territori dell’architettura opere 11
aldo peressa | cereal docks demethra foto di leonardo peressa
ilpoligrafo
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s.r.l.
ARCHITECTURE | CONCEPT | DESIGN | CONTRACTOR
Un particolare ringraziamento per il sostegno a
progetto grafico Il Poligrafo casa editrice redazione Sara Pierobon copyright © maggio 2019 Il Poligrafo casa editrice 35121 Padova piazza Eremitani - via Cassan, 34 tel. 049 8360887 - fax 049 8360864 e-mail casaeditrice@poligrafo.it www.poligrafo.it ISBN 978-88-9387-088-7
indice
13 lettera ad un provveduto e interessato lettore (riflessioni a metà dell’opera) aldo peressa 17
cereal docks demethra sito produttivo, laboratori, uffici, servizi
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costruzione in opera
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costruzione fuori opera
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chiusure perimetrali
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carpenteria metallica
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opere di urbanizzazione e sistemazioni esterne
60 impiantistica 66 arredamento postfazioni 93 una committenza d’architettura mauro fanin 97 il sogno di un’impresa elena sgaravatti 98
company profiles
aldo peressa | cereal docks demethra
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lettera ad un provveduto e interessato lettore (riflessioni a metà dell’opera) aldo peressa
Vi ho appena parlato del sole... Tutto ciò che vediamo è composto da lui, e intendo per composizione un ordine di cose visibili e la trasformazione lenta di quest’ordine che costituisce tutto lo spettacolo di una giornata: il sole, maestro delle ombre. Paul Valéry, Essais quasi politiques, 1957
Caro lettore, siamo giunti – ne converrai – a uno stato di avanzamento del lavoro in cui, com’è normale nell’evoluzione del cantiere, ci si lascia alle spalle opere, per così dire, “oggettive” e in un certo modo insindacabili (almeno nella loro occorrenza) perché facenti parte di quanto costituisce il corpo grezzo, fondativo dell’insieme, e se ne affrontano altre, ulteriori, rispetto alle quali sembra possa valere un criterio di disinvolta soggettività, se non – addirittura – l’arbitrio. Così non è. Anzi, nelle disposizioni di quanto fin qui realizzato sono già presenti tutte le premesse che conducono a un esito unitario e organico dell’opera. Questa fase mi è, perciò, propizia per avanzare alcune riflessioni che mi permettono di puntualizzare, in modo sufficientemente argomentato, il senso e il destino del progetto che si sta portando a termine. 1. Uno degli scopi profondi dell’architettura non è tanto quello di prendere luogo, di dislocarsi nelle aree o negli spazi prescelti o concessi, ma è quello di creare dei luoghi. La creazione del luogo è il suo fine ultimo. Indipendentemente dalle funzioni cui deve assolvere, l’architettura crea luoghi che prima non esistevano se non in altra (o nessuna) forma, definisce contesti all’interno dei quali possa prendere vita ciò che connota in ultima istanza un luogo e lo identifica rispetto alla genericità dello spazio informe: lo spirito. Un luogo per essere tale deve avere un’anima, una sua precipua identità e tale identità è come il suo profilo: deve essere chiaro, comprensibile, coerente in tutte le sue connotazioni, deve potersi rintracciare in tutte le sue parti costitutive. Ma, in questo senso, l’architettura, insieme allo stare nel luogo, all’appartenere al luogo, al creare il luogo, è essa stessa un luogo. Infatti, se pensiamo il luogo come conseguenza e risultato del disporre (ovvero del comporre e distribuire), possiamo dire che l’architettura comunque produce luoghi. Così nel luogo l’architettura si raccoglie e si situa mediante il reciproco appartenersi dei suoi elementi e il suo custodirli. Perciò il luogo dell’architettura non è tanto quello rappresentato dallo spazio dato preliminarmente ad ogni atto del disporre. Anzi, lo spazio si definisce e si distende proprio nell’aver luogo, nel prevalere dell’architettura, quando la sua istanza sia quella di attingere a ciò che le è proprio, a ciò che la riguarda nella sua essenza fondativa, originaria. In questo senso un’architettura, se fortemente basata sulla riflessione dell’aver-luogo del linguaggio architettonico, si avvicina alla sua origine poiché si interroga ed esperisce la possibilità di accedere al luogo da cui scaturisce e inizia ogni discorso architettonico. Se consideriamo sotto questa luce il problema del luogo, comprendiamo il senso di “libera vastità” che può essere prodotto dall’architettura. Nel luogo l’architettura sta, e riposa quietamente e semplicemente in se stessa1.
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2. Ora l’architettura mette a disposizione dell’architetto vari strumenti e mezzi (tecniche, elementi costruttivi, materiali ecc.: un linguaggio, in sostanza) che gli consentono di operare con questo fine. Ma questo fine – oggi in particolar modo, vista la tendenziale prevalenza della tecnologia sulla forma – non può essere immediato, cioè privo di mediazioni. Richiede il realizzarsi di una doppia convergenza: quella tra progetto ed esecuzione e prima ancora quella tra programma e progetto. Ecco allora che questa condizione di doppia mediazione può essere soddisfatta e risolta solo se i segni dell’identità dell’architettura non siano tanto i segni rintracciabili nel contesto fisico ove essa insiste o nelle istanze organizzative cui fare riferimento, ma siano la tensione del linguaggio nel proporsi in relazione al suo aver-luogo, al suo argomento, pur fisicamente assente, postulandone tuttavia la presenza2. 3. Nel caso di Cereal Docks Demethra l’idea progettuale si è posta fin dall’inizio l’intento di dare vita a un luogo nel quale la potenza della stereometria (identificata nell’inesorabile semplicità dei volumi prefabbricati) si confrontasse con la trasparenza delle vedute, nel quale la compattezza dei corpi ciechi si articolasse con la morfologia aperta dell’impianto a corte incentrato sul giardino interno completamente libero, ma recintato (ricordo che “paradiso” deriva da peri +teichos, che vuol dire “con un muro intorno”!). Questa tipologia trova significativi ascendenti nella forma dell’hortus conclusus, tipica del giardino medievale di monasteri e conventi, ovvero uno spazio verde, circondato da mura, dove i monaci coltivavano piante e alberi per scopi alimentari e medicinali. Penso al chiostro dell’abbazia cistercense di Le Thoronet, in Provenza, cui Le Corbusier si è ispirato per il progetto del Convento de La Tourette, alla sua semplicità compositiva e canonica, all’univocità costruttiva secondo cui muri, volte, pavimenti, membrature ecc. sono tutti realizzati con la medesima pietra grigia con i riflessi rossi della bauxite contenuta in essa. 4. Così come la scelta fondativa di un insediamento trova giustificazione dalla coesistenza di semplici, ma imprescindibili fatti naturali (essenzialmente luce, terra, acqua), analogamente la composizione generale del sito si è giovata della presenza dell’acqua quale elemento fisico simbolizzante l’esistenza della vita e, insieme, specchio, superficie mobile di riflessione e duplicazione delle immagini. La presenza dell’acqua, il suo esserci e il suo dover essere attraversata (nel nostro caso dai ponticelli in legno), trasforma un semplice percorso in qualcosa di simile a un fatto rituale, in un processo che muove dall’esterno all’interno e si nobilita nel superamento della natura così simbolizzata. Nella cultura antica, egizia, ad esempio, la fenomenologia dell’acqua è rappresentata dal fiume (il Nilo), che per la sua centralità nella civiltà del paese assume il ruolo di divinità, fonte di vita e di prosperità. 5. Ma occore, insieme, ricordare che, una volta fatti i conti con tutto il resto, l’architettura non è altro che un corpo (dei corpi geometrici) sotto la luce del sole. Oltre la utilitas, oltre la firmitas, in un certo senso anche oltre la venustas, ecco ciò che resta dell’architettura, ma anche ciò che non può assolutamente mancarle. E ciò, secondo la definizione di Le Corbusier: «L’architettura è il gioco sapiente, corretto e magnifico dei volumi raccolti sotto la luce»3. Poi, in base a questa considerazione, possiamo chiederci: sono i volumi e il loro gioco a essere svelati dalla luce o non sono piuttosto essi stessi a permetterci di riconoscerla nelle sue cicliche trasformazioni? Forse non sono i volumi che “giocano”, ma la loro presenza e la loro disposizione a indurre la luce a “giocare” così che possiamo vederla mentre si abbandona ad avventure inattese, a storie che non ci appaiono più “naturali”, ovvero casuali o automatiche.
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La scelta dei grandi pannelli in calcestruzzo, gettati uno ad uno, che delimitano perimetralmente la corte interna, e, insieme, la scelta della grande parete vetrata a sud-ovest, protetta dai frangisole in lamiera stirata, si propongono in questa logica: rendendo dinamico e variabile il corpo edilizio, fanno sì che il soleggiamento naturale sia compromesso in questo “gioco magnifico” dato dal succedersi di luce e ombra. Viene qui in mente ancora Le Corbusier che ha progettato per Chandigarh quell’edificio singolare – “La Torre d’ombre” – che si dà in sé con nessun’altra funzione se non quella di testimoniare il ciclico variare delle apparenze mutevoli sotto l’azione del sole. 6. Se «la varietà delle apparenze mutevoli»4 trova la sua rappresentazione in un tale dispositivo, la trasparenza e la permeabilità alla vista sono l’altra condizione del proporsi dell’architettura nella sua relazione con la luce. Quello disposto, a nord, in asse con la corte centrale e con analogo orientamento è un piccolo padiglione a pianta centrale, la cui struttura in elevazione, costituita da sottili pilastri metallici, lascia completamente liberi i quattro prospetti definiti da altrettante pareti vetrate. Le superfici opache delimitano il nucleo centrale del manufatto, illuminato dall’alto attraverso un lucernario la cui imposta, appena sopraelevata rispetto al piano di posa costituito dalla copertura, va a rappresentare qualcosa di simile a una cupola ad arco ribassato. Le superfici trasparenti, viceversa, si dispongono a corona di questa sorta di “cella”, consentendo di estendere la visibilità su tutti e quattro i punti cardinali. L’ingresso (unico e non replicato sui quattro lati) si propone nella forma di un “pronao” che assegna all’insieme ascendenze tipologiche nobili, peraltro già replicate all’infinito.
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M. Heidegger, L’arte e lo spazio, Genova 1979. G. Agamben, Il linguaggio e la morte, Torino 1982. Le Corbusier, Vers une architecture, Paris 1958. F. Venezia, La torre d’ombre, o L’architettura delle apparenze reali, Napoli 1978.
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opere di urbanizzazione e sistemazioni esterne
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Planimetria generale
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