Soglie, di Alberto Giordani

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poligrafie

voci, storie, narrazioni

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Alberto Giordani

SOGLIE prefazione di Luciano Violante introduzione di Marco Filoni

ILPOLIGRAFO


in copertina elaborazione grafica da una foto di Alessia Loi Copyright © maggio 2018 Il Poligrafo casa editrice srl 35121 Padova via Cassan, 34 – piazza Eremitani tel. 049 8360887 – fax 049 8360864 e-mail casaeditrice@poligrafo.it www.poligrafo.it ISBN 978-88-9387-050-4


INDICE

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Prefazione Luciano Violante

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Introduzione Marco Filoni

SOGLIE

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PREFAZIONE Luciano Violante

Cento racconti brevi, brevissimi. In ciascun racconto compare qualcosa di noi, delle gioie, delle sopraffazioni, dei soprusi commessi e subìti. Le soglie ci stanno dentro; sono il limite che abbiamo in noi o che si presenta improvviso obbligandoci a scelte senza ponderazione. Nei racconti, scritti da una penna (da una tastiera?) invidiabile si intrecciano realtà e sogni, desideri e paure, solitudini soprattutto, che sono la cifra della nostra modernità. Le soglie sono a volte fili di lino, a volte muri di cemento; a volte timori che ritornano, a volte desideri che non confessiamo. Quando scopriamo che per chi ci sta di fronte saremo solo un amore non nato, nei giorni in cui la vita ci scorre attorno senza memoria, quando dobbiamo interpretare il sorriso della donna o dell’uomo che ci sta di fronte in metropolitana, si elevano soglie che dobbiamo avere il coraggio di superare. Aver individuato un comune denominatore a momenti della vita che ci pongono in bilico tra il fare o il ritirarsi è il pregio maggiore del libro di Alberto Giordani, che fissa le nostre solitudini e ci aiuta ad avere consapevolezza della vita che ci costruiamo o che ci costruiscono addosso.

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INTRODUZIONE Marco Filoni

Neanche nelle abitudini più nostre, [sostare ci è dato; dalle immagini adempiute lo spirito irrompe ad altre inadempiute; laghi ha soltanto l’eterno. R.M. Rilke, A Hölderlin

Una vertigine. Che soltanto l’audacia e la curiosità di chi riesce in un compito arduo permette: abitare le immagini. O, meglio ancora, viaggiare fra di esse. Ma ci vuol coraggio: perché viaggiare fra le immagini significa abdicare a logiche di senso unificatrici, che impongono di percorrere comodamente strade battute anziché avventurarsi in esplorazioni inconsuete. È quello che fa Alberto Giordani in questo libro, inclassificabile secondo le consuete categorie letterarie o saggistiche. Se proprio dovessimo fare un torto al lettore – e all’autore – di voler definire le pagine che seguono, dovremmo forse utilizzare il concetto di “poetica generalizzata”. Ovvero utilizzare il sapere in maniera diagonale, dar credito e seguire un’ipotesi fertile là dove nessuno aveva immaginato potesse esser applicata. Soltanto così può realizzarsi una logica dell’immaginario, una poetica nel senso di costruzione di un universo dove la sintassi generale è stravolta, eppure dotata di una sua coerenza segreta. Questo universo è fatto di meraviglia, di mistero, di natura. Di non detto. Questo è il libro che avete fra le mani. Giordani sceglie di portarci attraverso le soglie. E come ogni viaggio contiene traiettorie molteplici. Sono infinite le possibilità che racchiude. Ma un solo percorso svela al viaggiatore quella lieve ebbrezza, quella vertigine che, unica, abbraccia anche il senso del viaggio: abitare i luoghi labirintici dello spazio e dell’anima. Che è poi una ricerca, un movimento. Quel movimento grazie al quale si può cercar di coprire la distanza fra sé e l’infinito. Un percorso simile

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a quello descritto ne Il viaggio di Baudelaire, «ove il fine si desitua, / e, non essendo in alcun luogo, può essere in ogni luogo». Non solo. Giordani compie anche altro. Oltre che portarci fra le soglie dell’universo che queste pagine costruiscono, ne scandisce anche il ritmo. Con lui il viaggio, il nostro viaggio di lettori, si trasforma in una danza. Un movimento che segna nell’aria tracce invisibili; un balletto che rappresenta ciò che sfugge al tempo e allo spazio. Come le figure disegnate da Nijinsky, il dio della danza. Il più osannato e celebrato ballerino di tutti i tempi, un mito il cui culto continua sino a oggi. Nijinsky, camminando, ha scritto la danza: ha inventato i segni che permettono di rappresentarla, gesto per gesto. E ci ha donato il mistero di quelle lunghe, interminabili sospensioni che erano i suoi involo: il momento in cui, sospeso da terra, fermava tempo e moto, e ritraeva la grazia, dipingeva l’anima che per un attimo sollevava il suo corpo. Come raccontare quegli istanti senza fine? Non vi sono descrizioni, parole che possano far comprendere quel mistero. Soltanto attraverso lo sguardo si poteva coglierlo, partecipare a quell’infinita alterazione che erano i suoi “voli”. Abbiamo delle splendide immagini che ritraggono Nijinsky mentre sembra planare sopra la realtà. Sono fotografie in bianco e nero, scattate a Londra pochi anni prima che il ballerino volasse troppo in alto – sul suo spirito fragile incombeva la follia, che lo avrebbe presto travolto. A quelle immagini è affidato il racconto e la testimonianza del suo mistero e dei suoi voli. Danzava Shéhérazade, la suite ispirata alla protagonista de Le mille e una notte. Shéhérazade «aveva letto i libri, le storie, le gesta dei re antichi, e le notizie dei popoli passati, tanto che si dice avesse raccolto mille libri di storie». Come Shéhérazade è la narratrice di tutte le storie de Le mille e una notte, così Nijinsky è stato il narratore della sua stessa storia, del suo viaggio – un viaggio che non poteva esser raccontato se non in quei voli indefiniti, in quel tempo sospeso in aria, fra un istante e un altro, fra cielo e terra. Un viaggio che ci ha raccontato l’anima. Soltanto le immagini ci possono raccontare questo tipo di viaggio. E come la danza di Nijinsky, anche Giordani sceglie la rappresentazione sincopata dell’universo che mette in scena. Solo così ci permette di partecipare alla vertigine, a quel mistero che sono le

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MARCO FILONI


soglie del nostro universo. Non si può capire, non si può comprendere: è un mistro che, come il volo del ballerino, è rimasto senza spazio e senza tempo. Giordani ne è consapevole: sa di non poter restituire con le parole ciò che è indefinibile. Allora ha scelto l’unico modo per poter assaporare parte della sua esperienza: l’immagine. È lo sguardo a guidare la sua ricerca. E questo impone una riabilitazione dell’occhio nella gerarchia dei sensi. Il solo in grado di cogliere la luce, quell’accecante bagliore che è la scenografia naturale delle soglie di Giordani. Immagini che tradiscono insieme bellezza e inquietudine, specchio di una realtà difficile e allo stesso tempo affascinante. Una danza fra la vita e la morte. E, a leggere queste pagine, a percorrere il viaggio che Giordani ci offre non si può non pensare all’atteggiamento di una Shéhérazade ai piedi del letto del mondo. Ogni storia che raccontava era una notte strappata alla fine.

INTRODUZIONE

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SOGLIE



1.

Rimase davanti alla porta, incerto. Come se passare la soglia potesse rimettere in moto antiche presenze sopite nei secoli, timorosamente taciute dagli avi. Il pensiero gli percorse le ossa. Quel solo passo poteva essergli fatale, e a nulla valevano le rassicuranti blasfemie apprese nei lunghi anni di studio. Poteva essere la fine del sonno dei mostri.

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15.

Prese il bisturi, e con calma iniziò l’incisione. La pelle sottile e bianca si aprì dolcemente, senza sforzo. Un taglio netto, preciso, senza sbavature: due centimetri e mezzo. «Ti ho fatto male?». «No». «Cos’hai provato?». «Avevi ragione: ho provato piacere. Puoi continuare? Vorrei capire fin dove possiamo arrivare». «Dove vuoi che provi, adesso?». «Qui». E si scoprì la spalla. Questa volta la mano tremò un poco, prima di iniziare, per paura di recidere qualche nervo o tendine. Fece un piccolo taglio, di un centimetro, con delicatezza estrema. Ci fu una specie di gemito. «Cos’è stato?». «Non so. Ho sentito che tremavi e questa timidezza del gesto, invece che spaventarmi, mi ha dato un brivido che ha traversato la schiena». «E com’è stato?». «Bellissimo. Ma lo sapevi, no?». «Sì, ma per un attimo ho temuto che non fosse il piacere». «Beh, lo era. Vuoi che andiamo fino in fondo?». «Cosa intendi dire?». «Prova qui». E si aprì la camicia. «Ma lì c’è il cuore. È pericoloso».

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«Lo so. Ma voglio capire quale soglia estrema possiamo esplorare». «È pericoloso. Potresti morire». «Potrei morire, esatto, questo è il rischio. Credi sia questa, la soglia estrema?». «Non lo so». La mano esitava ancora; prese un lungo respiro e, di nuovo, afferrò il bisturi.

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La musica li avviluppò, come un grembo che li escludeva da tutto il mondo attorno. Le espressioni, ormai sciolte da ogni regola sociale, si abbandonarono a una danza senza senso alcuno di coreografia, di grazia gestuale e visuale, ma densa di slancio vitale. I loro arti, se avessero potuto lasciar traccia, avrebbero disegnato un frattale di esistenza sfrenata, tratti interrotti come il volo di certi insetti, proporzioni che mutavano. Perché la loro danza era una metamorfosi del luogo: l’allontanarsi e premersi dei corpi ampliava e costringeva la stanza in squilibri, pendenze, oblique prospettive, gestazioni di spazio inattese, in cui la carne stessa sublimava nell’intreccio dei respiri che volgevano all’alto. Come se l’altro infine non esistesse più, perduto nell’illusorio ricordo dei limiti di pelle che separano, lasciando a vita solo un punto eterno da cui osservare tutto l’infinito dell’altrove, di ciò che loro non erano mai stati, delle vite degli altri, degli strati di atmosfera, dell’inquietante realtà, di guerre che non finiscono, di popoli straziati a morte, del ridere fino a perdere il respiro. Il respiro che ora si faceva pesante; era stato un momento, forse, un’illusione, ma la danza aveva dato vita a ciò che prima non erano mai stati: la prima volta che il loro contemporaneo esistere aveva significato un nuovo «noi».

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La forma piena del seno gli premeva sulla schiena e sentiva i capelli di lei accarezzargli le spalle e il petto. Era avvolto nel suo abbraccio. Eppure non poteva dimenticare le parole di qualche giorno prima, quando per un attimo aveva intuito tutto un rapporto di anni disfarsi in poche frasi; e il terrore che lo aveva colto non era tanto il perdere lei quanto il rimanere solo. Solo alzarsi in casa, mangiare quel che c’è, e sentire di non essere nient’altro che carne umana, con pulsioni e bisogni primari: respirare, bere, fare sesso. E accorgersi che le sue manie di pensatore potevano crollare in un momento per uno slancio fisico, per un impulso di desiderio minimo: perché la pelle era il suo organo più esteso, che più vibrava per sentire il mondo. E che meno poteva controllare. La desolante idea di non avere un rifugio per il suo corpo lo ripiombò nel presente. Sempre preso nell’abbraccio si voltò verso di lei, le accarezzò il volto e la baciò con vigorosa intensità, come a porre il definitivo sigillo del suo possesso.

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Così quel mattino, gli occhi rivolti a un cielo non più grigio, sentì contornarsi nel suo sguardo il vivo desiderio di una gioia. La luce ancora tiepida gli evocò silenzi di tempi lontanissimi, forse mai vissuti, ricordi impossibili come quel vago di una mano che ti sfiora il viso quando ancora nessuna parola ha percorso il fiato. Quando ancora il volto è teso verso l’aperto, senza una propria presenza di memoria. E tutto è caos, allora, una Babele di suoni, un mistero ancora intatto da penetrare come un dardo scagliato per far vibrare le risonanze di una nuova armonia. Così quel mattino, gli occhi rivolti a un cielo non più grigio, avvertì nelle mani i segni ancora vivi di quelle risonanze antiche. Ed iniziò a vibrare, per la prima volta, compreso nel gioco armonico di un’universa sinfonia perenne.

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Ancora non si erano incontrati, eppure era come se le loro anime si fossero già intrecciate, incrociate in un sempre passato in attesa del loro discernimento. Del loro risveglio al presente, a quel presente che li avrebbe abitati, là dove ogni istante si fa occasione, dove si vive esistendo e si esiste vivendo. Perché avevano capito, le anime, che dall’incontro nasceva un nuovo sguardo, nuove mani per toccare il mondo, un corpo intero in più per sentire, e storie da raccontare, ricordi da costruire, una mappa di luoghi da viaggiare, di altre vite da incontrare, cataloghi di carezze vibranti al volo, sigilli di pelle, giorni di pura e goduta noia, lacrime da consolare, risa per invecchiare e farsi tempo che non passa se non nei segni sul volto. Tutto questo le anime lo avevano già capito: loro, forse non ancora. Loro ancora non si erano incontrati.

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I pochi amici che ancora erano accanto parlavano oramai solo al passato e lui rivedeva la sua vita come gloriose vestigia in rovina, tratteggiate da un Piranesi stanco in cui anche il sogno si era affievolito. Come sognare, d’altra parte, quando il sonno non placava le sue notti? Si rivoltava nel letto a turni pressappoco regolari, quasi a dare una disciplina alla sua insonnia. E si sforzava spesso di depensare, come a sfrondare la viva immaginazione da tutto quel superfluo notturno: ma questo sforzo era già pensiero, che produceva ramificazioni che si connettevano all’inscindibile rizoma di tutto ciò che aveva già pensato o peggio (e il sonno sempre più si faceva utopia) a tutto quello che gli era stato pensato addosso; già, il suo minuscolo rizoma era come abbrancato, parte di un pensiero collettivo di millenni, talmente infimo da esser quasi indistinguibile. Eppure non aveva molto altro da consegnare al mondo col respiro: si alzava, ciabattava verso il bagno e quel percorso breve era un prodotto di tale fatica che le poche gocce di pipì sembravano un esito vittorioso. Nel lavarsi le mani si scrutava l’ombra impressa nello specchio: nello sguardo sbiadito fissava i segni dell’impietoso rizoma del tempo.

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Dal fondo del salone, in una stanza buia, sentì che qualcuno lo chiamava per nome. Si fece strada tra gli invitati e raggiunse la stanza, cercando per istinto l’interruttore. «Lascia perdere», gli disse la voce, «hai davvero bisogno di vedermi?». Ebbe un soprassalto, l’aveva ritrovato: migliaia di chilometri, nomi cambiati, vite inventate, eppure di nuovo eccola lì, davanti a lui. Sentì la canna della pistola puntata dritta sul suo cuore e immediato lo sparo. Ecco, da quel momento in poi davvero non avrebbe saputo dire cosa fosse successo, in quella stanza; se gli invitati fossero scappati, se la polizia fosse arrivata subito o più tardi, davvero non lo sapeva. Vide un lucore intensissimo e si trovò a volare sopra una foresta; dal fondo nascosto della terra sentì un soffocato rumore, come un sobbollire di magma. Alzò lo sguardo e gli uccelli venivano verso lui cantando; gli sembrò di riconoscere la melodia: era una nenia che sua nonna gli cantava quando gli cadevano i denti. Bel bambino, bel bambino, tutto passa, tutto accade, come questo tuo dentino ogni cosa al mondo cade. E se i doni del destino non son sempre rose e giade sempre, per il tuo cammino, si apriranno nuove strade.

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L’acerba mano teneva il dito della donna per condurla nei meandri della villa. I cumuli di oggetti erano accatastati senza un criterio che non fosse la data di arrivo e di subitaneo abbandono alla polvere. In qualche modo il possesso era il principio necessario e sufficiente all’obliata presenza che non aveva mai conosciuto alcun catalogo, alcun minimo registro per un futuro archivio, nemmeno un’ambizione di camera delle meraviglie. Il bimbo marciava veloce, e ad ogni domanda della donna rispondeva semplicemente volgendo lo sguardo verso di lei e sussurrando «non lo so». Pur se era nato lì, quell’imponente distesa di cose era stata un banale paesaggio quotidiano, un percorso di cui conoscere i passaggi, e i cumuli semplici intralci che impedivano un tratto lineare. Il disinteresse totale era un elemento imprescindibile della sua educazione: nella sua giovane vita si davano obiettivi, ambizioni; domande, mai. Perché suo padre diceva che «le domande, ricordalo figliolo, son dei deboli, di chi crede ci sia un’alternativa, di chi non ha capito la sua strada, di chi cerca altrove perché è già perduto. Tu non farlo mai, figliolo, sii sempre un forte». La donna capiva, dunque, nello sguardo del bimbo, quel vago di rimprovero e di commiserazione ad ogni proprio accenno di domanda. D’un tratto il bimbo si fermò, di fronte ad una statua che aveva l’aspetto di un totem di chissà quale civiltà. Sembrava scosso: «avevo dimenticato che era qui, non avrei dovuto venire». «Perché?», gli chiese la donna. «Guardalo bene», rispose il bimbo, «sembra che abbia gli occhi. Non ti sembra che ti scruti e che ti interroghi chiedendoti chi sei?». 84

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62.

Da quando aveva intrapreso quel viaggio era la prima volta che sentiva il desiderio di fermarsi: sembrava che il paesaggio tutto attorno si conformasse a suscitarle l’idea di casa. Perché per la prima volta la mescolanza di suoni, persone, pensieri, visioni la colse facendole percepire con violenza la contemporaneità delle cose. C’era, accumulato lì in potenza, tutto ciò che aveva visto altrove; una sorta di finestra che permetteva di spiare in protezione tutto il resto. Questo le diede il senso di casa: questo sentirsi per la prima volta distaccata dalla sua incessante ricerca; e non perché avesse trovato qualcosa, ma perché la ricerca è per sua natura infinita. Ecco, voleva soltanto distanziarsi per oziare un po’, e scrivere forse: mettere un poco di criterio nel caotico fluire dei ricordi. Per una settimana? Per il resto della vita? Questo ancora non l’aveva deciso: ma, serena, sapeva di essere ormai pronta a intuire il tempo delle cose.

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Finito di stampare nel mese di maggio 2018 per conto della casa editrice Il Poligrafo srl presso Q&B Grafiche di Mestrino (Padova)



graphie

testi, modelli, immagini della scrittura femminile

1.

Contessa Lara Novelle toscane a cura di Carlo Caporossi

2.

M’ama? Mamme, madri, matrigne oppure no a cura di Annalisa Bruni, Saveria Chemotti, Antonella Cilento

3.

Neera Teresa a cura di Antonia Arslan

4.

Caterina Percoto Novelle scelte a cura di Elisabetta Feruglio prefazione di Antonia Arslan

5.

Marchesa Colombi Novelle scelte a cura e con prefazione di Carlo Caporossi premessa di Antonia Arslan

6.

Antonietta Giacomelli Vigilie (1914-1918)


poligrafie

voci, storie, narrazioni

1.

Mariuccia Beghetto Passi di donne prefazione di Erminia Macola

2.

Emilio Cannarsi Il cerchio di gesso e altri racconti presentazione di Aldo Comello

3.

Piero Bertoli La grande avventura 1915 - 1918. Tre anni di guerra con i bersaglieri, con gli alpini e negli ospedali da campo

4.

Maria Serena Alborghetti Sulle piste d’Africa

5.

Giovanni Magnano di San Lio Il deserto di Giobbe

6.

Luigi Migliorini La mia lucida follia

7.

Maria Serena Alborghetti Riflessi in uno specchio. Voci di donne da un paese in guerra

8.

Riccarda Pagnozzato Ore immense. L’arte la mia vita

9.

Massimiliano Colucci La mela e altri peccati poco originali

10. Giovanni Spitale Hestia 11. Alberto Giordani Soglie 11. Spomenka Š timec Paesaggio con ombre in un interno





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