Echi albertiani. Chiese a navata unica nella cultura architettonica della Lombardia sforzesca

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Jessica Gritti ECHI ALBERTIANI

Jessica Gritti, laureata in Lettere Moderne e specializzata in Storia dell’arte (Università Cattolica, Milano), è dottore di ricerca in Storia dell’architettura e dell’urbanistica (Università Iuav di Venezia, ) e svolge attività di ricerca e didattica presso diverse università, tra cui il Politecnico di Milano e l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Le sue ricerche sono rivolte alla storia dell’architettura, con particolare attenzione al periodo fra XV e XVI secolo. Ha pubblicato diversi contributi sull’architettura cremonese del Quattrocento, i modelli dall’antico, la plastica decorativa e i disegni di architettura; dal  collabora alla realizzazione del Corpus dei disegni di architettura del Duomo di Milano.

, e

in copertina Cremona, chiesa di San Sigismondo, angolo di incrocio tra la navata e lo pseudotransetto

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ECHI ALBERTIANI Chiese a navata unica nella cultura architettonica della Lombardia sforzesca

ISBN ----

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Jessica Gritti

I --U --A --V ILPOLIGRAFO

La chiesa di Sant’Andrea di Mantova ha avuto un ruolo fondamentale nella diffusione in area lombarda del linguaggio archittettonico di Leon Battista Alberti, divenendo polo di significativa attrazione culturale per i territori limitrofi. Un riconoscimento unilaterale del magistero albertiano rischia tuttavia di occultare l’intrinseca ricchezza della cultura lombarda, nell’ambito della quale si stratificarono novità di rilievo già nel corso del XV secolo. L’analisi di un piccolo gruppo di chiese edificate in territorio lombardo tra la seconda metà del XV secolo e il primo decennio del Cinquecento – lette in passato come testimonianze esemplari della “fortuna” del Sant’Andrea di Mantova, in virtù dell’impianto comune a navata unica – permette di riconoscere un linguaggio aperto a suggestioni e innovazioni eterogenee, consentendo una più ampia riflessione sul carattere variegato della cultura architettonica del ducato sforzesco. Le chiese di San Sigismondo di Cremona, di Santa Maria Assunta di Maguzzano, di Santa Maria delle Grazie di Soncino e di Santa Maria delle Grazie di Castelnuovo Fogliani, edifici monastici situati al di fuori dei centri maggiori, sono qui contestualizzate e analizzate all’interno del panorama architettonico della loro epoca, guardando alla varietà di soluzioni e modelli di riferimento, al rapporto con la tradizione autoctona e con quelle istanze ereditate da Filarete, Alberti e Bramante che rappresentano una componente costitutiva del linguaggio architettonico del secondo Quattrocento lombardo.



saggi iuav collana di ateneo 2



Jessica Gritti

ECHI ALBERTIANI Chiese a navata unica nella cultura architettonica della Lombardia sforzesca prefazione di Richard Schofield

ilPOLIGRAFO


Comitato scientifico per le iniziative editoriali dell’Università Iuav di Venezia Guido Zucconi (presidente), Renato Bocchi, Donatella Calabi Serena Maffioletti, Raimonda Riccini, Davide Rocchesso, Luciano Vettoretto I volumi della collana Iuav - Il Poligrafo sono finanziati o cofinanziati dall’Ateneo

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indice

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Prefazione Richard Schofield

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Premessa Sezione Prima

le chiese a navata unica in lombardia tra filarete alberti e bramante 23 24

31 41 45 45 75 84 95

i. ante litteram: san sigismondo di cremona e le prime occorrenze lombarde 1. San Sigismondo tra moduli e modelli 2. Il presunto “carattere albertiano” della pianta di San Sigismondo 3. Radici di una tradizione: le chiese lombarde ad archi trasversi

ii. filarete e la chiesa degli eremiti di san girolamo 1. Una chiesa per la Signora della Sforzinda 2. Cercando «maestro Antonio da Fiorenza» a Bergamo e a Cremona 3. Filarete e i modelli fiorentini

iii. la «maniera antica», l’alzato alla romana e il problema delle coperture voltate

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1. Del San Sigismondo di Cremona e dell’alzato alla romana

115 123

2. Della volta unghiata e della sua diffusione in Lombardia 3. Accenno a due casi cittadini: la Madonna di San Celso

in Lombardia

131 146

e il Monastero Maggiore di Milano 4. Senza ordine: declinazioni localistiche della navata unica con cappelle 5. Il coro delle monache di Santa Giulia di Brescia, archetipo o derivazione?


157 157 164 172 189

iv. l’«usanza moderna» e i principi di conformit 1. Resistenze tardogotiche nell’alzato esterno di San Sigismondo 2. Il problema del tiburio quadrato 3. La facciata “bramantesca”, prototipo e modello

explicit cos  (se vi pare) Sezione Seconda

casi esemplari 197 197 204 209 228

v. san sigismondo a cremona 1. 2. 3. 4.

Gli anni della fondazione Stasi e ripresa dei lavori negli anni di Ludovico Maria Sforza 1500-1511: dal Libro dei conti del monastero Dal cantiere al progetto

233 233 242 246

vi. santa maria assunta a maguzzano

255 255

vii. santa maria delle grazie a soncino

269

273 276

1. Dalle origini alla Congregazione di santa Giustina 2. La costruzione della nuova chiesa 3. Teofilo da Cremona e il «sacro suo architecto» 1. La cappella delle Grazie e la nascita del monastero 2. La chiesa delle Grazie nei secoli 3. I carmelitani, il duca, gli Stampa 4. Un caso esemplare per la plastica architettonica all’antica all’inizio del Cinquecento

283 viii. santa maria delle grazie a castelnuovo fogliani 283 1. La fondazione del monastero e alcuni indizi 295 301 314 320

2. 3. 4. 5.

per una fase progettuale La costruzione dell’edificio ecclesiastico Una particolarità: l’impianto presbiteriale triconco I Fogliani tra Milano e Castelnuovo Un’icona della grafica lombarda: il problema del foglio MI 1105 del Cabinet des dessins du Louvre


appendice 337 385

documenti bibliografia

439 441

Referenze fotografiche Indice dei nomi



prefazione Richard Schofield

In questo saggio acutissimo e molto documentato Jessica Gritti analizza una serie di chiese a navata unica con copertura voltata e cappelle laterali che, secondo la critica, rifletterebbero la struttura di Sant’Andrea a Mantova. La chiesa di San Sigismondo a Cremona, fondazione prediletta di Bianca Maria Visconti, è stata costruita in due tempi: nella prima fase (dal 1463) è prevista una pianta tradizionale ad quadratum, ma non è chiaro se già a navata unica o forse a tre navate, mentre nella seconda, databile agli anni novanta del XV secolo, avviene un sostanziale cambiamento almeno nell’elevato, con una volta a botte unghiata e un alzato alla romana (a doppio passo) in cui gli elementi tradizionali si incontrano con quelli forse albertiani. Non è esclusa l’ipotesi che sia Filarete a progettare la prima versione della chiesa negli anni sessanta. Parimenti, che la conformazione dell’alzato della chiesa tragga ispirazione esclusivamente da Alberti non è sicuro, poiché già nel XV secolo esisteva una ricca tradizione di chiese ad aula unica, archi trasversali a sesto acuto e cappelle laterali; inoltre, Filarete aveva accuratamente studiato tali forme. Nel libro XVI del suo trattato egli descrive una chiesa, della quale aveva discusso con Bianca Maria Visconti e Francesco Sforza, dedicata a san Girolamo – il cui ordine gestiva anche la chiesa di San Sigismondo – con impianto longitudinale, navata unica, capelle laterali e copertura voltata, sostanzialmente una rivisitazione del suo progetto per il Duomo di Bergamo (1457): entrambe le chiese presentano, in particolare, un matroneo, elemento nuovo nel Quattrocento lombardo. Nel 1462 i Rettori della città di Bergamo chiedono


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alla Duchessa che Filarete “disegni” un monastero per i frati di San Gottardo di Bergamo; i lavori del complesso iniziano nel 1476 e nel 1485 viene menzionata la costruzione della chiesa, il cui completamento, nel 1506, si deve a Pietro Isabello, sempre sulla base di un modello preesistente. La chiesa non esiste più ma, grazie agli studi dell’autrice, ora sappiamo che, prima dell’inizio della costruzione di Sant’Andrea a Mantova, esistevano due esempi in corso di realizzazione di chiese filaretiane – il Duomo di Bergamo e San Gottardo – con navata unica voltata, cappelle laterali e matroneo; a questi due modelli si può aggiungere, ipoteticamente, la prima versione di San Sigismondo, molto amata da Bianca Maria Visconti, la quale forse ne affida il disegno a Filarete. La struttura della citata chiesa descritta nel libro XVI del trattato somiglia inoltre molto a quella della Badia fiesolana (dal 1461), menzionata ben due volte da Filarete: incrociando i frammenti di informazioni a nostra disposizione, quindi, non è esclusa l’ipotesi che Filarete conoscesse i progetti per la Badia. Tuttavia, sembra più probabile che l’alzato alla romana e le coperture voltate di San Sigismondo (post 1488) siano caratterizzati da un linguaggio riconducibile piuttosto a Santa Maria presso San Satiro e alla stampa Prevedari, che a Sant’Andrea a Mantova. Inoltre, la volta unghiata di sezione semicircolare – unico esempio dell’epoca nella navata grande di una chiesa – può essere vista come un adattamento di modelli albertiani e bramanteschi, ma la forma era già diffusa nell’architettura domestica e nei refettori, e particolarmente negli spazi costruiti sotto la supervisione di Benedetto Ferrini nel Castello Sforzesco di Milano, anche se tutti questi esempi presentano archi ribassati. L’influenza esclusiva di Alberti non è scontata neanche nei casi di altre tre chiese a navata unica e cappelle laterali: Santa Maria delle Grazie di Soncino, Santa Maria Assunta di Maguzzano e Santa Maria delle Grazie di Castelnuovo Fogliani che dipendono, invece, da modelli tradizionali preesistenti contraddistinti da un’aula affiancata da cappelle laterali, poco profonde, ricavate tra i setti murari degli arconi. Malgrado la presenza di elementi strutturali e decorativi ripresi da Bramante o da Alberti (volte a botte di sezione semicircolare, trabeazioni continue senza aggetti),


prefazione

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colpisce il fatto che queste chiese non presentino il partito alla romana, in quanto manca l’ordine maggiore. Lo straordinario tiburio quadrato della chiesa di San Sigismondo riflette probabilmente idee espresse da Bramante, nel 1487 circa, rispetto al tiburio del Duomo di Milano. La sua facciata, invece, pur in una versione semplificata, si inserisce nel contesto di una lunga serie di esempi con impostazione analoga, come la Sagra di Carpi, il modello del Duomo di Vigevano e la parrocchiale di Roccaverano. Come San Sigismondo, queste chiese presentano in facciata ordini di paraste che inquadrano sia la parte centrale aperta da un grande oculo e coronata da un timpano, sia quelle laterali, più basse, concluse da semitimpani. Di particolare interesse, la scoperta che Giovanni Maria Platina aveva già illustrato una facciata del tipo descritto in una delle tarsie degli stalli nel Duomo di Cremona prima del 1491. Il tema, qui solo sintetizzato da Jessica Gritti, che ipotizza, in modo convincente, che questo tipo di facciata sia stato inventato da Bramante e introdotto nei suoi progetti per Santa Maria presso San Satiro – un’idea finora non considerata dalla critica –, è stato recentemente discusso dall’autrice nell’ambito della conferenza annuale dell’Association of Art Historians a Reading (aprile 2013) e sarà oggetto di una prossima pubblicazione. L’esauriente catalogo redatto nel presente volume avvia una serie di discussioni ricche di informazioni e di idee che aprono a ulteriori approfondimenti: per esempio, sui capitelli utilizzati nella chiesa di San Sigismondo e altrove, sulla carriera di Teofilo Personello, presidente della Congregazione di santa Giustina, su quella dell’architetto don Panuzio da Voghera, e sulla ricca decorazione plastica nella chiesa di Soncino. In relazione alla chiesa di Santa Maria delle Grazie di Castelnuovo Fogliani, invece, l’autrice discute l’uso dell’impianto triconco nel Rinascimento lombardo e dei possibili contatti intercorsi tra i committenti dell’edificio ecclesiastico e Cesare Cesariano. Di particolare interesse, la penetrante disamina sul celebre disegno del Louvre, attraverso la quale l’autrice demolisce una serie di preconcetti – che fosse un progetto per la chiesa di Castelnuovo, o per Santa Maria presso San Satiro o Santa Maria delle Grazie in Milano –, mentre sottolinea il fatto


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che il progettista della chiesa realmente esistente potrebbe invece essere un architetto scelto dalla Congregazione cassinese. La qualità del lavoro di Jessica Gritti, pieno di novità su argomenti di indiscusso rilievo, nasce da un’approfondita conoscenza delle fonti archivistiche (un’arte che, ahimé, sta oramai morendo), da una grande padronanza dell’architettura medievale e rinascimentale del Quattrocento, in Lombardia e altrove, e soprattutto dalla capacità di dirimere con sicurezza le intricate problematiche conesse allo studio dei manoscritti filaretiani.


Sezione Prima

LE CHIESE A NAVATA UNICA IN LOMBARDIA TRA FILARETE ALBERTI E BRAMANTE



i. ante litteram: san sigismondo di cremona e le prime occorrenze lombarde

La chiesa di San Sigismondo a Cremona (figg. 1-4) rappresenta un caso singolare nella produzione architettonica del XV secolo, poiché può oggi offrirsi quale interessante tramite comparativo per l’individuazione dell’origine e della prima diffusione di un tipo moderno di chiesa a navata unica voltata, con cappelle ai lati, in area lombarda1, frequentemente associata al cantiere di Sant’Andrea di Mantova. Rilevante è soprattutto la riflessione sulle due fasi di costruzione della chiesa cremonese, individuabili attraverso l’analisi delle fonti, ovvero una prima campagna di lavori a ridosso della posa della prima pietra nel 1463 (fino al 1468, anno della morte della duchessa Bianca Maria Visconti), quindi precedente alla fondazione di Sant’Andrea, e una seconda fase, collocabile invece negli anni Novanta del XV secolo e conclusasi entro il primo decennio del Cinquecento, in un momento nel quale il cantiere mantovano aveva già posto in opera la grande navata voltata a botte. Il cantiere albertiano è stato visto nei rari studi sul tema come un momento illuminante per il recupero di questa tipologia planimetrica e insieme l’impulso per la sua diffusione in tutta

1 Per la ricostruzione delle vicende edilizie della chiesa di San Sigismondo, gli interventi dei secoli successivi, la documentazione e la storiografia relativa, si veda la sezione seconda, pp. 197-232. La chiesa si presenta oggi sostanzialmente nelle sue forme originarie, se si eccettuano alcuni interventi che hanno interessato il tetto dell’edificio, per i quali esiste tuttora documentazione presso l’Archivio di Stato di Milano, cfr. pp. 208-209 nota 42.


sezione prima

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l’area lombarda2. Nel caso di San Sigismondo, infatti, una sorta di analogia con il cantiere mantovano era già stata evidenziata da Arnaldo Bruschi nel 1969, ma questo suo “carattere albertiano”, che la vorrebbe come testimone e filtro delle nuove idee di Leon Battista Alberti in Lombardia, non è stato poi più messo in discussione e, soprattutto, non sono stati oggetto di un’attenta analisi le conseguenze che questo legame potrebbe implicare per la cultura architettonica lombarda, anche in riferimento a una valutazione, per contro, più precisa dei tanto abusati “lasciti bramanteschi” nel territorio del ducato sforzesco. Proprio l’analisi di questa architettura e in seconda istanza di alcuni altri edifici che presentano problematiche affini, corredata dallo sviluppo dei temi architettonici in essi contenuti e dal loro inserimento nel panorama architettonico del tempo, potrebbe dunque contribuire a informarci sulla cultura che si è generata da questi contesti, sulle sue radici, sui suoi sviluppi, sui modelli di riferimento e sulle declinazioni nel territorio, anche rispetto alla capitale del ducato. 1. San Sigismondo tra moduli e modelli Comprendere il sostrato culturale e i modelli di riferimento di questi edifici significa anzitutto proporre una lettura ragionata dei loro elementi costitutivi a partire dagli impianti planimetrici. La chiesa di San Sigismondo di Cremona, a questo proposito, mostra una pianta già a prima vista dal carattere spiccatamente modulare, sebbene non sempre sistematicamente adottato (fig. 2). La navata centrale dell’edificio si compone, infatti, di tre campate quadrate (24 braccia cremonesi da fabbrica3), che sono affiancate

2 Si vedano in partic. i contributi sul tema di Carlo Perogalli (Perogalli 1974, pp. 301-306), Gabriele Morolli (Morolli 2006, pp. 275-280), ma anche la tradizionale lettura critica dell’edificio proposta da Arnaldo Bruschi (Bruschi 1969, p. 133 nota 26 e p. 197 nota 43) e ripresa poi anche da Maria Luisa Ferrari (Ferrari 1974b, p. 29). 3 Il calcolo, con valori presi in luce, è stato eseguito utilizzando le braccia milanesi (0,59 m) e quelle cremonesi da fabbrica (piede agrimensorio pari a circa 0,48 m) evidenziando l’utilizzo, seppure per un cantiere ducale, dell’unità di misura locale cremonese, poiché i calcoli danno risultati interi solo in quel caso.


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da sei cappelle per ogni lato, anch’esse quadrate e tutte della medesima dimensione (circa 12 braccia4), corrispondente a un quarto del modulo maggiore: esse si pongono accanto alla navata in numero di due per ogni campata e sono tutte intercomunicanti. Il modulo principale si ripete in lunghezza al termine della navata, venendo a configurare il centro del presbiterio e l’invaso della volta centrale, affiancato da due corti bracci di transetto rettangolari e corrispondenti ognuno alla metà circa del modulo iniziale (12 braccia per 24). Questi ultimi raggiungono il filo delle cappelle della navata, evitando di sporgere ai lati dell’edificio (elemento che avrebbe conferito alla pianta un aspetto più marcatamente cruciforme, tuttavia conservatosi parzialmente nella percezione spaziale interna, a causa della grande differenza dimensionale tra la navata e il transetto da un lato e, invece, le basse cappelle dall’altro). Il presbiterio confluisce in una profonda abside poligonale anticipata da uno spazio rettangolare, tutto compreso nell’area di un modulo. Verso sud, all’incrocio tra l’abside e il corto transetto, si accosta uno spazio quadrangolare lievemente più piccolo delle cappelle, che rappresenta la sacrestia. Al fianco destro dell’edificio e alla sua abside sono accostati il chiostro e alcuni ambienti appartenenti al monastero. Il carattere modulare della pianta, basato sul quadrato, ci ricorda il tipo ad quadratum dell’architettura lombarda di tradizione medievale, della quale sono noti molti esempi, frutto di una pratica costruttiva consolidata, che consentiva, una volta stabilito un modulo di base, di svilupparlo nei suoi multipli e sottomultipli in modo piuttosto semplice. Questo legame con la tradizione locale è poi accentuato dal doppio passo mantenuto dalle cappelle laterali e tipico dell’architettura tardogotica, dove però usualmente alla navata centrale si affiancavano le campate più piccole delle navate laterali, mentre nel nostro caso vi sono cappelle (quasi si

4 Poiché le cappelle corrispondono a due a due a ogni campata della navata centrale, la loro lunghezza in luce non deve tenere conto del muro divisorio intermedio (questa è tuttavia l’unica deroga che si è resa necessaria, mentre tutte le altre corrispondenze modulari sono rese con misurazione in luce).


sezione prima

1. Cremona, San Sigismondo, veduta aerea del complesso 2. Cremona, San Sigismondo, pianta del complesso monastico 3. Cremona, San Sigismondo, sezione longitudinale

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sezione prima

4. Cremona, San Sigismondo, interno della navata

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fosse operata una semplice suddivisione delle campate delle navate minori per mezzo di setti murari immessi trasversalmente). Solo per citarne gli esempi più antichi, comunemente annoverati per questo tipo di modularità, possiamo ricordare l’abbazia di Chiaravalle milanese5, nonché diversi casi tra le fabbriche trecentesche, come le chiese di San Francesco a Lodi6 e a Cremona (oggi distrutta)7 e la cattedrale lodigiana8, nella produzione tardogotica e quattrocentesca si possono invece proporre gli autorevoli esempi della Certosa di Pavia9, Santa Maria del Carmine di Milano10 e di Pavia11 (quest’ultima ritenuta un perfetto esempio del tipo

5 Fondata da San Bernardo di Chiaravalle nel 1134-1135, sebbene l’edificio attuale sia però più tardo, iniziato probabilmente tra il 1150 e il 1160 e consacrato nel 1221 (la torre nolare è trecentesca). Cfr. Romanini 1964, pp. 19-26; Reggiori 1970; Cassanelli 2002, pp. 39-55. Per gli edifici citati per confronto sarà d’ora in avanti segnalata in nota solo una bibliografia sintetica di riferimento. 6 La chiesa fu iniziata per impulso del vescovo Antonio Fissiraga intorno al 1280, ma i lavori furono portati avanti molto lentamente e si conclusero con la facciata lasciata incompleta nel corso del Trecento. Cfr. Motta, Novasconi 1958; Romanini 1964, pp. 110-114; Cassanelli 2002, pp. 71-79. 7 Oggi in gran parte scomparsa, ne restano alcune tracce incastonate all’interno di edifici successivi, che ne hanno riutilizzato alcune parti, sono a questo proposito ben visibili alcuni tratti delle pareti della navata centrale e le volte costolonate e archiacute di quest’ultima, in locali un tempo adibiti a ospedale pubblico. Cfr. Romanini 1964, pp. 108-110; Visioli 2001, pp. 22-27; Visioli 2008, p. 285. 8 Eretta tra la metà del XII e la metà del XIII secolo, è uno dei maggiori esempi con tre navate aventi moduli quadrangolari irregolari, con due campate sulle navate minori corrispondenti a ogni campata di quella maggiore. Cfr. Romanini 1964, pp. 165-169; Novasconi 1966; Cassanelli 2002, pp. 291-294. 9 Per le articolate vicende della certosa pavese si veda l’ancora esaustivo testo La certosa di Pavia, 1968; e poi anche Albertini Ottolenghi 1996, pp. 579-670. Sulla Certosa si veda anche Bentivoglio Ravasio, Lodi, Mapelli 2008. 10 La chiesa attuale di Santa Maria del Carmine di Milano non è la prima chiesa carmelitana milanese, situata nella zona del Castello di Porta Giovia; l’edificio attuale fu iniziato per volere del duca Gian Galeazzo Visconti nell’anno 1400, su progetti di Bernardo da Venezia fatti arrivare da Pavia. Una sintesi in Fiorio 1985, pp. 116-118; Cassanelli 2002, pp. 237-238. 11 Una delle chiese erette su progetto di Bernardo da Venezia, iniziata probabilmente contemporaneamente al castello di Pavia intorno al 1370, conobbe poi un’interruzione dei lavori nel 1397, quando Bernardo fu dirottato verso il cantiere della Certosa pavese. I lavori ripresero nel 1432 e terminarono nel 1461 con la costruzione della facciata. Cfr. Romanini 1964, pp. 419-425; Ciceri 1996, pp. 480-486; Cassanelli 2002, pp. 299-301.


sezione prima

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ad quadratum anche per l’alzato), la chiesa collegiata di Castiglione Olona12 e non ultima la chiesa pavese di San Salvatore13. Anche l’inserimento di cappelle ai lati delle navate non è una novità nel panorama architettonico lombardo del XV secolo: nel corso del Quattrocento, infatti, è frequente l’affiancamento alle navate minori di piccoli sacelli gentilizi, prevalentemente quadrangolari e rispettanti la modularità dell’insieme. Tra questi esempi si possono citare la stessa Santa Maria del Carmine di Pavia14 o la parrocchiale dei Santi Fermo e Rustico di Caravaggio15, mentre a Milano questo sistema si riscontra anche nelle maggiori fabbriche solariane, come mostrano le chiese di Santa Maria delle Grazie16 e di San Pietro in Gessate17 (nella quale le cappelle hanno 12

La chiesa collegiata di Castiglione Olona, dedicata alla Beata Vergine Maria e ai Santi Stefano e Lorenzo, fu commissionata dal Cardinal Branda Castiglioni a Giovanni, Pietro e Alberto Solari e iniziata sull’area di un edificio preesistente all’interno del castello del borgo di Castiglione Olona tra gli anni venti e trenta del XV secolo. Per una sintesi delle vicende costruttive e dei restauri cfr. Pianazza, Bertolotti 2003. 13 La chiesa di San Salvatore di Pavia, che presenta diverse affinità con quella di San Sigismondo, conosce una vicenda storica per certi aspetti a questa molto simile, si tratta infatti della rifondazione di un monastero benedettino più antico a partire dal 1467, quando entrò nella Congregazione di santa Giustina di Padova. I documenti mostrano che i monaci avevano iniziato a ricostruire il monastero già da quella data, mentre si dovette attendere il 1497 per il rinnovamento dell’edificio ecclesiastico, il cui altare fu posto in opera nel 1504 e i cui lavori si conclusero nel 1511. Cfr. Romanini 1962b, pp. 213-222; Visioli 1996, pp. 688-689. 14 Cfr. p. 29 nota 11. 15 La parrocchiale di Caravaggio, costruita al principio del XV secolo, è costituita da tre navate separate da pilastri e affiancate da cappelle quadrangolari, mentre termina in un profondo coro poligonale. Per la parrocchiale di Caravaggio si veda Romanini 1964, pp. 496-497. 16 La chiesa di Santa Maria delle Grazie di Milano, prima dell’inserimento a partire dal 1492 della grande tribuna bramantesca, che comportò la distruzione della parte terminale dell’edificio, si presentava come la tipica chiesa di tipo “solariano”, con tre navate e cappelle quadrangolari ai lati. La fondazione del monastero risale al 1462 e la costruzione della chiesa inizia a partire dall’anno successivo (posa della prima pietra il 10 settembre 1463) e doveva essere quasi conclusa nel 1480. Per la chiesa di Santa Maria delle Grazie si veda Bruschi 1983, pp. 35-89; e anche Romanini 1964, pp. 512-513; Fiorio 1985, pp. 83-100; Schofield 1986, pp. 41-58; Patetta 1987, pp. 156-172. 17 Il cantiere di San Pietro in Gessate iniziò probabilmente sotto il priorato di Giustino da Montefeltro tra il 1458 e il 1461, anche grazie alle donazioni dei


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però profilo poligonale) ma si potrebbero del resto contare numerosi altri esempi. 2.

Il presunto “carattere albertiano” della pianta di San Sigismondo

Sebbene la pianta di San Sigismondo parrebbe quindi spiegabile in continuità con la tradizione modulare locale, semmai dotata di qualche innovazione, la scelta dell’unica navata, in luogo delle tradizionali tre, deve imporci una riflessione. Come già ricordato, la chiesa di San Sigismondo è stata talora inserita in un filone di diffusione della pianta di Sant’Andrea di Mantova18: secondo questa linea interpretativa il cantiere avviato nel 1472 sotto la direzione di Luca Fancelli (fig. 5) avrebbe rappresentato un modello di tale portata, sia in termini di innovazioni architettoniche, sia di prestigio dell’opera, da influenzare quasi immediatamente il panorama architettonico coevo. Se, come appare piuttosto chiaro, a fronte di una data di fondazione al 1463, la conclusione dei lavori a San Sigismondo si deve tuttavia agli anni novanta del XV secolo, questa rappresenterebbe probabilmente, dopo

banchieri fiorentini Pigello e Acerrito Portinari, che finanziarono la costruzione dell’abside e del coro (oggi modificato), e fu probabilmente portata a conclusione intorno al 1476. Per San Pietro in Gessate cfr. Romanini 1964, p. 513; Fiorio 1985, pp. 265-272; Patetta 1987, pp. 145-152. 18 Per la bibliografia essenziale sulla basilica di Sant’Andrea si citano i tradizionali Borsi 1973b, pp. 141-187; Tavernor 1998, pp. 159-187 e gli atti del convegno tenutosi a Mantova nel 1472 nell’occasione del cinquecentenario della rifondazione della basilica, Il Sant’Andrea di Mantova e Leon Battista Alberti, 1974. Molti gli studi effettuati in anni recenti in occasione dei restauri per opera di Livio Volpi, cfr. Volpi Ghirardini 1994, pp. 224-241; Volpi Ghirardini 2001, pp. 219-238; Volpi Ghirardini 2002, pp. 279-296; e da ultimi il catalogo della mostra tenuta a Mantova nel 2007, Bulgarelli, Calzona, Ceriana, Fiore 2006, gli atti del convegno Leon Battista Alberti. Architetture e committenti, promosso nel corso delle celebrazioni per il sesto centenario della nascita dell’Alberti nel 2004, Calzona, Connors, Fiore, Vasoli 2009, II, pp. 647-775 (sezione su Mantova) e Bulgarelli 2008, in partic. pp. 117-161, 163-211. Si citano altresì gli studi effettuati con una certa assiduità in occasione di mostre e convegni tra i quali Rykwert, Engel 1994; Leon Battista Alberti. Architettura e cultura 1999; Chiavoni, Ferlisi, Grassi 2001; Calzona, Fiore, Tenenti, Vasoli 2007; Fiore 2005.


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27. Cremona, San Sigismondo, pilastro della navata 28. Cremona, San Sigismondo, part. dell’ordine minore contratto della navata


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29. Cremona, San Sigismondo, angolo di incrocio tra la navata e lo pseudotransetto


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30. Cremona, San Sigismondo, abside 31. Cremona, San Sigismondo, paraste “a libro” dell’abside


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San Satiro rispetto a Sant’Andrea13. Sul binomio-conflitto tra forma e struttura si interroga anche Christof Thoenes14, concentrandosi in particolare proprio sull’analisi del tipo quattrocentesco dell’alzato alla romana e indicando la sostanziale differenza tra il tipo di architettura muraria antica e invece l’«imitazione rinascimentale», che nella maggior parte dei casi simula soltanto visivamente l’idea della massa, celando invece un organismo architettonico di tipo scheletrico, vestendo quindi di antichità una struttura sostanzialmente moderna, basata su sistemi di piedritti e archi. Thoenes in particolare evidenzia come nel progetto per San Pietro Bramante tenda a simulare appunto in modo illusivo una struttura di masse che nasconde invece un esile involucro, che perde quindi quel carattere tettonico che possedevano invece gli edifici del Bramante milanese, dove, come abbiamo visto, le trame strutturali dell’edificio erano dichiarate anche a livello formale. L’applicazione in linea teorica di queste riflessioni all’alzato della navata del San Sigismondo porterebbe a pensare che in questo caso vi sia un’adesione all’uso di Bramante a Milano, poiché anche qui, come a Santa Maria presso San Satiro, abbiamo l’incastro di due ordini+arco di dimensioni differenti, che si installano sull’alzato dell’edificio in modo da evidenziare una corrispondenza biunivoca tra struttura e disegno. Secondo Christoph Luitpold Frommel15, la tendenza di Bramante ad aggettare la trabeazione in corrispondenza di tutte le paraste in Santa Maria presso San Satiro e il congiungimento con archi traversali nella volta sarebbe da ricondurre proprio al sistema delle volte gotiche16, connesse

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Bruschi 2001, pp. 351-370. Se la proposta tradizionale del 1969 poteva sembrare in qualche caso rischiosa perché interpretabile in senso evolutivo da Brunelleschi a Bramante, la più recente individuazione di una così evidente dipendenza delle opere di Bramante da Alberti ci sembra parimenti troppo sbilanciata in senso opposto, anche in considerazione del fatto che entrambe sorvolano comunque sul problema dei rapporti con la cultura urbinate come accennato in Schofield 2001, p. 54. 14 Thoenes 1998, pp. 59-65. 15 Frommel 1997, riedito in Frommel 2003, pp. 193-213. 16 In realtà si deve sottolineare che anche l’architettura del XII secolo lombardo è orientata in questo senso.


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strutturalmente e visivamente ai pilastri, applicato tuttavia attraverso un linguaggio moderno17. Se pensiamo quindi (con Frommel e in parte con Bruschi) a come Bramante possa aver appreso questa logica tettonica dell’architettura proprio dalla tradizione medievale, il discorso si farebbe molto suggestivo nell’ottica di rintracciare nel San Sigismondo un aggiornamento ragionato dei modi bramanteschi, tuttavia nel caso cremonese questo risultato ci sembra essere quasi accidentale. In ultima analisi l’edificio è esso stesso frutto proprio di quella tradizione consolidata da secoli e avvezza a evidenziare per sua natura le membrature architettoniche dell’edificio, piuttosto che le superfici murarie, anche se vi si applica un nuovo linguaggio, considerato più moderno e mutuato in modo abbastanza libero da Alberti e Bramante. San Sigismondo ci sembra quindi oggi molto di più osservazione e imitazione di modelli ritenuti aulici, che scelta consapevole e acquisizione cosciente di un metodo, come se esso raggiunga lo stesso risultato testé percorso a livello teorico, partendo da presupposti e situazioni totalmente differenti, vestendo cioè di antichità un organismo ancora per molti aspetti tradizionale. 17 Altrove Frommel nota puntualmente come vi fossero alcuni precoci esempi in cui l’aggetto di trabeazione al di sopra del piedritto parrebbe di stretta derivazione dall’arco di trionfo, in particolare in merito all’esempio della Loggia delle Benedizioni in Vaticano, proponendo una riflessione sulle teorie albertiane, laddove nel De re aedificatoria si accomuna l’ordine dell’alzato esterno dei teatri proprio a quello degli archi di trionfo (Frommel 2006, pp. 148-150), e impiegando consapevolmente il modello antico, come appare dalla citazione nei documenti dell’«architravis triumphati», ovvero proprio della trabeazione che aggetta al di sopra delle colonne (Valtieri 1989, p. 262). Pensando agli esempi citati e all’impiego di questo elemento anche nel Bramante milanese, parrebbe di essere di fronte a una sorta di commistione di provenienze, la presenza degli archi trasversali della navata in corrispondenza dell’ordine maggiore farebbe, infatti, pensare a una più logica derivazione dal sistema alternato medievale, ma non pare il caso di escludere a priori la suggestione degli esempi antichi, soprattutto se si pensa alle successive riflessioni sul tema da parte di Bramante stesso, come mostra l’uso della travata ritmica impiegata nell’ordine superiore del Belvedere, dove l’elemento aggettante risulta ripensato e utilizzato in modo eccentrico rispetto ai modelli romani stessi (come illustrato in Bruschi 1969, pp. 398-399, la trabeazione aggetta in modo unitario comprendendo al di sotto la coppia di paraste della travata ritmica, restando arretrata in corrispondenza dell’arco, mentre negli esempi antichi aggetta normalmente soltanto sul singolo piedritto, oppure proprio al di sopra dell’arco).


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Questo tentativo malcelato di integrare la maniera moderna a una struttura tradizionale si percepisce nel talora maldestro integrarsi delle parti dell’edificio: nella controfacciata per esempio si rinuncia totalmente a un sistema di ordini, mentre si conserva come solo elemento unificante la trabeazione che, come abbiamo detto, avvolge tutto l’interno dell’edificio alla medesima quota; nella parete sottostante resta solo l’apertura del portale e al di sopra la grande lunetta, formata dalla proiezione della volta a botte sulla parete, con al centro il rosone che permette l’ingresso della luce dalla facciata. Anche l’incrocio della navata con lo pseudo-transetto è risolto con semplici pilastri cruciformi (fig. 29), che sostengono le ghiere terminali della botte della navata centrale e di quelle delle più piccole botti trasversali, che voltano i corti bracci del transetto: i quattro arconi formano così l’invaso quadrato sul quale si imposta il tiburio. Gli spigoli del transetto sono caratterizzati da lesene addossare alla parete, corredate di basi e capitelli e piegate ad angolo retto, che fanno risentire la loro presenza anche nella trabeazione che si mostra in leggero aggetto. La soluzione più interessante, per quanto concerne il sistema dei piedritti, è forse quella dell’abside (fig. 30): un primo vano voltato a botte introduce all’abside vero e proprio a sezione poligonale, la mediazione tra le pareti di questi due spazi avviene per mezzo di un sistema di paraste addossate a un piccolo pilastrino. A prima vista percepiamo in questo punto paraste accostate e condividenti una voluta del capitello, quelle più a ovest piegate ad angolo retto, mentre quelle più a est disposte a libro, che allo stesso modo provocano i medesimi trapassi di piano nei basamenti e nella trabeazione soprastante. A un’analisi più attenta si nota che il brano portante del piedritto è rappresentato da un pilastrino a sezione quadrata, che regge l’arco della volta e che corrisponde alla parte centrale (in comune) delle due paraste sopra citate, alla quale sono state accostate le parti laterali, come per simulare un sistema di sostegni più complesso e risolvere il problema di decorare un pilastro a spigolo vivo (fig. 31). Gli angoli più interni del catino absidale non sono invece caratterizzati con piedritti, sebbene abbiano ugualmente l’aggetto della trabeazione superiore: il sistema è in


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ogni caso coperto dall’ancona dipinta antistante. La copertura dell’abside vero è proprio impostata al di sopra della trabeazione è a quarto di sfera. Per volgerci ancora un momento alla complessa problematica dell’aggiornamento del linguaggio architettonico alla fine del XV secolo in Lombardia, dobbiamo segnalare che nel panorama dell’architettura chiesastica sono diversi gli edifici che si potrebbero assumere a casi paradigmatici. Tra quelli riconosciuti finora dalla critica come precoci esempi di questo fenomeno si annovera per esempio la chiesa del complesso cassinese di San Salvatore di Pavia18 (fig. 39). Si tratta di uno dei primi esempi in Lombardia di architetture che nascono come “gotiche”, ma che tendono ad avere un apparato decorativo sia plastico sia pittorico orientato su temi dal moderno gusto antiquario, soprattutto per quanto concerne l’alzato interno dell’edificio. Per questo motivo questa chiesa è stata spesso accomunata al San Sigismondo di Cremona, quando invece l’esito dei due edifici è piuttosto diverso. Per quanto concerne l’impianto planimetrico vi sono diverse affinità, soprattutto nell’uso delle tradizionali grandi campate quadrate per la navata centrale e più piccole nella proporzione di 2:1 (in San Salvatore vi sono poi cappelle a sezione poligonale che affiancano le navatelle laterali) e anche in questo caso abbiamo un ampio capocroce con un profondo abside poligonale. Se le differenze sono relativamente trascurabili nella pianta, proporzionalmente affine, poiché entrambi gli edifici mostrano un modulo ad quadratum, nell’alzato vi sono invece sostanziali disparità, la maggiore delle quali concerne l’uso dell’ordine architettonico. San Salvatore cela dietro una veste ricca di decorazioni antiquarie una struttura sostanzialmente tradizionale con larghi pilastri con cornici sommitali che reggono gli archi, dove invece a San Sigismondo, come abbiamo visto, troviamo la novità dell’uso dell’ordine architettonico + arco e l’introduzione di una gerarchizzazione tra ordine maggiore e minore. L’alzato della navata, che spesso è stato avvicinato a quello di San Sigismondo, in realtà ha in comune

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Cfr. p. 30 nota 13.


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con quello cremonese soltanto il doppio passo mantenuto per l’articolazione dei pilastri, che sporgono in corrispondenza degli arconi trasversali della volta. Sebbene anche nel San Salvatore compaia la trabeazione che incornicia tutto l’edificio, il sistema degli ordini presente in San Sigismondo e che lo accomuna con le opere albertiane e bramantesche, è qui completamente frainteso nel fatto che l’ordine maggiore non è ripetuto in corrispondenza di tutti i piedritti, ma solo di quelli sporgenti, intervallati dunque da pilastri semplici di ordine minore, di larghezza sproporzionata, venendo così a mancare proprio quel sistema di paraste che inquadrano archi su pilastri, che costituiva la modernità della navata cremonese e mantenendo, invece, il sistema alternato di sostegni di derivazione medievale. Inoltre il sistema degli archi e delle coperture del San Salvatore è totalmente risolto in forme ogivali, dove invece a San Sigismondo si adotta la sezione semicircolare, inoltre la navata è coperta dalle tradizionali volte a crociera costolonate e il tiburio sull’incrocio dei bracci è ottagonale su trombe a due riprese, in luogo della botte unghiata e dell’anomalo tiburio quadrato19 cremonese. Tra gli edifici che mostrano un linguaggio finora riconosciuto dalla critica come maggiormente debitore delle esperienze bramantesche, pressoché unica chiave di lettura attraverso cui questi fenomeni sono stati finora analizzati, si annoverano una serie di chiese a pianta longitudinale, tra le quali si può citare la parrocchiale dei Santi Filippo e Giacomo di Castelleone20 (fig. 40): qui troviamo, come a San Sigismondo, una rigida scansione in campate, determinata dalla presenza pure in questo caso di pilastri sporgenti nell’ordine maggiore, corrispondenti nelle volte ad archi trasversali; manca tuttavia il doppio passo presente nell’alzato del San Sigismondo. I pilastri sono senza basi come a Santa Maria presso San Satiro, dove del resto il progettista di questo edificio, Agostino de Fondulis, aveva lavorato al fianco di

19 Per una discussione sul tipo e sulla possibile origine del tiburio quadrato cfr. pp. 164-171. 20 Clerici 1997, pp. 19-27; Astolfi 2002-2003, pp. 291-320.


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Bramante per le realizzazioni plastiche. La chiesa dei Santi Filippo e Giacomo presenta, inoltre, tre navate e quella centrale è voltata a crociere, mostrando quindi un’articolazione delle coperture per certi versi tradizionale. Anche altri due edifici di paternità fonduliana meritano di essere discussi in questa sede, sebbene abbiano caratteristiche diverse: si tratta della chiesa di Santa Maria Maddalena e Santo Spirito di Crema21 e del santuario di Santa Maria della Misericordia di Castelleone22. Entrambe si differenziano dagli altri sopra citati perché hanno una sola navata, sono prive di cappelle e mostrano una zona presbiteriale articolata, in entrambi i casi triconca, anche se solo nell’esempio di Castelleone la terminazione tricora emerge all’esterno. Entrambi gli edifici sono scanditi internamente per mezzo di pilastri sporgenti e arconi trasversali, ma con un solo ordine, mentre i sistemi voltati con la presenza delle lunette laterali sfondate da oculi mettono in campo volte a crociera, come nella parrocchiale castelleonea. Un caso rilevante di primo Cinquecento sembra essere inoltre la parrocchiale di Sant’Ambrogio di Lonate Pozzolo, organizzata con unica navata caratterizzata anch’essa da alzato alla romana e affiancata da cappelle, modello che però parrebbe orientato verso esempi milanesi coevi o di poco precedenti, come la chiesa di San Maurizio al Monastero Maggiore o il secondo progetto per Santa Maria presso San Celso23. Per inciso si deve inoltre aggiungere che, in seguito alle realizzazioni milanesi di Bramante, in Lombardia sorse un folto numero di edifici a pianta centrale che utilizzano il sintagma ordine+arco forgiandolo anche su un nuovo e complesso impianto planimetrico, come ad esempio

21 Per la chiesa di Santa Maria Maddalena e Santo Spirito di Crema si veda Ferrari 1974a; Astolfi 2005, pp. 99-103. 22 Pandini 2000; Astolfi 2002-2003, pp. 249-305. 23 Specialmente data la presenza di quell’Antonio de’ Bodis da Lonate attivo anche nei cantieri milanesi e la cui figura professionale meriterebbe oggi riflessioni più accurate. Anche l’esterno della parrocchiale di Lonate sembra denunciare riferimenti stringenti in particolare alla fabbrica di Santa Maria presso San Celso. Per la chiesa di Lonate Pozzolo si veda Bertolli 2003: si tratta in realtà, secondo quanto emerso dai documenti, di un ampliamento posteriore al 1508, affidato ad Antonio da Lonate, di un originario progetto a pianta centrale del 1498.


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nell’Incoronata di Lodi, in Santa Maria della Croce a Crema, nella chiesa pavese di Santa Maria in Canepanova, nella chiesa di San Rocco a San Colombano al Lambro, nel San Magno di Legnano e in Santa Maria di Piazza a Busto Arsizio24. 2. Della volta unghiata e della sua diffusione in Lombardia La chiesa di San Sigismondo reca anche un’ulteriore particolarità: sopra l’architrave della navata si imposta una grande volta a botte unghiata25 (fig. 32), recante archi trasversali con ghiere aventi le stesse finiture di quelle degli archi delle cappelle e poggianti sopra i pilastri della navata. Tra un arcone e l’altro, in corrispondenza delle aperture sottostanti, vi sono due lunette che accolgono al centro un grande oculo circolare, con cornici in tutto simili a quelle corrispondenti all’esterno; alle lunette rispondono poi coerentemente le unghie sulle quali si imposta la botte, sull’apice delle quali si trova una testina in cotto. Questo tipo di volta è molto singolare all’interno del panorama architettonico coevo, specialmente per coprire una navata di grandi dimensioni come quella cremonese, non mi pare infatti siano ancora oggi visibili esempi precedenti di edifici che impiegano una copertura voltata a botte per la navata centrale se si escludono ancora una volta il Sant’Andrea mantovano e Santa Maria presso San Satiro di Milano, che rappresentano anche in questo caso, probabilmente, i modelli di riferimento. La volta di San Sigismondo, però, non è una volta a botte comunemente poggiata sulle pareti laterali e

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Per questi si veda Scurati Manzoni 1968; Adorni 2002d; Fortunato 2013. Della volta unghiata, letta però come peculiarità introdotta in Lombardia da Bartolomeo Gadio, accenna Alfredo Puerari in Puerari 1963a, p. 9; Puerari 1963b, p. 9; Puerari 1963c, p. 9; Puerari 1964a, pp. 9-10; Puerari 1964b, pp. 9-10; Puerari 1964c, pp. 8-10; Puerari 1964d, pp. 8-10; Puerari 1967, p. 29. Adriano Peroni, già in un contributo del 1963 (Peroni 1963, p. 670), lamentava la mancanza di uno studio accurato su questo tipo di volta e ancor di più l’assenza di una corretta percezione del suo impatto nella cultura architettonica lombarda. Desidero ringraziare Francesco Repishti con il quale ho avuto modo di discutere lungamente dei caratteri architettonici della volta unghiata e del problema, ancora aperto, della sua diffusione in Lombardia. 25


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32. Cremona, San Sigismondo, volta a botte unghiata sulla navata

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33. Soncino, Santa Maria delle Grazie, volta unghiata 34. Milano, Castello Sforzesco, corte ducale, portico dell’Elefante

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35. Milano, Sant’Ambrogio, portico della canonica 36. Milano, San Maurizio al Monastero Maggiore, interno della chiesa pubblica


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priva di aperture, bensì è una volta unghiata, conosciuta ampiamente al tempo e impiegata soprattutto per ambienti residenziali di più piccole dimensioni, come nella sala verde del Castello di Porta Giovia a Milano, nella cappella Ducale, nel portico dell’Elefante (fig. 34) – databili agli anni settanta del XV secolo –, in quello bramantesco della canonica di Sant’Ambrogio (fig. 35) – invece degli anni novanta – e in alcuni esempi ancora quattrocenteschi fuori dalla capitale del ducato, come la sacrestia vecchia della cattedrale di Cremona, il coro della chiesa di San Lanfranco di Pavia e la cappella Bottigella nella chiesa sempre pavese di San Tommaso. Non bisogna inoltre dimenticare che questo tipo di volta era frequentemente impiegato per i refettori, ma più in generale per gli ambienti monastici, come dimostrano gli esempi del refettorio di Santa Maria delle Grazie, di Santa Maria Incoronata e del monastero delle Dame Vergini della Vettabbia, per limitarci agli esempi milanesi del XV secolo. Non sappiamo in che modo sia stata introdotta in Lombardia questo tipo di soluzione voltata per le sale, che nella maggior parte dei casi presenta anche la soluzione d’angolo a mezza crociera, similmente a molti esempi toscani già di primo Quattrocento, si nota tuttavia che i numerosi esempi nel castello di Porta Giovia corrispondono alla fase in cui la direzione dei lavori era affidata a Benedetto Ferrini e due degli esempi più antichi in Lombardia, anche se di dimensioni assai ridotte, sono rappresentati dalla volta del vestibolo del Palazzo del cardinale Branda Castiglioni a Castiglione Olona (metà degli anni trenta del XV secolo, fig. 37)26 e dalla voltina del piccolo ambiente posto accanto al coro della cappella Portinari (fig. 38), databile con certezza alla fase originaria grazie agli stemmi posti in chiave di volta27, risalente quindi ai primi anni sessanta del XV secolo – cioè edifici legati tradizionalmente a modelli o contesti (se non a maestri) toscani. I casi citati sono rappresentati però da volte ribassate e non a sezione semicircolare come a San Sigismondo. Si tratta infatti della prima volta che questo tipo di volta viene utilizzato per co-

26 27

Per il palazzo Branda Castiglioni si veda da ultimo Bertoni 2009. Per la cappella Portinari si veda Giordano 1984, pp. 71-91, in partic. p. 79.


Jessica Gritti ECHI ALBERTIANI

Jessica Gritti, laureata in Lettere Moderne e specializzata in Storia dell’arte (Università Cattolica, Milano), è dottore di ricerca in Storia dell’architettura e dell’urbanistica (Università Iuav di Venezia, ) e svolge attività di ricerca e didattica presso diverse università, tra cui il Politecnico di Milano e l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Le sue ricerche sono rivolte alla storia dell’architettura, con particolare attenzione al periodo fra XV e XVI secolo. Ha pubblicato diversi contributi sull’architettura cremonese del Quattrocento, i modelli dall’antico, la plastica decorativa e i disegni di architettura; dal  collabora alla realizzazione del Corpus dei disegni di architettura del Duomo di Milano.

, e

in copertina Cremona, chiesa di San Sigismondo, angolo di incrocio tra la navata e lo pseudotransetto

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ECHI ALBERTIANI Chiese a navata unica nella cultura architettonica della Lombardia sforzesca

ISBN ----

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Jessica Gritti

I --U --A --V ILPOLIGRAFO

La chiesa di Sant’Andrea di Mantova ha avuto un ruolo fondamentale nella diffusione in area lombarda del linguaggio archittettonico di Leon Battista Alberti, divenendo polo di significativa attrazione culturale per i territori limitrofi. Un riconoscimento unilaterale del magistero albertiano rischia tuttavia di occultare l’intrinseca ricchezza della cultura lombarda, nell’ambito della quale si stratificarono novità di rilievo già nel corso del XV secolo. L’analisi di un piccolo gruppo di chiese edificate in territorio lombardo tra la seconda metà del XV secolo e il primo decennio del Cinquecento – lette in passato come testimonianze esemplari della “fortuna” del Sant’Andrea di Mantova, in virtù dell’impianto comune a navata unica – permette di riconoscere un linguaggio aperto a suggestioni e innovazioni eterogenee, consentendo una più ampia riflessione sul carattere variegato della cultura architettonica del ducato sforzesco. Le chiese di San Sigismondo di Cremona, di Santa Maria Assunta di Maguzzano, di Santa Maria delle Grazie di Soncino e di Santa Maria delle Grazie di Castelnuovo Fogliani, edifici monastici situati al di fuori dei centri maggiori, sono qui contestualizzate e analizzate all’interno del panorama architettonico della loro epoca, guardando alla varietà di soluzioni e modelli di riferimento, al rapporto con la tradizione autoctona e con quelle istanze ereditate da Filarete, Alberti e Bramante che rappresentano una componente costitutiva del linguaggio architettonico del secondo Quattrocento lombardo.


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