Gli avori Trivulzio. Arte, studio e collezionismo antiquario a Milano fra XVIII e XX secolo

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«trivulziana» pubblicazioni della fondazione trivulzio xv


«trivulziana» pubblicazioni della fondazione trivulzio

i. Stemmi

e imprese di Casa Trivulzio. Edizione del Codice Trivulziano 2120 a cura di Marino Viganò blasonature a cura di Carlo Maspoli Orsini De Marzo-Sankt Moritz Press, Sankt Moritz 2012

ii. Alessandra

Squizzato I Trivulzio e le arti. Vicende seicentesche Scalpendi, Milano 2013

iii. Giovan Giorgio Albriono, Giovan Antonio Rebucco Vita del Magno Trivulzio. Dai Codici Trivulziani 2076, 2077, 2134, 2136 a cura di Marino Viganò Fondazione Trivulzio, Milano - seb Società Editrice, Chiasso 2013

iv. Gian

Giacomo Trivulzio. La vita giovanile 1442-1483. Dal Codice Trivulziano 2075 a cura di Marino Viganò Fondazione Trivulzio, Milano - seb Società Editrice, Chiasso 2013

v. Aldèbaran.

Storia dell’arte, vol. ii a cura di Sergio Marinelli Scripta, Verona 2014

vi. Claudio

Trivulzio Poesie. Rime (1625), Le preghiere d’Italia (1636), Imprese del Marchese di Leganés (1639), Poesie per l’entrée di Maria Anna d’Austria (1649), Poesie sparse (1608-1648) a cura di Giuseppe Alonzo I libri di Emil, Bologna 2014

vii. Arcangelo Madrignano Le imprese dell’illustrissimo Gian Giacomo Trivulzio il Magno. Dai Codici Trivulziani 2076, 2079, 2124 a cura di Marino Viganò Fondazione Trivulzio, Milano - seb Società Editrice, Chiasso 2014 viii. Marignano e la sua importanza per la Confederazione. 1515-2015 Atti del simposio «Ticino» (Bellinzona, 29 marzo 2014) a cura di Marino Viganò Fondazione Trivulzio, Milano - seb Società Editrice, Chiasso 2015


ix. Marignano

x. Aldèbaran.

1515: la svolta Atti del congresso internazionale (Milano, 13 settembre 2014) a cura di Marino Viganò Fondazione Trivulzio, Milano - seb Società Editrice, Chiasso 2015 Storia dell’arte, vol. iii a cura di Sergio Marinelli Scripta, Verona 2015

xi. Il

cielo di Marignano. Dalla battaglia alla docufiction della Televisione svizzera - 13/14 settembre 1515-2015 a cura di Ruben Rossello, Marino Viganò fotografie di Cosimo Filippini seb Società Editrice, Chiasso 2015

xii. Le relazioni Italia-Svizzera e le sfide del presente e del futuro Una riflessione nel 500° della battaglia di Marignano (13-14 settembre 1515-2015) a cura di Marino Viganò seb Società Editrice, Chiasso 2015 xiii. Storia e storiografia dell’arte del Rinascimento a Milano e in Lombardia Atti i convegno internazionale «Metodologia - Critica - Casi di studio» (Milano, 9-10 giugno 2015) a cura di Alberto Jori, Caterina Zaira Laskaris, Andrea Spiriti coordinamento editoriale di Fabio Massimo Trazza Bulzoni, Roma 2016 xiv. Storia e storiografia dell’arte dal Rinascimento al Barocco in Europa e nelle Americhe Atti ii convegno internazionale «Metodologia - Critica - Casi di studio» (Milano, Biblioteca Ambrosiana, 9-10 giugno 2016) a cura di Franco Buzzi, Arnold Nesselrath, Lydia Salviucci Insolera coordinamento editoriale di Fabio Massimo Trazza Bulzoni, Roma 2017 xv. Alessandra Squizzato, Francesca Tasso Gli avori Trivulzio. Arte, studio e collezionismo antiquario a Milano fra xviii e xx secolo Il Poligrafo, Padova 2017



Alessandra Squizzato, Francesca Tasso

gli avori trivulzio Arte, studio e collezionismo antiquario a Milano fra XVIII e XX secolo

ilpoligrafo


Il presente volume viene pubblicato con il contributo di

La pubblicazione di questo volume ha ricevuto il contributo finanziario dell’Università Cattolica del Sacro Cuore sulla base di una doppia valutazione dei risultati della ricerca in esso contenuta

L’Autore e l’Editore ringraziano tutte le istituzioni che hanno gentilmente concesso l’autorizzazione alla pubblicazione delle immagini. Le referenze fotografiche sono state inserite a corredo delle singole illustrazioni. L’Editore resta a disposizione per qualsiasi eventuale ulteriore obbligo in relazione alle immagini riprodotte. progetto grafico e redazione Il Poligrafo casa editrice redazione Sara Pierobon © copyright novembre 2017 Il Poligrafo casa editrice 35121 Padova via Cassan, 34 (piazza Eremitani) tel. 049 8360887 - fax 049 8360864 e-mail casaeditrice@poligrafo.it ISBN 978-88-9387-014-6 www.poligrafo.it


indice

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Presentazione Gian Giacomo Attolico Trivulzio

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Introduzione

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1. Tra Milano e Firenze: Alessandro Teodoro Trivulzio (1694-1763) informatore per Anton Francesco Gori

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2. Don Carlo (1715-1789), il grande raccoglitore 2.1 Tra dittici e tavolette eburnee, appunti, note, osservazioni,

i. il settecento. la formazione della raccolta e i primi studi eruditi

zibaldoni manoscritti di don Carlo: la forma della conoscenza

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2.2 Erudizione e storia

74

3. Fonti e metodi. Il modus operandi di uno studioso del Settecento: le Note al Gori di don Carlo Trivulzio

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108

2. Originali e copie: i cosiddetti “falsi Trivulzio”

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3. Il principe Gian Giacomo Trivulzio (1839-1902) e il museo fin de siécle: aperture ed esposizioni

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4. La collezione Trivulzio vista dall’Europa e dall’America: una dimensione internazionale

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schede delle opere

ii. ottocento e novecento. il consolidamento e la valorizzazione della collezione

1. Gian Giacomo Trivulzio (1774-1831) dantista, bibliofilo e amante delle arti fra eredità e nuovi acquisti nella Milano troubadour


appendice documentaria

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L’evoluzione della collezione tra inventari ed esposizioni i. Museo d’Antichità . Piede A e Piede B. Inventario di divisione 1816 ii. 1856. Descrizione e stima delle monete e medaglie ed altri oggetti fatta da Costantino Lavezzari

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Bibliografia generale

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Referenze fotografiche

309

Ringraziamenti

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Indice dei nomi


Le relazioni fra il casato Trivulzio e le Civiche Raccolte della città di Milano sono, è notorio, sedimentate e variegate. Risale infatti al 1935 la cessione da parte di Luigi Alberico Trivulzio al podestà di Milano di una ricca collezione di oggetti d’arte, manoscritti e volumi, suddivisa in seguito presso più enti e con un triplice “livello di percezione”, si direbbe, tra i visitatori del Castello Sforzesco: i 12 celebri Arazzi dei Mesi alla portata del grande pubblico nella sala della Balla; i 1600 codici e i molti libri a stampa disponibili alla consultazione della cerchia più ristretta degli studiosi presso l’Archivio Storico Civico e Biblioteca Trivulziana; e, infine, le svariate opere di pittura, scultura, arti minori nelle Raccolte Artistiche, note piuttosto, è assai probabile, a un nucleo ristretto di connaisseurs. Tra queste la sezione degli avori – e non soltanto la parte rimasta a Milano, ma anche quella affluita nel tardo XIX e nel primo XX secolo nelle collezioni di vari paesi europei e non – torna ora a rivivere della fama della quale era circondata nel mondo intero, allorché si visitava integra a palazzo Trivulzio. Un esito tutt’altro che ovvio, dovuto al meticoloso lavoro di Alessandra Squizzato, ricercatrice dell’Università Cattolica, e di Francesca Tasso, responsabile dei Musei Artistici del Castello, custode quindi di un cospicuo lascito trivulziano. Ripercorrendo tra registri e musei la storia della raccolta museale di Alessandro Teodoro Trivulzio (1694-1763) e di Carlo Trivulzio (1715-1789), nonché le vendite e le vicissitudini di esemplari ceduti dai discendenti, le due studiose ci offrono in effetti, assieme a un itinerario collezionistico, la ricostruzione virtuale della raccolta. La documentata disamina dei precedenti della Wunderkammer trivulziana, nella tradizione di quelle di Ambras di Ferdinando II d’Absburgo, conte del Tirolo (1529-1595), e di quella ambrosiana di Manfredo Settala (1600-1680), permette così di inserire la collezione nel filone delle più celebrate d’Europa. Inoltre la diligente ricerca dei pezzi identificabili come avori Trivulzio sulle due

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sponde dell’Atlantico ne rivela la ricchezza e la qualità, nonché il raggio di propagazione della fame d’avorio a fine XIX secolo, la “caccia”, scrivono le autrici, dei grandi collezionisti, evocata non a caso, allora, da Joseph Conrad in Avamposto del progresso e Cuore di tenebra, sintesi di quell’avidità nell’inquietante Kurtz: «Avorio? Ne aveva tantissimo! Mucchi, montagne di avorio». Tensione all’origine di raccolte sensazionali, alle quali appunto si aggiunge quella della Famiglia Trivulzio. Questo libro, quindi, che non si limita ai casi di alcune decine di avori di proprietà privata, in realtà delinea l’universo culturale e il gusto di tre epoche: quella rinascimentale e barocca con la passione vorace e caotica per pezzi esotici, quella neoclassica con il più razionale concetto di museo e quella decadentistica dell’accumulo di preziose rarità per tentare di colmare un ennui senza rimedio, o per l’esibizione, specie in nazioni giovani come gli Stati Uniti d’America, del raggiunto status economico e sociale. Gli avori Trivulzio esce quale quindicesimo volume della “Trivulziana”, collana posta sotto l’egida della Fondazione Trivulzio, istituita nel 2011 con lo scopo statutario di «promuovere progetti, ricerche e interventi finalizzati alla conservazione e alla valorizzazione del proprio patrimonio archivistico, librario e artistico»; e «promuovere e sviluppare gli studi e le ricerche in ambito storico e artistico sulla famiglia Trivulzio». Con questo volume, in particolare, la Fondazione seguita nel recupero della memoria delle raccolte famigliari, in partenariato con gli enti che le custodiscono e valorizzano. In tal senso, il libro si può definire risultato collettivo di ricerche dell’Archivio Storico Civico e Biblioteca Trivulziana, delle Raccolte Artistiche e dei Musei Artistici del Castello di Milano. Gian Giacomo Attolico Trivulzio Presidente della Fondazione Trivulzio

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gli avori trivulzio


a Lella e Ferro a Enrico


Abbreviazioni archivistiche

ACRAMi

Archivio delle Civiche Raccolte d’arte, Castello Sforzesco, Milano

AFT

Archivio della Fondazione Trivulzio, Milano

ASAB

Archivio Storico dell’Accademia di Brera, Milano

ASBASMi

Archivio della Soprintendenza Beni Artistici e Storici, Milano

ASC-BT

Archivio Storico Civico e Biblioteca Trivulziana, Milano

ASMi

Archivio di Stato, Milano

BAMi

Biblioteca Ambrosiana, Milano

BMF

Biblioteca Marucelliana, Firenze

CRSABMi

Civica Raccolta delle Stampe “Achille Bertarelli”, Milano

DO

Dumbarton Oaks, Research Library and Collection, Washington

FBS, AT

Fondazione Brivio Sforza, Archivio Trivulzio, Milano


Avvertenza Il volume è frutto di un percorso di ricerca comune e condiviso nel metodo e nel merito, compiuto per circa quattro anni dalle due autrici. Pur nella comunanza di intenti e nel proficuo e costante scambio di idee che ha portato al compimento del lavoro, ad Alessandra Squizzato spettano le ricerche documentarie condotte in particolare negli archivi privati delle fondazioni Trivulzio e Brivio Sforza, alla base delle considerazioni poi svolte nel testo, comprese la trascrizione e l’interpretazione dei documenti. A Francesca Tasso si devono l’identificazione degli avori e le riflessioni sul loro significato storico-artistico. Più in particolare, ad Alessandra Squizzato spetta la stesura dei capitoli “Il Settecento. La formazione della raccolta e i primi studi eruditi” e “Ottocento e Novecento. Il consolidamento e la valorizzazione della collezione” e la trascrizione dei testi nell’Appendice documentaria. A Francesca Tasso la stesura dei paragrafi “Fonti e metodi. Il modus operandi di uno studioso del Settecento: le Note al Gori di don Carlo Trivulzio”, “Originali e copie: i cosiddetti ‘falsi Trivuzio’”, “La collezione Trivulzio vista dall’Europa e dall’America: una dimensione internazionale”; inoltre l’intera sezione con le “Schede delle opere” e l’introduzione all’Appendice “L’evo- luzione della collezione tra inventari ed esposizioni”, nonché le note all’inventario del 1816. L’introduzione è a firma di entrambe.


introduzione

Il presente volume nasce dalle esperienze, diverse ma complementari, delle due autrici. Francesca Tasso, nel suo ruolo di conservatrice delle arti applicate del Castello Sforzesco, ha sviluppato sin dal 2000 una personale consuetudine con la collezione di avori, che dei musei civici milanesi rappresenta uno degli apici: pur essendo una delle raccolte tipologiche più piccole in termini numerici, essa annovera una sorprendente quantità di capolavori di rilevanza internazionale, grazie all’arrivo, per strade diverse, delle due collezioni private milanesi più prestigiose, quella della famiglia Trivulzio e quella dell’Accademia di Belle Arti di Brera, costituita soprattutto dagli intagli acquistati da Giuseppe Bossi. Lo sguardo continuo su questa tipologia artistica, unito alla familiarità con gli oggetti fisici e con la materia sviluppata nel tempo – anche per i frequentissimi prestiti a esposizioni e le richieste di analisi e osservazione diretta provenienti abitualmente dagli studiosi – ha portato al crescente interesse per questi pezzi e al desiderio di approfondire la loro storia, cercando di andare a fondo in particolare dei problemi legati alla provenienza e alla storia collezionistica. Contemporaneamente Alessandra Squizzato consolidava il suo ambito di ricerca nel campo della storia della cultura e nello specifico del collezionismo, taglio che poteva esercitare in particolare nell’ambito della famiglia Trivulzio, su una serie di materiali archivistici che si rendevano disponibili per la prima volta dopo molti decenni. Dopo la morte di Luigi Alberico Trivulzio (1938), avvenuta in circostanze drammatiche poco dopo la cessione quasi forzata di gran parte della collezione al Comune di Milano, nel 1935, gli eredi avevano mantenuto una posizione di riservatezza rispetto alla vita culturale della propria città; nel nuovo millennio, tuttavia, una rinnovata consapevolezza del ruolo svolto dalla famiglia nel corso dei secoli ha fa-

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introduzione

vorito l’istituzione di una fondazione che ne porta il nome, la Fondazione Trivulzio, avente lo scopo di conservare i materiali nel tempo sedimentati e di metterli a disposizione degli studiosi creando così rinnovate occasioni di ricerca1. Lo studio condotto per oltre un decennio da Alessandra Squizzato sulle numerose carte d’archivio accumulate ha permesso di far emergere moltissime informazioni inedite che illuminano più chiaramente il processo di nascita e di crescita del patrimonio artistico del ramo della famiglia dei marchesi di Sesto Ulteriano. Questo materiale archivistico era rimasto inaccessibile sostanzialmente dal 1927, anno della pubblicazione della biografia di Giovanni Seregni dedicata a don Carlo Trivulzio (1715-1789)2, in cui l’autore ricomponeva la documentazione che per un lungo periodo aveva sistemato Emilio Motta, suo predecessore come archivista e bibliotecario dei Trivulzio fino alla morte (1920): si trattava di un materiale estremamente variegato, presente sia in forma autografa sia in trascrizione, che andava dagli appunti più o meno strutturati di don Carlo sulle sue opere, a successive richieste di visionare la collezione o di avere immagini delle opere d’arte da parte di studiosi di tutta Europa. Questa documentazione era estremamente discontinua e spesso costituita soltanto da appunti, che Motta organizzò per temi in quelli che oggi definiremmo veri e propri dossier, mentre di pari passo si preoccupava di aggiornare la crescente bibliografia sui pezzi che venivano pubblicati. Senza dubbio egli andava riordinando materiali per un progetto editoriale legato alla lunga storia della famiglia e delle sue raccolte – o forse, procedendo per tappe, solamente in vista di un iniziale contributo su don Carlo3 – poi condotto a termine appunto da Seregni. La monografia stesa da quest’ultimo, attribuiva definitivamente a Carlo Trivulzio il ruolo di fondatore della raccolta, schiacciando però su di lui tutti gli eventi che riguardavano i duecento anni di collezionismo in casa Trivulzio e disegnando una storia della raccolta tutta costruita su citazioni documentarie, alla quale è senz’altro oggi diventato necessario fornire rinnovate chiavi di lettura, anche alla luce di un forte aggiornamento che gli studi di storia del collezionismo hanno ricevuto negli ultimi decenni4.

1 Successivamente anche un altro ramo dell’articolata parentela, che ha avuto in eredità beni mobili e immobili un tempo appartenuti ai Trivulzio, quello dei Brivio Sforza, ha lavorato nella medesima direzione iniziando a riunire documentazione significativa anch’essa posta sotto la tutela di una Fondazione privata. 2 Seregni 1927. 3 Seregni 1927, p. XI. 4 I molti spunti che sono stati da più parti offerti in tale ambito nel corso degli ultimi decenni hanno avuto un primo momento di sintesi e di riconsiderazione critica nella raccolta di studi di Alessandro Morandotti (2008), che oltre ad offrire un percorso storico di riferimento tra XVII e XIX secolo, ha messo a disposizione degli studiosi cospicui materiali di partenza che hanno nel tempo generato nuove indagini. Un fronte differente per impostazione e tradizione di ricerca, ma non meno decisivo per la messa a fuoco delle strategie di affermazione e della cultura della rappresentazione dell’élite nobiliare lombarda di antico regime è poi costituito dai numerosi contributi di Cinzia Cremonini (da ultimo 2012).

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introduzione

La documentazione ritrovata e studiata da Alessandra Squizzato coincide quindi in buona parte con le fonti che finora erano note solo attraverso la ricapitolazione di Seregni. Questo materiale si trova oggi diviso in tre sedi: presso la Fondazione Trivulzio sono stati rinvenuti i preziosissimi inventari del patrimonio artistico, in particolare quello steso nel 1816 al momento della divisione della collezione tra Gian Giacomo Trivulzio (1774-1831) e la vedova di suo fratello Gerolamo (1778-1812), insieme a una stima economica redatta nel 1856 alla morte di Giorgio Teodoro (1803-1856); i due inventari – che per il solo ambito degli avori sono stati trascritti nella presente Appendice documentaria – permettono di misurare l’estensione e la qualità della raccolta, per la cui disamina si sono rivelati poi altrettanto fondamentali i carteggi di Alessandro Teodoro (1694-1763) (Triv. 2085) e di Gian Giacomo (Triv. 2046). La Fondazione Brivio Sforza conserva un materiale più disomogeneo, sulla cui origine in relazione all’attività di Emilio Motta abbiamo già detto, e comprende appunti e studi da don Carlo a Luigi Alberico (1868-1938), accorpati nella serie Biblioteca e Museo Trivulzio, la quale con ogni probabilità raduna anche materiali un tempo diversamente ordinati da don Carlo stesso, come il Triv. 2048, oggi ritenuto disperso. Infine parte del materiale documentario è confluito, insieme a quello librario, nella Biblioteca Trivulziana del Castello Sforzesco, venduto anch’esso insieme al museo nel 1935, tra cui alcuni codici con specifici carteggi personali dei membri della famiglia (Triv. 2032; 2044; 2061). Qui si conservava anche l’importantissimo fondo Autografi, citato più volte da Seregni e dagli appunti di Motta, in buona parte perduto secondo la testimonianza di Caterina Santoro durante i bombardamenti del 1943, da allora di fatto inaccessibile5. Da ultimo tra le fonti importanti si segnala anche il Fondo Trotti della Biblioteca Ambrosiana, lascito del ramo famigliare di Cristina Trivulzio Belgioioso. Intorno a questo cospicuo materiale documentario, che riguardava in alcuni casi specificamente le raccolte d’arte della famiglia, si sono quindi incontrate le competenze archivistiche e storiche di Alessandra Squizzato e quelle storico artistiche di Francesca Tasso. Come prima tappa di un percorso che vorrebbe giungere alla ricostruzione complessiva del museo di piazza Sant’Alessandro, si è scelto di iniziare dal solo nucleo degli avori, riconosciuto negli inventari come una sezione a sé stante, sempre però cercando di ricollocarne il valore nel più ampio contesto del collezionismo trivulziano. L’avorio è sempre stato un materiale di difficile reperimento6 e per questa sua caratteristica prezioso, raro e legato a uno status sociale molto

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Santoro 1940. Su questa affermazione non concordano tutti gli studiosi, che osservano che ci sono stati periodi storici in cui l’approvvigionamento era sistematico: sotto l’impero romano, ad esempio, i commerci nel bacino del Mediterraneo e anche con l’Africa e persino con l’India erano facilitati dal comune dominio politico, mentre durante il medioevo, dalla caduta di Roma in poi, fu molto più difficile trovare nuovo materiale e per questo in alcuni casi fu neces6

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introduzione

elevato7; il suo uso è già attestato nel mondo greco e romano, ma è nella fase tarda dell’impero romano che comincia a essere impiegato in maniera sistematica per un particolare tipo di oggetti, i dittici consolari e imperiali, legati a una committenza molto precisa; più o meno contemporaneamente viene attestata anche una produzione di dittici di soggetto religioso, sia pagano sia cristiano, di committenza elevata, riservata ad abati o vescovi. Nell’altomedioevo l’impiego del materiale diventa di appannaggio quasi esclusivamente religioso e si estende alle diverse tipologie di suppellettili liturgiche, da quelle più semplici (pissidi, tavolette) a quelle più complesse (cattedre episcopali, paliotti). Solo in età gotica l’uso si allarga anche a oggetti di tipo profano, in particolare cassettine, cofanetti, pettini, valve di specchio; l’avorio diventa anche un’alternativa preziosa a materiali come il marmo o il legno per microsculture di elevata raffinatezza. Tra le ragioni del successo di questo materiale bisogna considerare, oltre all’oggettiva rarità, la meravigliosa qualità della materia, compatta, liscia, dal caratteristico colore caldo, contraddistinta da una grande duttilità nella lavorazione adatta a ottenere effetti di grande morbidezza8. Dopo il XIV secolo, l’impiego dell’avorio decresce notevolmente: in contesti di piccoli oggetti o di intarsi viene soppiantato dal meno costoso osso e per la realizzazione di microsculture viene utilizzato in maniera meno estensiva di quanto avvenisse in epoca gotica, quando la scultura in avorio occupava un rango altissimo nella produzione artistica. Si tratta dunque di un medium prettamente medievale e il suo utilizzo si estende per circa un millennio, dal IV al XIV secolo: pur essendo un materiale strettamente connesso con l’arte romana, e per questo molto amato durante il Medioevo, durante il Rinascimento è stato quasi completamente ignorato,

sario lavorare sull’adattamento o il reimpiego di avori antichi. Cfr. Cutler 2007, pp. 142-145; Guérin 2015, p. 41. 7 La bibliografia di riferimento per lo studio dell’avorio è estesissima: i testi storici, quelli su cui si fonda la disciplina, sono menzionati in bibliografia. Una buona sintesi sulla specificità del materiale e l’evoluzione stilistica è la voce Avorio nell’Enciclopedia dell’Arte Medievale della Treccani (1991), redatta da Danielle Gaborit-Chopin per la parte occidentale, Enrico Zanini per la parte bizantina e Ralph Pinder-Wilson per la parte islamica, e la voce più recente di Michele Tomasi (2003). Dalla seconda metà dell’Ottocento lo studio degli avori si concentra nei musei che conservano le maggiori collezioni, il Victoria and Albert di Londra e il Musée du Louvre di Parigi in particolare; in generale si rimanda quindi ai cataloghi delle collezioni museali, che spesso contano su schede ampie e argomentate. Per la vastità della collezione e la straordinaria competenza dei curatori si segnalano in particolare Gaborit 2003 e Williamson 2010. Per lo studio degli avori tardoantichi e dell’alto medioevo, la loro funzione, le scelte dei committenti, le modalità di produzione e la tecnica esecutiva è stato fondamentale l’apporto fornito agli studi da Anthony Cutler; si rimanda in particolare a Cutler 1984, 1985, 1987. Le differenti valenze dei dittici e gli aspetti del loro studio sono affrontati nei saggi che compongono Eburnea Diptycha (2007), a cura di Massimiliano David. 8 Sul commercio degli avori nel Medioevo e sull’ottimizzazione della lavorazione della zanna si vedano gli studi di Sarah Guérin: Guérin 2013; Guérin 2015 (pp. 38-41) riguarda soprattutto il caso degli avori gotici; Guérin 2016 presenta il caso del paliotto di Salerno, ma le indicazioni sul commercio e sull’uso che si poteva fare di una zanna sono valide anche per gli altri periodi.

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introduzione

forse proprio perché agli occhi degli umanisti troppo strettamente connesso con l’età di mezzo. La produzione tardo imperiale sembra cominciare nel IV secolo: precedentemente venivano realizzate in avorio placchette, scatolette, manici di coltello, statuette e altri oggetti di piccole dimensioni; a partire dal IV secolo si diffonde invece una nuova tipologia, dittici di soggetto sia profano sia religioso e in quest’ultimo campo sia pagani sia cristiani9. I dittici sono tavolette di grandi dimensioni, spesso alte da 25 fino a più di 40 centimetri, intagliate solo all’esterno e legate tra loro da cerniere, in modo da chiudersi a libro; questo permetteva di usare l’interno per scrivere liste di nomi (sequenze di abati, vescovi o santi, oppure preghiere) oppure parole di ringraziamento nel caso dei dittici consolari o imperiali10. Questi costituiscono un caso particolare nell’ambito della produzione eburnea e sono molto noti perché da essi nasce la passione dei collezionisti sette e ottocenteschi per la scultura in avorio: venivano commissionati dai consoli della fase imperiale, nominati ogni anno, per celebrare l’avvenuta elezione e per ringraziare i sostenitori con un dono prestigioso11. I dittici dovevano essere prodotti in numero abbastanza elevato, ma la brevità della carica imponeva una realizzazione in tempi brevi e questo ha fatto supporre da una parte che ogni console potesse far realizzare tipologie diverse del proprio dittico, più o meno riccamente decorate, a seconda dello status della famiglia a cui il dono era indirizzato, dall’altra che le botteghe preparassero diversi esemplari per ogni tipologia e si limitassero, nel momento dell’avvenuta elezione, a modellare il ritratto del console e ad apporre i suoi titoli. La presenza del nome del console, apposto in alto, nella cosiddetta tabula ansata, consente quasi sempre un’identificazione certa del personaggio storico e quindi una datazione ad annum, che rende i dittici fondamentali per fissare lo sviluppo diacronico dello stile nella complessa fase del tardo impero. Se i dittici intagliati nel V secolo mostrano un’elaborata capacità di resa tridimensionale e volumetrica, con scelte audaci e sofisticate per riuscire a rendere i diversi punti di vista dell’immagine del console mentre indice i giochi nel circo (come nel celebre caso del dittico dei Lampadii appartenuto al cardinale Angelo Maria Querini, oggi al Museo di Santa Giulia a 9 Il caso più emblematico in tal senso è costituito da un gruppo di opere che comprende l’Ascensione del Bayerische Museum di Monaco, le Marie al Sepolcro oggi al Castello Sforzesco dalla collezione Trivulzio (cfr. scheda n. 6, fig. 41), il dittico di Probiano conservato a Berlino, il dittico dei Nicomaci e dei Simmaci diviso tra il Museo di Cluny di Parigi e il Victoria and Albert Museum di Londra: opere di tipologie e funzioni moto diverse, ma stilisticamente provenienti da un medesimo atelier; la datazione, tra la fine del IV e l’inizio del V secolo, li colloca in una fase di passaggio tra la tarda antichità romana e l’affermarsi della cultura artistica paleocristiana. 10 Questa ipotesi, avanzata sin dal XVIII secolo, viene contestata da Cutler, che ritiene che lo spazio per la stesura della cera per scrivere le parole di ringraziamento sia troppo limitato e suppone invece che all’interno i dittici fungessero da supporto per una pittura (si veda Cutler 2007, p. 144). 11 La produzione di dittici consolari è compresa in un periodo che va dal 384, anno in cui si stabilì che l’uso era riservato solo ai consoli e non a tutti i dignitari, al 541, anno della soppressione della magistratura.

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introduzione

Brescia), nel VI secolo si manifesta un diverso modo di rappresentare la figura umana nello spazio, con scelte stilistiche che anticipano quelle che saranno poi caratteristiche dell’arte medievale. L’evoluzione è più evidente nella parte orientale dell’impero, dove rimane un numero più alto di dittici e dove quindi il percorso si segue in maniera più lineare; ma oggi possiamo contare anche su un certo numero di dittici occidentali. Anche se ancora pochissimo si conosce in merito alla localizzazione delle botteghe che producevano questi sofisticati e raffinati oggetti, si può supporre che uno dei centri produttivi in Occidente fosse Roma, forse insieme a Ravenna dove, al di là dell’importante ruolo politico svolto dalla città come capitale dell’impero romano, poi del regno degli Ostrogoti, infine dell’esarcato, è effettivamente attestata una produzione significativa di intagli in avorio soprattutto di soggetto religioso. è stata avanzata l’ipotesi che anche in altre capitali dell’impero, come Milano e Treviri, dovessero esistere botteghe specializzate, ma l’ipotesi non è mai stata confermata da evidenze documentarie. L’assegnazione dei dittici ad Oriente o Occidente si basa innanzitutto sulla provenienza del console e poi sulla disposizione del nome e dei titoli sulla tabula ansata: in quelli occidentali infatti il nome del console è collocato sulla valva che nel dittico chiuso occupava la posizione retrostante (con il dittico aperto quella di sinistra), mentre i titoli si trovano sulla valva frontale (con il dittico aperto quella di destra), sequenza che nelle esposizioni museali con le due valve affiancate facilita il senso della lettura; nei dittici orientali la sequenza dei nomi e dei titoli risulta invertita. L’apposizione dei nomi, che susciterà nel Settecento un appassionato dibattito – a cui don Carlo Trivulzio non si sottrarrà – su come fosse costruita la sequenza della nomenclatura, fa sì che ad attirare l’attenzione su questi oggetti siano stati dapprima gli studiosi di antichità romane e i filologi, a cui si dovrà lo studio dei dittici ancora fino ai primi decenni del Novecento. Nell’Introduzione di uno dei testi stesi da Carlo Trivulzio, dedicato alla cattedra di Massimiano a Ravenna12, don Carlo stabilisce la gerarchia di valori delle opere in avorio nel Settecento: in primis i dittici consolari, poi quelli di soggetto religioso, che soddisfano anche il crescente interesse dell’epoca per gli aspetti liturgici, rispecchiando usi poi perduti nella diffusa standardizzazione del rito e iconografie rare; gli avori gotici entreranno nelle predilezioni dei collezionisti solo all’inizio dell’Ottocento. Le ricerche condotte in questa occasione, confermate anche da analoghi tentativi svolti in questi anni, mostrano quanto sia difficile risalire oltre l’inizio del Settecento per documentare la storia collezionistica degli intagli in avorio e in particolare dei dittici. La forza dell’auctoritas che promanava da questi oggetti per la loro origine romana ne ha comportato una precoce forma di tesaurizzazione e la fine dell’impero non ne ha decretato la perdita, ma anzi ne ha rafforzato la conservazione, pur se attraverso una rilavorazione parziale e nuove forme di adattamento attraverso il riuso. 12

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ASC-BT, NA C

88, p. 1.


introduzione

Il luogo deputato alla conservazione di questi oggetti è stato soprattutto il tesoro ecclesiastico medievale e infatti la maggior parte dei dittici oggi noti proviene da questi contesti, dove in molti casi sono ancora conservati13. Una ricostruzione della mappa dei dittici noti in Italia nel Settecento mostra una dislocazione ben precisa: la maggiore concentrazione si verifica in Italia settentrionale, mentre le presenze sono più rarefatte in Italia centrale e meridionale14. A settentrione, i centri che annoverano le principali collezioni tendono a concentrarsi in Lombardia, in contesti sia laici sia ecclesiastici: a Novara (nel Duomo e nella chiesa di San Gaudenzio), a Milano (nel tesoro del Duomo e nella collezione Trivulzio), a Monza, a Brescia (collezioni Querini Stampalia e Fe d’Ostiani) e a Cremona (collezioni Biffi e Sonsis). Questa concentrazione può essere casuale? In passato si è pensato che la si dovesse collegare alla localizzazione di centri produttivi in Italia settentrionale, per il ruolo esercitato da Milano e da Ravenna come capitali dell’impero romano, ipotesi che spiegherebbe anche l’alta concentrazione di dittici in Francia e in Germania grazie ad analoga funzione assolta da Treviri tra il III e il V secolo. Tuttavia oggi questa ipotesi non sembra suffragata da nessun dato oggettivo e d’altra parte comincia ad affermarsi la consapevolezza che nella fase rinascimentale alcuni collezionisti appassionati di opere della tarda antichità e del Medioevo, come Pietro Barbo (14171471), poi papa Paolo II, hanno acquistato e movimentato moltissime opere, sottraendole alla loro originaria collocazione15. Andrà anche notato come la maggior parte dei dittici consolari e imperiali a noi noti sia stata prodotta nella porzione orientale dell’impero romano, mentre la localizzazione medievale o moderna di queste opere sia occidentale, osservazione che comporta di considerare un precoce spostamento di queste opere da oriente a occidente e osservare un maggiore interesse per questa tipologia da parte dei collezionisti europei sin dai tempi dell’alto Medioevo16.

13 Si veda tra gli altri Gasbarri 2013, p. 905 note 6 e 7, con bibliografia precedente. Il primo a prospettare che il tesoro ecclesiastico fosse una prefigurazione delle camere delle meraviglie e quindi anche una primitiva forma di musealizzazione è stato Schlosser nel 1908 (2000, pp. 18-29), ma sul tema non bisogna dimenticare le più recenti riflessioni di Pomian (ad esempio Pomian 2004, pp. 296-298). Il tema è poi stato ripreso da altri studiosi, senza però che per i dittici in maniera specifica si affrontasse uno studio approfondito e sistematico. Sotto questo aspetto l’intervento più aggiornato è quello di Cassanelli 2007, anche con bibliografia precedente. Per una breve rassegna generale sui tesori ecclesiastici si veda anche Piglione 1993; per un’analisi approfondita di tutti gli aspetti, anche semiotici, dei tesori non solo ecclesiastici cfr. Tomasi 2009, con una bibliografia aggiornata a livello internazionale. 14 Gaborit 1978 pubblica una carta distributiva delle provenienze degli avori tardoantichi tra IV e VI secolo, comprendendo le provenienze da tesori e da collezioni, che fornisce un’efficace sintesi delle dislocazioni (la carta è stata ripubblicata da Cassanelli 2007, p. 324 fig. 1). 15 Moretti 2014, pp. 29-35 e passim. 16 Su questi temi e su una sintesi della casistica del collezionismo medievale dei dittici tardoantichi cfr. Cracco Ruggini 2011, passim.

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Nonostante il nucleo degli avori sia, come abbiamo già detto, di fatto solo una piccola porzione delle raccolte artistiche costituite nel corso di quasi tre secoli da parte della casata dei Trivulzio, la sua composizione come i tempi e i modi della sua formazione risultano ben esemplificativi del più generale andamento del mecenatismo famigliare, rimasto sempre fedele a un’altissima qualità dei pezzi radunati oltre che a un loro nesso, più o meno esplicitato, con la storia, specie quella locale. Il collezionare del resto è stato un aspetto importante delle vicende della discendenza milanese, anzi verrebbe da dire un vero e proprio tratto distintivo, sul quale nel tempo è stato dai suoi stessi membri volutamente posto un accento molto marcato, direttamente legato alla sottolineatura dell’antichità e del prestigio delle carriere dei singoli rappresentanti. Giulio Porro Lambertenghi non a caso richiamava entrambi i fattori nella Prefazione al catalogo dei manoscritti della Trivulziana da lui curato nel 1884, primo efficace strumento per orientarsi nella favolosa raccolta: E innanzi tutto noterò come in questa illustre famiglia che annovera tra i suoi figli due Marescialli di Francia e molti altri uomini insigni nella milizia, che diede alla Chiesa quattro cardinali e molti altri prelati, non mancarono gli uomini di lettere, e pare fosse ereditario ne’ suoi membri l’amore alle cose belle, alle collezioni sia di libri che di oggetti d’arte.17

Non a caso in effetti Porro, che ben conosceva la genesi delle raccolte dei cugini, rimarcava la doppia natura che le aveva sin dall’inizio caratterizzate, sul fronte librario e su quello artistico, spesso intrinsecamente legati tra loro a inseguire l’evocazione di alcune significative stagioni del passato, fra le quali spicca senz’altro quella sforzesca, oggetto di un vero e proprio culto. L’esistenza del raro gruppo di codici del XV secolo provenienti dalla biblioteca ducale – tra i quali il cosiddetto Liber Jesus, la Grammatica di Elio Donato, il Messale Ambrosiano per Agnese del Maino e Bianca Maria Visconti – le cui preziose miniature dovettero molto stimolare anche in sede propriamente critica18 –, dovette ispirare alcuni acquisti per la pinacoteca di famiglia, instaurando un inscindibile legame con essa: sempre don Carlo si era procurato alcuni importanti ritratti di diversi signori della corte, tra cui quello di Ludovico il Moro – a lungo ritenuto del Boltraffio – che sarebbe stato anche in seguito gelosamente custodito19. Mentre qualche tempo dopo il pronipote Gian Giacomo avrebbe fatto copiare a Giambattista Gigola – miniatore di casa, come vedremo – il celebre Ritratto di dama dell’Ambrosiana (inv. n. 1001971), all’epoca creduto effige di Beatrice d’Este, per 17

Porro 1884, p. V. Seregni (1927, p. 133) riferisce che sui ritratti miniati a tutta pagina di Massimiliano Sforza e Ludovico il Moro della Grammatica di Donato intervenne Giovanni Morelli «in un autografo che trovasi unito al codice e altrove», attribuendoli ad Ambrogio de Predis; il riferimento è probabilmente da intendersi a Morelli [1890] 1991, p. 191 nota 196. 19 Seregni 1927, pp. 122, 210-211; Kiel 1930, pp. 441-448; sul ritratto del Moro, in collezione privata, oggi riferito all’ambito di Bernardino de’ Conti, si veda da ultimo Marani 2009, pp. 162-163. 18

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conservarlo entro apposita cassetta insieme al codice delle Rime di Gaspare Visconti proprio alla duchessa dedicato, che i Trivulzio possedevano tra gli scaffali della biblioteca20. Una nobiltà non certo improvvisata dunque, che cercava in qualche modo di raccogliere l’eredità dei grandi del passato favorendo un’assimilazione con essi e facendo leva sui quei valori da sempre ritenuti fondativi dello stesso concetto: l’eroismo sui campi di battaglia, il senso del passato, un raffinato culto per la bellezza. Era questa una ricchezza non comune che andava nel tempo conservata come un tesoro, meritevole in seconda istanza di essere conosciuta e divulgata. Nonostante una storia della casata, stesa con criteri moderni e basata sulle fonti, non sia ad oggi mai stata scritta, i diversi contributi nel tempo dedicati un po’ a intermittenza a figure più o meno celebri raccontano di una genealogia molto articolata, con diversi rami famigliari stanziati su territori anche lontani fra loro – quello dei marchesi di Vigevano e conti di Mesocco al quale apparteneva il celebre condottiero Gian Giacomo detto il Magno (1442-1518)21, quello dei conti di Melzo poi divenuti principi del Sacro Romano Impero, quello dei marchesi di Pizzighettone, anch’essi con Teodoro in grado di fregiarsi del titolo di maresciallo di Francia (14541532)22 –, con vicende di accelerazioni e cadute di fortune avvenute in tempi anche assai distanti e col manifesto tentativo più volte perpetrato da una singola discendenza di arrogare a sé ricchezze e privilegi di un’altra. Su tutti spicca da ultimo il tentativo compiuto dai marchesi di Sesto Ulteriano, le cui vicende sono oggetto specifico del presente lavoro, di avocare a sé tutta la secolare storia trivulziana in aperto contenzioso col ramo – morente e giudicato illegittimo – di Antonio Tolomeo Gallio Trivulzio, il celebre e illuminato fondatore dell’omonimo Pio Albergo23. In costante crescita dovette essere l’ascesa economica e sociale del ramo marchionale del casato che aveva nel tempo accumulato ingenti latifondi, come hanno ben rilevato gli studi di Fabio Caccia24. I rapporti tra i marchesi e i principi erano segnati da stretta parentela derivando le due linee da un antenato comune, quel Gian Giacomo Teodoro Trivulzio conte di Melzo morto nel 1577, dal cui matrimonio con Laura Gonzaga si erano originati i primi, mentre dalle successive nozze con Ottavia Marliani i secondi. Tale prossimità genealogica all’origine dell’intrec20

Seregni 1927, p. 128; ASC-BT, Triv. 2157. Viganò 2011 e 2015; Albriono, Rebucco 2013; Madrignano 2014. 22 Litta 1820, tavv. I-IV; da ultimo Stemmi e imprese 2012, in part. pp. 3-18 con dettagliato corredo di fonti e bibliografico. 23 Tale passaggio non si rivelerà indolore: ben note alla storiografia sono le numerose cause con i Moles, i d’Alvito e i marchesi Trivulzio che i rinnovati Gallio Trivulzio dovettero sostenere per riaffermare la propria legittimità e conservare i propri diritti patrimoniali: Crosio 1968; da ultimo Squizzato 2010. 24 In base alle registrazioni catastali di inizio Settecento essi ammontavano a circa 850.780 tavole, risultanti come assegnate ad Alessandro Teodoro, di contro alle 418.546 di Antonio Tolomeo, cfr. Caccia 1993, pp. 62-67. 21

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ciarsi delle loro rispettive vicende – che di fatto sfociarono in un vero e proprio contenzioso ereditario sanato solo dopo la morte del principe con lo stanziamento di 615.000 lire date dalla sua eredità ai marchesi –, determinerà una costante rivendicazione della legittimità della rispettiva discendenza rispetto agli antichi e prestigiosi antenati. Questa rivendicazione avvenne anche sfruttando il valore simbolico ed evocativo proprio di alcune opere d’arte che continuavano significativamente a passare da un ramo all’altro della casata, miracolosamente in tal modo conservandosi come fossero vere e proprie reliquie: in occasione dell’asta dei beni di Antonio Tolomeo25 che l’inventario giudiziale della sostanza ereditaria dell’8 marzo 1768 registrava davvero ingenti26, il marchese Giorgio Teodoro, esercitando una sorta di “diritto di prelazione”, già dal maggio precedente aveva riscattato per lire 467.5 tutta la celebre serie bramantiniana delle tappezzerie dei dodici Mesi, commissionata come è noto dal Magno Gian Giacomo. Era poi lo stesso don Carlo che entro uno dei suoi zibaldoni riferiva di un altro oggetto in tale occasione significativamente preteso dal suo ramo famigliare: si trattava «del bastone del maresciallo di Francia […] Lo tiene […] il marchese mio nipote acquistato con altre cose appartenenti alla nostra famiglia dalla casa del fu principe Antonio Tolomeo Trivulzi»27. Solo a inizio Ottocento invece Gerolamo Trivulzio, padre della futura principessa Cristina di Belgioioso, progettava in data 29 marzo 1809 l’acquisto dei ritratti della famiglia esistenti nel locale del Pio Albergo Trivulzio e presso la casa agenziale in Codogno «esclusi come è di dovere quelli del fondatore principe Antonio Tolomeo Gallio e del di lui padre principe Gaetano Gallio adottato nella famiglia Trivulzio non che degli altri della loro famiglia Gallio d’Alvito», facendo leva come molti altri nobili sulla Congregazione di Carità di Milano e affidandone la perizia al fidato amico Giuseppe Bossi, molto coinvolto quest’ultimo come vedremo nelle attività collezionistiche della casata28. Per dare forma al nuovo avvio di fortune dei marchesi era stata a inizio secolo fondamentale la realizzazione della residenza della famiglia in piazza Sant’Alessandro, con la risistemazione del monumentale palazzo

25 ASMi, T.AM, 176, fasc. non numerato «Obbligo del marchese Giorgio Teodoro Trivulzi relativamente alle tappezzerie del fù Magno Trivulzi rilevate dal L. Pio del prezzo lire 467.5»; sugli arazzi, in particolare per l’attenta ricostruzione dei passaggi di proprietà, Agosti Stoppa 2012. 26 Già menzionato, con accenno anche alla successiva asta di vendita da Scotti 1990, p. 137; alcune considerazioni in I vecchi 1994, pp. 88-89. 27 Seregni 1927 p. 239. 28 AFT, Araldica Uffici, fasc. 3.74; «1809 Sull’acquisto progettato dal Cavaliere Girolamo Teodoro Trivulzio dei ritratti attinenti l’antica famiglia Trivulzio esistenti nel locale del Pio Albergo Trivulzio ed in Codogno».

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cittadino avvenuta per volere di Giorgio Teodoro Trivulzio che tra 1707 e 1713 vi aveva convocato a lavorare l’architetto di grido Giovanni Ruggeri29. I sobri esterni, per quanto monumentali nello sviluppo che segue l’intera piazza quale perfetto contraltare della magnifica chiesa di Sant’Alessandro, ben rispecchiavano la sensibilità della famiglia rivolta non tanto alla magnificenza di facciata, quanto piuttosto alle silenziose attività che nelle più recondite sale interne, con faticosa costanza, si svolgevano. Tutte le personalità che nel corso di queste pagine si cercherà di raccontare, Alessandro Teodoro e Carlo, Gian Giacomo e Giorgio Teodoro, di nuovo Gian Giacomo e Luigi Alberico, sembrano di fatto condividere questa caratura che li pone di rado sotto i riflettori della vita pubblica, verso le cui alterne vicende essi risultarono spesso schivi, ma facendone nondimeno motori di un rinnovamento anzitutto culturale, della scienza antiquaria, della filologia, degli studi propriamente storico-artistici di volta in volta intrapresi. Discipline sempre più professionalmente coltivate entro le mura di casa con l’attrarre studiosi e appassionati da ogni dove, spesso intercettandoli prima, o anche solamente, entro l’ampia trama dei carteggi e poi arrivando a ospitarli stabilmente quali membri di famiglia come avvenne ad esempio per Francesco Saverio Quadrio o per Carlo Rosmini. Certo la doppia natura di raccolta artistico-antiquariale e libraria molto doveva aiutare in questo, anche se la sua complessa natura e gestione, resa ancora più ardua dal proliferare degli studi anche stranieri già sullo scorcio del XIX secolo, richiese la precettazione a impianto stabile di figure di professionisti, fra i quali spicca per competenza e rete di relazioni senz’altro Emilio Motta (1855-1920). Lo sguardo sul patrimonio del palazzo, del resto, non fu sempre lo stesso in ragione delle diverse attitudini e sensibilità dei membri della casata che per quanto sempre posti all’interno di una consolidata tradizione, come fosse un’aria giocoforza respirata, avevano poi ciascuno la propria inclinazione. In questo, il caso specifico della raccolta di avori si rivela abbastanza indicativo, mostrando fasi di progettualità differenti: senz’altro fondativa quella che fa capo a don Carlo, il quale in qualche modo scelse da studioso ed esperto in prima persona il rango dei pezzi, manifestando una spiccata passione per l’età medievale; alle sue preferenze poi Gian Giacomo

29 Da tempo, ormai, la letteratura sulla fabbrica è concorde nel riferire a Ruggeri l’intervento di ricostruzione di inizio Settecento, soprattutto per le riscontrate affinità con palazzo Cusani: Mezzanotte, Bascapè 1948, pp. 284-286; Bascapè, Perogalli 1964, pp. 214-215; Milano nel Settecento 1976, p. 27; un’ulteriore conferma viene da una trascrizione manoscritta – a grafia di Emilio Motta – di una serie di atti concernenti contratti sul palazzo che ho potuto rinvenire nell’Archivio della Fondazione Brivio Sforza (FBS, AT, Biblioteca e Museo Trivulzio, b. 8) che ne fissa la realizzazione agli anni 1707-1713; se ne riporta di seguito l’incipit: «1707 marzo 7. Convenzione tra il marchese Teodoro Giorgio Trivulzio e l’architetto Giovanni Ruggeri per il disegno in tutto e per tutto nulla eccettuato e compito in tutte le parti, della Fabrica che intende fare detto sig. Marchese nelle case poste in P. Ticinese altre volte della casa Corio [...]»; per gli interventi di sistemazione del primo Ottocento Cavadini 2003, pp. 83, 99 note 204-207; qualche dato sul giro delle committenze milanesi di Ruggeri in Forni 2010, pp. 20-34.

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(1776-1831) si uniformò con serio impegno, coadiuvato dall’espertissimo Pietro Mazzucchelli (1762-1829), mentre al successore forse più “mon- dano” Gian Giacomo (1839-1902) si deve più una stagione di valorizzazione ed esibizione delle glorie famigliari attraverso le esposizioni milanesi del 1872 e 1874, avvenuta anche grazie all’apertura del museo a una più ampia circolazione di studiosi, dei quali si seguirono da vicino e si sostennero le rispettive pubblicazioni, come è il caso di Francesco Malaguzzi Valeri e Luca Beltrami. Infine la figura davvero più opaca e difficile da decifrare rimane, in tutto questo percorso, quella di Luigi Alberico, cui si deve la vera, e imperdonabile, dispersione della raccolta trivulziana, così faticosamente per secoli, e con una precisa identità, accumulata: le ragioni, se cosi dobbiamo chiamarle, che i diversi studi condotti sulla vicenda adducono – spiccano senz’altro quelli compiuti a partire dal fronte torinese da Silvana Pettenati ma con preziosi aggiornamenti qui forniti da Francesca Tasso entro un orizzonte internazionale – sembrano adombrare molteplici sfumature: un diverso indirizzo di gusto da parte del principe rivolto più alla pittura e alla formazione di una aggiornata pinacoteca, rispetto alla quale il “materiale” antiquario dovette forse sembrare di troppo; l’incapacità di entrare in un dialogo proficuo e realmente valorizzatore del patrimonio cittadino con gli allora responsabili delle attività di sovrintendenza e tutela; forse non da ultimo un disordine di vita personale, rispetto al quale, certo, il giudizio dello storico non può che fermarsi. Da qui l’esigenza alla quale il presente lavoro ha provato a rispondere, cioè quella di ridare, attraverso i pur limitati strumenti della ricerca storica, un risarcimento di questa ingente ricchezza che la città di Milano ha un tempo custodito.

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i. il settecento. la formazione della raccolta e i primi studi eruditi

1.

Tra Milano e Firenze: Alessandro Teodoro Trivulzio (1694-1763) informatore per Anton Francesco Gori

Le prime tracce documentarie che attestano un interesse dei membri della famiglia Trivulzio nei confronti di quei particolarissimi manufatti che sono i dittici e le tavolette eburnee fanno capo senz’altro, almeno a quanto ne sappiamo oggi, al carteggio intercorso tra Alessandro Teodoro Trivulzio (1694-1763)1 e il celebre erudito fiorentino Anton Francesco Gori (16911757) 2 negli anni compresi fra 1741 e 17563. Lo sguardo assai ravvicinato che qui di seguito si porta alla ricostruzione di queste relazioni, attingendo a fonti di prima mano e riallacciando tra loro fatti e protagonisti di contesti anche assai distanti, è volto a rivelare quanto ricca e complessa sia stata la trama culturale che tali originalissimi interessi collezionistici ha originato: mostrati sotto questa lente d’ingrandimento, essi ci appariranno alla fine in tutta la loro portata di significato legati, come sono, ai temi forti del secolo, quali la riforma del sapere, il 1 Ho anticipato alcuni nuclei di riflessione, che svolgo qui più distesamente e con particolare riferimento al tema del collezionismo degli avori, in Squizzato c.s. Litta 1819, tav. IV; la documentazione su Alessandro Teodoro si trova soprattutto per quanto attiene gli atti ufficiali in AFT, Araldica, Diversi, 41, fasc. 822. 2 Vannini 2002, pp. 25-28; De Benedictis 2004, pp. 1-10; Balleri 2005, pp. 97-14; Gambaro 2008; Visconti 2012, pp. 221-270; più in generale sull’ambiente degli studi eruditi a Firenze all’epoca di Gori da ultimo Winckelmann, Firenze 2016, in part. sezione I, pp. 21-82 e le schede relative. 3 AFT, Triv. 2085, Lettere di diversi corrispondenti del marchese Alessandro Trivulzio, 3 voll., vol. I, A-L: «Gori Antonio Francesco / Dall’anno 1741/2 6 marzo all’anno 1756 15 settembre n. 34 da Firenze» (d’ora in poi Carteggio Trivulzio-Gori); per quanto attiene al fronte fiorentino della documentazione Visconti, 2012, pp. 221-270.

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capitolo primo

nuovo senso dell’antico, la nascita di una coscienza propriamente storica in relazione al patrimonio monumentale. Non conosciamo in dettaglio le circostanze attraverso le quali i due siano venuti in contatto, anche se il generale contesto culturale di appartenenza, riconosciuto da entrambi comune, sembra esser stato quello dell’amata Repubblica delle lettere 4, mentre quale principale intermediario fra loro si insinua la figura – decisiva per lo sviluppo degli studi antiquari in questi decenni – di Alberico Archinto, nunzio della Santa Sede a Firenze dal 1739 al 17465. Entrambi i riferimenti sono, infatti, ben rintracciabili nella prima missiva ricevuta da Trivulzio il 19 aprile 1741 entro la quale con il tono un po’ retorico che gli è proprio il fiorentino dichiarava: [...] Non vi essendo al mondo cosa che più sia da me bramata quanto la gloria di attestare agli uomini illustri che tanto onor fanno alla Repubblica delle Lettere e che efficacemente promuovono l’ammaestramento di esse, il mio sincerissimo ossequio e la somma stima che ho del loro merito, non mi si poteva dare sorte più grata e propizia quanto questa donatami dall’ill.mo e rev. mo mons. Nunzio Archinto mio amorevolissimo padrone e protettore di me e de’ miei studi, di offrire a V.S. Ill.ma l’umilissima mia servitù in attestato di quella giusta e rincrescente estimazione che io ho del suo ben noto sapere e del suo gran merito, essendo ella sempre intento all’ammaestramento e maggior lustro delle scienze.6

Al centro di recenti interessi storiografici, Gori, nonostante l’aspetto piuttosto tradizionale di «ecclesiastico etruscomane» dell’età dei lumi7, che anche i suoi ritratti noti tendono a trasmettere, fu figura assai innovativa nel mondo delle ricerche antiquarie e sotto diversi punti di vista, non solo intellettuale ma anche più propriamente sociale: pur vantando una prestigiosa e più che solida formazione di studio sull’antico avvenuta al seguito di veri e propri pilastri della disciplina quali nella Toscana granducale erano Anton Maria Salvini e Filippo Buonarroti, egli apparteneva a una categoria professionale emergente di «nuovi letterati o semiletterati»8. Essi, non per forza appartenenti alla sfera aristocratica, vivevano del loro lavoro di bibliotecari nel settore privato, come anche sempre più spesso nel pubblico, svolgendo a un tempo un’intensa attività di editori e stampatori, promuovendo nuove forme di organizzazione accademica, alla quale volentieri affiancavano spesso anche una più redditizia attività di mediatori o mercanti di oggetti d’arte e di scavo. Queste molteplici attività avvenivano anche grazie a una fittissima rete di corrispondenza epistolare che questi eruditi erano in grado di intrecciare e conservare – quella di Gori si conta

4 Carpanetto, Recuperati 1986; Roche 1992; si veda anche il lemma Repubblica letteraria, in S. Battaglia, Grande Dizionario della Lingua Italiana, Torino, UTET, 1990, vol. XV, p. 842; Fumaroli 2007, pp. 157-168. 5 Garms-Cornides 2015, pp. 11-32, 18-19; Facchin 2015, pp. 123-155, in part. pp. 141-142. 6 Carteggio Trivulzio-Gori, lettera n. 1, Firenze 19 aprile 1741. 7 Visconti 2012, p. 221. 8 Winckelmann, Firenze 2016, p. 34.

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il settecento

a oltre diecimila missive –, sostanzialmente senza mai muoversi dalla propria città natale, garantendosi così uno strumento formidabile di personale promozione, oltre che di legittimazione del proprio lavoro, che in diversi casi arrivava a un respiro davvero sovranazionale9. Il contesto entro il quale Gori si trovò all’opera fu quello della Firenze di Gian Gastone de’ Medici, in bilico sul precipizio della crisi dinastica ma forse proprio per questo ribollente di iniziative volte a far conoscere la straordinaria ricchezza della proprio passato, da mostrare con orgoglio agli interlocutori – e usurpatori – stranieri, nell’amara consapevolezza che esso potesse pure andare rovinosamente disperso: ne è un esempio emblematico la costituzione nel 1728 della Società dell’opera del Museum Florentinum (1731-1743)10 creata con il preciso intento di documentare, anche e soprattutto visivamente, quanto di più prezioso in materia di cose antiche conservassero le raccolte patrizie fiorentine e tra esse specialmente la granducale; la direzione dell’impresa era affidata a Filippo Buonarroti ma la sua effettiva realizzazione spettò a Sebastiano Bianchi e a Gori11; all’impresa si sarebbe affiancata quella altrettanto impegnativa del Museum Etruscum (1737-1743) su dichiarato impianto muratoriano, espressamente dedicata ai monumenti etruschi, in vista della quale Gori aveva raccolto ben 130 sottoscrittori12. Entro un tale complesso quadro di fermento culturale, fatto di rinnovato spirito imprenditoriale e di duratura tradizione di studio – non solo, è bene ricordarlo, rivolta alle tecniche di comprensione dei monumenti antichi e di descrizione delle epigrafi e delle iscrizioni, ma anche poggiante su un consolidato filone di conoscenza del greco e delle lingue antiche –, si afferma e non casualmente l’interesse da parte di Gori, dal 1730 professore di Storia Sacra a profana nello Studio Fiorentino, per i manufatti eburnei e in particolare per il fenomeno dei dittici, prodotti caratteristici dell’età tardo antica – specie nella loro declinazione consolare –, passati tra riadattamenti e risemantizzazioni all’era cristiana. Di recente puntualizzato da Abra Visconti nelle sue componenti storico-culturali a partire dalla documentazione inedita della Marucelliana, tale pionieristico apprezzamento in Gori si andava affermando già a partire dagli anni trenta e quaranta del secolo, ma forse già prima, sulla traccia dello studio d’apertura di Filippo Buonarroti del 1716, le Osservazioni sopra tre dittici di avorio stampate a Firenze13. Si trattava di un tema all’epoca quasi del tutto inesplorato, che fino ad allora aveva raccolto solo deboli ed estemporanee attenzioni sul piano degli studi eruditi e nessuna considerazione su quello estetico e che avrebbe trovato esiti di vera e propria pubblicazione solo a molti anni di distanza, dopo un’ampia e circostanziata trama di ricerche e sondaggi con tenacia effettuati dal fiorentino entro un orizzonte europeo e volti anzitutto 9 10 11 12 13

Verga 2016, pp. 21-35. Gori 1731-1766. Balleri 2005, pp. 97-141; Verga 2016, p. 27 Gori 1737-1743; Winckelmann, Firenze 2016, pp. 91-93 n. 6 (scheda di S. Bruni). Buonarroti 1716, pp. 229-283; Parise 1972, pp. 145-147.

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capitolo primo

osservazioni: a p. 105 in alto don Carlo stigmatizza ancora una volta l’idea di Gori che le quattro tavolette Settala fossero unite: «Qui il Sig. Gori di nuovo parla del congiungimento di queste Tavolette con quelle del Console Oreste, Cum iisdem recenter Consociis. Quando mai si sono vedute unite! Vedi la Nota prima a pag. 87». Il problema dell’identificazione del console angustia don Carlo come aveva angustiato Gori: a p. 107 nello sforzo di risolvere la questione don Carlo osserva la stretta somiglianza con il dittico eburneo conservato nella chiesa di San Gaudenzio a Novara, davvero molto affine: probabilmente poco tempo dopo don Carlo ottenne una copia in legno di questo dittico, che ancora si conserva nella collezione di famiglia, e che corredò di una breve spiegazione come sempre modellata sull’oggetto originale, su un foglio di carta ripiegato in modo da poter essere contenuto all’interno del dittico (figg. 14-15). Nel testo don Carlo spiega che «Questo Dittico di legno è copiato esattissimamente dal suo Originale in Avorio esistente nella Collegiata di S. Gaudenzio di Novara. Tal diligenza debbo al dotto S. Abate Carlo Michele Giulino Milanese, secretario del Monsign. vescovo di Novara. Egli mi assicura così con sua Lettera del 1° Febbraio del 1762»; il Giulino confermava nella lettera, che don Carlo trascrive in parte, la più totale aderenza della copia all’originale: [...] l’intaglio, la misura, le spezzature, la guarnizione (qui si intendono i tre gangheri di ottone pel cui mezzo passa lo stile dello stesso metallo, che tiene unito il Dittico) ed i caratteri sono ugualissimi, né prima d’ora per l’inesplicabile gelosia, con cui si conservano questi pezzi d’antichità ho potuto servire, ed ubbidire V.S.

Stupefacente risulta la capacità di questi appassionati di creare dal nulla, in pochi decenni, un linguaggio adeguato a descrivere oggetti così peculiari, e sempre si accostano nelle loro spiegazioni elementi prettamente descrittivi ad altri che denotano un metodo nell’analisi del pezzo: per cui sorprende trovare tra gli elementi che confermano la fedeltà all’originale non solo la misura o l’intaglio, ma anche le spezzature, cioè le fratture, quegli elementi conservativi che sono parte importante nella valutazione dell’opera. Altrettanto significativa è l’espressione «l’inesplicabile gelosia, con cui si conservano questi pezzi d’antichità» che con un’efficacissima sintesi riesce a rendere l’idea dell’amore un po’ folle che pervade questi studiosi e appassionati e giustifica la fatica, l’impegno, l’acribia con cui don Carlo e i suoi concorrenti rincorrevano, studiavano e acquistavano questi pezzi in tutta Europa. Legato al problema dell’identificazione del console della seconda tavoletta settaliana c’era lo scioglimento del monogramma, su cui già Alessandro Teodoro Trivulzio si era cimentato senza successo; don Carlo (p. 109) rimanda a una serie di riferimenti, come Montfaucon e Muratori, ma soprattutto non risparmia a Gori una battuta cattivissima, osservando che tra varie ipotesi da lui formulate per sciogliere il monogramma che è ripetuto per ben quattro volte egli ne avanza anche una convincente «Annus Novus Bene Publico Bono Eveniat», ma la accosta ad altre totalmente infondate: «se il Sig.r Preposto Gori non avesse prodotta altra spiegazione avrebbe fat80


1. Dionigi Sadis, Carlo Trivulzio tra le opere della sua collezione, post 1789, olio su tela, Milano, collezione privata (foto Mauro Ranzani 2014)


4. Carlo Trivulzio, Note, spiegazioni e illustrazioni dei dittici, giĂ nel Museo Settala, 1759-1789, Milano, Fondazione Brivio Sforza, Archivio Trivulzio, pagina iniziale (foto Mauro Ranzani 2014)


5. Carlo Trivulzio, Note, spiegazioni e illustrazioni dei dittici, già nel Museo Settala, 1759-1789, Milano, Fondazione Brivio Sforza, Archivio Trivulzio, pagina con i disegni dell’Annunciazione (oggi Paris, Musée du Louvre) e del Battesimo di Cristo (ubicazione sconosciuta) (foto Fulvio Lacitignola 2017)


6-7. Carlo Trivulzio, Note, spiegazioni e illustrazioni dei dittici, giĂ nel Museo Settala, 1759-1789, Milano, Fondazione Brivio Sforza, Archivio Trivulzio, pagina con il disegno della tavoletta con le Nozze di Cana (oggi London, Victoria and Albert Museum) e part. (foto Fulvio Lacitignola 2017)


8-9. Manoscritto e tavole illustrative dei dittici giĂ nel Museo Settala, 1759-1789, Milano, Fondazione Brivio Sforza, Archivio Trivulzio (foto Mauro Ranzani 2014)


14. Dittico della chiesa di San Gaudenzio a Novara, esterno, copia in legno, terzo quarto del XVIII secolo, Milano, Fondazione Brivio Sforza, Archivio Trivulzio (foto Fulvio Lacitignola 2017)


15. Dittico della chiesa di San Gaudenzio a Novara, interno con spiegazione scritta da don Carlo, copia in legno, terzo quarto del XVIII secolo, Milano, Fondazione Brivio Sforza, Archivio Trivulzio (foto Fulvio Lacitignola 2017)


16. Roma (?), Dittico del console Manlio Boezio, 487 ca, avorio intagliato, Brescia, Archivio fotografico Musei d’Arte e Storia di Brescia (Fotostudio Rapuzzi)


17. Giambattista Gigola, “Gens Trivulzia”, Tableau con i ritratti dei marchesi Teodoro Alessandro, Maria Margherita, Girolamo Giovanni Fermo e Gian Giacomo Trivulzio, 1804-1805, miniature ad acquerello e gouache su avorio, FAI - Fondo per l’Ambiente Italiano, Caravino, Castello di Masino


32-33. Il Museo Trivulzio nel Palazzo di Piazza Sant’Alessandro all’inizio del Novecento, inizio XX secolo, fotografie, Milano, Fondazione Brivio Sforza, Archivio Trivulzio (foto Fulvio Lacitignola 2017)


ottocento e novecento

object», molto simile a quella conservata a Baltimora, informava anche di aver saputo dall’antiquario parigino che i grandi avori Trivulzio sarebbero andati ai musei di Torino221, ma prometteva di informarsi meglio sulla questione. Infine l’8 maggio Robert Bliss rispondeva a tutte le proposte dell’amico palesando le sue preferenze: I fervently hope there is a possibility that Sangiorgi will be able to produce the Annunciation. You, of course, gather from my cablegram that particular object was the one which interested us of the three things and the Holy Women at the Tomb mentioned in your letter of February 21st and further referred to in subsequent letters. From the photographs which Sangiorgi sent me that Annunciation must be a superlative object. Neither the Kaiser diptych nor the “Otto” plaque seem to me to approach it in beauty and interest. Needless to say, we are eagerly awaiting further news from you.

Al di là delle singole preferenze di Bliss, i toni appassionati e gli aggettivi usati ci confermano ancora una volta la straordinaria qualità degli avori Trivulzio: l’alta considerazione dei giudizi di Bliss proviene da uno dei più fini intenditori di avori medievali della sua epoca e ci dimostra – se ancora fosse necessario – che i capolavori della collezione milanese erano di un tale livello che la possibilità di un loro acquisto passava davanti a qualunque ulteriore proposta. Il gusto personale poteva poi portare a scegliere l’Annunciazione o le Marie al Sepolcro rispetto alla tavoletta di Ottone, ma è evidente che i collezionisti dell’epoca sapevano di trovarsi di fronte a dei pezzi eccezionali, anche quando questi non erano così noti e con un pedigree così elevato come i dittici consolari. In questo susseguirsi di informazioni, stupisce la coincidenza delle date: in quei giorni la collezione era già praticamente congelata dallo stato italiano, attraverso l’intervento del Ministero della Pubblica Istruzione, del Podestà di Milano e dello stesso Mussolini, che aveva dato l’ordine di risolvere la questione arrivando a una vendita ai musei civici della città dove la collezione si era formata già nel marzo del 1935. Ritengo inverosimile che Stora o Sangiorgi avessero davvero la disponibilità fisica degli avori, che fatico a immaginare in continuo transito tra Milano Roma e Parigi; ma i bigliettini di appunti di Luigi Alberico, talvolta datati, attestano effettivamente che i dittici di Filosseno, Giustiniano e Areobindo erano stati affidati nel 1934 a Luigi Galli222, mentre alcuni dei pezzi proposti da Sangiorgi e Stora, cioè le due valve di un dittico imperiale, Otto imperator e l’Annunciazione, sembra fossero stati ceduti effettivamente ad Accorsi con l’incarico di venderli e che Luigi Alberico avesse già ricevuto il saldo del pa-

221 La questione della vendita ai musei civici di Torino è ben ricostruita da Pettenati 1996, poi ripresa da Basso 2008, pp. 147-149 e Castronovo 2016, pp. 21-22. 222 FBS, AT, Miscellanea: «Consegnati a Galli sei dittici avorio 19 giugno 1934 per ₤ 75000? Galli mi deve (200 ₤)». Accanto al testo uno schizzo riproduce i tre dittici uno sopra l’altro, il primo identificato come «Filosseno», il secondo come «Costantinopoli» (sicuramente quello di Giustiniano), il terzo privo di indicazione, ma riconoscibile come Areobindo.

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capitolo secondo

gamento223: mi chiedo se in realtà il principe Trivulzio non avesse pensato di dare fisicamente le opere in mano a persone fidate per toglierle da casa nell’eventualità di un sopralluogo della Soprintendenza e per accreditare la sua affermazione che gli avori non fossero più in suo possesso. Tra l’altro non è vero che gli avori fossero stati liberi da vincoli: l’Annunciazione 224 e il dittico di Giustiniano erano notificati fin dal 1910, Otto imperator e le tavolette del dittico imperiale dal 1930, mentre sui dittici di Areobindo e Filosseno il tentativo di porre il vincolo era naufragato contro l’obiezione del principe di non essere più in possesso dei pezzi, obiezione veridica solo nel primo caso225: il 26 febbraio 1935 la Regia Soprintendenza alle Antichità e Belle Arti di Milano aveva comunicato che considerava sottoposti a notifica complessivamente i dittici di Areobindo e di Filosseno, l’Annunciazione detta greca o carolingia, la tavoletta con Otto Imperator, le due lastre di un dittico imperiale e le Marie al Sepolcro; il 27 febbraio il principe Luigi Alberico rispondeva sostenendo che tutti gli altri oggetti menzionati non erano più da tempo in suo possesso, ad eccezione delle Marie al Sepolcro, che aveva trattenuto confondendolo con l’avorio dell’Annunciazione notificato in data 1903 (in realtà notificato nel 1910 sulla base della legge dell’11 giugno 1903). Ma a quelle date solo il dittico di Areobindo si trovava già nella collezione Montesquiou-Fézensac da qualche mese. Il 15 di maggio un essenziale cablogramma di Tyler notificava ai Bliss la vendita della collezione Trivulzio ai musei milanesi, formalizzata effettivamente all’inizio del mese226: rimaneva ormai sul mercato soltanto il dittico di Filosseno, per il quale Stora abbassa il prezzo a 125.000 franchi. Due giorni più tardi in una lettera Tyler insisteva con Bliss per il dittico di Filosseno, fornendo un’ulteriore indicazione della centralità della collezione Trivulzio: «And now that the Trivulzio coll. has been bought by Milan & Turin, there are no more consular diptychs in private hands, except for one other from Trivulzio, which Stora sold to an undisclosed collector here227, and one leaf of one belonging to Mme de Béhague». Contemporaneamente anche sul versante dipinti il rapporto tra Trivulzio e Accorsi per la vendita 223 FBS, AT, Miscellanea: «18 II 35 XIII Ricevo da Accorsi Pietro per conto di un suo cliente il pieno saldo dei tre avori liberi da ogni vincoli [sic], da me ceduti: l’Annunciazione Carolingia / Valva di libro di Otto Imperator / Due lastre di Dittico imperiale con personaggio (opera del V secolo)». 224 In tutta la pratica sulle notifiche alla collezione Trivulzio l’identificazione di questo pezzo è assai confusa: probabilmente lo stesso Luigi Alberico giocava confondendo l’Annunciazione greca o carolingia con le Marie al Sepolcro; cfr. Milano, Archivio già della Soprintendenza ai Beni Artistici e Storici, Pratica posizione 13/334/Milano Trivulzio p.pe Luigi Alberico. 225 Per i singoli casi si vedano le schede delle opere. 226 Il 14 maggio 1935 la Soprintendenza avvertì il Comando dei Carabinieri che tutta la raccolta del principe Trivulzio era passata al Comune di Miano e che solo il ritratto di Antonello da Messina e il Libro d’Ore di van Eyck erano stati ceduti al Comune di Torino. Nel corso della spunta di verifica nessuno degli oggetti notificati al principe risultò mancante (Milano, Archivio già della Soprintendenza ai Beni Artistici e Storici, Pratica posizione 13/334/Milano Trivulzio p.pe Luigi Alberico). 227 Si tratta del dittico di Areobindo (cfr. scheda n. 2, fig. 36).

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ottocento e novecento

della collezione in blocco ai musei di Torino aveva acceso l’attenzione degli antiquari: i Duveen moltiplicarono gli scambi tra i due lati dell’oceano monitorando la vendita, vincolata all’eventualità che la città di Torino trovasse i 9 milioni di lire richiesti per la cessione in blocco della raccolta entro due mesi, pronti a buttarsi sui singoli pezzi nel caso questi si fossero resi disponibili, dato che girava la voce che Trivulzio sarebbe stato pronto a donare tutta la collezione ai musei se avesse ottenuto l’autorizzazione all’esportazione, quindi alla vendita all’estero, dell’Antonello, del Mantegna, delle Ore di Van Eyck, di una Madonna di Bellini e di un volume di Dante228: l’Antonello rimaneva sempre il dipinto più appetibile, mentre il Mantegna suscitava qualche perplessità per l’intonazione scura della policromia. La questione Trivulzio si chiuse per i Bliss così; ma una lettera del 21 dicembre 1936 contiene ancora un’informazione estranea a questo contesto, ma in ogni caso interessante e da verificare: «Trivulzio once told me he had some marvellous enamels, but there was always a reason why he couldn’t show them to me. Well, they’re certainly wrong: made, I should guess, in Italy about the middle of the XIX Cent. I beg you not to mention this to anyone but Robert». La vicenda si chiude quindi con l’ulteriore ombra della presenza di falsificazioni sospette nella raccolta.

228 Tutti i dipinti e i contenuti della Bilbioteca, compresi i manoscritti di Dante, sono pervenuti ai musei civici milanesi, tranne il Ritratto di Antonello e le Ore di Van Eyck, donate ai musei civici di Torino.

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Avvertenza Le schede riportano in primis il titolo con cui l’opera è generalmente identificata negli inventari Trivulzio o nei documenti; subito sotto il soggetto.


1. Dittico di Oreste console Dittico consolare di Rufo Gennadio Probo Oreste Roma, 530 Avorio intagliato cm 34 ∑ 11,8 (ogni valva) London, Victoria and Albert Museum, inv. 139-1866 [figg. 3-4, 8-9, 34-35] Il dittico di Oreste appartiene a una tipologia molto specifica di prodotti artistici realizzati nel tardo impero romano e nelle fasi subito seguenti (V-VI secolo): in occasione della nomina a console, questi gratificava gli elettori che avevano sostenuto la sua candidatura con doni estremamente preziosi, coppie di tavolette di avorio intagliate all’esterno e lisce all’interno, dove potevano essere apposte, probabilmente su una base di cera, parole di ringraziamento. Il dittico all’esterno poteva presentare forme diverse di decorazione: questo di Oreste appartiene alla tipologia più ricca e comprende in alto la cosiddetta tabula ansata, cioè una tavoletta incisa con la terminazione a coda di rodine che riporta in forma abbreviata il nome del console e i suoi titoli principali (in questo caso da sciogliere in «Rufii Cenadii Probi Orestis / Viri clarissimi et inlustris consuis ordinarii»). Al centro della composizione si trova il console, seduto sulla sedia curulis, mentre impugna i simboli del potere, cioè lo scettro sormontato da una minuscola rappresentazione dell’imperatore e la cosiddetta mappa, sventolando la quale dava avvio ai giochi del circo. Oreste è circondato da due figure femminili, che sono state identificate in Costantinopoli (a sinistra) e in Roma (a destra): la prima tiene in mano un tondo con la lettera A, abbreviazione per Anthusa, denominazione alternativa di Costantinopoli, la seconda un vessillo

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con l’immagine dell’imperatore – eroso nella valva di destra. La figura del console è sormontata dal suo monogramma. Al di sotto dei piedi di Oreste due servitori, identificati dal caratteristico abito corto, trasportano sulle spalle degli orci da cui versano monete che vanno ad alimentare il tesoro del console, costituito da molti oggetti, tra cui si distinguono dei grandi piatti, verosimilmente d’argento, e delle tavolette che potrebbero anche raffigurare dei dittici: la scena simboleggia le elargizioni e i regali con cui egli beneficerà la popolazione. In alto, sopra la tabula ansata, si trova una croce a simboleggiare la fede del console, circondata da due imagines clipeatae che riproducono il re ostrogoto Atalarico e la madre reggente Amalasunta. Le due valve del dittico di Oreste sono in buone condizioni, sebbene mostrino alcuni segni di rielaborazione, in particolare una lieve rifilatura dei lati lunghi interni e un’erosione della parte interna della valva (fig. 35), dovuti certamente a un reimpiego, caso assai frequente con i dittici consolari: sui due lati interni si vedono comunque ancora i segni di aggancio delle cerniere, mentre entrambe le valve sono segnate da numerosi piccoli buchi, utilizzati per fissare la tavola a una struttura, molto probabilmente, secondo l’uso, una rilegatura. Tutta la superficie intagliata mostra una generale erosione, più evidente sulla valva frontale, che è stata interpretata da Netzer (1983) come la prova della rilavorazione di un originale dittico di Clementino, a cui questo di Oreste molto assomiglia nella tipologia. Se tipologicamente il dittico di Oreste è modellato su quello orientale di Clementino – che era forse a Roma già nel 513 (Gibson 1994, pp. 19-22; Williamson 2010) –, dal punto di vista stilistico esso può essere avvicinato al dittico di Basilio, oggi diviso tra il museo del Bargello di Firenze e il Castello Sforzesco di Milano, in passato attribuito a Costantinopoli e assegnato al 480, mentre attualmente prevale l’identificazione con Anicio Fausto Albino Basilio, console per la parte orientale dell’impero nel 541, ma originario di Roma, motivo per cui il suo dittico viene considerato legato alle consuetudini stilistiche e rappresentative occidentali. Il dittico di Oreste oggi al Victoria and Albert Museum di Londra è certamente uno degli avori più celebri e più studiati che siano transitati per la collezione Trivulzio. È noto, fin dalla testimonianza di Gori, come il dittico si trovasse nella prima metà del Settecento presso la collezione Settala insieme a quello di Areobindo oggi al Museo del Louvre, dalla quale li avrebbe poi acquistati don Carlo. Nessuna ricerca era riuscita fino ad ora a individuare il passaggio precedente: soltanto Paul Williamson, osservando come Cassiano dal Pozzo nell’albo di disegni oggi conservato a Windsor (Osborne 1991) ne avesse riportato copia dell’iscrizione e del monogramma, ha ipotizzato che l’avorio potesse trovarsi nel Seicento a Roma e che lì l’avesse acquistato Manfredo Settala (Osborne, Claridge 1998, avevano invece supposto che fosse stato Manfredo, oppure il fratello Carlo Settala, ad averlo inviato a Cassiano da Milano, ipotesi che sulla base delle attuali conoscenze appare più probabile). Recenti ricerche condotte da Carlo Maria Mazzucchi (2017) hanno però consentito di ricostruire le vicende precedenti: in base alla testimonianza dell’erudito milanese Gian Pietro Puricelli (1589-1659) è risultato infatti che in un certo periodo il dittico d’avorio è stato conservato in Sant’Ambrogio a Milano, dove costituiva, insieme al dittico di Areobindo, l’operimentum – cioè il coperchio di un contenitore – del celebre codice papiraceo con le Storie

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di Giuseppe Flavio oggi nella Biblioteca Ambrosiana di Milano (BAMi, ms. S.P. 11/1), prima traduzione latina del testo originale greco commissionata da Cassiodoro nella prima metà del VI secolo. Più precisamente Puricelli riporta la tradizione di un altro storico locale, Tristano Calcho, che nei Mediolanensis Historiae patriae libri XX del 1627 narra un aneddoto relativo ad Attila, il quale giunto a Milano avrebbe visto dipinta su una parete la scena di imperatori romani a cui alcuni Sciti rendevano omaggio con doni; irritato da questa rappresentazione, l’avrebbe fatta modificare facendosi dipingere al posto degli imperatori e ri- traendo nei panni dei portatori di doni i sovrani romani. Puricelli, nell’intento di individuare la riproduzione di Attila che si dovrebbe conservare in Milano, ricorda «quatuor eburneae tabellae» nella basilica di Sant’Ambrogio, in due delle quali riconosce rappresentato questo episodio; poi continua: «Ex iis vero quatuor tabellis, hinc inde binis diversimode caelatis, vetus constabat operimentum pretiosissimi eius Codicis, quo nunc Ambrosiana Bibliotheca iure merito gloriatur, quemque sic etiam recenter in fronte inscripsit: FLAVII IOSEPHI DE ANTIQUITATE IUDAICA LIBRI [...]». Al di là dell’invenzione – i due dittici settaliani sono datati rispettivamente al 506 quello del Louvre e al 530 quello del Victoria and Albert Museum, quindi risultano molto posteriori all’arrivo di Attila a Milano (452) e all’episodio narrato, che peraltro fa riferimento a pitture – il dato della presenza delle quatuor eburneae tabellae nella basilica ambrosiana è fondamentale e apre a una serie di considerazioni sul ruolo che ebbe il monastero ambrosiano, prima benedettino e poi cluniacense, nella produzione e nella conservazione di opere eburnee, che andrà in qualche modo collegato al ruolo già adombrato in passato da Charles Little (1988). Alla data dell’opera di Puricelli (1656) le tavolette si trovavano dunque in Sant’Ambrogio, ove erano arrivate in un periodo per ora non precisabile, ed erano già state separate dal papiro cui per un certo periodo erano state collegate e che nel 1605 era stato ceduto dai monaci, a quel punto cluniacensi, del convento a Federico Borromeo per la Biblioteca Ambrosiana (Mazzucchi 2017, p. 301). Le precise e puntuali indicazioni fornite da Mazzucchi consentono di chiarire che la separazione tra i dittici e il papiro doveva essere avvenuta già almeno nel XVI secolo. Più difficile ricostruire la data dell’arrivo a Milano: per il papiro egli si dice convinto della sua presenza già nel IX secolo, quando una mano locale glossa il testo. In quanto al luogo dove sarebbe avvenuto l’assemblaggio dei dittici – uno di produzione bizantina e l’altro di ambito occidentale, attribuito a officina romana – con il papiro, Mazzucchi propone Ravenna, per il ruolo culturale e politico svolto da questo centro nel VI secolo e per i lunghi e ripetuti soggiorni di Cassiodoro. Tuttavia non ci sono elementi né stilistici né storici che permettano di collegare i due dittici a Ravenna – neppure un’eco nella pur abbondante produzione eburnea locale del VI e VII secolo – sebbene si debba ricordare che Volbach (1977) aveva supposto un’esecuzione ravennate per il dittico, ipotesi non condivisa dalla bibliografia più recente (Williamson 2010, p. 48). È però indubbio che per Cassiodoro, committente del papiro, non sarà stato difficile entrare in possesso né del dittico di Areobindo né di quello di Oreste, anzi potrebbe addirittura essere stato uno dei destinatari dei prestigiosi doni da parte dei due consoli in momenti diversi; i pezzi saranno poi stati assemblati o da Cassiodoro stesso o in epoca successiva, ma assai precoce, e per vie che ora non riusciamo a tracciare saranno giunti a Milano, centro culturale e politico di primo piano anche nelle difficili e concitate fasi tra la fine dell’impero e l’epoca carolingia.

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A conferma della testimonianza di Puricelli si noti comunque che le due tavolette di Oreste e di Areobindo hanno oggi esattamente le stesse misure: cm 33-34 in altezza e tra gli 11,6 e gli 11,9 cm in larghezza, che uniti portano a cm 23 circa (i bifogli del papiro misurano cm 35 di altezza ∑ 48 di larghezza). Non è stato possibile fino ad ora neppure rintracciare il momento di ingresso dei due dittici nella collezione Settala: la presenza dell’iscrizione nel foglio del Museo Cartaceo di Cassiano dal Pozzo sembrerebbe collocare quello di Oreste presso la famiglia già all’altezza delle generazione di Manfredo (1600-1680) e Carlo (?-1682), quindi intorno alla metà del XVII secolo, ma i dittici non risultano presenti nell’inventario dei beni di Manfredo steso nel 1666, che tuttavia non comprende tutte le opere appartenenti alla collezione di famiglia, e Puricelli nel 1656 sembra parlarne come di pezzi ancora presenti in Sant’Ambrogio. Quando Gori compone la parte della sua opera dedicata al dittico di Oreste questo si trovava ancora nel Museo Settaliano, dove l’aveva visto Muratori che per primo gliel’aveva segnalato (cfr. Squizzato, supra p. 35): «Senza dubbio sarà molto plausibile la raccolta di tutti i dittici che si possono trovare essendo materia erudita e curiosa. Niun manoscritto ho veduto che tratti di queste materie. Solamente posso dirle che nella Galleria del Settala in Milano se ne conserva uno bellissimo d’avorio bene istoriato. Più d’una volta ho tentato d’averne copia, col pensiero di darlo alla luce, né mai l’ho potuta avere perché era allora controversa quella galleria. Ora non so come stia. L’appoggio di qualche nobile poderoso oggidì ne faciliterà a lei una copia» (lettera a Gori, Modena 24 febbraio 1742, in Lettere inedite di Ludovico A. Muratori 1854, p. 444; Gori 1759, II, p. 87). Gori individua il nobile poderoso che potrebbe aiutarlo in Alessandro Teo- doro Trivulzio, con cui avvia una corrispondenza in quello stesso anno 1742, e deve aver composto questa parte della sua opera prima del 1754, data in cui don Carlo procede all’acquisto presso Antonio Settala, anche se lo stesso Carlo avrà modo di ricordare di non aver mai informato lo studioso toscano dell’acquisto. Nell’opera del Gori è riconosciuto fin dal titolo il debito nei confronti di Alessandro Teodoro («Diptycha duo Orestis consulis ann. cer. DXXX quae Mediolani exstant in Museo Settaliano tabulis XVII et XVIII nunc primum edita et inlustrata ad amplissimum marchionem Theodorum Alexandrum Trivultium patricium mediolanensem») il cui ruolo come fonte dello studioso toscano per le collezioni milanesi e lombarde è già stato messo ampiamente in luce (Tasso 2002; Visconti 2012; Squizzato, supra pp. 27-53). Nel caso specifico Alessandro Teodoro fa disegnare le due tavole del dittico dal pittore Girolamo Ferroni (fig. 3) (BMF, Fondo Gori, ms. A.CCXI, lettera di Alessandro Teodoro Trivulzio a Gori, Milano 23 maggio 1742; cfr. anche Visconti 2012) e invia a Gori i disegni insieme a una serie di lettere con tutte le informazioni (BMF, Fondo Gori, ms. A.CCXI: sui dittici settaliani cfr. le due lettere di Alessandro Teodoro Trivulzio a Gori del 25 aprile e 2 maggio 1742; per le risposte di Gori cfr. Visconti 2012, passim e pp. 236-239, 246). Gori esprime la sua profonda gratitudine ad Alessandro Teodoro per avergli inviato non solo i disegni dei due dittici della collezione Settala, ma anche quelli conservati nel Tesoro della basilica di Monza, sebbene questi fossero già stati pubblicati dal celeberrimo Mabillon nel suo Italicum Iter, dove ne trattava con molte lodi; e per «alia non pauca, eaque insigna, quae in Sacrario Bibliotechae Ambrosianae servantur», di cui parlerà

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subito dopo (probabilmente le opere eburnee del Duomo di Milano, come sembra precisare anche don Carlo nel suo commento). La testimonianza di Puricelli del riuso come rilegatura conferma un’ipotesi che era già stata avanzata da Delbrück (1929) e confermata da Williamson (2010) sulla base dell’analisi morfologica del manufatto, in particolare dei ripetuti segni di perforazione e dei tagli sui lati della cerniera; e chiarisce un particolare controverso fornito da Gori (1759, II, p. 89), il quale, sulla base di un’icomprensione delle informazioni che gli vengono fornite per iscritto da Alessandro Teodoro Trivulzio (BMF, Fondo Gori, ms. A.CCXI, lettera del 25 aprile 1742), descrive le due tavole del dittico di Oreste come connesse da ogni lato con catenelle d’oro alle altre due tavole del dittico settaliano all’epoca non identificato (Areobindo), sebbene sia consapevole che si tratti di due consoli diversi (p. 105). Tuttavia qualche anno dopo don Carlo Trivulzio preciserà di non aver mai visto le tavolette dei dittici legate insieme da catenelle, quando stavano nella Galleria Settala («[...] non so d’onde ciò abbia ricavato [Gori], imperciocché queste quattro tavolette, mentre esistevano nella Galleria Settala si sono sempre vedute sciolte», FBS, AT, Miscellanea, Note, spiegazioni e illustrazioni dei due dittici già nel Museo Settala, commento a fianco della p. 89 di Gori); nega che questa ipotesi sia stata formulata da Gori sulla base di un’informazione proveniente dal marchese Alessandro Teodoro suo fratello («[...] ne il Sig. Marchese D.on Teodoro Alessandro Trivulzi mio fratello ha di già mai scritto tal cosa», ibid.) e la attribuisce a un’errata convinzione dello stesso Gori, che potrebbe aver creduto che le due valve costituissero un unico dittico («È da riflettersi ancora, che scrivendo il chiarissimo Sig. Gori l’anno 1748 al chiar. Agenbuchio nel comunicargli l’iscrizione e i Monogrammi di questi Dittici Settaliani, egli di due Dittici, che sono, ne fa uno solo: credendo, che il Dittico di Oreste fosse la parte interna, e l’altro Dittico componesse l’esterior parte», ibid.). Le difficoltà nel comprendere la modalità espositiva nel Museo Settaliano si esplicitano in due fogli pieni di appunti di Gori intorno alla riproduzione delle quattro valve dei due dittici disposte secondo le indicazioni fornite dal marchese Alessandro Teodoro (BMF, Fondo Gori, ms. A.CCLXXI, cc. 34v-36r, riprodotto in Visconti 2012, tavv. III-IV). Don Carlo glossa puntualmente il testo di Gori nel suo volume dedicato ai dittici settaliani (FBS, AT, Miscellanea, Note, spiegazioni e illustrazioni dei due dittici già nel Museo Settala, si veda supra pp. 74-85). Nella pagina introduttiva precisa che la cessione della collezione Settala all’Ambrosiana, secondo le volontà di Manfredo, non comprendeva tutta la raccolta famigliare, ma solo la parte legata da questi; che una parte della raccolta rimase nella disponibilità della famiglia; che di questa facevano parte i due dittici (che per questa ragione non compaiono nella pubblicazione del 1666) e che questi furono acquistati da lui direttamente da Antonio Settala in data 31 agosto 1754. Stranamente colloca al 1747 e non al 1742 la data di esecuzione dei disegni dei dittici, poi inviati dal fratello Alessandro Teodoro a Gori. Gli appunti di don Carlo sui due dittici rimasero a livello di note. Un sunto delle sue osservazioni unite a preziosissime indicazioni sulle modalità espositive all’interno del suo museo si trova in una pagina incorniciata composta con la sua consueta scrittura regolare ed elegante, quella utilizzata per la redazione definitiva dei suoi commenti alle opere (il manufatto è menzionato anche da Seregni 1927, p. 187). Il testo fungeva da corredo alla modalità espositiva:

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«Le quattro tavolette d’Avorio, che si vedono chiuse nel Quadro qui dirimpetto, formano due Dittici Consolari, il primo de quali spettante ad Oreste e formato dalle due tavolette poste nel mezzo, ed il secondo spettante a Console incerto viene composto dalle altre due collaterali, le quali si sono divise, perché compaia più il Dittico d’Oreste, comecché più pregevole» (FBS, AT, Biblioteca e Museo Trivulzio); dalla descrizione è evidente come nel museo Trivulziano le quattro tavolette fossero state ricomposte ed esposte insieme, attribuendo la maggiore rilevanza al pezzo più decorato e meglio identificato. La spiegazione prosegue in maniera più tradizionale chiarendo cosa sia un dittico e il ruolo dei consoli (figg. 8-9). Un’ulteriore menzione dei dittici settaliani ricorre in un altro testo composto da don Carlo, un volumetto manoscritto dedicato a una tavoletta intagliata su entrambi i lati proveniente dalla cattedra di Massimiano e conservato nella Biblioteca Trivulziana (ASC-BT, NA C 88-89). Nella prima pagina del testo don Carlo ricapitola i pezzi in suo possesso a quelle data (post 1774) e i primi ad essere citati sono i due dittici: «La sorte a me in ciò è stata propizia, mentre quanto a dittici consolari ne possedo due singolarissimi. Il primo appartiene al console Oreste che coprì quell’eccelsa dignità l’anno di Cristo 530 assieme con Lampadio [...]. Questi due Dittici li aquistai delli signori Settala nostri patrizii, ed il chiarissimo Gori come custoditi appresso quella nobile famiglia pubblicali nel tomo secondo dell’opera: Thesaurus veterum diptycorum, pag. 89». Lo stretto rapporto che lega don Carlo al padre domenicano Giuseppe Allegranza, bibliotecario della Biblioteca Braidense di Milano dal 1770, spiega la menzione del dittico di Areobindo nell’elenco dei dittici consolari noti all’epoca steso dall’erudito milanese (Allegranza 1773, p. 14 n. XIII): il dittico viene detto un tempo nella collezione Settala, a quell’epoca nella collezione del patrizio milanese Carlo Trivulzio. Infine bisogna notare che, nel ritratto del nobiluomo dipinto dopo la sua morte da Dionigi Sadis (figg. 1-2), il dittico di Oreste, a riprova della sua importanza, occupa una posizione molto visibile, alle spalle di don Carlo insieme al dittico di Giustiniano (Morandotti 2008, p. 155). Il dittico fu visto e descritto da Lanzi nel 1793 (Pastres 2000, p. 240). Dopo la fase settecentesca, in cui indubbiamente i due dittici Settala rappresentarono uno degli apici della collezione, la fortuna del dittico di Oreste sembra scemare. Questo cambiamento nella fortuna critica dovrebbe essere spiegato con il fatto che nel Settecento, in una fase iniziale dello studio dei dittici, in cui prevalgono i valori storici, un dittico chiaramente identificabile costituiva una rarità, in un contesto in cui se ne conoscevano meno di venti. Con l’evolversi degli studi e la crescita di consapevolezza dei giudizi estetici, la rappresentazione antinaturalistica delle figure, la lavorazione a bassorilievo, il carattere tipico della fase di passaggio tra arte romana e arte medievale ne deve aver condizionato in parte l’apprezzamento. Infine, deve aver pesato su di esso la separazione dal secondo dittico settaliano, avvenuta in occasione della divisione della collezione tra Gian Giacomo Trivulzio e la cognata Vittoria Gherardini (1816), in cui il dittico di Oreste console costituisce il n. 1 del Piede A, che comprende la parte della collezione che andrà a Vittoria e attraverso lei alla figlia Cristina, sposa del principe Emilio Barbiano di Belgioioso. Fu Cristina o sua figlia, Maria Belgioioso, moglie del marchese Trotti, a vendere il pezzo molto precocemente, visto che nel 1856 esso risulta già nella collezione Stoltykoff di Parigi, da cui uscì nel 1856 (Pulszky 1856, p. 14); passò poi

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schede delle opere

a John Webb (Westwood 1862), che la vendette al Victoria and Albert Museum nel 1866. Bibliografia Puricelli 1656, pp. 371-372; Gori 1759, II, pp. 87-104, tabb. XVI-XVII; Allegranza 1773, p. 14; Pulszky 1856, p. 14; Westwood 1862, p. 25; Mommsen 1877, n. 8120/6, p. 1008; Seregni 1927, pp. 187-188, 246; DelbrĂźck 1929, pp. 148-150; Catalogo 1956, pp. 68-69 n. 62; Volbach 1977, pp. 10, 23, 37; Netzer 1983; Osborne 1991, p. 242; Osborne, Claridge 1998, pp. 188-189; Pastres 2000, p. 240; DelbrĂźck 2009, pp. 252-255 n. 32; Williamson 2010, pp. 46-49 n. 6 (con completa bibliografia precedente); Visconti 2012; Mazzucchi 2017, pp. 301-305.

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34. Roma, Dittico consolare di Rufo Gennadio Probo Oreste, 530, London, Victoria and Albert Museum, inv. 139-1866 (Š Victoria and Albert Museum, London) [scheda n. 1]


39-40. Costantinopoli, Due lastre di un dittico imperiale, inizi VI secolo, Milano, Castello Sforzesco, Raccolte d’arte applicata, inv. Avori 11, 12 (foto Saporetti Immagini d’arte Milano) [scheda n. 5]


41. Roma (?), Valva di dittico rappresentante le Marie al Sepolcro, 400 ca, Milano, Castello Sforzesco, Raccolte d’arte applicata, inv. Avori 9 (foto Saporetti Immagini d’arte Milano) [scheda n. 6]


42-43. Costantinopoli (?), Tavoletta con NativitĂ e Ingresso di Cristo a Gerusalemme dalla cattedra di Massimiano, 546 ca, Ravenna, Museo Arcivescovile (su concessione dell'Archidiocesi di Ravenna-Cervia, Ravenna) [scheda n. 7]


44. Ravenna (?), Tavoletta con San Pietro, 500 ca, Bryn Athyn (PA), Glencairn Museum, inv. 04CR36 [scheda n. 8]


51. Costantinopoli, Tavoletta con Koimesis (Dormitio Virginis), fine X secolo, Houston, The Museum of Fine Arts, Museum purchase funded by the Laurence H. Favrot Bequest, 71.6 [scheda n. 15]


52. Costantinopoli, Tavoletta con Deesis, X secolo, Berlin, Staatlichen Museen, Skulpturensammlung und Museum fĂźr Byzantinische Kunst, inv. 576 [scheda n. 16]


58. Sicilia (?), Ricciolo di pastorale con Un serpente e un falcone che attaccano una gazzella, metà o seconda metà del XII secolo, Paris, Musée du Louvre, inv. OA 11776 (© RMN-Grand Palais (musée du Louvre) / Stéphane Maréchalle, Paris)


59. Inghilterra, Renania o regione della Mosa, Figura di Leone con cartiglio e iscrizione «S. MAR», fine XII - inizio XIII secolo, Torino, Palazzo Madama - Museo Civico d’Arte Antica, inv. 140/AV (su concessione della Fondazione Torino Musei, foto Studio Gonella 2010)


62. Maestro Mège (Parigi), Dittico con la Vergine in gloria tra due angeli che incorona un angioletto e la Crocifissione, secondo quarto XIV secolo, Torino, Palazzo Madama - Museo Civico d’Arte Antica, inv. 0147/AV (su concessione della Fondazione Torino Musei, foto Studio Gonella 2010)


63. Parigi o Renania (?), Tavoletta con la Dormitio Virginis, terzo quarto XIV secolo, Torino, Palazzo Madama - Museo Civico d’Arte Antica, inv. 0143/AV (su concessione della Fondazione Torino Musei, foto Studio Gonella 2010)


67-68. Boemia (?), Sella da parata, 1400-1430, osso intagliato e dipinto, scorza d'albero e legno, New York, The Metropolitan Museum of Art, inv. 40.66, Harris Brisbane Dick Fund, 1940 [scheda n. 23]



75. Russia nordoccidentale (Mosca, Novgorod o Vologda?), Icona con l’inno “In te si rallegra ogni creatura”, XVI secolo, Milano, collezione privata (foto Mauro Ranzani 2014) [scheda n. 24]


76. Russia nordoccidentale (Mosca, Novgorod o Vologda?), Frammento di un’icona con feste della chiesa ortodossa, XVI secolo, Milano, collezione privata (foto Mauro Ranzani 2014) [scheda n. 25]


80. Goa, Cristo crocifisso, XVII secolo, Torino, Palazzo Madama - Museo Civico d’Arte Antica, inv. 0111/AV (su concessione della Fondazione Torino Musei, foto Paolo Robino 2017)


appendice documentaria



L’evoluzione della collezione tra inventari ed esposizioni Per il Settecento lo studio della collezione Trivulzio è stato condotto sull’epistolario di Alessandro Teodoro e sul ricchissimo materiale di studio prodotto da don Carlo; ma non è stato rinvenuto, malgrado gli sforzi, un inventario sistematico, che avrebbe dovuto essere steso alla morte di don Carlo. Per l’Ottocento la situazione cambia e, sebbene l’attività collezionistica del pronipote Gian Giacomo (1774-1831) sia documentata anche da un ricco epistolario, sono gli inventari a permetterci di seguire in maniera precisa e puntuale l’evoluzione della raccolta. Gli elenchi a tutt’oggi ritrovati sono due: il primo, steso nel 1816, è il cosiddetto Inventario di divisione ed è stato redatto da Pietro Mazzucchelli a seguito della morte dei due fratelli di Gian Giacomo, Alessandro e Gerolamo1: il primogenito Alessandro era mancato già nel 1805, poco dopo il padre, e senza eredi; Gerolamo, sposato a Vittoria Gherardini, era morto invece nel 1812. Le collezioni bibliotecarie e artistiche, divise per tipologie, furono assegnate in parti rigorosamente uguali a Gian Giacomo (Piede B) e a Vittoria (Piede A), madre di Cristina, che nel 1824 porterà in dote questo ingente patrimonio artistico al marito Enrico Belgioioso. Il secondo inventario fu redatto da Costantino Lavezzari nel 1856 a seguito della morte di Giorgio Teodoro Trivulzio (1803-1856), figlio di Gian Giacomo; in quel caso l’obiettivo era censire il patrimonio e il criterio con cui fu svolta la rilevazione fu topografico, organizzato cioè per stanze e poi armadi, ma con la significativa aggiunta del valore attribuito alle opere: non a caso il titolo del documento è Stima del Museo e Numismatica nonché oggetti preziosi di compendio dell’eredità del minore marchese Gian Giacomo Trivulzio [1839-1902], eseguita dal perito giudiziario Costantino Lavezzari come da decreto 14 marzo numero…2. 1 Museo d’Antichità. Piede A e Piede B. Inventario di divisione 1816, conservato in AFT, Araldica, Uffici, 3.90. Dell’inventario esiste una bozza preparatoria compilata dallo stesso Pietro Mazzucchelli, conservata nella Biblioteca Ambrosiana di Milano (cod. H 150 suss); si veda Pasini 1993, p. 647. 2 Il documento si trova in AFT, Araldica, Uffici, 3.89.

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appendice documentaria

C’è un terzo documento essenziale per orientarsi nella raccolta e non si tratta di un inventario prodotto all’interno della famiglia, ma del catalogo dell’“Esposizione storica d’arte industriale” tenutasi nel 1874 in una palazzina messa a disposizione dall’Associazione degli Industriali nei Giardini di via Palestro, a Milano. In quella circostanza Gian Giacomo Trivulzio (1839-1902) concesse generosamente molte sue opere per allestire la mostra: la sezione degli avori annoverava ben 62 opere di sua proprietà su 161 selezionate. A margine della mostra fu pubblicato un albo di fotografie realizzate dallo studio Rossi di Genova3: della dozzina di foto per la sezione degli avori ben nove riguardavano la collezione Trivulzio. L’analisi comparata di questi tre documenti – di cui qui di seguito si pubblica il testo dei due inventari – ha permesso di individuare molte delle opere appartenute ai Trivulzio, ma ha fornito anche moltissime informazioni in merito agli interessi, alle tipologie, anche alle valutazioni pratiche e quindi critiche degli avori da parte dei collezionisti. Il primo inventario, destinato, come si è detto, alla divisione della collezione, è stato stilato da Pietro Mazzucchelli, che pur avendo una competenza soprattutto libraria conosceva bene anche la collezione museale4. Il confronto tra le due parti risulta oggi sbilanciato, perché gli avori rimasti presso i Trivulzio hanno continuato ad essere oggetto di inventari, studi e pubblicazioni per tutto il secolo e risultano quindi molto ben documentata; molto meno conosciamo della parte che attraverso Vittoria Gherardini passò a Cristina di Belgioioso e da lei alla figlia Maria Trotti. Forse in futuro qualche sorpresa potrebbe venire da ricerche sugli archivi Belgioioso e Trotti, insieme a un’indagine sistematica dei movimenti di acquisizioni e cessioni nelle grandi collezioni ottocentesche in tutta Europa, che aiuterebbe a chiarire i passaggi delle opere d’arte, ma fino ad ora è risultato difficile ricostruire la consistenza della collezione di quel ramo e la sua dispersione che, da quanto si può ricavare ad esempio dalla vicenda del dittico di Oreste – già nel 1856 a Parigi nella collezione Stoltykoff – cominciò molto precocemente. Contrariamente a quanto accadde per la celeberrima biblioteca5, la vendita degli avori Belgioioso Trotti lasciò pochissime tracce; è solo evidente che molti pezzi erano ancora in mano a Maria di Belgioioso e a suo marito nel 1874, come si rileva dal catalogo dell’Esposizione. Negli anni successivi tuttavia molti di questi avori furono immessi sul mercato antiquariale e la mediazione per la vendita fu affidata, forse in esclusiva, all’antiquario milanese Giuseppe Baslini6. Un cospicuo nucleo di avori appartenuti a Maria di Belgioioso compare infatti nel catalogo di vendita postumo del 18887; ma il nome di Baslini ricorre anche in relazione ad altre opere che non si trovano menzionate nel catalogo ma che furono vendute negli anni ottanta, probabilmente in maniera diretta; si tratta ovviamente dei pezzi più appetibili: è il caso della cassetta in cipresso rivestito di avorio venduta ai fratelli Bagatti Valsecchi (cfr. scheda n. 20, figg. 55-57), 3 Per il catalogo dell’esposizione si veda Tasso 2012b, pp. 418-419; per le fotografie Paoli 2012, in part. pp. 439, 447 nota 15. 4 Su Mazzucchelli si veda la completa biografia di Frasso, Rodella 2013. 5 Le vicende relative alla vendita della cospicua biblioteca Belgioioso Trotti si ripercorrono in Pasini 1993. Qualche aggiunta sull’identificazione dei codici andati dispersi anche in Pontone 2012, pp. 100-101 nota 35. 6 Sulla figura di Baslini si veda Zanni 2000; Di Lorenzo 2002, pp. 37-38, 43 nota 5: interessante in questo contesto la nota che ricorda come, secondo Wilhelm von Bode, Baslini fosse stato il vero artefice del Museo Poldi Pezzoli. Indubbiamente egli riuscì a creare un rapporto di fiducia molto profondo con diverse famiglie dell’aristocrazia lombarda in un periodo di grande mobilità delle collezioni. 7 Catalogo Baslini 1889.

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appendice documentaria

delle tavolette cedute al conte Stroganoff, tra le più preziose (cfr. schede nn. 7, 8, 14, figg. 42-43, 44, 49), e dei cinque avori acquistati da Wilhelm Bode nel 1886-1887 e oggi al Bode Museum di Berlino (figg. 52, 54, 69, 70, 71). I cinque pezzi, di valore e importanza molto diversa (nn. 13, 14, 38, 58b e 58c dell’Inventario 1816, Piede A), risultano venduti dalla vedova dell’antiquario Baslini insieme a una Crocefissione di Cristo in madreperla (inv. 1520) per il prezzo complessivo di 2424 marchi; gli inventari del museo riportano comunque l’indicazione della provenienza Trotti Trivulzi, garanzia di qualità8. Pur considerando quindi lo squilibrio tra i due rami della collezione, molte evidenze emergono dall’analisi dell’inventario: scorrendo l’elenco si comprende immediatamente che la divisione fu estremamente ponderata ed effettuata mettendo sullo stesso piano oggetti di tipologia, uso, data e funzione affine, con un valore generalmente decrescente: si partì, come forse è ovvio, dai grandi capolavori, per arrivare ad oggetti frammentari, d’uso comune o di datazione tarda. Al primo posto ci sono i dittici consolari, ma non vengono messi sullo stesso piano i due provenienti dalla collezione Settala: a Vittoria Gherardini viene assegnato quello di Oreste, a Gian Giacomo quello di Giustiniano, ritenuto evidentemente paritario per l’integrità delle due valve e per la presenza delle iscrizioni; il dittico di Areobindo, frammentario, occupa invece la seconda posizione nell’elenco delle opere assegnate a Gian Giacomo, insieme alla copia del dittico di Novara, assai simile, a una Natività non identificata e a un Crocifisso tardo, oggi a Torino. Nell’altro piede la seconda posizione è occupata dalla prestigiosa tavoletta proveniente dalla cattedra di Ravenna, da un trittico sacro e da un «quadro in vetro» non meglio specificato. Seguono quindi i dittici sacri, secondo la graduatoria di valore stabilita a suo tempo da don Carlo: quattro per parte, gotici, per quanto ricaviamo dai due soli identificati, entrambi oggi nelle collezioni torinesi; poi i trittici, tre per parte, di difficile identificazione per la genericità della descrizione. L’inventario continua alternando con assoluta precisione due tavolette – che risultano essere opere altomedievali, tre «greche», cioè bizantine, e una occidentale; un dittico sacro; altre due tavolette sacre, di cui sono identificate una bizantina e un’altra occidentale9; un altro dittico, forse gotico; diverse tavolette per parte, dove si alternano opere altomedievali e gotiche. Dal n. 30 cominciano le opere più moderne10; seguono le statuette, gli oggettini più minuti come scatolette e medaglie, i vasi, i corni da caccia, le posate, le corone del rosario, 8 Berlin, Staatliche Museen zu Berlin - Preußischer Kulturbesitz, Zentralarchiv, Acta vol. 6 1887-1888, n. 2163/87, 4. I registri riportano alternativamente come data di ingresso delle opere il 1886 o il 1887, gli atti sono registrati 1887-1888. Baslini morì nel 1887 e il riferimento alla sua vedova dovrebbe collocare l’acquisizione dopo la sua morte, ma le procedure di acquisto durano sempre un certo tempo, è probabile che tra i primi contatti e la formalizzazione siano passati due anni. La mediazione di Baslini e il fatto che non ricorra mai il nome Trotti Belgioioso nella corrispondenza se non come provenienza originaria, conferma la volontà di tutti i membri della famiglia, lungo due secoli, di non gestire direttamente le vendite e di mantenere un profilo molto discreto, quasi nascosto; dall’altra però l’esigenza di ricordare la provenienza originaria conferma che il marchio “Trivulzio” fu sempre considerato come una garanzia di qualità. Ringrazio Neville Rowley per avermi agevolato e aiutato nella consultazione degli archivi del museo e dei dossier delle opere. 9 In questo caso è possibile mettere a confronto la scelta dei pezzi: a Vittoria Gherardini vanno la Deesis bizantina e la Cattura di Cristo da Salerno, oggi a Berlino, opere rispettivamente del X e dell’XI secolo; a Gian Giacomo Trivulzio l’Annunciazione aptera del Louvre, dell’inizio del X secolo, e il Battesimo di Cristo oggi di ubicazione sconosciuta, opera ravennate dell’inizio del VI secolo. 10 Il n. 31 ad esempio è da entrambe le parti un rilievo con la Madonna della Ghiara, detta anche Madonna di Reggio.

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indice dei nomi

Accorsi, Pietro, 141, 144 e n, 172, 192, 199, 241 n, 248 n, 249 n, 250 n, 251 n, 256 n Agnelli, Francesco, 33 n Agnello, Andrea, detto anche Ravennate, 180 Agosti, Barbara, 63, 64 n Agosti, Giovanni, 24 n, 125 n Agricola, Filippo, 94 n Aimi, Antonio, 36 n Alberici, Clelia, 36 n Albertario, Marco, 106 Albriono, Giovan Giorgio, 23 n Albrizzi, Eloisio, 113 e n, 209 Albuzzi, Francesco Antonio, 49 n Aldovini, Laura, 96 n, 97 n, 108 n Aldovrandi, Carlo Filippo, conte, 112 Alemagna, Emilio, 129 e n Algarotti, Ludovico, 32 Allegranza, Giuseppe, 48, 49 e n, 50 e n, 51 e n, 52 e n, 71, 81, 83 e n, 84 e n, 103, 154, 159, 163, 164, 165, 185, 191, 193, 194, 214 Allievi, Valeria, 124 n Altounian, mercante, 141 Amati, Giacinto, 88 n Ambrogio, vescovo, 174 Amoretti, Carlo, 48 n, 72, 73 Andrès y Morell, Carlos, 90, 92 Andrès y Morell, Juan, 90 e n, 91, 92, 93 Anguissola, Carlo, 100 Ansaldi, Casto Innocente, 83 Antoine, Elisabeth, 193, 195 Antona-Traversi, Giannino, 123 n Antonelli, Rosalba, 117 n Antonello da Messina, 120, 125, 126 n, 140 n, 145 e n

Archinto, famiglia, 91 Archinto, Alberico, 28, 31, 32, 33 e n, 34 n, 36, 39, 42, 43 Archinto, Giuseppe, 103 Arconati, Galeazzo, 39 Arese Trivulzio, Elena, 39 n Argelati, Filippo, 31, 33, 35, 38, 42, 63 n Ariosto, Ludovico, 97 Arnolfo di Milano, 31 Attila, 63 Augusto III, re di Polonia, 32 Bacchini, Benedetto, 32, 81, 179, 180 Bagatti Valsecchi, fratelli, 232 Bagatti Valsecchi, Franco, 130 Bagatti Valsecchi, Giuseppe, 130, 214 Baggio, Monica, 57 Baiocco, Simone, 125 n Bairati, Eleonora, 128 n Baitelli, Lodovico, 106 n Baldini, Gianfrancesco, 40, 55 Balduccio da Pisa, Giovanni, 127 Balleri, Rita, 27 n, 29 n Balzarini, Maria Grazia, 126 n, 132 n Bandini, Angelo Maria, abate, 69 e n, 79 e n, 83, 85 n, 179, 180 Banta, Andaleeb, 207 Barberini, famiglia, 63 Barbiano di Belgioioso, Cristina, vedi Trivul- zio Barbiano di Belgioioso, Cristina Barbiano di Belgioioso, Emilio, 89, 124, 154 Barbiano di Belgioioso, Giulia Amalia, 124 Barbiera, Raffaello, 120 n Barbisoni, famiglia, 106 e n

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indice dei nomi Barbisoni, Giulio, 106 n Barbo, Pietro, vedi Paolo II, papa Baretti, Giuseppe, 83 Barnes Bliss, Mildred, 138, 139, 141, 142, 169 Baroni, Luigi, 55, 56 Bartesaghi, Paolo, 33 n Bartoli, Giuseppe, 54, 55, 78 e n, 83 Bascapé, Carlo, 249 n Bascapè, Giacomo Carlo, 25 n Basilio, Anicio Fausto Albino, console, 179 Baslini, Giuseppe, 181, 184, 202, 205, 213, 215, 232 e n, 233 e n, 240 n, 242 n, 246 n, 248 n Basso, Laura, 31 n, 53 n, 91, 143 Battaglia, Salvatore, 28 n Baum, Iulius, 204 Bazzero, Carlo, 132 Beatrice d’Este, vedi Este, Beatrice (d’) Belgioioso, famiglia, 91 Belgioioso, Enrico, 231 Belgioioso Trotti, Maria, 154, 181, 183, 215, 231, 242 n, 246 n Bellei, Meris, 47 n Bellini, Giovanni, 125 e n, 131, 145 Beltrami, Luca, 26, 121 n, 130, 132 n Benati, Daniele, 47 n Benedetto XIV (Prospero Lambertini), papa, 31 Berchet, Giovanni, 108 Bergognone (Ambrogio da Fossano, detto il), 126 e n Bernardi, Gabriella, 112 n Bernini, Gian Lorenzo, 177 Bertini, Giuseppe, 121 n, 132 Bezzi Martini, Luisa, 41 n Bianchi, Giovanni, 242 n Bianchi, Isidoro, 33 e n, 49 Bianchi, Sebastiano, 29 Bianchini, Giuseppe, 106 n Bianconi, Carlo, 50 n, 69 e n Bianconi, Gian Ludovico, 32, 49 Bianconi, Giovanni Battista, 50 e n, 71, 83, 163, 164 Biffi, Giambattista, 45, 49 Binda, Laura, 50 n Bischoff, Bernhard, 173 Black, Jeremy, 53 n Bliss, famiglia, 144, 145 Bliss, Robert Woods, 138, 140, 142, 143, 166, 169, 172, 188, 192, 204, 210 Boas, Ulrich, 127 n Boccaccio, Giovanni, 56 Bock, Henning, 126 n Böhler, Julius, 221 Boito, Camillo, 124 Boltraffio, Giovanni, 22, 126 e n Bordone, Renato, 128 n

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Borromeo, famiglia, 125, 237 Borromeo, Federico, cardinale, 34 n, 64 e n, 66 n, 151 Borromeo, Gilberto V, conte, 97 Bortolotto, 113 e n Boschelli, Daniele, 49 n Bossi, eredi, 112 Bossi, Giuseppe, 15, 24, 88, 90, 100, 101 e n, 108, 110, 112 e n, 116 e n, 117 e n, 118 e n, 119 n, 160, 210 Bottari, Giovanni Gaetano, 180 Botticelli, Sandro, 120, 131 n, 139 n Brilli, Attilio, 53 n Briosco, Benedetto, 127 n Brison, Alessandro, 95 n Broggi, Pietro, 183 Bruni, Stefano, 29 n Brunori, Livia, 90 n Bruzzese, Stefano, 48 e n, 49 n Buganza, Stefania, 101 e n Bugati, Gaetano, 50, 51 e n, 83, 164, 180, 193, 194 Bugatto, Zanetto, 126 n Bühl, Gudrun, 190 Buonarroti, Filippo, 28, 29 e n, 36, 37, 44, 179 Buonarroti, Michelangelo, 97, 118 n Buzzi, Franco, 31 n Caccia, Fabio, 23 e n Caccia, Gaetano, 126 Calcho, Tristano, 63 e n, 151 Calogerà, Angelo, 79 Campi, Giulio, 126 e n Campori, Giuseppe, 47 n Canaletto (Giovanni Antonio Canal, detto il), 131 n Canova, Antonio, 96, 97, 107 Cantù, Cesare, 100 e n, 134 e n, 168 Canziani, 132 n Capmartin de Chapuis, Bertrand, 58 Capponi, Nicola, detto Cola Montano, 70 Capra, Carlo, 70 n, 87 n Carli, Enzo, 101 n Carlo Alberto di Savoia, re di Sardegna, 112 Carlo Emanuele III di Savoia, re di Sardegna, 55 Carlo VI d’Asburgo, imperatore, 31 Carlo VIII di Valois, re di Francia, 139 Caronni, Felice, 105, 110 n, 115, 116 e n, 117, 163 Carotti, Giulio, 132 Carpaccio, Vittore, 131 n Carpanetto, Dino, 28 n Cassanelli, Roberto, 21 n Cassiodoro, Filippo Magno Aurelio, 63, 151 Castiglione, Baldassarre, 94 Castiglioni, Carlo, 34 n


indice dei nomi Castorina, Alessandra, 103 n Castronovo Simonetta, 143, 248 n, 249 n Catel, Francesco, 94 n Cattaneo, Gaetano, 108, 110, 112 e n, 118, 119 n, 160, 208, 210 Cavadini, Osanna Nicoletta, 25 n Cavazzola (Morando di Paolo, detto il), 125 e n, 126 n Cavazzutti, 37 n Cavedoni, Celestino, 104 e n, 171 Cavenaghi, Luigi, 131 e n, 132 Cavicchi, Filippo, 52 n Cazzaniga, Tommaso, 127 n Cecchelli, Carlo, 177, 178 Cellini, Benvenuto, 96 Cenci, famiglia, 39 n Cenci, Cristoforo, 39 n Cesati, Alessandro, 242 n Chiesi, Benedetta, 109 n, 111 e n, 119 e n, 210 Chigi, Sigismondo, 55 Choiseul-Gouffier, Gabriel Florent Auguste, conte, 55 Ciampi, Sebastiano, 104, 105 n, 171 Cicognara, Leopoldo, 88, 96, 97 e n, 98 n, 100, 104, 107, 108 e n, 113 e n, 171, 209 Claridge, Amanda, 62 n, 63 n Clemente XIII (Carlo Rezzonico), papa, 31 Clemente XIV (Giovan Vincenzo Antonio Ganganelli), papa, 115 n Clovio, Giulio, 99 Cola Montano, vedi Capponi Nicola Collareta, Marco, 96 n Colloredo, Camillo, 40 Colombo, Angelo, 88 n, 94 n, 100 e n Confalonieri, Federico, 100 Conrad, Joseph, 10 Contini Bonaccossi, Alessandro, 142 n Convina, 43 Coppa, Simonetta, 59 n, 60 Cordera, Paola, 135 n Correggio (Antonio Allegri, detto il), 120 Correr, conte, 107 Cortevonis, Angelo Maria, 73, 115, 180 Costantini, Maddalena, 131 n Costantino X Ducas, imperatore d’Oriente, 208 Courajod, Louis, 128 e n, 134 e n, 135, 136, 208, 209, 211, 218, 221, 237 e n Cracco Ruggini, Lellia, 21 n Crawford, James Ludovic Lindsay, conte di, 110, 112, 159, 160, 210 Cremonini, Cinzia, 16 n, 30 n Crespi Morbio, Vittoria, 102 n Crivello, Fabrizio, 246 n Crosio, Maria Luisa, 23 n Cutler, Anthony, 18 n, 19 n, 111 n, 116 n, 138 n, 156, 162, 163, 167, 182

d’Adda, Giuseppe, 31 dal Pozzo, Cassiano, 62 n, 63, 150 Dalton, Ormonde Maddock, 190, 217 d’Alvito, famiglia, 23 n Damasceno, Giovanni, 223, 225, 226 d’Ancona, Paolo, 133 Dante Alighieri, 97, 107, 145 e n da Porto, Luigi, 99 Darcel, Alfred, 135 n Dardanoni, Ferdinando, 73 David, Massimiliano, 18 n Davies, Glyn, 223, 227 d’Azeglio, Massimo, 108 de Angelis, Luigi, 38 n De Benedictis, Cristina, 27 n de Berry, Jean, 99 de Conti, Bernardino, 22 n, 126 e n De Francovich, 197 De Gubernatis, Alessandro, 121 n Del Borghetto, Pier Antonio, 65 n Delbrück, Richard, 109 n, 110 n, 116 n, 117 e n, 136, 138 e n, 159, 160, 162, 165, 168, 170, 178, 249 n Della Beretta, Antonio, 46 e n Della Croce, formatore, 119, 168 Della Robbia, Andrea, 142 n Della Rovere, famiglia, 108 Della Rovere, Giuliano, vedi Giulio II, papa Della Torre Rezzonico, Abbondio, conte, 103 del Maino, Agnese, 22, 70 De Michele, Vincenzo, 36 n de Montfaucon, Bernard, 32, 59, 80 Dempster, Thomas, 36 d’Ennery, Abraham Joseph Michelet, 55 de Predis, Ambrogio, 22 n De Rossi, 118 n De Seta, Cesare, 53 n Diacono, Giovanni, 178 Diacono, Paolo, 60 di Balduccio, Giovanni, 101 di Daun, Ferdinando, 40 Dillon Bussi, Angela, 31 n, 93 n, 94 n, 99 n, 121 n, 126 n Di Lorenzo, Andrea, 120 n, 232 n Dobbermann, Jacob, 254 n Donato, Elio, 22 e n, 93 n Donato, Maria Pia, 40 n Donnino, Alfonso Girolamo, 40 n Dubray, Luigi, 199 Du Fresne du Cange, Charles, 37 e n Durand, Jannic, 195 Duveen, fratelli, 139 n, 140, 141 e n, 145 Duveen, Joseph, 221 Edmond, J.P., 160 Effenberger, Arne, 241 n

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Finito di stampare nel mese di novembre 2017 per conto della casa editrice Il Poligrafo presso la Papergraf di Piazzola sul Brenta (Padova)




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