle cose, proprio in virtù del processo di assolutizzazione di alcune ragioni morfogenetiche a discapito di altre. Che cos’è infatti oggi la forma delle cose? Essenzialmente la trascrizione e l’estruso di una norma, di uno status giuridico, o di una razionalità funzionale ed economica banale, a cui, al massimo, viene a giustapporsi l’ostentazione di un carattere formale. A fronte di un’attenzione quasi ossessiva per il paesaggio e per la sua immagine (e di un abuso della politica del termine “territorio” per surrogare forme di interazione in profonda crisi), oggi non sembra esserci parola più desueta e marginale che quella di “spazio”, soprattutto nella sua accezione di spazio fisico, materico, funzionante come luogo di mediazione delle dinamiche economiche, sociali, culturali in rapporto alle intenzionalità di modificazione della realtà. Questo paradosso (in realtà solo apparentemente un paradosso) è confermato da molteplici fatti ed elementi. Innanzitutto dai paradigmi che sempre più indirizzano le politiche di governo del territorio o i grandi asset della ricerca internazionale. Parole e temi come smart, ecosostenibilità, riciclo condividono, infatti, la medesima


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concezione liscia e adimensionale dello spazio, nella quale l’efficienza è affidata a un’idea di progetto riconducibile al perseguimento di una performance tramite una dotazione tecnologica, e l’efficacia è garantita da procedure intese come messa in sequenza di buone pratiche. Lo spazio, slegato dalla materialità e dal terreno, si trasforma in parametro e tematismo assolutizzato, che rende intellegibile l’utopia odierna di trasformare i luoghi in spazio conforme. Questo paradigma circolare tende sempre più spesso a espellere una concezione dello spazio fisico e sociale come spazio spesso, facendo perdere ai singoli territori il loro carattere di spazio individuale e specifico, e la loro valenza morfo-economica. La diversità viene lasciata a una visione ridotta e pacificata di paesaggio, in cui prevalgono esclusivamente elementi simbolici ed estetizzanti: una negazione di quella concezione per certi versi rivoluzionaria di paesaggio con cui un quarto di secolo fa si era cercato di infrangere specializzazioni e modi separati di costruire lo spazio fisico. Tutto questo ci spinge a porre una domanda: esiste oggi una questione morfologica, nel senso di una sorta di conventio ad excludendum nei confronti della spazializzazione dei fenomeni, delle progettualità, delle politiche? Che si tratti dello smart o della sostenibilità, dei modi con cui l’opinione pubblica ipostatizza il tema delle trasformazioni, o ancora del trattamento tecnico-amministrativo e politico dei progetti, l’assenza della forma, il prevalere delle procedure, il venir meno dello spazio delle cose sembra oramai costituirsi quasi come un’emergenza epistemologica contemporanea. Ma dietro alle questioni dell’estinzione dello spazio e della sua infrastrutturazione, per come sono perseguite da burocrazie e tecnocrazie che vorrebbero ridurre il tema del territorio a un problema di protocolli e di conformità procedurali e prestazionali, si coglie in fondo un attacco ancora più radicale e profondo, che ha come oggetto il progetto stesso, nel suo carattere ontologico di scelta intenzionale di trasformazione. Perché di fronte alla crisi di legittimità del sistema democratico delle rappresentanze, allo stallo dei processi decisionali, la risposta offerta è quella dell’oggettività tautologica delle procedure e dei parametri quantitativi. Cosa che non fa che riprodurre ulteriormente, ad libitum, i fattori di crisi che intessono oggi il legame tra territorio e trasformazione, tra sviluppo e democrazia. Se la morfologia è un modo per dare conto delle concettualizzazioni dell’ambiente in rapporto ai fatti economici, sociali, culturali, che cosa rivela l’utopia contemporanea di uno spazio conforme? E che cosa raccontano le strategie odierne (apparentemente oppositive, ma altrettanto aspaziali e amorfologiche) dell’abbellimento e della jolisation, del patrimonio reificato, del design autoreferenziale dell’oggetto, della wilderness ecologista, che riassumono lo spettro delle azioni oggi messe in campo nei confronti dello spazio costruito e fisico? Può il riuso, al di là delle retoriche pacificanti, costituire una strategia per una riconcettualizzazione radicale del tema dell’infrastrutturazione del territorio? Ciò che possediamo, anche cercando di volgere all’intorno uno sguardo nuovo sui territori che conosciamo, è un elenco di casi e di situazioni, una sorta di inventario.


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Anselm Kiefer, Erdzeitalter, 2009, gouache su fotografia. Anselm Kiefer, Erdzeitalter, 2009, gouache on photograph.


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Il presente testo è pubblicato in Re-Cycle Italy. Atlante, a cura di L. Fabian, S. Munarin, Siracusa, LetteraVentidue, 2017, pp. 73-78.

Emma McNally, S12, 2009, grafite su carta. Emma McNally, S12, 2009, graphite on paper.

di verifica di paradigmi di razionalità altra alla ricerca di potenzialità inespresse: le pratiche di riuso trovano strategie di riferimento nell’ipotesi della ricostruzione. L’assenza di un committente diretto è forse anche un’opportunità per verificare i paradigmi di scientificità di argomentazioni disciplinari che possono ritrovare nell’evidenza fisica dei fatti le forme di una committenza ideale e che, un po’ più libere da determinazioni sociali già caratterizzate, consentano di riflettere con meno vincoli sull’utilità sociale di nuove prospettive di lavoro.



La Martella e Spine Bianche a Matera. L’architettura di una protratta ricostruzione Luca Monica

Carlo Aymonino, disegno di studio iniziale per il quartiere Spine Bianche a Matera, 1955-1958, «a+u», 88, febbraio 1978. Carlo Aymonino, initial study for Spine Bianche district in Matera, 1955-1959, “a+u”, 88, February 1978.

Perché il caso Matera? Nell’arco di un decennio, tra il 1950 e il 1960, si era svolta a Matera una tra le più nobili esperienze dell’architettura italiana del dopoguerra, di cui fin da subito un’ampia letteratura storico-critica ne aveva rivelato il ruolo chiave e di premessa per un nuovo impegno nella ricostruzione e sviluppo della vita civile1. Questo episodio aveva infatti trasformato fin dalla sua nascita il concetto stesso di “ricostruzione”, inteso come riparazione postbellica, prolungandolo verso un impegno più integrale, consegnando forma fisica e sostanza di paesaggio alla città e al territorio nello sviluppo economico e sociale in Italia. Questo processo, nel pieno delle istanze democratiche della nuova Repubblica può oggi essere riconosciuto nei suoi profondi legami con istituzioni ed esperienze antecedenti la guerra, quali quelle dell’invenzione delle politiche della cosiddetta “bonifica integrale” e dello sviluppo di una prima economia rurale, un processo che, sebbene appartenente alle ideologie del totalitarismo del periodo fascista, conteneva in sé premesse e possibilità di autentica riforma (nell’economia della “città corporativa”), delle quali risulta ancora oggi difficile valutarne l’efficacia, ma certamente ne sono state riconosciute la necessità e le prospettive messe in gioco, oltre che il valore di certe architetture. Pertanto, nel dopoguerra, possiamo senz’altro parlare dei due casi architettonici paradigmatici ed esemplari di questa seconda rinascita della campagna: i quartieri La Martella (Luigi Quaroni, Luigi Agati, Federico Gorio, Piero Maria Lugli, Michele Valori, 1949-1954) e Spine Bianche (Carlo Aymonino, Carlo Chiarini, Giancarlo De Carlo, Mario Fiorentino, Marcello Girelli, Federico Gorio, Sergio Lenci, Marinella Ottolenghi, Vito Sangirardi, Hilda Selem, Michele Valori, 1955-1959), nati per contribuire a risolvere il problema delle condizioni degli abitanti dei Sassi di Matera. I Sassi, un contesto arcaico in una bellissima città di origine rupestre e caso emblematico di vita contadina contraddistinta da un livello di esasperato sottosviluppo, quasi primitivo, iniziavano a rappresentare anche all’estero un caso di studio sociologico sul quale riflettere. Questa molteplicità di effetti, compresenti in un’azione dai risvolti architettonici così netti, è forse anche l’elemento di maggiore attualità che oggi possiamo riconoscere, dove concorrevano le idee di una possibile continuità della vita rurale dei nuovi insediamenti e la loro possibilità di sviluppo di una nuova economia agraria. Tali momenti di catastrofe (sociale e fisica) rendevano disponibile un territorio a un’ipotesi di riforma, e il caso di Matera, poco coinvolta rispetto alle aree più colpite dai danni di guerra, si caratterizzava per la condizione dei 15.000 abitanti dei Sassi, già sotto osservazione a partire dalla prima legge speciale del 1904, e dunque strettamente connessa alle occasioni di riforma degli insediamenti rurali di tutto il Novecento. Matera era infatti ancora un caso incompiuto di riforma della struttura agraria del Sud Italia, iniziata con le due principali leggi per la “bonifica integrale”, la legge Serpieri del 1924 e la legge Mussolini del 1928, che avevano dato vita alle nuove istituzioni dei Consorzi di bonifica per lo sviluppo e la salvaguardia del territorio rurale, studiando nuove tipologie insediative e realizzando in varie fasi numerose “borgate rurali” nei territori montani, nelle paludi pontine, nel ferrarese, in Capitanata, nel Sulcis. Questa nuo-

La M L’ar ne


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va concezione di riforma conquistava nuove aree disponibili all’agricoltura, estendeva le tecniche di ingegneria idraulica per la bonifica di terreni paludosi e la realizzazione di bacini irrigui verso una nuova dimensione economica e sociale, attraverso l’architettura di nuovi insediamenti e provvedimenti di riforma e sostegno delle tecniche di coltivazione, di formazione di personale qualificato, di servizi sociali di igiene e salute. Di questa fase e di queste esperienze, da più parti, se ne è riconosciuto un giudizio storico assai critico, come di un processo dagli esiti contraddittori e interrotti, ma che in realtà hanno posto le premesse, fin da subito riconosciute in tutto il mondo, per un nuovo modo di incidere sull’economia fisicamente, nel vivo del territorio e attraverso l’architettura. Da queste esperienze, oltre le fasi della ricostruzione postbellica, come una sorta di nuova tradizione disciplinare dell’architettura italiana, l’emergenza abitativa ritornava in altri episodi, diventando una sorta di costante nell’idea della costruzione della città a partire dalle sue aree più ai margini, sia dello sviluppo economico che delle connessioni territoriali, come in una stagione di protratta “ricostruzione”. Una vicenda, questa, descritta nel 1978 in un fascicolo della rivista «Hinterland» diretta da Guido Canella, in un’articolata documentazione, che sembra come chiudere un ciclo in parte virtuoso e non più riproducibile2. In questo senso, ritornare su Matera, progettualmente e con una simile intenzione di “ricostruzione”, era stato proposto in una ricerca coordinata proprio da Canella tra il 1999 e il 2001, per un’idea di “città di fondazione” in Basilicata3 che sostenesse lo sviluppo economico di una regione a partire dall’immissione di abitanti sulla base dei nuovi fenomeni migratori in crescita, già allora prepotentemente affacciati su una nuova dimensione del Mediterraneo e da considerarsi come risorsa e occasione per uno sviluppo della nazione, anziché un costante problema di gestione. Con l’aiuto di un urbanista-economista nel gruppo di ricerca, Marco Canesi, si era scoperto che la regione Basilicata aveva le caratteristiche giuste, definite da una significativa depressione demografica e macroeconomica. L’immissione di nuova popolazione che già in quegli anni proveniva da etnie extraeuropee e trovava massiccio impiego nel settore agroalimentare, avrebbe consentito non solo l’arricchimento della regione ma anche la possibilità di dotazione di un livello di servizi di rango metropolitano. Il progetto elaborato nella ricerca prevedeva il disegno di un anello ferroviario metropolitano tra Potenza e Matera, con nuovi edifici e insediamenti rurali e di servizio di nuova fondazione. In questo nuovo schema, dunque, il caso Matera della stagione olivettiana risultava un antecedente nobile e molto significativo nelle ipotesi di sviluppo di un territorio e meritava di essere ripercorso e riguardato, soprattutto dal punto di vista del ruolo che il progetto di architettura vi aveva svolto. Contadini del Sud

Come noto, il caso Matera ha una sua storia, il cui punto di inizio è stato da tutti riconosciuto nel romanzo di Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, del 1946, che narra que-

Carlo Levi, Lucania 61, 1961, Museo Nazionale, Palazzo Lanfranchi, Matera. Gruppo BBPR con Carlo Levi, tomba del poeta Rocco Scotellaro a Tricarico (MT), 1957. La cittàdei Sassi di Matera (foto Luca Monica). L. Piccinato, Unrra-Casas, Consorzio di Bonifica Valle del Bradano, schema di piano regolatore per il territorio di Matera, 1953-1954 (Archivio Luigi Piccinato, Roma). Disegni di rilievo delle abitazioni rupestri dei Sassi. Carlo Levi, Lucania 61, 1961, National Museum, Palazzo Lanfranchi, Matera. Gruppo BBPR with Carlo Levi, tomb for the poet Rocco Scotellaro at Tricarico (MT), 1957. The city of the “Sassi”of Matera (photo Luca Monica). L. Piccinato, Unrra-Casas, Bradano Valley Reclamation Consortium, Local Strategic Plan for the territory of Matera, 1953-1954 (Luigi Piccinato Archive, Rome). Survey drawings ofThe Sassi rockdwellings.


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Episodi che attraversano tutto il mondo della tecnica artigianale dell’architettura come costruzione, come riscatto di una dimensione popolare e realista di una ricostruzione anche civile, figurativamente in chiave “espressionista” – così come era stato riconosciuto da Canella e Rossi – e in grado di riportare la forza della tradizione su un piano contemporaneo. Ebbene si può affermare che l’unico architetto italiano (escluso il Muzio della «Ca’ Brüta») che abbia studiato e sofferto in una sincera espressione formale la lezione espressionista sia stato Ridolfi. Per lui l’esperienza tedesca va così oltre l’acquisizione più o meno completa di un linguaggio moderno che la Germania, per la vastità delle sue esperienze, poteva in quegli anni offrirgli, ma diventa coscienza profonda di una architettura più complessa, più ricca di motivi e di determinanti. Tanto che si può supporre che quando Ridolfi nelle opere recenti si preoccupa di una architettura più intimamente legata alla storia e al paesaggio urbano italiano abbia in mente le esperienze di quell’architettura nordica (tedesca, olandese) che in sostanza si è sempre allacciata a una profonda comprensione delle esperienze locali, quasi continuandole.10

Altri importanti frammenti sono gli schemi di aggregazione di case rurali che Ridolfi inizia a studiare per il Cnr e l’Unrra-Casas nel 1949, e che hanno un importante antecedente in un progetto per un insediamento rurale tipo nell’Agro Pontino nel 1940. In questo caso inizia a scomporsi e a dissolversi l’integrità stereometrica dei solidi volumi di Piccinato – e di tutta la successiva linea dell’architettura italiana coloniale – ricercandone le unità minime, formali e funzionali. D’altra parte questo procedere per unità minime corrispondeva anche alla concezione delle strategie di frammentazione degli appoderamenti che l’economia agraria ancora sosteneva prima della guerra, e che solo nel dopoguerra, per merito di Nallo Mazzocchi Alemanno e di Manlio Rossi Doria si trasforma nell’idea delle borgate rurali. La Martella, infatti, sarà la prima di questo nuovo tipo di insediamento, e la sua architettura procederà nella ricomposizione dei frammenti che poco alla volta si erano studiati e analizzati in modo combinatorio e che ne avevano fornito le premesse. La figurazione delle tessiture murarie, delle falde di copertura, delle ombre dei volumi, delle ossature in cemento armato a vista, dei nodi dei serramenti, diventeranno da qui in avanti, il linguaggio artigianale che sul piano compositivo rigenererà il rapporto estetico sul piano di una dialettica astratto-concreta, come superamento del puro razionalismo. Un nuovo linguaggio che di colpo attraversa in questi anni tutta l’architettura italiana, quasi in contemporanea in molti architetti. Ma Ridolfi opera un’ulteriore reinvenzione, sempre procedendo sul filo della materialità della costruzione a partire dalle case di Cerignola del 1950. Tra gli espressionistici disegni, volumi e ombre, e le tessiture murarie costruite, emerge il telaio strutturale in cemento armato, con le partiture dei mattoni e dei blocchi di tufo – oggi purtroppo intonacate – su cui Ridolfi costruisce una cifra stilistica molto precisa, in forte equilibrio tra tensioni opposte, sul filo di un disegno razionale e geometrico tormentato nelle tessiture materiche. Una precisione espressiva caratteristica delle sue opere migliori, dal quartiere Tiburtino, ancora del 1950 (con Quaroni e altri più giovani, Aymonino e Fiorentino), alle torri di Viale Etiopia (1951).


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L. Quaroni, L. Agati, F.Gorio, P.M. Lugli, M. Valori, Villaggio La Martella, Matera, 1949-1954, viste, (da «Casabella-continuità», 200, febbraio-marzo 1954). L. Quaroni, L. Agati, F.Gorio, P.M. Lugli, M. Valori, The village of La Martella, Matera, 1949-1954, views, (from “Casabella-Continuità”,200, February-March 1954).


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1 Oltre alle testimonianze dirette dei protagonisti e della cultura architettonica che ne ha fin da subito fissato i caratteri nella storia, e oltre ai numerosi testi di cronaca, alle relazioni urbanistiche, economiche, sociologiche e architettoniche che formano la letteratura specifica coeva, altre storie dell’architettura hanno riletto il caso Matera secondo riflessi di generazioni più giovani, in un progressivo passaggio di testimone. Una prima illuminazione basata su impressioni visive ancora fresche, alla ricerca di una nuova estetica civile dei primi eroici sviluppi, scaturisce dal saggio di F. Tentori, Quindici anni di architettura italiana, pubblicato su «Casabella-continuità», 251, 1960. Successivamente, nel 1980 G. Canella scrive su «Hinterland», Figura e funzione dell’architettura italiana, con una chiara genealogia e intrecci tra le opere decisive di una specificità tutta italiana, per temi ed espressioni. Poco dopo, nel 1982 M. Tafuri scriverà la sua Storia dell’architettura italiana del Dopoguerra, in cui ritornano opere e nodi critici già da tempo studiati nella importante monografia su Quaroni (M. Tafuri, Ludovico Quaroni e lo sviluppo dell’architettura moderna in Italia, Milano, Comunità, 1964), con un importante capitolo sulla stagione materana. E inoltre: la prefazione di C. De Seta alla raccolta di scritti di G. Pagano, Architettura e città durante il fascismo (1976), Milano, Jaca Book, 2008; C. De Seta, Città, territorio e Mezzogiorno in Italia, Torino, Einaudi, 1982; C. Olmo, Urbanistica e società civile. Esperienze e conoscenza, 1945-1960, Roma - Torino, Fondazione Adriano Olivetti Bollati Boringhieri, 1992; M. Fabbri, Il Piano regolatore di Matera di Luigi Piccinato, in F. Malusardi, Luigi Piccinato e l’urbanistica moderna, Roma, Officina, 1993, pp. 476485; C.D. Fonseca, R. Demetrio, G. Guadagno, Matera, Roma-Bari, Laterza, 1999; M. Talamona, Dieci anni di politica dell’Unrra Casas: dalle case ai senzatetto ai borghi rurali del Mezzogiorno d’Italia (1945-1955). Il ruolo di Adriano Olivetti, in Costruire la città dell’uomo, a cura di C. Olmo, Torino, Edizioni di Comunità, 2001. 2 G. Canella, Assumere l’emergenza che non finisce, in Calamità naturali e strategie di ricostruzione, numero monografico di «Hinterland», 5-6, 1978. Così nel Vajont (alluvione, 1963), nella Valle del Belice (sisma, 1968), ad Ancona (sisma, 1972), nel Friuli (sisma, 1976). Esperienze non più proseguite in seguito con la stessa fiducia per l’architettura: in Irpinia (terremoto, 1980), in Piemonte (alluvione, 1994), a L’Aquila (terremoto, 2009), nel Modenese (terremoto, 2012), ad Amatrice e Norcia (terremoto, 2016). 3 Ricerca Cofin Murst, Politecnico di Milano, “Tradizione e criteri di proponibilità della città di fondazione connessa ai flussi immigratori e all’ipotesi di un nuovo sviluppo del Sud Italia nel Bacino Mediterraneo”, responsabile G. Canella, coordinatore nazionale L. Semerani, 1999-2001; pubblicato in G. Canella (con E. Bordogna, P. Bonaretti, M. Canesi, L. Monica e altri), Una città policentrica apu-

lolucana nel Mezzogiorno d’Italia per una nuova area del Mediterraneo, in Periferie e nuove urbanità, a cura di F. Bucci, Milano, Electa, 2003, pp. 136-141. 4 M. Rossi Doria, Seicentomila ettari irrigui (1961), in Scritti sul Mezzogiorno, Torino, Einaudi, 1982, p. 81. 5 Ivi, p. 80. 6 C. Aymonino, Matera: mito e realtà, «Casabellacontinuità», 231, settembre 1959, p. 10. 7 Una interessante, pur breve, ricostruzione dello scenario teorico di queste esperienze, tra Europa e Stati Uniti, dal Cinquecento alla seconda metà del Novecento, è stata affrontata da M. Tafuri, Storia dell’ideologia antiurbana, dispensa ciclostilata, Istituto Universitario di Architettura di Venezia, Venezia 1973, che tuttavia non tratta del caso italiano. 8 A. Restucci, Un rêve américain dans le Mezzogiorno, «L’architecture d’aujourd’hui», 188, dicembre 1976. Da più parti sono stati ancora di recente riconosciuti questi legami transatlantici, diretti e indiretti, con travasi di conoscenze e coinvolgimenti culturali e profondi nella struttura economica e politica. Tra questi lo studio di P. Scrivano, Building Transatlantic Italy, che mette in luce una sequenza di esperienze e figure chiave, tra cui l’avventura materana, La Martella e le figure di Zevi e Olivetti. 9 M. Ridolfi, Il “Manuale dell’architetto”, «Metron», 8, marzo 1946; G. Muratore, L’esperienza del Manuale, in Architettura di Mario Ridolfi, «Controspazio», 1, settembre 1974, pp. 82-90. 10 G. Canella, A. Rossi, Architetti italiani: Mario Ridolfi, «Comunità», 41, giugno-luglio 1956, p. 54. 11 L. Quaroni, Indagine edilizia su Grassano, in Inchiesta parlamentare sulla miseria (1954), ora in Id., La città fisica, a cura di A. Terranova, Roma-Bari, Laterza, 1981, pp. 65 ss. 12 F. Gorio, Il villaggio La Martella. Autocritica, «Casabellacontinuità», 231, settembre 1959, pp. 31 ss. 13 Citato in R. Nicolini, M.C. Ghia, M. Fabbri, A. Greco, Le epifanie di Proteo: Marcello Fabbri per Controspazio, 1983-2005, Roma, Gangemi, 2008, p. 55. 14 B. Zevi, Poetica dell’architettura neoplastica. Il linguaggio della scomposizione quadridimensionale (1953), Torino, Einaudi, 1974, p. 207. 15 G. Canella, Torino-Milano: inizi e trasgressione dell’architettura moderna in Italia attraverso Edoardo Persico; e anche Franco Albini nel singolare percorso del razionalismo italiano, entrambi in Architetti italiani nel Novecento, a cura di E. Bordogna, Milano, Christian Marinotti, 2010. 16 Manca, anche tra le visioni e gli studi più attuali, l’ipotesi di una fase di “restauro urbano”, nel senso di riparare i danni da troppi anni di incuria e abbandono “architettonico” e proporre una nuova ridestinazione e ruolo del contesto rurale. Unica eccezione per taluni aspetti, appare l’appassionato studio di M. Mininni, Matera Lucania 2017. Laboratorio, città, paesaggio, Macerata, Quodlibet, 2017.

C. Aymonino, C. Chiarini, G.De Carlo, M. Fiorentino, M. Girelli, F.Gorio, S. Lenci, M. Ottolenghi, V.Sangirardi, H. Selem, M. Valori, Quartiere Spine Bianche, Matera, 1955-1959. C. Aymonino, Assonometria del blocco d’angolo di raccordo. C. Aymonino, C. Chiarini, G.De Carlo, M. Fiorentino, M. Girelli, F.Gorio, S. Lenci, M. Ottolenghi, V.Sangirardi, H. Selem, M. Valori, Spine Bianche neighbourhood, Matera, 1955-1959. C. Aymonino, axonometric drawing and view of the blockon the connecting corner.

Viste delle unitàresidenziali di Aymonino (in alto) e Fiorentino (in basso) (da «Casabella-continuità», 231, settembre 1959). Views of the residential units by Aymonino (top) and Fiorentino (bottom). (from «Casabella-continuità», 231, September 1959).


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Dialettica della ricostruzione Gundula Rakowitz, Carlotta Torricelli

Carlotta Torricelli  Nel discorso intorno al tema della ricostruzione, le macerie stesse assumono valore attivo, in quanto materia di progetto, e pongono l’architetto di fronte a un’antinomica sequenza di scelte, che apre la riflessione su quali siano i limiti della nozione di patrimonio. D’altro canto, però, nella rovina materiale, conseguenza di catastrofi naturali, o di guerre, oppure ancora della distruzione operata dalla speculazione, si specchia il fallimento culturale che ha lasciato che tale disastro si producesse. Per questa ragione, il disegno della ricostruzione futura non può basarsi esclusivamente sull’individuazione, la catalogazione e la selezione dei beni da tutelare, sovrapponendo un sistema di procedure all’invenzione progettuale. Gundula Rakowitz  In effetti la nozione di patrimonio registra una doppia declinazione, come elemento pervasivo ed estensivo e come elemento intensivo. Ossia come nozione materiale e come nozione immateriale o direttamente progettuale. Quest’ultima mi pare eccedere la qualificazione in termini di valore – sia esso inteso sul piano simbolico o ancora su quello economico e funzionale, legati alla regolazione giuridica dei processi di ricostruzione. CT  Se la crisi rappresenta il momento privilegiato per rifondare l’intenzionalità del progetto e ridefinire il suo campo di azione, è urgente porre oggi, nuovamente, il problema in questi termini: ricostruire il luogo del discorso sull’architettura e sulla città, costruire lo spazio d’azione in cui si sviluppano i movimenti di un pensiero che non ambisce a divenire strategia, ma quantomeno a tracciare l’esperienza della sua possibilità1. GR  Ciò comporta ripensare lo statuto di progetto, la sua “teoria”, che deve integrare al proprio interno elementi narrativi che non assumano ingenuamente una materia “nuda” ma una già satura di tensioni tra l’autentico e l’inautentico, tra il dato e l’innovazione. È possibile intendere la ri-costruzione come narrazione non sostenuta da nessuna cronologia naturale, ri-costruzione per frammenti, per rovine, e in quanto tale non mirata ad una petitio principii, ad una (impossibile) ricattura dell’origine, ma catastrofe, ossia, alla lettera, punto di svolta. Riattiviamo luoghi della mente-memoria, “paradigmi” di trasformazione, ed è questo che permette di ri-trovare e ri-costruire i luoghi, e di rialimentare il pensiero critico, il pensiero della crisi.

Pieter Brueghel il Vecchio, Torre di Babele (detta Piccola Torre di Babele), part., 1563ca, olio su tavola, cm 60 × 74,5, Rotterdam, Museum Boijmans Van Beuningen. Pieter Brueghel the Elder, Tower of Babel (known as the Little Tower of Babel), detail, c. 1563, oil on panel, cm 60 × 74.5, Rotterdam, Museum Boijmans Van Beuningen.

CT  Ricordo che nel 1993 Vittorio Gregotti dedica un numero di «Rassegna» a: La ricostruzione in Europa nel secondo Dopoguerra. Nell’editoriale scrive: «L’Europa sembra oggi attraversata dal desiderio di una nuova ricostruzione [...]. È necessario soprattutto ricostruire una capacità di controllo sul consumo insensato di quel grande monumento storico che è il territorio europeo nei confronti dell’urbanizzazione selvaggia della sua campagna; è urgente ricostruire una connessione necessaria tra città e cittadini capace di tornare a fare di essa la più alta espressione della nostra volontà collettiva»2. L’appello a questa urgenza, però, è rimasto nei dibattiti delle scuole e delle riviste che si sono interrogate sulla possibilità di rompere quel processo di ossessiva espansione, priva


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di indicazione morfologica in grado di prefigurare e orientare il disegno della città e del territorio. Anzi, con il fenomeno della globalizzazione, il terreno di sperimentazione si è ampliato a dismisura, interessando nuove aree geografiche, ben al di là dei confini europei. Quello che però accomuna luoghi e culture lontane è il fatto che il distacco tra le opere di eccezione firmate (dove, nelle migliori espressioni, l’unica coerenza ricercata è quella tra il progettista e la sua opera) e l’edilizia corrente abbia provocato una insanabile frattura nel corpo dell’architettura, lasciando ampio margine alla speculazione più aggressiva. Come è possibile, dunque, elaborare una strategia coerente con le singole identità ma anche condivisibile a scala globale? GR  È la radicalità del nesso distruzione/costruzione che, a mio avviso, va indagata, il nesso cartesiano tra pars destruens e pars construens, ma sempre come due lati dello stesso procedimento struttivo (dal pregnante verbo latino struere), architettonico. La demolizione è una scelta per così dire “non conservativa”: si distrugge secondo progetto per ri-costruire secondo progetto. Ed è qui che entra di nuovo in gioco in misura decisiva il tema della scala, in una dimensione di multiscalarità simultanea che permetta il comporsi di identità plurime e provvisorie, sempre da ricostruire. CT  Ecco perché, mentre si ripiega su se stessa una fase storica che ha consumato e accumulato in forma inerziale strati di costruzioni, è sembrato essenziale tornare a parlare di ricostruzione, collegando questo tema a quello dell’inventario (inteso come archivio di conoscenza operativa), e portandolo sul piano del progetto della città. Ripartire da zero è l’occasione sperata da ogni utopia che si ponga l’obiettivo di rifondare una disciplina. Ma la ricostruzione necessaria oggi è più difficile e articolata, non presuppone di iniziare da una tabula rasa e nemmeno di ritornare a una presunta età d’oro della cultura urbana, bensì di lavorare con i materiali esistenti, accettando la complessità stratificata dei nostri territori. Per questo certamente la risposta non potrà essere lineare, perentoria, completa. Ma piuttosto una narrazione per segmenti che misurano le possibilità e tracciano un disegno aperto. GR

Mi pare che il tema dell’inventario operativo (insieme a quello degli atlanti e degli archivi) vada riletto a partire dalla sua qualificazione come sito di invenzioni disponibili, di invenzioni per la progettazione ma senza rispettare l’ordine dato dei materiali inventivi, giocando sulle compossibilità delle unità inventariali, quindi possibilità di differenze che diventano componibili, esercitando una capacità immaginativa capace di giocare sulla materia mobile dei flussi inventivi. Giorgio Agamben ha tracciato un percorso critico della differenza tra il paradigma dell’opera, dell’invenzione e della struttura e il paradigma della creazione, scrivendo che «è da questo paradigma che deriva la sciagurata trasposizione del vocabolario teologico della creazione all’attività dell’artista, che fin allora nessuno si era sognato di definire creativo»3. CT

In effetti si tratta della ricostruzione non soltanto materiale, ma anche di un sistema di relazioni immateriali con una sfera di processi e azioni intangibili, come le

Federico Letizia Potere al superfluo, Venezia “La conservazione non sa bene che farsene del suo nuovo impero [ma mentre la sua] importanza cresce di anno in anno, la carenza di teorie in materia [...] inizia a diventare pericolosa. [...] Molto spesso il passato diventa l’unica strada per il futuro”(OMA, Cronocaos, Venice 2010). In un presente pronto a sacrificare il passato nel nome dell’economia di mercato, Cronocaos getta una luce sinistra sulle prassi odierne in materia di conservazione e lascia lo spettatore con una serie di quesiti irrisolti: come si disegna il confine che separa l’inestimabile dal superfluo? Chi trae beneficio dallo status quo? Se c’èun dibattito in corso gli architetti vi stanno prendendo parte? “Preservation does not quite knowwhat to do with its newempire [but as its] scale and importance escalate each year, the absence of a theory [...] becomes dangerous. [...] In many cases, the past becomes the only plan for the future”.(OMA, Cronocaos, Venice 2010). In a time when most were willing to give up the past for the sake of market economy, OMA’s research shed an unsettling light on contemporary preservationist routine and raised healthy questions: Howcan one draw the line that separate the masterpiece from junk? Who benefits from the status quo? Are architects left aside in a (hypothetical) debate that is going to shape one of their main areas of intervention?


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Yixing Zhou Mario Ridolfi. Fabbricare l’intervento urbano, Terni La sistemazione di Piazza Spada èstata la piùspettacolare e raffinata opera progettata da Mario Ridolfie Wolfgand Frankl a Terni. Seguendo il piano di ricostruzione e i piani particolareggiati che Ridolfiaveva fatto dopo la guerra, questi progetti avevano trasformato un luogo di risulta rimasto in un grande isolato, danneggiato e portato alla luce dai bombardamenti, in un nuovo centro della città, che incorporava il vecchio e il nuovo, il monumentale e il quotidiano. Il nuovo volume incompiuto del Palazzo per gli Uffici Comunali sarebbe, nelle stesse parole dell’architetto, il cuore civico. La composizione di questo palazzo, rappresentata in geometria, nei materiali e nel sistema costruttivo, ha dato al sito una conclusione, così come alla lunga ricerca dell’architetto sull’intervento urbano e sull’architettura civile. The built environment of Piazza Spada was the most spectacular and exquisite workMario Ridolfiand Wolfgand Frankl realized in Terni. Following the master plan Ridolfimade after the war, these buildings had transformed a place once left over within a huge block, demolished and brought to light by the bombardment, into a newcenter of the city, incorporating the old and the new,the monumental and the quotidian. The unfinished newvolume for the NewTown Hall would be the last piece of this puzzle, or in the architect’s own words, the civil core. The composition of this project, represented in geometry, material, and construction system, has culminated the site and a long-term exploration of the architect on urban intervention and civil architecture.

strutture profonde dell’economia, i sistemi di valori culturali che consentono di trovare un grado di concordanza tra un’opera e il luogo in cui essa si costruisce. Quando è avvenuta la frattura tra i contenuti sociali e la città? Su quali parametri si misura la congruità dello spazio pubblico oggi, nel rispetto delle pluralità? Se è vero che «il Grande Represso, il tabù di oggi è la bellezza [...] Oggi siamo inconsci della bellezza. Siamo antiestetici, anestetizzati, psichicamente ottusi»4, come architetti abbiamo il compito di riattivare la capacità di discernimento, di selezione, di interpretazione senza la quale diversi fenomeni sembrano prendere analoga posizione. Nell’era del digitale, in cui tutto assume aspetto bidimensionale e l’unico tempo è quello presente (poiché apparentemente siamo in grado di reperire ogni informazione ovunque, in un unico istante, attraverso uno schermo) è fondamentale ritrovare la tensione verso il percorso di conoscenza e, di conseguenza, ristabilire le tecniche per scendere nella profondità verticale, tridimensionale, del processo cognitivo. Roberto Calasso scrive a questo proposito: «C’è poi chi semplicemente guarda. Fra questi pochi si trovano coloro – una magra setta – che non rinunciano ad esporsi allo shock dell’ignoto. Sanno che è una sensazione non sostituibile e preliminare a ogni connessione con il passato. Quella sensazione è come la prima fase di un rito iniziatico, che si svolge nelle tenebre e nel silenzio. Ma è indispensabile per stabilire un rapporto con l’ignoto. Che, nel caso del passato, è innanzitutto assenza. Le rovine testimoniano questo: che il passato non c’è. Una volta assorbito questo shock, che penetra fino ai capillari, può cominciare – lentamente, gradualmente – il processo della conoscenza»5. GR  Tuttavia l’assenza del passato, questo vuoto, questo oblio, non si conserva come tale nella memoria individuale e collettiva: memoria non è conservazione passiva di un vuoto ma trasformazione o mutamento di forma, produzione di scale o paradigmi di valori condivisi (perciò plurali e lontani, mi pare, dalla setta di cui parla Calasso): valori di natura iconica, metastorica e testimoniale. La memoria è selettiva, opera una scelta all’interno di uno spettro ampio di possibilità di flussi. Citavi prima la dimensione immateriale; bene, essa va inscritta in questa scala di valori in flusso, secondo risposte mutevoli alle questioni poste da una irriducibile pluralità. CT

In questo senso, possiamo notare come il processo della conoscenza si muova nell’indagine spostandosi dal problema del “quando” al problema del “come”. La ricostruzione lavora nell’accezione del tempo che informa la lingua greca antica, focalizzata sullo sviluppo delle cose e non sul loro momento, interrogando l’effetto delle azioni, la loro qualità, senza preoccuparsi di collocarla nel passato, nel presente o nel futuro6. In questo modo il progetto può emanciparsi dal meccanismo delle sequenze cronologiche e riscrivere la memoria come in un montaggio che restituisce qualità simbolica e relazioni alle figure coinvolte, nella multiscalarità del processo. «Tempo presente e tempo passato / sono forse entrambi presenti / nel tempo futuro e il tempo futuro / è contenuto nel tempo passato. Se tutto il tempo / è eternamente presente / tutto il tempo è irredimibile»7.


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di quel corpo, allontanando sempre più l’attenzione dalle componenti fisiche. Eppure nella pratica del progetto materia e spazio sono inscindibili. Luigi Moretti scriveva: «Intervengono nei nostri colloqui con una architettura tutti i fatti e diremmo tutti i personaggi metafisici, gli enti, che la compongono; ciascuno recitando il suo verbo, o di luce o di peso o di misura o di materia o di vuoto spazio, ora chiamando gli altri ora ripetendosi ora scomparendo, con una concatenazione espressiva sempre mutevole, come la luce e gli uomini, ma con una congruenza finale, un destino immutabile, che è poi la creata ordinanza dei loro rapporti, la struttura dell’opera [...] I moderni sembra abbiano dimenticato le leggi delle sequenze dei volumi interni. Essi debbono riconquistare lo spazio come elemento sensibile, vivo, e non per strapolazione fiduciosa da simboli grafici. Quali errori l’architettura moderna abbia commesso ignorando gli spazi nella loro concretezza si può ormai giudicare dal vero; naturalmente ammesso che l’architettura moderna viva sul vero e non sia ormai trasferita come fatto di cultura sui simboli bidimensionali, disegno e fotografia»10. Ricostruire dunque il ruolo della rappresentazione, da un lato, come strumento per governare la trasformazione, ma anche come mediazione necessaria per stabilire il rapporto di conoscenza che è già, nella scelta dello strumento, interpretazione. E ricostruire allo stesso tempo, il valore concreto, tangibile dello spazio misurato dal progetto. GR

Michela Tettamanti Rudolf Schwarze la ricostruzione del Gürzenich, Colonia Dopo il 1945 la Germania èpriva sia della consistenza materiale sia immateriale: la riedificazione implica anche una ricostruzione morale; a questo proposito èinteressante il lavoro di Rudolf Schwarz a Colonia, dove interviene sul Gürzenich, sul Wallraf-Richartz-Museum e sulla città con alternative alle ricostruzioni in stile, evocazione della “buona Germania’” ed exnovo, rappresentazione della nuova democrazia: egli innesta le parti più antiche e le precedenti logiche insediative in strutture sviluppate secondo idee e linguaggio contemporanei. After 1945 Germany seemed to be both shapeless and without any identity: it was needed also a moral reconstruction. Consequently, it is interesting the workmade by Rudolf Schwarz in Cologne, where he rebuilt Gürzenich, Wallraf-Richartz-Museum and the city following a third way between philological approach, that evoke the ‘good Germania’, and modernist architecture, which represented the newdemocracy. He developed projects that joined newstructure and language and old parts and settlement.

Facciamo progetti, facciamo disegni, traduciamo cercando forme espressive. Fino a che punto agisce una consapevolezza critica dei limiti del “nostro” linguaggio o dei “nostri” linguaggi, che spesso, più che parlare, vengono “parlati”, si limitano a riprodurre l’incantesimo del metodo e il blocco della ricerca. Per ricordare Jacques Derrida, «l’architettura è senza essere nel progetto». Si deve porre pertanto all’architetto la questione del «supporto o della sostanza... del sujet, di ciò che è gettato sotto. Ma anche di ciò che si getta in avanti o in anticipo nel progetto (proiezione, programma, prescrizione, promessa, proposizione), di tutto ciò che appartiene, nel processo architetturale, al movimento del lanciare o essere lanciato, del gettare o dell’essere gettato»11. CT  Torniamo al valore di memoria dei resti che rimangono dopo la distruzione, e alla potenza metaforica che questi materiali – in bilico tra memoria e oblio – hanno avuto per la cultura occidentale. Secondo Walter Benjamin: «Le allegorie sono nel campo del pensiero quello che le rovine sono nel campo delle cose»12. Ribaltando la simmetria del parallelismo, vediamo le macerie come sintesi pietrificata in un solo istante di tutte le occasioni mancate. Le rovine, dunque, attivano percorsi dell’invenzione inediti e sperimentali che presuppongono l’applicazione di tecniche compositive molto diverse, come si evince dai casi studio affrontati nelle tesi di Dottorato qui rappresentate dai manifesti che illustrano questo dialogo13. Colonia, Milano, Terni, Sarajevo, Stoccarda, Berlino, in ognuno di questi luoghi gli architetti tornano a leggere la città come testo critico e si confrontano con il passato attraverso il progetto di trasformazione, inteso come riscrittura.


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Piercarlo Palmarini Stirling. Architetture del tempo e dello spazio, Stoccarda Il progetto per la Neue Staatsgalerie di Stoccarda, a firma dello studio James Stirling Michael Wilford and Associates, èil culmine della ricerca progettuale, condotta dagli architetti nel decennio degli anni ’70 del XXsecolo, che assume il tema dell’intervento all’interno del centro urbano delle cittàtedesche. Il pensiero trova forma attraverso figure architettoniche classiche, posto in tensione attraverso il reciproco innesto, si manifesta attraverso l’alternanza ritmata tra spazi compressi e rarefatti. Questa architettura corroborata dall’uso consapevole delle dislocazioni spaziali, e percettive, nutrita da operazioni di dissociazione, e fusione, spazio-temporale, individua un approccio, reiterabile, che riuscirà nella non facile reazione, esoergonica, di convogliare la complicatezza mutandola in complessità. The project for the Neue Staatsgalerie in Stuttgart, signed by the studio James Stirling - Michael Wilford and Associates, is the culmination of the design research carried out by the architects in the decade of the 70s of the Twentieth century, which theme is the intervention inside of the city center of German cities. Thought finds its form through classical architectural figures, placed in tension through the reciprocal grafting, it manifests itself through the alternating rhythmic between compressed and rarefied spaces. This architecture, corroborated by the conscious use of spatial dislocations, and perceptives, nurtured by operations of dissociation, and fusion of space and time, identifies a repeatable approach that will succeed in the difficult reaction, exergonic, to convey complicity by changing it into complexity.

development Plan Vienna. Il piano tiene conto da un lato della crescita urbana che da oggi al 2025 porterà Vienna a diventare una città con più di due milioni di abitanti, dall’altro tiene conto dell’aspetto dello sviluppo sostenibile. Il piano si propone dunque come strumento valido per far fronte a queste nuove sfide per la città. A questo hanno lavorato in maniera partecipata politici urbanisti scienziati e cittadini in un continuo dialogo che prosegue tutt’oggi. Si nota la volontà di connettere con “corridoi verdi” parti diverse della città, oltre che collegare la zona di nuova espansione a nord-est mediante un sistema di parchi urbani che ha come fulcro l’Isola sul Danubio, per poi svilupparsi in tale direzione connettendo zone agricole e boschive. Dal punto di vista dello sviluppo urbano le aree prese in esame sono le medesime ipotizzate da Rainer, l’area a nord-est del centro cittadino e quella a sud-ovest. Va sottolineato che questo nuovissimo piano del 2016 ha molte analogie con quello di Rainer del 1958. L’inatteso è che l’idea di Rainer sia resistita allo scorrere del tempo, ripresentandosi ben sessant’anni dopo. Questa la domanda fondamentale: alla luce delle trasformazioni della città, quali sarebbero state le dinamiche architettoniche e urbane in gioco se il piano di Rainer fosse stato messo in atto? O ancora: perché il Stadtentwicklungsplan Wien STEP 2025 sembra riprendere alcuni punti fondamentali del Planungskonzept di Rainer? In altri termini: perché partire oggi dal piano di Rainer per progettare lo sviluppo urbano futuro? Quali le scelte che operiamo? Rainer aveva sviluppato un progetto pratico e teorico di ricostruzione della città dalle sue macerie: la teoria si intreccia con la pratica, con il fare. La cosa importante da osservare è che Rainer assume come punto di avvio uno studio morfologico topologico che entra nella dimensione geografica. Nel suo piano di ricostruzione della città la morfologia riveste il ruolo di elemento primario, prioritario. Qui l’architetto traduce più che esprimere, usa – potremmo dire con un termine da aggiungere al lessico dell’inventario – morfologie scalari, in un incessante movimento a spola, avanti e indietro: opera incompiuta come la materia che essa lavora. CT  Parlare di ricostruzione significa dunque da un lato rinnovare l’impegno per questa responsabilità civile, dall’altro recuperare la vicinanza, la confidenza, tra gli architetti e la terra. Al di là delle innumerevoli definizioni intorno alle quali sono state tracciate importanti linee teoriche (territorio, paesaggio, suolo), l’architettura deve oggi consapevolmente immergersi nella profondità della materia stessa del progetto: ritrovare l’originaria pratica del plasmare la terra. L’azione, ovviamente, è preceduta dall’analisi, dalla misurazione, dall’attività dell’intelletto che intuisce la geometria e le figure, ma l’urgenza del presente non consente di fermarsi alla superficie: «La realtà profonda nel suo divenire fluido non si svela soltanto alla metafisica dell’intuizione, ma anche alla mano che impasta, che aggredisce il fondo stesso della materia e vince l’intimità delle cose»17.


English Text

Editors’ note Gundula Rakowitz, Carlotta Torricelli In the body of the city, the material witness of human cultures, destruction suspends time and, in the simultaneity of views that ruin produces, the vision of reconstruction is born as a search for still unexpressed potential. The contributions collected in this book are based on the theme of reconstruction to address the wider problem of defining an imagery that can assume conflicts – i.e. stratified rifts – as an active part of a new design, where the relational conditions constitute the framework for an intermittent narration rooted in space. The productive force of memory fuels the thought behind the design by engaging the interventions on a terrain treated not as inert ground, but as a layered system of signs, traceable and measurable through an operative inventory. If Voltaire in his poem On the Lisbon disaster; or an Examination of the Axiom, “All is Well” entrusted the sense of history to human “hope”, the thought – today – of a reconstruction project cannot exist without a radical questioning of the recurrence of an anthropizing centrality incapable of rethinking the space of experience within a horizon of expectation, according to a co-implication of temporal and spatial dimensions that qualifies the destructive event as a space for new experimentation. Catastrophe is interpreted as a moment of material destruction, but also, etymologically, as an upheaval or breakdown of a morphological and structural equilibrium. It thus includes the possibility of the permanence of the immaterial and productive imagination, which from a fragment, in the impossibility of repeating the origin, builds new orders, new works of architecture, and new cities. This is also the resistance of the memory, the opportunity for a radical and necessary change with a view to redefining the profile of the city and its role in the construction of the territory. Crisis and rebirth, therefore, cancellations and fresh visions. Any destruction, of any type, defines a limit that requires answers, keeping open the tension between the authorship of the project and the work of the collective imagination, which the reconstruction project assumes on condition that there is a due change of paradigm.

In the contemporary situation, the identity of the territory, the landscape, and the urban space have lost their significance and seen their limits dissolve, making their redefinition of these words necessary not only on a morphological plan, but with respect to a new idea of citizenship. As citizens of a land subjected to repeated and havoc of the environment and urban culture, alongside the programmatic ravages of war, but even more so as architects, today we are called to commit to the elaboration of an operative point of view. This must become capable to undermine the systematic coincidence between reconstruction material and economic speculation, which has made Terror – terror according to the interpretation that Franco Farinelli gives the Codex Justinianus, would be the root of territorium, i.e. the controllable space, rather than terra – a tool for profit. These are the reasons why the topics developed in this book are not defined by a geographical area or a historical context. The essays – developed from contributions to a seminar organized as part of the activities promoted by the Curriculum in Architectural Composition of the PhD School at the Iuav University of Venice1 – together with extracts from PhD research in progress or recently concluded, presents a composite series of operational possibilities which, in addition to reiterating the paradigmatic role of certain experiences, opens urgent questions on the present, outlining the relationship between architects and projects, and between city and territory, which must now be placed under the spotlight. In this book, the narration of specific events alternate with more general reflections on the role of design culture in the context of reconstruction. Reflection on these themes brings up the urgency of the present and the uncertainty of future prospects. In these instances a project is asked to respond by defining strategies for an idea of the city and reconstructing an architecture for the city or rediscovering one among the broken lines.

1

The seminar Reconstruction Inventory Project, organized by Gundula Rakowitz and Carlotta Torricelli, was held on 26 May 2017 at the Iuav University of Venice PhD School, Palazzo Badoer. This initiative resumed scientific results obtained at previous seminars

promoted by the Curriculum in Architectural Composition and published in: I limiti dell’architettura. Ai limiti dell’architettura, eds C. Magnani, M. Marzo, Padua, Il Poligrafo, 2016; Invenzione della tradizione. L’esperienza dell’architettura, eds A. Gallo, G. Marras, Padua, Il Poligrafo, 2017.


English Text 147

Introduction Reconstruction: a mental space? Carlo Magnani 1. In its many meanings, from the medical-surgical to the literary, from the bureaucratic to the architectural, the term reconstruction describes a field of intervention in which the object and the pre-existing features are the point of departure. In all cases, every type of practice implies an adequate knowledge of the existing object, analysis, interpretation, verdict and use of techniques that represent a certain level of developed knowledge. There is no absolute: techniques, technologies and financial resources are not universally available. In the field of architecture, the term reconstruction seems to have an appropriate pertinent sense. But we might formulate the hypothesis that the common use of the word, understood as ways of dealing with a problem of emergency, is not only a historically determined occurrence bound to catastrophic events, but also a mental space to consider with attention from the inside the relationship between history, memory, disorientation and future given in an exceptional form1. Emergencies call into question the factor of time, its passing inside a continuity controlled, through the transformative aspects of physical elements, by a complex system of proceduralized powers and laws. The need for goal-oriented actions to prevail requires exceptional funding and powers, i.e. outside the norm, to tackle a rift in time and the disorientation and uprooting that this determines. The temporal rift connected to the spatial one would seem to describe a condition often evoked and desired by the paradigms of an abstract rationality that also fuelled twentieth-century visions of the refoundation of urban structures. But the rubble recounts material, affective, and symbolic stories and any re-beginning finds itself in front of the fork of the often impossible “reassuring” return to the status quo or the unknown quantity of finding a place in another condition according to other paradigms, possibly better, definitely different. All this of course without confusing the initial interventions of aid with the reconstruction process whose timeframes are medium to long This is already a difficult passage, to avoid muddling supplies with recon-

struction, the return to a possible daily life through reconstruction. The rift in time and space cancels places and lives, consigns suspended memories and recollections to a present and a future which, in many cases, we would wish to restore the past, i.e. equally often what can no longer exist. What seems unrepeatable, in addressing the urban morphology, is precisely the becoming of time, its material stratification in the physical forms of the city and the artefacts. Consequently, reconstruction and transformation are intimately and structurally interrelated. Thus, the problem shifts onto what the paradigms of rationality and technical instruments are that govern the processes of reconstruction-transformation interwoven with those for the improvement of living conditions and with the city’s history. All this, at least for the European city, from Le Havre to Milan, from Cologne to Matera, from Berlin to Pesaro, on the background of the crisis of the CIAM in its search for another modernity, with one further aspect to be considered which relates, in many cases, to the replacement of the resident population or its displacement in relation also to the development of the attractive capacity of larger towns and cities with the consequent problems of urbanization. The long season of “housing schemes” from those post-WWI in Germany and Austria, to the INA-Casa plans in Italy, the Grandes Ensembles in France and Britain’s New Towns in the aftermath of WWII, are witness, even in their great diversity, to a search for urban morphologies and goal-oriented principles that, however, endure in their exceptionality without being able to establish themselves as examples in the best cases and to govern the general processes, with a few rare exceptions, from Copenhagen2 to Barcelona3. And here begin the difficulties in confronting the amount of the pre-existences and the new solutions, how memory and future intertwine through continuity and innovation, confirmation and otherness. In what way the new is configured as a project for the consolidation, densification or thinning of the existing city, or in what way it alludes to another radically different mode of configuring human settlements, overlapping or encroaching on the problem of the city’s growth. Another city therefore, a form of criticism of the existing city, first compact city, then progressively only the city of traffic con-

gestion which reproduces itself in an autonomous and self-referential way until the general and widespread phenomenon of suburban constructions in parallel with the growth of phenomena of economic, social and cultural marginalization, from an informal to a generic city. 2. The shape and size of the properties make a difference, as does the conception of ownership and its place within the scope of the social utility4 between public property5 and private property, the potential use6 and the complete availability of the asset7. This is not to resume the arguments of Hans Bernoulli on leasehold estate8 already clearly expressed from 1945, as to reflect on how the accumulation of limits on the “absolute and complete availability of an asset” have differing genealogies, from the 19th-century sanitation measures, to those aimed at safeguarding the rights of third parties such as the distances from confines and the views, to the more recent performance obligations like lighting coefficients or those relating to energy-saving, and also those on the type of use, the heights and the urban planning standards or to forms of taxation and the pricing of consumption. All of this constitutes a set of socially accepted “guarantees”, limits imposed therefore on the “absolute and complete availability of the asset” in which each genealogical aspect has positive objectives aimed to improve the product between redistributive and performance aspects. A product and performance that have established a procedural system which is automatically reproduced in parallel with the ad hoc red tape forced to deal more with the legality of the acts than the design objectives of the materials being examined. The corporatization of the apparati and the fragmentation of the powers and competences complete a framework whose progressive management complexity, in the best cases, fuels the development of techniques which adapted by the multi-criteria matrices up to the mooted total automation of decisions through the adoption of algorithms, certainly the only forms capable of coping with Big Data, but that already legitimize that things happen independently9, without reflecting on the limits of the instrument whether mathematical or translated into machine language, relating to the rules of logical construction of the inputs transforming the outputs into events.


Finito di stampare nel mese di giugno 2018 per conto della casa editrice Il Poligrafo srl presso le Grafiche Callegaro di Peraga di Vigonza (Padova)



Quaderni di Composizione architettonica collana del Dottorato di ricerca in Composizione architettonica dell’Università Iuav di Venezia

1. Andrea Iorio Comporre architettura costruire la città. Jože Plečnik al castello di Lubiana 2. Cristiana Eusepi Las viviendas son caminos. José Antonio Coderch case per abitanti 3. Carlotta Torricelli Classicismo di frontiera. Sigurd Lewerentz e la Cappella della Resurrezione 4. I limiti dell’architettura. Ai limiti dell’architettura a cura di Carlo Magnani e Mauro Marzo 5. Invenzione della tradizione. L’esperienza dell’architettura a cura di Antonella Gallo e Giovanni Marras 6. Ricostruzione Inventario Progetto Reconstruction Inventory Project a cura di / edited by Gundula Rakowitz e Carlotta Torricelli




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