biblioteca di arte 14
Giuliana Tomasella
esporre l’italia coloniale Interpretazioni dell’alterità
regesto delle esposizioni di Priscilla Manfren e Chiara Marin
ilpoligrafo
Il presente volume viene pubblicato con i fondi del Progetto di Ricerca di Ateneo dell’Università di Padova “La rappresentazione dell’alterità. Esposizioni e mercato artistico nell’Italia coloniale”, anno 2013, prot. CPDA137238
progetto grafico e redazione Il Poligrafo casa editrice redazione Alessandro Lise, Sara Pierobon © copyright novembre 2017 Il Poligrafo casa editrice 35121 Padova piazza Eremitani – via Cassan, 34 tel. 049 8360887 – fax 049 8360864 e-mail casaeditrice@poligrafo.it ISBN 978-88-9387-011-5 www.poligrafo.it
indice
quali immagini?
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una storia rimossa
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orientalismo e/o arte coloniale
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attraverso le esposizioni. da assab ad adua
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nuovo secolo, nuove prospettive
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dopo la prima guerra mondiale
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verso una definizione di arte coloniale
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i nuovi scenari degli anni trenta
(1884-1940)
regesto delle esposizioni
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Nota introduttiva Priscilla Manfren, Chiara Marin
(1884-1898)
esporre l’italia coloniale interpretazioni dell’alterità
Quali immagini?
L’orizzonte di riferimento di questo nostro viaggio alla ricerca delle immagini dell’alterità è la storia coloniale italiana, che ebbe inizio negli anni ottanta del XIX secolo e si concluse con la Seconda Guerra mondiale. Cominciata in maniera casuale e continuata all’insegna della disorganizzazione, di una sostanziale ignoranza geografica e di una colpevole incuranza nei riguardi di storia, costumi e politica delle popolazioni africane, la conquista italiana procedette fra avanzamenti, arretramenti e riprese, fino a includere l’Eritrea, la Somalia, la Libia e infine – nel 1935-1936, con il fascismo – l’Etiopia. La tardiva stagione coloniale della penisola durò grosso modo sessant’anni: pochi se comparati alle esperienze assai più durature e territorialmente vaste di potenze come l’Inghilterra o la Francia, ma abbastanza per influire significativamente dal punto di vista sia politico che culturale, rafforzando l’identità della giovane nazione e incidendo sull’immaginario collettivo. Tuttavia, a dispetto delle complesse manovre diplomatiche, delle campagne di guerra, del dispiegamento propagandistico messo in atto sia dallo stato liberale che – e ancor di più – da quello fascista, degli sforzi spesi per un’educazione coloniale degli italiani, pochi oggi, al di fuori dell’ambito ristretto degli studi specialistici, sembrano serbare memoria di tale passato imperialista. Gli storici che si sono dedicati alla rigorosa ricostruzione di questo importante segmento della storia italiana hanno concordemente rilevato i segni di un processo di rimozione che ha * Sono molto grata a Franco Bernabei e Marta Nezzo per l’attenta lettura e i preziosi consigli. Un ringraziamento particolare ad Andrea, che ha seguito con partecipazione e interesse la mia ricerca fin dal suo germinare.
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riguardato anche gli eventi più traumatici della nostra avventura d’oltremare, facendoli entrare in un cono d’ombra. Eppure, considerevole fu l’impegno profuso dai diversi esecutivi, fin dalle fasi iniziali, per sostenere a livello propagandistico le campagne africane e per creare una cultura coloniale, mettendo in luce i fondamentali argomenti a favore dell’espansione: prestigio nazionale, benefici economici, missione di “sbarbarimento” e diffusione della civiltà. Come è stato efficacemente sintetizzato, «la costruzione di un impero, per realizzarsi, deve essere sostenuta dall’idea di avere un impero [...] e a tal fine tutta la necessaria preparazione viene fatta nel campo della cultura»1. Molteplici, in effetti, furono gli strumenti culturali attraverso i quali anche in Italia si tentò di promuovere e rendere popolare l’avventura africana, dal battage sulla stampa quotidiana e periodica alla fondazione di riviste di settore, dall’istituzione di enti culturali all’organizzazione di congressi, dalla promozione dell’editoria di viaggio alla progettazione di specifici settori coloniali all’interno delle numerose esposizioni che segnarono l’esperienza europea dal secondo Ottocento in avanti; una massiccia produzione di immagini investì trasversalmente i diversi settori, divulgando, propagando, rendendo infine familiari al pubblico l’Africa e gli africani. Le diverse raffigurazioni delle terre d’oltremare e dei loro abitanti talora indulsero nella sottolineatura di una radicale diversità e distanza, talaltra misero in luce, al contrario, elementi consueti e rassicuranti, in una continua dialettica fra alterità e identità. Si tratta di un ambito di straordinario interesse, che finora è stato solo marginalmente sondato e che attende ancora una piena considerazione. Immagine, come si sa, è termine quanto mai generico, che necessita di una specificazione; parlando della rappresentazione dell’alterità bisogna chiarire quale tipo di produzione si voglia prendere in esame: vignette satiriche, illustrazioni che accompagnano articoli e racconti o libri scolastici, copertine di quaderno, stampe, fotografie, cartoline, figurine, dipinti, sculture? Non si tratta di proporre una rigida e in definitiva poco proficua separazione fra statuto alto e basso, né di escludere relazioni, filiazioni, talora addirittura scambi osmotici, ma di fare attenzione alle peculiarità di generi diversi, aventi caratteristiche e modalità di diffusione differenti, oltre a essere contraddistinti – ovviamente – da media e tecniche dissimili. Ci si deve muovere nella prospettiva di un’inventariazione metodica delle rappresentazioni dell’alterità africana, della creazione, cioè, di un bacino iconografico il più possibile ampio, che consenta di estendere alle arti figurative la ricerca, già intrapresa in altri settori, inerente alla creazione, diffusione, trasformazione di una serie di stereotipi, in parte comuni all’immaginario europeo, in parte contraddistinti da una specifica «curvatura nazionale»2. L’indagine sull’ico1 E.W. Said, Cultura e imperialismo, Roma, Gamberetti Editrice, 1998 [Culture and Imperialism, New York, Vintage Books (Random House), 1993], p. 36. 2 M. Nani, Ai confini della nazione. Stampa e razzismo nell’Italia di fine Ottocento, Roma, Carocci, 2006, p. 10. Per quanto concerne la prima stagione espansionistica, Michele
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nizzazione dell’Africa e degli africani appare essenziale per sondare alcuni dei percorsi generativi – o di consolidamento – di quelle «infrastrutture mentali» che caratterizzano l’«immagine proiettiva della nazione», alla cui diffusione contribuì non tanto la cultura alta, quanto la sua vulgata, grazie a una propagazione «per via orizzontale» attraverso la stampa e le sue illustrazioni, i libri scolastici, le esposizioni e i loro cataloghi e così via3. Solo a partire da una base-dati sistematica si potranno individuare, così, i corrispettivi iconici del giudizio lapidario e della frase fatta e sondare la cristallizzazione dell’immagine, parallela e cooperante con quella del linguaggio, con attenzione, tuttavia, a evitare gli eccessi semplificatori che rischiano di appiattire l’una sull’altra. Sarà inoltre possibile riflettere sulle analogie e/o differenze nelle scelte formali, iconografiche, comunicative, a seconda dei media e delle tecniche impiegati e trarre eventuali conclusioni sulle convergenze o divaricazioni fra parola e immagine e sull’evoluzione (o involuzione) di quest’ultima a seconda dei contesti o della cronologia4. Un primo importante passo da fare è sembrato quello di offrire una mappatura il più possibile esaustiva delle esposizioni coloniali – peculiare cornice all’interno della quale la rappresentazione dell’alterità si è dispiegata – focalizzando l’attenzione sulla presenza in esse di dipinti e sculture e sulle modalità del loro allestimento, integrato al complesso delle rassegne o in settori distinti5. Si è cercato cioè di capire se e quando l’arte è entrata Nani ha messo in luce il fondamentale apporto della stampa nella costruzione e diffusione di una coscienza coloniale, attraverso l’uso di una serie di stereotipi razzisti: «È difficile sovrastimare il contributo della stampa alla nascita e allo sviluppo del nazionalismo»: la stampa è qui intesa come «luogo di mediazione fra le istanze ideologiche del potere politico e sociale (nelle sue articolazioni) e le attese del lettore, le molteplici sottoculture cui questi fa riferimento. [...] La mediazione giornalistica risponde dunque a molteplici sollecitazioni e rielabora le rappresentazioni del particolare “senso comune” di un’epoca e di un contesto. Di questo novero di rappresentazioni fa parte l’immenso repertorio di frasi fatte, luoghi comuni e stereotipi che definiscono le immagini dell’alterità, contribuendo alla riproduzione di un “noi nazionale”» (pp. 29-30). Lo storico ne ha parlato all’interno di un’ipotesi generale di nazionalizzazione per contrasto, che ha riguardato l’Italia post-unificazione, coinvolgendo in una dialettica oppositiva non solo gli africani, ma anche le masse meridionali e gli ebrei: «Contrapponendosi ai sudditi africani delle colonie e a tutto quel che di premoderno sussiste nel Mezzogiorno, la nazione liberale si vuole parte della civiltà europea, mentre la “nazione cattolica” fa della religione il fulcro di un’appartenenza non ristretta alle sole classi dirigenti, contrapponendosi agli ebrei come simbolo di una modernità nemica della Chiesa e dei suoi valori. Irrigiditi in stereotipi dell’alterità, africani, meridionali ed ebrei contribuiscono a definire il profilo dei diversi ideali italiani di nazione» (p. 9). 3 S. Lanaro, Nazione e lavoro. Saggio sulla cultura borghese in Italia 1870-1925, Venezia, Marsilio, 1979, pp. 12-13. 4 è ciò che si è cominciato a fare nell’ambito di questo gruppo di ricerca, in particolare per quanto concerne il ventennio fascista, con risultati molto interessanti nella definizione, per esempio, dei principali stereotipi utilizzati: cfr. a tale proposito P. Manfren, Niger alter ego: stereotipi e iconografie coloniali nell’Italia del ventennio, tesi di dottorato di ricerca in Storia, Critica e Conservazione dei Beni Culturali, XXVIII ciclo, Università degli Studi di Padova, 2016, supervisori proff. G. Tomasella, M. Nezzo. 5 Punto di partenza fondamentale è stato N. Labanca, L’Africa in vetrina. Storie di musei e di esposizioni coloniali in Italia, Paese (TV), Pagus, 1992 e in particolare, al suo interno, S. Bono, Esposizioni coloniali italiane. Ipotesi e contributo per un censimento.
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tamente razzista? Diciamo che la prospettiva cambia mano a mano che – col tempo – più facile diventa la possibilità di muoversi e i resoconti di viaggio, così come i reportage fotografici, diffusi dalla stampa di massa, avvicinano a luoghi solo pochi decenni prima sentiti come remoti e misteriosi. Le esigenze di un moderno sfruttamento delle terre d’oltremare, inoltre, tendono a mettere in secondo piano la suggestione delle ambientazioni pittoresche, a vantaggio di una considerazione più pragmatica sia dei territori che dei loro abitanti. Gli elementi connotanti tipici (harem, ogive, tappeti e maioliche, cammelli, tende) in molti casi sono assenti e i temi esotici vengono attratti nell’orbita della quotidianità, resi – almeno apparentemente – neutri. Come già si anticipava, l’incarico di una significazione ideologica è assunto da elementi esterni, più che dal contenuto della singola opera. Alcuni raffronti puntuali, come quello fra la Schiava negra (1905) del pittore orientalista Roberto Guastalla e Il mio Mahmet di Gaetano Bocchetti, esposto alla Seconda Mostra Internazionale d’Arte Coloniale di Napoli del 1934, possono essere di qualche ausilio. Nel primo caso la giovane donna è appoggiata a una porta lignea contraddistinta dal tipico cliché dell’ogiva e posa il piede su di un pavimento di maioliche vivacemente colorate. Si colloca in uno spazio liminale, che apre sul misterioso e affascinante interno dell’harem e allude ai suoi riti, come quello del caffè, evocato dalla brocca che tiene in mano, sublimazione, come è stato notato, dell’anima aromatica dell’Oriente35. Pur in un’economia di mezzi che rende il ritratto apparentemente lontano dai trionfi sensuali di tante affollate composizioni del filone orientalista, Guastalla fornisce una serie di indizi che rimandano allo stesso orizzonte di riferimenti. Bocchetti, al contrario, evita qualunque elemento convenzionale, scegliendo di ritrarre, seduto all’ombra, un giovane lavoratore africano, il cui profilo spicca a contrasto nella forte luce meridiana; è delegato al titolo l’incarico di immettere lo spettatore in un contesto ideologicamente connotato: il mio Mahmet. In quell’aggettivo possessivo si condensa la natura gerarchica e paternalistica del rapporto, da padrone a servo, da colonizzatore a fedele suddito. Pur tenendo conto dei mutamenti che via via sopraggiungono, possiamo convenire con Said che, all’interno del fenomeno dell’orientalismo nel
35 Cfr. Quanto scrive M. Alloula, in Le Harem colonial (Genève-Paris, Séguier Editions, 1981), a proposito dello stereotipo del caffé nella pittura orientalista e poi nelle cartoline postali: «C’est tout d’abord la cérémonie du café (ou kaoua comme l’appellent déjà les petits Blancs de la colonie dans leur argot négrifiant). Ce sous-thème, rebattu jusqu’à la nausée, outre qu’il propose une description de femmes occupées à verser ou siroter leur café – parfois dans des attitudes acrobatiques ou inattendues – est censé initier le spectateur à un cérémonial du breuvage tel que le harem en fixe les règles et le décorum. Il faut croire que le café comme signe est d’une polysémie telle qu’à lui seul il fait faire l’économie d’autres signes qui lui sont contigus (thé, sorbets divers, etc.). Pour le photographe comme pour son spectateur, le kaoua est une sublimation de l’âme aromatique de l’Orient» (p. 49). Su Guastalla si veda il catalogo della mostra tenutasi a Parma nel 2006: Roberto Guastalla Pellegrino del sole, Parma, Fondazione Cassa di risparmio di Parma e Monte di credito su pegno di Busseto, 1996.
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1. R. Guastalla, Schiava negra, olio su tela, Parma, collezione privata 2. G. Bocchetti, Il mio Mahmet (da II Mostra Internazionale d’Arte Coloniale, Napoli 1934-1935. Catalogo, Roma, Fratelli Palombi, 1934)
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suo insieme, emergono – e permangono – alcuni elementi costitutivi delle modalità della rappresentazione europea dei popoli “altri”, riconoscibili anche in differenti periodi e contesti. Tale rappresentazione appare condizionata, in generale, da un’“ideologia disumanizzante”, per cui solo agli occidentali viene di fatto riconosciuto lo statuto di esseri umani a pieno titolo: la prospettiva all’interno della quale ci si pone è quella comparatistica, che porta con sé considerazioni di tipo valutativo, implicando una diseguaglianza ontologica fra “razze” progredite e arretrate. Lungi dal considerare l’identità, propria e altrui, come un processo dinamico, in continuo mutamento36, il sistema di pensiero dell’età dell’imperialismo affronta «una realtà umana eterogenea, dinamica e complessa partendo da una base acriticamente essenzialista, presupponendo l’esistenza di una durevole realtà orientale e una opposta, ma non meno durevole, essenza occidentale»37. Come è stato efficacemente evidenziato, «in un certo senso i limiti dell’orientalismo sono [...] quelli propri di ogni tentativo di essenzializzare, denudare e in fondo sminuire l’umanità di un’altra cultura, di un altro popolo, di altri modi di interagire con l’ambiente»38. La conseguenza è una sostanziale schematizzazione, così che la messa in scena dell’Oriente tende a una costante iterazione dei medesimi moduli, configurandosi come una «serie di repliche quasi invariabili»39. Ciò che nella produzione letteraria e saggistica è rappresentato dal ricorrere di certi stereotipi nella caratterizzazione umana – «stranezza, arretratezza, silenziosa indifferenza e femminea acquiescenza, passiva malleabilità»40 – si ritrova anche nell’ambito delle arti figurative, in cui si tende a costruire ambienti e personaggi riutilizzando sempre i medesimi ingredienti. Harem sontuosi, donne dalle movenze lascive, uomini con turbante mollemente adagiati su tappeti, scene di mercato tra moschee e rovine, danze del ventre, costruiscono un Oriente conturbante e irreale nella sua staticità.
36 «La costruzione dell’identità [...] richiede che si stabiliscano degli opposti e degli “altri” la cui realtà positiva è soggetta a una continua interpretazione e reinterpretazione delle divergenze rispetto a “noi”. Ogni epoca e società ri-crea i propri “altri”. Lungi dall’essere un oggetto statico, l’identità del sé o dell’“altro” è un processo storico, sociale, intellettuale e politico su cui si interviene profondamente e che all’interno di ogni società si svolge come un confronto che coinvolge individui e istituzioni» (E.W. Said, Orientalismo, cit., pp. 329-30). 37 Ivi, p. 331. 38 E.W. Said, Orientalismo, cit., p. 113. In Cultura e Imperialismo osserva inoltre: «Ogni qualvolta settori culturali quali la letteratura e la critica, ritenuti neutrali, si focalizzano sulle culture più deboli e subordinate e le interpretano attraverso concetti basati sull’idea dell’immutabilità del modo di essere europeo e non-europeo, attraverso narrazioni riguardanti il possesso geografico, attraverso immagini di legittimità e redenzione, sorprendentemente ne consegue una dissimulazione dei reali rapporti di potere e un occultamento di quanto l’esperienza del soggetto dominante si sovrapponga parzialmente e dipenda da quella parte più debole» (p. 217). 39 Ivi, p. 198. 40 Ivi, p. 204.
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3. V. Marinelli, Il ballo dell’Ape nell’harem, 1862, olio su tela, Napoli, Museo di Capodimonte
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Un esempio significativo è costituito dal Ballo dell’Ape nell’harem di Vincenzo Marinelli, dipinto realizzato a Napoli – lontano dagli ambienti che evocava – e presentato all’Esposizione internazionale di Londra del 186241. Il pittore lucano, di formazione accademica, ebbe occasione di visitare, oltre alla Grecia dove risiedette, anche l’Egitto, il Sudan, la Turchia, la Palestina e di maturare un’esperienza diretta dei luoghi, traendone schizzi e disegni che avrebbe poi rielaborato in atelier42. Il dipinto citato riunisce una serie di topoi della pittura orientalista europea, innestandovi elementi tratti dalla tradizione italiana: evidente, per esempio, un ricordo caravaggesco nella suonatrice in basso a destra, così come nei raffinati brani di natura morta con ampolle, vasi, petali, drappi43. è una delle strategie messe in atto per rendere familiare un soggetto esotico, utilizzando uno scaltrito mestiere e una notevole tecnica. Ecco allora che l’alterità viene filtrata e come disattivata, riportata entro confini noti e in qualche modo rassicuranti. In una sorta di doppio movimento, alternativamente di allontanamento e avvicinamento, ignoto e noto vengono mescolati, disinnescando il potenziale straniante di un mondo altro, presentato in modo totalmente irrealistico, operando per così dire una condensazione di ciò che il fruitore occidentale desidera vedere. Naturalmente, anche gli artisti che ebbero l’occasione di risiedere in Oriente o in Africa settentrionale non poterono avere esperienza diretta di un harem, visto che, nel mondo musulmano, la parte della casa destinata alle donne non era accessibile se non a bambini, vecchi ed eunuchi. Proprio uno dei soggetti più amati e frequentati dai pittori, dunque, in quanto luogo inviolabile e proibito non poté che essere un’invenzione pittorica messa al servizio del voyerismo occidentale, frutto di fantasia o tuttal-
41 Gustave Flaubert, nel Viaggio in Egitto descrive la danza dell’ape, così come l’ha vista eseguire nella casa di un’almea, Kuchuk-Hânem: «Kuchuk ci balla la danza dell’ape. Prima, per poter chiudere la porta, mandiamo via Fergalli ed un altro marinaio, sino ad allora testimoni delle danze e che, sullo sfondo della scena, ne costituivano la parte grottesca; abbiamo messo sugli occhi del bambino un piccolo velo nero, ed abbiamo abbassato sugli occhi del vecchio musicista una banda del suo turbante blu. Kuchuk si è spogliata ballando. Quando si è nudi, si tiene solo un fisciù con cui si fa il gesto di nascondersi e si finisce col gettar via il fisciù; ecco in cosa consiste l’ape» (G. Flaubert, Viaggio in Egitto, a cura di L. Pietromarchi, Pavia, Ibis, 1998, pp. 121-122 [Voyage en Égypte, édition intégrale du manuscrit original établie et présentée par Pierre-Marc de Biasi, Paris, Grasset, 1991]). 42 Sul pittore rimando a M.A. Fusco, Avventure artistiche mediterranee, per pittori meridionali, in Gli orientalisti italiani. Cento anni di esotismo 1830-1940, cit., pp. 29-37; M.C. Minopoli, Vincenzo Marinelli. L’avventura intellettuale di un artista romantico, Napoli, Paparo Edizioni, 2005; Vincenzo Marinelli e gli artisti lucani dell’Ottocento, a cura di I. Valente, Rionero in Vulture (PZ), Calice, 2015. 43 Va rammentato che il maestro di Marinelli all’Accademia di San Luca, il purista Tommaso Minardi, fu influenzato dal caravaggismo nella sua declinazione fiamminga, particolarmente in voga nella Roma di inizio Ottocento, come testimonia il dipinto La cena in Emmaus, conservato nelle collezioni di Faenza (depositato dalla Congregazione della carità di Faenza). Cfr. Da Giani a Fattori. Maestri della pittura italiana del XIX secolo nelle collezioni di Faenza, catalogo della mostra (Faenza, 7 dicembre 2007 - 25 gennaio 2008), a cura di S. Casadei, s.l., s.n., 2007, http://pinacotecafaenza.racine.ra.it/ita/800italiano/6.htm, accesso 20/09/2017.
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più della descrizione altrui44. Come in una sorta di galleria ideale, Marinelli ci presenta schiave di origini diverse, il cui colore di pelle varia dal nero all’ambrato al bianco, donne velate, semivelate, discinte, danzatrici e suonatrici, un suonatore con il volto coperto per impedirgli la vista di ciò che lo circonda e, seduto sul gradino più alto, il padrone di casa con la favorita45. I diversi tipi orientali recitano così la loro parte su di un palcoscenico, caratterizzato architettonicamente dall’immancabile portico a ogive, oltre il quale si intravvede, all’esterno, l’altrettanto immancabile palmizio. La tendenza alla tipizzazione, alla presentazione, cioè, di individui non tanto connotati singolarmente, quanto rappresentativi – per costumi, atteggiamenti, tratti somatici, colore della pelle – della loro appartenenza etnica è, come sappiamo, uno dei tratti salienti dell’atteggiamento razzista. Affrontando il tema della rappresentazione dell’alterità nel secondo Ottocento, gli studiosi hanno costantemente sottolineato la dirompente forza di rottura della teoria darwiniana dell’evoluzione «rispetto alle rappresentazioni entro le quali, fino a quel momento, si era dipanata la storia della comparsa dell’uomo sulla terra»46; hanno inoltre mostrato l’incidenza, anche a livello del comune sentire, della pseudo-scientificità del razzismo, «in quanto dato ideologico parassitario delle scienze bio-antropologiche»47. Dal momento che l’intero sistema di pensiero ottocentesco poggia su que44 La descrizione degli harem che ci fornisce una testimone diretta, Amalia Nizzoli, che in quanto donna vi fu effettivamente ammessa, non corrisponde affatto alle tante che conosciamo attraverso i pittori; nessuna atmosfera peccaminosa, un consorzio di donne che chiacchierano, pregano, danzano, ricamano: cfr. A. Nizzoli, Memorie sull’Egitto e specialmente sui costumi delle donne orientali e gli harem scritte durante un soggiorno in quel paese (1819-1828), Milano, Libreria e Tipografia Pirotta & C., 1841. Il tema dell’harem, luogo allo stesso tempo chiuso e aperto allo sguardo del voyeur, ebbe un successo straordinario in Europa, divenendo soggetto privilegiato anche delle cartoline postali erotiche, in cui, come ha scritto Malek Alloula, «le harem est devenu bordel: c’est là le dernier avatar – mais aussi la vérité historique – d’un orientalisme dont la carte postale ne masque plus les présupposés. Elle en souligne les tendances prostituantes. Le colonialisme est bien l’ultime morale de l’orientalisme et de l’exotisme. Mais c’est une morale de proxénète et de tenancière de maison close» (M. Alloula, Le Harem colonial, cit., p. 79). 45 Utili anche a questo proposito le osservazioni di Alloula sulla trivializzazione della rappresentazione dell’harem nelle cartoline postali: «Par les biais des almées et bayadères, s’exprime en se magnifiant l’exultation d’un corps pris dans les rets d’une sensualité généralisé qu’impose l’idée du harem. [...] L’énumération des types de danses (du mouchoir, du ventre etc.), la figuration d’instruments traditionnels (derbouka, bendir, etc.), les costumes et accessoires de la danse, tout cela n’obéît qu’à la nécessité folklorisante dont ne peut se départir la carte postale» (M. Alloula, Le Harem Colonial, cit., pp. 57, 61). 46 S. Puccini, Uomini e cose. Esposizioni, collezioni, musei, Roma, CISU, 2012, p. 17. Va tuttavia tenuto conto anche di prospettive diverse, come quella della cosiddetta “scuola del 1492”, che invita a non sottovalutare le radici coloniali Cinque-seicentesche: cfr. N. Labanca, Il razzismo coloniale italiano, in Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d’Italia 1870-1945, a cura di A. Burgio, Bologna, il Mulino, 1999, pp. 145-163. 47 A. Taguieff, La forza del pregiudizio. Saggio sul razzismo e sull’antirazzismo, Bologna, il Mulino, 1994, p. 8 [La Force du préjugé. Essai sur le racisme et ses doubles, Paris, La Découverte, 1988]. Sulla rappresentazione razzista in arte si veda l’interessante catalogo della mostra Die Vermessung des Unmenschen. Zur Ästhetik des Rassismus, a cura di W. Scheppe, svoltasi alla Staatliche Kunstsammlungen di Dresda dal 13 maggio al 7 agosto 2016.
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non per questo meno trasparente nelle sue finalità, di allestimento pubblico di un discorso coloniale, di proposizione pubblica – pur senza il coinvolgimento diretto di veri esperti – di rudimenti di saperi coloniali di tipo etnografico, geografico-naturalistico ed economico-commerciale.60
La larghissima documentazione portata alla luce da Abbattista comprende anche numerose fotografie del gruppo degli Assabesi, nonché illustrazioni e vignette a essi dedicate. Lo spazio della rappresentazione artistica risulta quindi prevalentemente esterno alla manifestazione: frutto di osservazione diretta, certo, ma realizzata stando dalla stessa parte del pubblico. L’artista, insomma, è chiamato, in quanto visitatore specializzato, o privilegiato, a fare da intermediario e divulgatore, al servizio – e a supporto – del tema coloniale, a cooperare in modo ancillare a un discorso già impostato, che egli non tanto crea, quanto ri-produce. Le modalità di tale riproduzione, tuttavia, variano anche di molto, così come i margini di autonomia che l’artista si ritaglia. Un esempio di notevole rilievo è costituito dal disegno di Ettore Ximenes, Gli Assabesi all’Esposizione, riprodotto nel venticinquesimo numero di «Torino e l’Esposizione italiana del 1884», pubblicazione periodica specificamente dedicata alla manifestazione. Il noto e celebrato artista, presente all’esposizione in veste di scultore, con ben sei opere61, offrì qui un interessante e qualitativamente pregevole saggio illustrativo, una sorta di sintesi delle ambiguità che caratterizzarono la fortuna critica del Villaggio assabese di Torino, dove si ritrovano efficacemente compendiate le diverse descrizioni che riempirono i giornali nel periodo dell’esposizione. Esso restituisce un gruppo composto e dignitoso, perfino rigido; i due bimbi, l’uno tenuto in braccio da un elegante signore, l’altro sollevato sulle spalle di qualcuno tra la folla, sono festanti, ma gli adulti ci appaiono quasi prigionieri del pubblico curioso che li circonda; eppure recitano alla perfezione la propria parte, quasi allegorie viventi delle qualità e dei vizi usualmente attributi agli africani, ferocia guerriera, pigrizia, lascivia: altero e imbronciato il giovane “principe” Abdallah Ben Ibrahim; cupo e feroce il cosiddetto “dignitario di corte” alle sue spalle, chiamato Kamil; seria e vagamente sdegnosa Kadiga, di cui molto si era favoleggiato sulla stampa, presentandola talora come frivola e consapevole dell’attrattiva esercitata sui visitatori italiani: e in effetti il suo sguardo sembra posarsi obliquamente 60
G. Abbattista, Umanità in mostra, cit., p. 107. In Catalogo sono elencate le seguenti opere: Pesca miracolosa, Nanà, Il dubbio, Burrasca, Scirocco, Il bacio di Giuda; cfr. Esposizione generale italiana in Torino 1884. Catalogo Ufficiale, Torino, Unione Tipografica Editrice, 1884, p. 119. Se ne parla anche in Nella galleria delle Belle Arti, «Torino e l’Esposizione italiana del 1884», 25, 1884, p. 193. Sull’artista si vedano: U. Fleres, Ettore Ximenes. Sua vita e sue opere, con introduzione di A. Venturi, Bergamo, Istituto Italiano d’Arti Grafiche, 1928; G. Capelli, Il monumento a Giuseppe Verdi. Cronaca di un ambiente distrutto, Parma, L. Battei, 1974; A. Fucili Bartolucci, Ettore Ximenes. Il periodo urbinate. Un’occasione di studio, «Notizie da Palazzo Albani», VII, 2, 1978, pp. 90-96; C. Virno, La collezione Ximenes nella Galleria Comunale d’Arte Moderna e contemporanea. Appunti per una biografia dell’artista, «Bollettino dei musei comunali di Roma», VIII, 1994, pp. 140-159. 61
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4. Disegni di G. Quaranta tratti da schizzi di G.B. Licata (da «L’Illustrazione Italiana», XII, 2, 11 gennaio 1885, Biblioteca Civica di Padova, su concessione del Comune di Padova - Assessorato alla Cultura) 5. E. Ximenes, Gli Assabesi all’Esposizione (da «Torino e l’Esposizione italiana del 1884», 25, 1884)
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su qualcuno; il secondo “dignitario”, Kreta, viene invece mostrato come socievole e sensibile al fascino femminile, mentre ammicca verso una giovane elegante signora, che ricambia il suo sorriso. Nell’illustrazione trovano perfettamente posto, insomma, azioni e reazioni del complesso rapporto venutosi a creare fra il gruppo di nuovi sudditi e i numerosi italiani presenti, un rapporto che non fu solo di passiva accettazione del proprio ruolo di esemplari in gabbia da parte degli assabesi, che seppero anzi interagire efficacemente e a tratti quasi rovesciare la parte che era stata loro assegnata62. Analogamente a quanto era accaduto in altre esposizioni precedenti63, anche a Torino, nella sezione delle Belle Arti, vennero esposti quadri e sculture ispirati a paesi lontani64. Consultando il catalogo, si incrociano sia i nomi di noti orientalisti, come Cesare Biseo, Sallustio Fornara, Alberto Pasini, che quelli di artisti minori, presenti con numerose opere a soggetto esotico, dalla Flora tropicale di Giacinto Bo alla Fantasia araba di Bauducco Cerutti, fino alle immancabili Odalische di Alessandro Manzo e di Adelchi Degrossi, per citarne solo alcuni65. Come già i titoli indicano, è l’Oriente, 62 Guido Abbattista, sulla base delle copiose testimonianze della stampa coeva, afferma che essi «seppero destreggiarsi e passare da una iniziale fase di caparbia resistenza a un momento successivo, dopo alcuni giorni di permanenza a Torino, caratterizzato da sorprendente capacità di adattamento alla situazione e perfino di abile sfruttamento delle opportunità che questa poté presentare. Già al quarto giorno, li si può osservare calati nel ruolo di intraprendenti e instancabili spettatori della mostra, capaci di imporre i propri percorsi e ritmi di visita e di soddisfare le proprie curiosità e desideri. Altro che passivi oggetti di esibizione e rappresentanti abbrutiti di una razza inferiore: piuttosto furono gli Africani a trasformarsi in attivi fruitori della grande esposizione, delle sue attrazioni, dei suoi prodotti di consumo, e più in generale della città e della società torinesi» (G. Abbattista Umanità in mostra, cit., p. 140). 63 Per esempio esposizione di Milano del 1881. 64 Un’eccezione, per il tema guerresco, è costituita dal dipinto del pugliese Leonardo (de) Mango, che risiedette a lungo a Istanbul, ispirato alla Notizia della resa di Tel-el-Kebi, battaglia del 1882 nella guerra anglo-egiziana: su de Mango cfr. P. Consiglio, G. La Notte, I percorsi di una vita tra l’Italia e l’Oriente, catalogo della mostra (Istanbul, 2005), Istanbul, Yapı Kredi Kültür Sanat Yayıncılık Ticaret ve Sanayi, 2005. 65 Cfr. Divisione I. Belle Arti, all’interno di Esposizione Generale Italiana in Torino. Catalogo Ufficiale, Torino, Unione Tipografico-Editrice, 1884. Queste le opere di soggetto esotico presenti a Torino nel 1884, Pittura: E. Ascenzi (Roma), L’abbigliamento di Khalisah; C. Biseo (Roma), Le donne dell’Harem nel deserto; Il Cantastorie in Egitto; G. Bo (Torino), Flora tropicale; F. Brambilla (Milano), Profumiera (Marocco); L’incantatore dei serpenti (Marocco); Fioraia (Marocco); P. Caliari (Verona), Passatempo nell’Harem; B. Cerutti (Torino), Fantasia araba; Tribù araba accampata; Gli esploratori; F. Crema (Torino), Torre di Hassan a Rbat (Marocco); A. Degrossi (Oneglia), Odalisca (pastello); Orientale (pastello); U. Dell’Orto (Milano), Al Cairo (studi dal vero due); L. De Mango (Bisceglie, Bari), La notizia della resa di Tel-el-Kebir; F. Peralta (Sevilla, Spagna), Arabo; C. Fantini (Chieri), Rajà delle Indie (ritratto del conte Freemantz Indiano); S. Fornara (Milano), Cantastorie arabo; Una fontana al Marocco; Mercato di frutti a Tangeri; A Tangeri; G. Grosso (Torino), Selam; G. Guida (Napoli), Costume orientale; G. Haimann (Milano), Cedri del Libano; Sponde del Nilo; V. Loria (Salerno), Una pagina del Corano (stile orientale) (acquerello); A. Manzo (Napoli), La Favorita del Sultano (piatto a fumo); Un’Odalisca (piatto a fumo); P. Mariani (Monza), Lavandaie arabe; G. Nacciarone (Napoli), Haidée; A. Pasini (Busseto, Parma), Porta di un vecchio arsenale (Turchia); Porta della sala delle due sorelle (Alhambra) (studio dal vero); Porta del vino (Alhambra) (studio dal vero); Interno della moschea dell’Alhambra (studio dal vero); Porta d’una moschea e palazzo del Generaliffe (studio dal vero); S. Pezzoli,
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assai più dell’Africa, a essere protagonista della fantasia degli artisti, e anche quando le scene sono ambientate in Egitto o Marocco, ci si pone senza soluzione di continuità nel solco della consolidata tradizione dell’orientalismo. Un’opera significativa, per comprendere il rapporto ancora prevalente con il continente africano, è la colossale scultura di Diego Sarti, dal titolo darwiniano Affinis Gorilla homini? esposta nel salone sud, in cui è ritratto un africano sopraffatto da un enorme e poderoso gorilla; non è certo la prima volta – né sarà l’ultima66 – in cui l’animale è stato messo ambiguamente in rapporto con un nero, a sottolinearne la maggiore vicinanza, nella scala evolutiva67. Accusato da un commentatore d’eccezione come Camillo Boito di aver voluto cercare l’effetto a tutti i costi68, Sarti proponeva una rilettura
Nel Kan·Khalil in Cairo (acquerello); V. Ragusa (Palermo), Saggi di pittura ornamentale di stile Giapponese; D. Russo (Napoli), La donna in Oriente; E. Odeschini (Mantova), Scena tunisina; E. Uzielli (Firenze), Baiadera; F. Venuti (Roma), Sentinella araba; Scultura: P. Calvi (Milano), Ben Ali-Ben Ladiar (busto marmo e bronzo); Adeydah (busto marmo e bronzo); A. Luzi (Roma), Danzatrice egizia (figura in marmo); G. Oldofredi (Milano), Odalisca (busto) (figura in marmo); V. Ragusa (Palermo), Saggi di scoltura artistica e ornamentale di stile giapponese; V. Ramaschiello (Roma), Maldar (bustino in marmo); Medié (bustino in marmo); D. Sarti (Bologna), Affinis Gorilla Homini? (bustino in marmo), [l’altro “gruppo colossale in gesso” di Sarti, intitolato Schiavitù, era ispirato agli Stati Uniti d’America]; G. Sartorio (Torino), Odalisca (busto in marmo); G. Tadolini (Roma), Nubiano (busto in bronzo); Marocchino (busto in bronzo). 66 Sulla persistenza degli stereotipi legati all’Africa si veda quanto ha osservato Chiara Gallini a proposito della copertina del «Venerdì di Repubblica» del 15 settembre 1989, che ritraeva una gorilla che abbracciava il suo “maestro-guardiano” Karafa Badji: «Il presupposto razzista dell’immagine non è dato solo dal colore della pelle del suo protagonista umano. L’accoppiata uomo-gorilla rimette di fatto in scena altre associazioni che poco hanno a che fare coi darwinismi di Ratio, l’infante informatico. Sono associazioni di origine più antica, che rimandano alle vecchissime questioni se il negro sia o no scimmia, a quale delle due specie debba essere attribuito, se abbia o no un’anima... questioni davvero vecchissime, ampiamente dibattute all’epoca della tratta degli schiavi, sia in termini religiosi che laici» (Le radici dell’immaginario esotico, «Democrazia e diritto», 6, 1989, pp. 267-279: 269). 67 In Nella Galleria delle Belle Arti. Il Salone Sud, si dice che la scultura di Diego Sarti di Bologna Affinis Gorilla homini?: «[...] rappresenta una lotta tra il gorilla e un uomo. Questo è nelle immani strette del mostro antropomorfo, che prima di sbranarlo stritola la lancia che forse gli ha fatto una ferita». Il secondo gruppo del Sarti, la Schiavitù, «rappresenta la fustigazione di una giovane schiava nera in presenza del padrone; il nero aguzzino ha sospeso i colpi e aspetta gli ordini del padrone, che sorride beato del supplizio inflitto; dall’altra parte il gruppo è compito da una muta di mastini ferocissima che minacciano di sbranare la schiava, a fatica trattenuti al guinzaglio da un altro schiavo» («Torino e l’Esposizione italiana del 1884», 27, 1884, p. 211). Sulla sezione artistica italiana di Torino si vedano R. Maggio Serra, L’arte in mostra nella seconda metà dell’Ottocento, in Le esposizioni torinesi 1805-1911, a cura di U. Levra, R. Roccia, Torino, Archivio storico, 2003, pp. 79-110, 297-322. Su Sarti cfr. E. Contini, Diego Sarti fra Eros e Thanatos, «Atti e memorie dell’Accademia Clementina», 19, 1986 (1987), pp. 111-116; R. Martorelli, Cento anni di scultura bolognese: l’album fotografico Belluzzi e le sculture del Museo Civico del Risorgimento, «Bollettino del Museo del Risorgimento», numero monografico, LIII, 2008. 68 Le opere di Sarti furono contestate da Camillo Boito nell’articolo Il Bello nella Esposizione, «Torino e l’Esposizione italiana del 1884», 56, 1884, p. 443: «La mostra è già troppo piena di opere, in cui s’indovina o si crede d’ indovinare questo unico intento: far colpo. Guardate l’immane gorilla, il buffo piantatore americano del Sarti di Bologna, ottimo ingegno, e simili bizzarrie di oggetti e stramberie di composizione. E sopportano, come il Sarti, la pena dello
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6. D. Sarti, Affinis Gorilla homini?, gesso, collocazione ignota (foto Fondo Pietro Poppi - Fotografia dell’Emilia, Collezioni d’Arte e di Storia della Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna) 7. E. Frémiet, Gorille enlevant une femme, 1887, gesso dipinto, Nantes, Musée des Beaux-Arts (copyright © Nantes Métropole - Musée d’Arts)
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di Gorille enlevant une negresse, dello scultore francese Emmanuel Fremiet, rifiutata al Salon del 1859, poi replicata nella variante Gorille enlevant une femme69, che sollevò particolare scandalo al Salon del 1887 poiché, questa volta, la donna era bianca e nuda. L’altro gruppo esposto era invece ispirato alla Schiavitù negli Stati Uniti e venne così descritto da un critico dell’epoca: È una rappresentazione complessa come se ne usano in certi Santuarii per la passione di Cristo, alla Madonna del Monte presso Varese, per esempio, ma senza che le figure siano colorite. È la migliore delle due opere esposte dal Sarti, ed ha pregi non comuni di plastica energica ed intensa. In quanto alla composizione rappresenta la fustigazione di una giovine schiava nera in presenza del padrone. Il negro aguzzino, o stanco o impietosito, ha sospeso i colpi e aspetta gli ordini del padrone che sorride beato del supplizio inflitto; dall’altra parte il gruppo è compito da una muta di mastini ferocissima che minacciano sbranare la povera schiava, e sono a fatica trattenuti al guinzaglio da un altro schiavo.70
Secondo un indirizzo seguito spesso anche nell’interpretazione dei temi coloniali, il soggetto nuovo e inusitato viene attratto nell’alveo rassicurante della tradizione e in virtù di tale nobilitazione accettato. La sottesa carica sensuale dell’opera, che probabilmente ne motiva l’apprezzamento, è mascherata dall’analogia – piuttosto forzata – con un episodio della storia sacra. Via via, nel corso delle esposizioni successive, l’apporto delle arti figurative al tema coloniale si fece più rilevante: mano a mano che l’orientalismo tradizionale si ritirava, i nuovi soggetti, tratti dalla storia recentissima, si facevano largo. Al centro del Villaggio eritreo allestito in occasione dell’Esposizione Nazionale di Palermo del 1892, per esempio, campeggiava il monumento in gesso bronzato l’Italia in Africa dello scultore Salvatore Rubino. All’interno della Mostra Eritrea furono esposti dipinti di soggetto sia religioso che profano del pittore eritreo convertito Hallas Lucas (o HalekaLucas) – accolti con sarcasmo, se non con disprezzo, dai commentatori71 – mentre nella Galleria di Belle Arti, accanto a un numero ancora signisforzo premeditato alcuni pittori, i quali, nel volere far troppo o cose diverse da quelle per cui son nati, smarrirono i due sommi pregi dell’arte: la spontaneità e il carattere individuale». 69 La prima opera venne distrutta qualche anno più tardi, mentre la seconda si trova al Musée des Beaux-Arts di Nantes. Su Fremiet si vedano C. Chevillot, Emmanuel Frémiet: 1824-1910; la main et le multiple, catalogo della mostra (Dijon-Grenoble, 1988-1989), Dijon, Musée des beaux-arts, 1988; M. Zgórniak, Fremiet’s Gorillas: why do they carry off women?, «Artibus et historiae», XXVII, 54, 2006, pp. 219-237; T. Gott, “It is lovely to be a gorilla, sometimes”: the art and influence of Emmanuel Fremiet, gorilla sculptor, «Melbourne Art Journal», 9/10, 2007, pp. 198-219; W. Scheppe, Emmanuel Frémiet. Gorilla, Frau verschleppend, in Die Vermessung des Unmenschen. Zur Ästhetik des Rassismus, cit., pp. 2-11. 70 Nella Galleria delle Belle Arti, «Torino e l’Esposizione italiana del 1884», 27, 1884, p. 211. 71 Si sofferma su questo aspetto in particolare G.M. Finaldi, Italian National Identity in the Scramble for Africa, cit., pp. 237-238, facendo riferimento agli ingenerosi commenti nelle pubblicazioni dedicate all’Esposizione.
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ficativo di opere a soggetto orientalista, si affacciarono i primi dipinti e sculture ispirati alle campagne militari72, tra cui la grande tela di Cesare Biseo dedicata a Dogali, l’omonimo monumentale gruppo in gesso di Benedetto Civiletti e quello in bronzo di Salvatore Buemi73. È di particolare rilievo il fatto che la scultura di Civiletti si sia aggiudicata la medaglia d’oro74: segno che la celebrazione della battaglia di Dogali, assimilata – come si è già ricordato – all’eroica resistenza ateniese alle Termopili, era ormai entrata nell’immaginario collettivo e che la tematica coloniale si ammantava di ufficialità, collegandosi esplicitamente alla mitologia risorgimentale in quanto sacrificio della vita per la grandezza della patria75. La cronaca avvilente delle disfatte assurgeva così – trasfigurata – a una dimensione universale, grazie all’assunzione dei caratteri compositivi e iconografici della pittura e scultura di storia. Da tale celebrazione gli africani venivano totalmente estromessi, lasciando l’intero spazio ai valorosi soldati italiani, eroi di un’epopea bellica che celebrava i suoi fasti a dispetto della sconfitta, occultandone la ferita attraverso la rimozione del nemico. La strada che si era aperta in occasione della rassegna palermitana sembrò chiudersi bruscamente pochi anni dopo, a causa della rovinosa sconfitta di Adua del 1896. Le prove generali della nuova potenza coloniale europea subirono un repentino arresto, evidente e palpabile nell’Esposizione torinese del 1898, dove il tema africano – come si è anticipato – sembrò piuttosto celato che messo in risalto. La divisione IX, dedicata agli italiani all’estero, comprendeva anche una sezione sull’emigrazione e le colonie, che presentava «tutto quanto di utile, di bello, di grande sa creare l’ingegno italiano fuori della patria». Oltre a prodotti industriali provenienti dall’America latina e dall’Australia,
72 Va segnalato che nella Mostra Eritrea venne esposto anche il dipinto di un pittore eritreo raffigurante la battaglia di Kufit tra gli Etiopici e i Dervisci (cfr. «L’Esposizione Nazionale illustrata di Palermo 1891-1892», 4, 1891-1892, pp. 31-32). 73 In Esposizione Nazionale, Palermo 1891-1892. Catalogo della Sezione di Belle Arti, Palermo, Stabilimento Tipografico Virzì, 1891, risultano presenti le seguenti opere a soggetto orientalista e africano: Pittura: C. Biseo (Roma), Dogali; G. Nacciarone (Napoli), “Hascisch!”; G. Nacciarone (Napoli), Orientale; R. Guastalla (Parma), Porta del vecchio serraglio; Porta di una moschea; G. Tivoli (Trieste), Nell’harem; D. Russo (Napoli), Odalisca; G. De Santis (Napoli), La preghiera della sera a Bisanzio; G. Mancinelli (Palermo), L’Orientale,; M. Russo (Napoli), La donna in Oriente. Scultura: G. De Paulis (Firenze), Moretta (gruppo in gesso); F. Landi (Carrara), Maometto (statua in gesso); T. Pozzi (Torino), Kamir (bronzo); D. Pagano (Roma), Fumatrice d’oppio; B. Civiletti (Palermo), Dogali (gruppo in gesso); A. Trotti (Roma), Mezzo busto di africano (bronzo); P. Calvi (Milano), Aleydah (marmo e bronzo); D. Pagano (Roma), Moretta (terracotta); S. Buemi (Roma), Dogali (gruppo bronzo); G. Giusti, Odalisca. 74 La scultura, sezionata, è conservata alla Galleria d’arte moderna “Empedocle Restivo” di Palermo. 75 Michele Nani ha sottolineato il legame fra guerra coloniale e Risorgimento presente fin dall’inizio dello scramble for Africa italiano, ricordando, per esempio, due numeri “africani” della rivista «Fischietto», in cui i primi sbarcati ad Assab erano paragonati ai Mille di Garibaldi. «La centralità della dimensione militare nel colonialismo italiano delle origini [...] favorì la trasformazione della guerra coloniale in guerra nazionale» (M. Nani, Ai confini della nazione, cit., p. 57).
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8. B. Civiletti, Dogali, gruppo in gesso (da «Il Secolo illustrato della domenica», IV, 7 febbraio 1892)
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motivazione contingente molto precisa: l’organizzazione della citata Mostra Internazionale d’Arte Coloniale, svoltasi a Roma nel 1931 su iniziativa dell’Ente Autonomo Fiera Campionaria di Tripoli e allestita con grande eleganza dall’architetto Alessandro Limongelli162. Nulla a che vedere con l’antecedente della rassegna artistica del 1927, per forza di cose destinata a un pubblico ristretto, a causa della collocazione tripolina. La scelta della capitale diede straordinario rilievo all’iniziativa, che vide la luce in una fase di forte accelerazione imperialistica: nel 1929, dopo un interim del capo del Governo durato circa un anno, era stato nominato ministro delle Colonie un uomo di guerra come Emilio De Bono, che nel 1932 fu incaricato da Mussolini di preparare un piano per l’invasione dell’Etiopia. La mostra romana non fu che una delle numerose manifestazioni concepite a fare da sfondo e supporto alle mire espansionistiche del duce, e si svolse in parziale sovrapposizione – e antagonismo – con la grande Exposition Internationale Coloniale di Parigi, cui naturalmente anche l’Italia partecipò. In fondo, la rassegna romana nella sua interezza può essere vista come un solo, enorme concorso a tema coloniale, di fronte al quale tutti gli altri impallidiscono. Mai fino ad allora tanti sforzi erano stati univocamente convogliati verso l’obiettivo della rappresentazione artistica delle colonie (comprese quelle dell’Egeo) e i lavori italiani esposti ammontarono a circa quattrocento, un terzo di quelli pervenuti. Il rilancio dei soggetti africani, dopo decenni di cattiva informazione ed episodi di incresciose sconfitte che – a detta degli organizzatori – avevano disamorato gli italiani, avvenne attraverso il richiamo a quell’idea imperiale di espansionismo che è retaggio sacro di Roma Eterna ed alla quale sono legati i destini della Patria Fascista.163
È il solito tema, cui la retorica fascista ci ha abituati, presente fin dal nome e dalla simbologia fondativa del movimento, ma rafforzatosi via via nel corso degli anni e facilmente piegato in questo frangente ai disegni imperiali164. Il dato interessante, dal nostro punto di vista, sta soprattutto nel ruolo assegnato all’arte, sorta di ambasciatrice dei destini nazionali, propagatrice – in patria e all’estero – dell’immagine dei possedimenti italiani. La superiorità artistica da secoli rivendicata al nostro paese, elemento identitario forte nella costruzione dell’italianità, viene qui investita di una precisa funzionalità politica: la bellezza deve cioè cementare quell’idea di superiorità – culturale e/o razziale – che giustifica l’imperialismo: 162 Cfr. sull’argomento A. Roscini Vitali, Le esposizioni della Roma fascista. Arte e architettura dell’effimero (1923-1938), tesi di dottorato di ricerca in Storia dell’arte, XXVIII ciclo, Università degli Studi di Roma La Sapienza, 2016, tutor prof.ssa L. Tedeschi, co-tutor prof.ssa F. Gallo; l’autrice dedica ampio spazio alla mostra nazionale d’arte coloniale di Roma del 1931. 163 Programma, in I Mostra Internazionale d’Arte Coloniale. Roma 1931. Catalogo, II ed., Roma, Fratelli Palombi, 1931, p. 34. 164 La bibliografia sull’argomento, naturalmente, è vastissima. Per un affondo specifico sul tema mi limito ad A. Giardina, A. Vauchez, Il mito di Roma da Carlo Magno a Mussolini, Roma-Bari, Laterza, 2000; E. Gentile, Fascismo di pietra, Milano, Garzanti, 2007.
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L’Ente pensa che per giungere al cuore ed alla mente degli uomini non vi ha mezzo più rapidamente suasivo dell’arte. Alla bellezza, comunque e in qualsivoglia forma espressa, a questa invincibile ambasciatrice con la quale non si discute, la quale vince solo col mostrarsi, l’Ente Autonomo Fiera di Tripoli affida l’onore e la responsabilità di propagandare su vasta scala l’idea coloniale.165
Ancora una volta, i domini dell’arte pura – definizione che in questa circostanza risulta davvero stridente – vennero riservati ai connazionali, mentre una specifica sezione fu adibita al cosiddetto “colore locale”, raccogliendo una produzione varia e interessante, dai monili d’oro e d’argento agli oggetti in avorio, in legno, in cuoio, dai tappeti agli arazzi, alle stuoie, alle armi, agli strumenti musicali, agli indumenti, al materiale etnografico ecc. ecc.166
dove un intero mondo di tradizioni e saperi viene sbrigativamente compendiato nella formula generica degli “eccetera”. Quanto alla giuria preposta alla scelta delle opere, costituita dagli scultori Giovanni Prini e Renato Brozzi, dai pittori Giovanni Guerrini e Felice Casorati e dall’architetto Alessandro Limongelli, la sua relazione fu tutt’altro che lusinghiera: pur definendo l’iniziativa audace, rilevò che pochi erano gli artisti di fama o di qualità eccezionale a essersi proposti e lamentò la presenza di «energie eterogenee e non sufficientemente disciplinate da un criterio alto ed assoluto». Sottolineò che le opere selezionate avrebbero potuto essere ridotte ulteriormente, non fosse che i fini della mostra erano eminentemente propagandistici, il che aveva indotto i commissari a una valutazione più generosa: Considerando la manifestazione, come essa veramente è, un lavoro di dissodamento e di seminagione, abbiamo soprattutto sperato che il frutto migliore di essa debba essere in avvenire un nuovo impulso per i veri artisti a conoscere, a studiare, a sentire profondamente la Colonia.167
È l’usuale ipocrisia che segna i lavori delle tante commissioni di artisti e storici dell’arte chiamate negli anni del fascismo trionfante a giudicare opere a tema: sui criteri di valutazione formale si innestano considerazioni a essi totalmente estranee e così ci si arrabatta, a colpi di compromesso, illudendosi di preservare la propria integrità. Attraversare diacronicamente le diverse esposizioni consente così di assistere a un progressivo arretramento delle ragioni della cultura, a un abbassamento inesorabile della soglia di tolleranza a ingerenze eteronome. Lo stesso fenomeno – a ben guardare – cui stiamo assistendo oggi in un mondo dominato dai valori economicistici: se è vero, come Said ci ha insegnato, che il nesso tra cultura e politica è ineliminabile, è altrettanto evidente che certe fasi storiche registrano un impennarsi della parabola compromissoria.
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Programma, cit., p. 33. Ivi, pp. 34-35. Relazione della giuria, in I Mostra Internazionale d’Arte Coloniale, cit., p. 46.
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29. Antica statuetta in ebano. Arte indigena (Congo Belga) 30. Oggetti d’arte eschimese (da I Mostra Internazionale d’Arte Coloniale. Roma 1931. Catalogo, II ed., Roma, Fratelli Palombi, 1931, su concessione della Biblioteca di Filosofia dell’Università degli Studi di Padova)
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31. G. Biasi, Jazz (Sudanesi con tromba, flauto e tamburo), 1931 ca, olio su compensato, collezione Regione Sardegna (su concessione dell’Assessorato degli Enti Locali Servizio Finanze e Supporti Direzionali della Regione Autonoma della Sardegna) 32. F.B. Neuhaus, Madre degli sciacalli. Nalut, 1927, olio su tela, già Collezione IsIAO (archivio fotografico della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, su concessione del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo) 33. M. Levy, Venditrice di pane (da I Mostra Internazionale d’Arte Coloniale. Roma 1931. Catalogo, II ed., Roma, Fratelli Palombi, 1931, su concessione della Biblioteca di Filosofia dell’Università degli Studi di Padova)
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Per quanto concerne le sezioni straniere, la concomitanza con l’esposizione di Parigi limitò le adesioni a Francia, Belgio e Danimarca. Pochi i nomi di spicco nella sezione francese, se si eccettua uno sparuto numero di opere di Emile Bernard, Raoul Dufy, Albert Marquet e Henri Matisse; nutrito invece il contingente dei pittori iscritti all’organizzata Société Nationale des Artistes Coloniales e ricche anche le sale destinate all’immancabile retrospettiva dei grandi orientalisti, da Vernet a Delacroix, da Chasseriau a Fromentin. Di gran lunga più importante fu la sezione belga, non tanto per i pittori e gli scultori locali, quanto per la ricca selezione di opere africane che diede l’opportunità di vedere all’inesperto pubblico italiano. Oltre a oggetti d’uso quotidiano, come coppe e sedie, coltelli e pipe, vi erano maschere, sculture lignee, figurine in avorio, raggruppate sotto il nome dei diversi collezionisti. Analogamente, nella sezione danese, fecero bella mostra, e suscitarono positiva impressione, le opere degli esquimesi168. Nelle sale italiane vennero organizzate alcune personali dei nuovi specialisti del genere, che si erano costruiti assai rapidamente una fama e guadagnati ampi spazi all’interno di questo genere di esposizioni, come Oprandi, Biasi, Neuhaus, Del Neri, Romano Dazzi. Anche nel caso di artisti meno noti e specializzati, analogamente a quanto succedeva alla Quadriennale e alla Biennale, si cercò di evitare lavori singoli e isolati, privilegiando l’esposizione di nuclei più o meno ricchi. La massa di opere presenti rende difficile uno sguardo di sintesi; si può comunque notare la convivenza fra la reinterpretazione di soggetti in qualche modo sospesi nel tempo, sottratti al flusso storico (dune, giardini, moschee, cavalli arabi, “tipi”), vedute di specifici territori, di cui invece si precisa puntigliosamente il nome, resti romani e rappresentazioni ispirate alle esperienze cruente delle guerre coloniali (in cui si distinse in particolare Romano Dazzi).
168 Roberto Papini, per esempio, commentò: «In una sezione che è certamente la più signorile e ben ordinata di tutta la mostra il nordico paese di Amleto ha tenuto a mostrarci, specialmente in occasione delle controversia che ha con la Norvegia, quanto sia antica, silenziosa ed efficace la sua opera di penetrazione in un suolo che è separato dal mondo mediante barriere infinite di ghiaccio. Ha ragione di rivendicare a sé l’onore di quest’opera lunga, faticosa e tenace: i prodotti degli eschimesi sono di una fisonomia singolare, hanno caratteri che non si confondono con quelli consueti dei paesi tropicali anche perché taluni cominciano ad uscire dall’ambito puramente etnografico per entrare nella sfera dell’arte. Specialmente le figurette lavorate in denti di tricheco hanno una grazia primitiva che s’allea con una furbizia saputa. Direi che gli eschimesi appaiono come se fossero resi selvaggi dalla natura accanitamente ostile che li rinchiude nelle capanne di neve e li abbrutisce coll’inazione forzata durante la maggior parte dell’anno; ma in fondo la loro indole non è selvaggia, non ha quei caratteri di contrasto violento che si manifestano bruscamente nei prodotti dei popoli tropicali. Le sculture in avorio, i motivi decorativi con cui sono composti gli oggetti hanno una parentela evidente e spontanea con i saggi dell’arte medievale europea, non con i pargoleggiamenti degli uomini preistorici a cui s’assomigliano quelli dei selvaggi africani. C’è insomma un alito di spiritualità, non soltanto un gioco infantile di linee e di colori» (Prima Mostra Internazionale d’Arte Coloniale. Arte e colonie, cit., p. 270).
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34-35. E. Prampolini, Feticcio meccanizzato e Fono-danza, bozzetti per la decorazione del ristorante della sezione italiana all’Exposition Coloniale Internationale di Parigi del 1931 (da F.T. Marinetti, Fillia, La cucina futurista, Milano, Sonzogno, 1932, su concessione della Biblioteca di Filosofia dell’Università degli Studi di Padova)
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Novità di rilievo fu costituita dalla sala dei futuristi italiani, presentata in catalogo dall’onnipresente Marinetti il quale, dopo aver affermato con sintesi tranchant che «l’arte coloniale [aveva] dato pochi capolavori: i quadri di Gauguin, di Matisse e le migliori sculture negre», e aver accennato alle diverse modalità di resa dell’Africa – di maniera, realista, impressionista – concludeva, con il consueto velleitarismo: [...] con metallica sicurezza di vittoria il futurismo pittorico italiano affronta oggi le difficoltà di una plastica africana futurista. [...] L’abitudine della sintesi, della trasfigurazione, della simultaneità e dello stato d’animo dà un’assoluta superiorità ai pittori futuristi nello sforzo di catturare queste mobili e spesso inafferrabili atmosfere. L’assenza di costruzione plastica che caratterizza gran parte dell’Africa ne rende i paesaggi poco favorevoli al pennello realistico e meticoloso dei pittori tradizionali. Sono sempre paesaggi atmosferici quasi aviatorii, dove l’ingegno dei futuristi già allenati a costruire con piani di raggi, nuvole, nebbie, spessori, ombre, trasparenze, profondità, può planare, scivolare d’ala, impennarsi, capriolare senza suicidarsi.169
E faceva riferimento alla grande impressione suscitata a Parigi dagli enormi pannelli di Prampolini, che decoravano il padiglione-cucina futurista dell’esposizione coloniale. Si trattava di sei pitture murali (ora perdute) che illustravano il tema «Le continent noir à la conquête de la civilisation mécanique» e che «davano all’ambiente una atmosfera simultaneamente africana e meccanica che rendeva splendidamente la volontà di interpretare i motivi coloniali secondo una sensibilità moderna futurista»170. Tradizione e modernità, classicità e avanguardia – come di consueto – si fronteggiavano all’interno di queste rassegne, in modo particolarmente dissonante a Parigi, dove l’architetto/scenografo eclettico Armando Brasini fece assumere al padiglione italiano le magniloquenti sembianze della basilica di Leptis Magna, mentre Guido Fiorini propose per il citato padiglione-cucina futurista le forme essenziali del razionalismo171. Nonostante gli entusiasmi marinettiani, nella guida ufficiale della sezione italiana all’esposizione di Parigi rilievo dominante venne attribuito all’impronta lasciata da Roma imperiale in Africa, come testimonia la dettagliata descrizione dei reperti antichi esposti nella basilica, frutto di importanti campagne di scavo, e la scelta delle immagini da pubblicare in catalogo; un capitoletto a parte fu concepito proprio per riassumere le diverse ricerche archeologiche che, a partire dal 1913, avevano avuto luogo in Tripolitania e Cirenaica. Alla produzione artistica contemporanea furono riservati cenni generici e uno spazio marginale («tableaux de paysage et de types de population») e addirittura si omise di citare alcuni dipinti indigeni esposti nella terza sala, facenti parte delle collezioni del Museo colonia169
F.T. Marinetti, Futuristi italiani, in I Mostra Internazionale d’Arte Coloniale, cit., p. 292. F.T. Marinetti, Fillia, La cucina futurista, Milano, Sonzogno, 1932, p. 116. 171 Cfr. C. Hodeir, M. Pierre, L’Exposition Coloniale de 1931, Paris, A. Versaille éditeur, 2011; M. Carli, Ri/produrre l’Africa romana: i padiglioni italiani all’Exposition Coloniale Internazionale, Parigi 1931, «Memoria e Ricerca», 17, 2004, pp. 211-232. 170
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36. Artista ignoto, San Georgis (San Giorgio) uccisore di draghi; Ambessa (Leone); Armaz (Elefante), già Roma, Museo Coloniale (da A. Castaldi, Pittura e pittori abissini, «L’Italia Coloniale», III, 11, novembre 1926)
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le di Roma: come accadde anche in altre occasioni, nella capitale dell’arte moderna il regime preferì giocare la carta dell’illustre tradizione, anziché cimentarsi in rischiosi confronti sulla produzione recente. La II Mostra Internazionale d’Arte Coloniale si svolse tra 1934 e 1935, quasi in contemporanea con la Guerra d’Etiopia; la fondazione dell’Impero era nell’aria, anche se la sua proclamazione ufficiale avvenne solo il 9 maggio 1936. Questa volta la sede prescelta fu Napoli, centro portuale di primo piano per i collegamenti con l’Africa. Nella sua ossessione pianificatrice, il tardo fascismo non lasciò nulla al caso, organizzando meticolosamente e in modo diversificato mostre e rassegne dalle quali si aspettava un cospicuo ritorno d’immagine. In una sorta di spartizione delle relative aree di competenza, a Venezia, in quanto sede della Biennale, spettò il ruolo di punto d’incontro dell’arte internazionale, a Roma, con la Quadriennale, quello di promotrice dei pittori e scultori italiani, a Napoli, infine, in virtù della sua posizione, del fatto che aveva dato i natali alla Società Africana d’Italia ed era sede dell’Istituto Orientale, venne assegnato il compito di rappresentare storia e destini dell’Oltremare. L’arte vi fu chiamata a officiare una catarsi di stato, trasfigurando nel caleidoscopio delle mille immagini dell’Africa la realtà brutale di sconfitte, occupazioni, eccidi, e di quella che – di lì a poco – sarebbe stata un’odiosa campagna razziale, volta a impedire il meticciato, per preservare la purezza della razza. Gli artisti, al solito, risposero numerosi, come e più che a Roma tre anni prima. Per spingerli a recarsi in colonia – come già si è ricordato – otto di loro vennero sovvenzionati dall’Ente Autonomo della Fiera di Tripoli, affinché dipingessero dal vero la realtà africana ed ebbero ciascuno una personale all’interno della mostra: Plinio Nomellini, Giuseppe Casciaro, Cesare Cabras, Michele Cascella, Luigi Surdi, Domenico De Bernardi, Gaetano Bocchetti e Vincenzo Colucci. Secondo una prassi comune nelle grandi rassegne del regime, mostre retrospettive e contemporanee si affiancarono, in obbedienza alla necessità di dar conto del legame fra passato e presente. Ripetendo con maggior larghezza l’esperienza romana del 1931, ci si avventurò a ritroso fino al XV e XVI secolo, per vedere i prodromi dell’arte coloniale nelle opere di alcuni grandi artisti, in particolare veneti, Veronese, Giovanni Mansueti, Tiziano, Carpaccio, Bassano, Pietro e Alessandro Longhi: Quattrocento e cinquecento coloniale? Proprio. Ché un’arte coloniale esisteva in quei secoli sì grandi per l’arte nostra, quando le nostre gloriose repubbliche marinare erano in consuetudine di rapporti con l’Oriente e quando i fastosi sultani gareggiavano nell’invitare artisti nostri a ritrarre le sembianze loro e quelle dei loro familiari.172
172 A. Piccioli, Arte coloniale, cit., p. 734. Un numero cospicuo di tali dipinti proveniva dalla collezione di Italico Brass; essi vennero attribuiti – con eccessivo ottimismo – a grandissimi artisti: Tiziano, Pietro e Alessandro Longhi, Bassano (senza altre specificazioni).
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La sezione dedicata all’Ottocento trovò il suo eroe in Michele Cammarano, «il Courbet d’Italia»173, «la cui forza pittorica» – come si disse nella presentazione in catalogo – «è finalmente oggi penetrata a dovere e la cui opera sarà giustizia riconoscere come una luminosa eccezione del tempo». Tuttavia non si ebbe il coraggio di esporre il suo quadro più importante di africanista, la grande tela della Battaglia di Dogali, per motivi di carattere sia ideologico – l’evocazione di una inequivocabile sconfitta – che stilistico. Come spiegò Biancale, infatti, «l’estetiche ora correnti, sebbene reagiscano a quel frammentismo tanto in voga poco tempo fa, non sono ancora così totalmente accette da permettere una valutazione serena di tale opera»174. Egli riteneva, insomma, che critica e artisti non fossero disposti ad accogliere con favore il verismo della pittura di guerra, tanto in voga nell’Italia post-risorgimentale; un verismo che, al contrario, dominava incontrastato sulle copertine dei periodici popolari, come la «Domenica del Corriere», la «Tribuna Illustrata» o il «Mattino Illustrato» dove erano riprodotte, con dovizia di particolari e sovente sulla base di fotografie, affollate scene di vita quotidiana in Africa, battaglie, cerimonie e adunanze. Tale divaricazione dei codici espressivi, tuttavia, non derivava tanto dai diversi media utilizzati, quanto dai lettori a cui ci si rivolgeva, come prova il fatto che testate di settore o comunque destinate a un pubblico d’élite, da «La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia» alla «Lettura», supplemento del «Corriere della Sera», mostrarono la stessa preferenza per figure isolate e paesaggi stilizzati che si può notare in molti dipinti esposti nelle rassegne coloniali. Parallelamente, tuttavia, si fecero strada proposte che traslavano nel contesto delle colonie i temi più in voga nei concorsi nazionali, dalla mietitura del grano alla bonifica delle terre, come si può notare, per esempio, nella tela di Mario Cortiello ispirata alla Raccolta del cotone. Si tratta di un ritorno a composizioni affollate – com’erano state quelle della tradizione orientalista – che tuttavia, anziché rappresentare l’alterità marcandone la distanza dai canoni europei, ne celebravano l’adeguamento ai nuovi ritmi delle attività imposte dal regime. È il punto di arrivo di una trasformazione che conduce da un’osservazione in vitro a una in vivo; dalla cristallizzazione della diversità in tutte le sue forme, da contemplare nella sua lontananza o come su di un palcoscenico, a un’ammissione negli spazi della vita collettiva, in virtù di un adeguamento ai canoni dei colonizzatori. Non a caso, le prime figure a essere assimilate furono quelle degli asca173 M. Biancale, La 2a Mostra d’Arte Coloniale, in II Mostra Internazionale d’Arte Coloniale. Napoli 1934-1935. Catalogo, Roma, Palombi, 1934, p. 42; Biancale aggiunge: «Il grande artista dai toni neri non poteva non sentirsi attratto da una terra in cui, com’egli scrive, c’è tutto un popolo nero. L’esaltazione ch’egli ci dette degli eroi di Dogali è pari alla novità pittorica dei suoi ras e dei suoi scioani. Cammarano può dimostrare, in sede pittorica, come si può trattare un motivo apparentemente pericoloso, soltanto che si sappia portarvi uno spirito di sobrietà espressiva, di tradizione disegnativa e compositiva». 174 M. Biancale, Michele Cammarano, in II Mostra Internazionale d’Arte Coloniale, cit., p. 67.
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37. C. Vigni, Africa (da A. Piccioli, L’Arte coloniale, «Rivista delle Colonie (L’Oltremare)», X, 7, luglio 1936) 38. F. Trombadori, Fanciulla araba (da II Mostra Internazionale d’Arte Coloniale. Napoli 1934-1935. Catalogo, II ed., Roma, Fratelli Palombi, 1934)
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39. M. Cortiello, La raccolta del cotone (da II Mostra Internazionale d’Arte Coloniale. Napoli 1934-1935. Catalogo, II ed. Roma, Fratelli Palombi, 1934)
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40. C. Della Zorza, D. Lazzaro, A. Bergamini, Apoteosi del soldato italiano dall’Impero di Cesare all’Impero di Mussolini, particolare dei Soldati coloniali dell’Impero, XXI Fiera di Padova, Mostra del Ventennale della Vittoria, 1938 (da Ventennale della Fiera di Padova. 1919-1938. 9-26 giugno 1938, Padova, Ufficio Stampa e Propaganda Fiera di Padova, 1939, su concessione della Biblioteca di Filosofia dell’Università degli Studi di Padova)
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ri, degli zaptiè e poi dei «soldati coloniali dell’Impero», personificazioni dell’assoggettamento alle ragioni dei conquistatori. Il suddito/soldato, fedele alla nuova patria, presente fin dall’inizio dell’avventura africana, era stato esaltato e raffigurato in innumerevoli occasioni, divenendo il simbolo stesso di una possibile condivisione di cittadinanza; i provvedimenti razziali spazzarono via ogni sopravvivenza di tale utopia, ogni suo simulacro, svelandone l’intrinseca ipocrisia. A partire dal 1933 si susseguirono, infatti, una serie di norme sempre più restrittive: nel luglio del 1933 vennero poste limitazioni per il riconoscimento della cittadinanza a figli meticci nati da un genitore di “razza bianca”; il 1° giugno 1936 il regio decreto legge 1019 dispose il divieto totale di concessione della cittadinanza italiana ai meticci figli di genitori ignoti; il decreto legge n. 880 del 19 aprile 1937 punì con la reclusione fino a cinque anni «la relazione d’indole coniugale con persona suddita», condannando il cosiddetto madamato; nel 1938 vennero vietati i matrimoni tra “italiani ariani” e semiti o camiti; la legge 822 del 13 maggio 1940 contro il meticciato proibì ai genitori italiani di riconoscere i figli nati da donne indigene175. Pur se in uno scenario di crescenti tensioni diplomatiche, all’Esposizione Universale di New York del 1939 l’Italia fu presente e all’interno del suo padiglione venne allestita la Mostra dell’Italia d’Oltremare. L’imponente manifestazione, che doveva celebrare i centocinquant’anni della costituzione del Governo degli Stati Uniti e della proclamazione di Washington presidente, si svolse fra 30 aprile e 30 ottobre 1939. Per uno scherzo crudele della sorte, a un passo dalla tragedia della guerra il tema a cui le nazioni furono chiamate fu «building the world of tomorrow» e la rassegna volle celebrare i grandi progressi e le magnifiche realizzazioni delle arti e delle scienze: Dopo aver guardato al passato noi cercheremo di dare una risposta a queste domande: «Che specie di mondo abbiamo costruito?», «Che mondo stiamo costruendo?», «E che specie di mondo dovremo costruire?» È così che questa Fiera sarà la prima ad essere organizzata e fondata su un concetto costruttivo del mondo, in vista dell’ulteriore progresso della civiltà.176
L’architetto incaricato della costruzione del padiglione italiano fu Michele Busiri Vici, il quale progettò un edificio a pianta rettangolare sormontato da un’alta torre, da cui scendeva una cascata d’acqua larga nove metri; alla sommità era collocata una statua della Dea Roma, mentre davanti alla vasca si ergeva un monumento dedicato a Guglielmo Marconi; il padiglione
175 Cfr. sull’argomento, G. Sale, Le leggi razziali e il Vaticano, Milano, Jaca Book, 2009; G. Gabrielli, Prime ricognizioni sui fondamenti teorici della politica fascista contro i meticci, in Studi sul razzismo italiano, a cura di A. Burgio, L. Casali, Bologna, Clueb, 1996, pp. 61-88; F. Cassata, Molti, sani e forti. L’eugenetica in Italia, Torino, Bollati Boringhieri, 2006; B. Sorgoni, Parole e corpi. Antropologia, discorso giuridico e politiche sessuali interrazziali nella colonia Eritrea (1890-1941), Napoli, Liguori, 1998. 176 L’Esposizione di New York, in L’Italia alla Esposizione Universale di New York 1939, a cura del Commissariato generale per l’Italia, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 1939, p. 7.
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vennero utilizzati per supportare la tesi giustificatoria dell’imperialismo moderno come punto di arrivo di un lungo percorso, tappa finale di una serie di espansioni, territoriali e culturali, che avevano avuto luogo nei secoli e che si raccordavano naturalmente e organicamente a Roma antica. Lo iato di secoli, che separava impero romano e impero fascista, veniva colmato grazie alle testimonianze di cui la tradizione pittorica era ricca, a saperla reinterpretare, e che dimostravano l’attitudine – e il diritto – all’espansione. Si tratta di una tesi certo non nuova e già ampiamente sostenuta in alcune grandi rassegne internazionali dell’epoca, come per esempio “De Cimabue à Tiepolo”, allestita al Grand Palais di Parigi nel 1935. In quell’occasione, i numerosi capolavori prestati dai maggiori musei italiani (e in parte stranieri), furono messi al servizio dei progetti espansionistici del Duce, per dimostrare che, proprio in virtù della sua superiorità culturale, l’Italia aveva le carte in regola per svolgere la propria missione civilizzatrice in Etiopia181. Stereotipo identitario fra i più efficaci, la supremazia artistica era così convocata a fare da puntello a mire politiche e progetti economici, contribuendo alla costruzione del “primato” dell’italianità. Grazie a un dispiegamento senza precedenti delle forze artistiche del passato e del presente, nell’ultima e più magniloquente delle esposizioni coloniali trovò compiuta realizzazione quel percorso iniziato circa sessant’anni anni prima, alla conquista di un’autorevolezza nell’agone internazionale. Via via, l’imperialismo italiano acquisì, oltre ai territori, forza simbolica presso le masse anche grazie a una sapiente ricerca – o invenzione – delle proprie radici. In tale universo simbolico, il ruolo rivestito dall’arte fu essenziale e questo spiega la sua progressiva uscita dal cono d’ombra in cui era confinata nelle prime mostre, fino all’apoteosi del 1940. Ma proprio nel momento in cui all’arte e agli artisti veniva riconosciuta un’assoluta centralità, il loro scacco risultò più evidente, i margini dell’autonomia erosi fino all’annullamento. Congegnata fin nei minimi dettagli per essere una ben oliata macchina a sostegno dell’imperialismo, l’esposizione di Napoli costituì un perfetto esempio di quella estetizzazione della vita politica di cui Walter Benjamin poco prima della sua realizzazione aveva parlato, citando fra l’altro proprio il manifesto di Marinetti per la guerra coloniale d’Etiopia: «Tutti gli sforzi in vista di un’estetizzazione della politica convergono verso un punto. Questo punto è la guerra»182.
181 Sul valore ideologico e sulle vicende organizzative dell’esposizione, in cui vennero esposti i maggiori capolavori dell’arte italiana provenienti da musei italiani e stranieri, si vedano G. Tomasella, Venezia-Parigi-Venezia. La Mostra d’Arte italiana a Parigi e le presenze francesi alla Biennale di Venezia (1920-1938), in Il futuro alle spalle. Italia-Francia, l’arte tra le due guerre, a cura di F. Pirani, Roma, De Luca, 1998, pp. 83-95; A. Salvatore, Exposition de l’Art Italien de Cimabue à Tiepolo. Paris, Petit Palais, 1935, tesi di dottorato, XXVI ciclo, Scuola dottorale interateneo in Storia delle Arti, Università di Venezia Ca’ Foscari, Università Iuav di Venezia, Università di Verona, 2013/2014, tutor prof.ssa L. Corti. 182 W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi, 1982, p. 46.
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nota introduttiva Priscilla Manfren, Chiara Marin
Le trentotto schede qui presentate sono il frutto di un ampio lavoro di ricerca e analisi su un eterogeneo gruppo di rassegne organizzate tra il 1884 e il 1940, arco di tempo coincidente con la durata dell’espansione italiana oltremare. Scopo della ricerca, che ha preso in considerazione un vasto e variegato insieme di manifestazioni, è stato quello di delineare il ruolo delle arti nella diffusione della cultura e dell’immaginario coloniali, proposti al grande pubblico dagli organi politici attraverso l’organizzazione di mostre e sezioni a tema. Va detto che il lavoro è stato avviato tentando di precisare quanto già trattato in maniera sintetica da altri1 e operando una selezione sull’ampio corpus di rassegne emerso da materiali a stampa e documenti rinvenuti durante le ricerche2: numerose sono infatti le espo-
1 Un iniziale tentativo di “dissodamento del terreno” in merito alle esposizioni coloniali era stato avviato in S. Bono, Esposizioni coloniali italiane. Ipotesi e contributo per un censimento, in L’Africa in vetrina. Storie di musei e di esposizioni coloniali in Italia, a cura di N. Labanca, Paese (Treviso), Pagus, 1992, pp. 17-35; il tema della presenza di opere d’arte a soggetto coloniale nelle esposizioni era invece stato presentato in M. Margozzi, er una storia dell’Arte coloniale attraverso le esposizioni. Formazione e sviluppo delle collezioni di pittura, scultura e grafica del Museo Africano, in Dipinti, Sculture e Grafica delle Collezioni del Museo Africano. Catalogo generale, Roma, IsIAO, 2005, pp. 1-28: 2-10. 2 Alla base del lavoro di individuazione e analisi delle diverse esposizioni è stata, in un primo momento, la dettagliata lista di rassegne ospitanti sezioni coloniali negli anni 1922-1932 rinvenuta in La Nuova Italia d’Oltremare. L’opera del fascismo nelle colonie italiane, a cura di A. Piccioli, Verona, Mondadori, 1933, pp. 1748-1754. A questa si sono accostati alcuni elenchi reperiti nei fondi dell’Archivio Storico del Ministero dell’Africa Italiana (d’ora in avanti ASMAI), conservati presso l’Archivio Storico Diplomatico del Ministero degli Affari Esteri (d’ora in avanti ASMAE): il primo è un dattiloscritto anonimo con correzioni a matita e penna, redatto in due pagine, che elenca “Esposizioni e Fiere nel Regno” e “Esposizioni e Fiere all’Estero” (cfr. ASMAE, ASMAI, Africa III, Azione Culturale, b. 42); il secondo, già pubblicato in L’Africa in vetrina, cit., pp. 209-211, è un dattiloscritto di tre pagine intitolato Sommario. L’azione culturale esplicata mediante mostre, esposizioni, musei, datato 15 giugno 1960 e firmato
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sizioni coloniali rintracciate, ma solo una parte di esse presenta del materiale d’interesse artistico. Sono state così approfondite mostre coloniali inserite in contesti espositivi più ampi, ove l’arte fu presente in qualità di narrazione visiva a colori, a complemento dei numerosi scatti fotografici ancora in bianco e nero, degli oggetti extraeuropei esposti (come utensili d’uso quotidiano, elementi di artigianato artistico, dipinti), dei campionari di prodotti coloniali, di grafici e materiali vari di propaganda. Dalle sezioni allestite nelle grandi esposizioni nazionali e internazionali si passa a quelle ospitate all’interno di fiere campionarie, agricole, industriali, pescherecce e, talvolta, di mostre d’arte decorativa e applicata. Sono state altresì considerate le esposizioni e le mostre espressamente dedicate alla tematica coloniale e, nello specifico, all’arte coloniale, organizzate sia sul suolo nazionale che in altri stati europei, ma anche nei vari possedimenti italiani d’oltremare. Le schede, nel caso di mostre o sezioni inserite in esposizioni di più ampio respiro, hanno previsto un’introduzione generale relativa alla rassegna ospitante, seguita da un focus sulla sezione coloniale in essa allestita. L’ampiezza del lavoro e delle fonti da vagliare per ottenere notizie specifiche3 ha condotto alla decisione di dare la precedenza, anche se non in maniera esclusiva, a mostre o sezioni coloniali la cui organizzazione fu voluta, o quantomeno fortemente appoggiata, dal governo italiano e da specifici ministeri, con i quali collaborarono serratamente i governi delle colonie e i loro uffici, nonché società, istituti ed enti di varia tipologia4. Va poi detto che si è deciso di escludere dalla schedatura la miriade di mostre organizzate dai singoli artisti reduci da un soggiorno in colonia: un lavoro di questo tipo, per la sua corposità e per la necessità di ricerche assai specifiche, meriterebbe infatti uno studio a sé stante5; per lo stesso motivo si è deciso di non considerare ai fini della schedatura le grandi rassegne missionarie6.
da Massimo Adolfo Vitale, secondo direttore del Museo Coloniale (cfr. ASMAE, ASMAI, Africa III, Azione Culturale, b. 40). 3 In molti casi, non essendo i cataloghi sempre disponibili o risultando talvolta poco utili, si è dovuto ricorrere allo spoglio di ulteriori materiali, quali dispense illustrate dedicate a specifiche rassegne e riviste d’epoca, sia di portata nazionale, come «L’Illustrazione Italiana», «Bollettino della Società Geografica Italiana», «Corriere della Sera», «Emporium», «Nuova Antologia», «La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia», sia dedicate all’ambito coloniale, come «Bollettino Ufficiale della Colonia Eritrea», «Rivista delle Colonie Italiane», «L’Italia Coloniale», «L’Oltremare», nonché riviste e quotidiani locali, quali «Torino. Rassegna mensile municipale», «Gazzetta piemontese», «Padova. Rassegna mensile del Comune», «Le Tre Venezie», «Il Comune di Bologna. Rassegna mensile», e quelli editi dai singoli enti fieristici, come nel caso di «La Fiera di Milano», «Milano nel Mondo», «Fiera di Padova», «La Fiera del Levante di Bari». 4 Se nel tardo Ottocento un ruolo di rilievo è svolto dal Ministero degli Affari Esteri, dagli istituti e società geografiche e di esplorazione, nel primo Novecento è il Ministero delle Colonie (poi Ministero dell’Africa Italiana) con il prezioso supporto del Museo Coloniale di Roma e dell’Istituto Coloniale Italiano (poi Istituto Coloniale Fascista e infine Istituto Fascista dell’Africa Italiana), a occuparsi della propaganda e della diffusione della cultura sull’Oltremare. Si tenga inoltre presente l’attività di istituzioni come l’Ente Autonomo della Fiera Campionaria di Tripoli, organizzatore non solo dell’annuale rassegna libica ma anche, negli anni Trenta, delle importanti mostre internazionali d’arte coloniale di Roma e di Napoli. 5 Un incipit per tale ricerca si può rintracciare nel semplice elenco, relativo per lo più alle mostre personali organizzate a Roma presso il Museo Coloniale negli anni Venti e Trenta del Novecento, fornito in M. Margozzi, Per una storia dell’Arte coloniale attraverso le esposizioni, cit., pp. 21-22. 6 Una ricerca a sé stante richiederebbero anche rassegne d’arte quali la Biennale di Venezia e la Quadriennale di Roma, le esposizioni di belle arti e le mostre sindacali e inter-
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nota introduttiva
Precisazioni e ringraziamenti Si tiene a precisare che una parte dei materiali utilizzati nei lavori di schedatura, ossia quelli presenti nell’Archivio Storico del Ministero dell’Africa Italiana (nelle schede ASMAI) conservato presso l’Archivio Storico Diplomatico del Ministero degli Affari Esteri (nelle schede ASMAE), sono stati reperiti da Elena Granuzzo nell’ambito del Progetto di Ricerca di Ateneo dedicato a “La rappresentazione dell’alterità. Esposizioni e mercato artistico nell’Italia coloniale”, diretto da Giuliana Tomasella. Alcune fonti d’epoca sono state rintracciate presso l’Archivio Storico delle Arti Contemporanee (nelle schede ASAC) della Biennale di Venezia. Le schede relative alle esposizioni degli anni 1884-1914 sono state redatte da Chiara Marin (nelle schede C.M.), mentre quelle dedicate alle rassegne del periodo 1922-1940 sono state realizzate da Priscilla Manfren (nelle schede P.M.). Numerose sono le persone che hanno contribuito alla buona riuscita del lavoro, specie tra i bibliotecari e i responsabili d’archivio di diverse istituzioni pubbliche e private. Un particolare ringraziamento va a Patrizia Leone, della Biblioteca di Storia delle Arti Visive e della Musica, presso l’Università di Padova, per il prezioso aiuto nel reperire volumi essenziali per questo studio. Si desidera poi ringraziare: Pietro Gnan, vicedirettore della Biblioteca Universitaria di Padova; Roberto Gollo, della Biblioteca Nazionale Braidense; Andrea Lovati, curatore dell’Archivio Storico della Fondazione Fiera Milano; Milena Maione, della Fondazione Luigi Einaudi onlus, per la cortesia e la disponibilità dimostrateci durante le ricerche in archivio. A vario titolo si vogliono poi ringraziare per la collaborazione: Pier Franco Chillin e Antonietta De Felice, della Biblioteca Reale di Torino; Chiara Davinelli, della Biblioteca Nicola Matteucci del Dipartimento di Scienze politiche e sociali, presso l’Università di Bologna; Davide Fiorino, dell’Accademia dei Georgofili di Firenze; Stefano Pagliantini, direttore della Biblioteca di Bassano del Grappa; Elisabetta Staudacher, responsabile dell’Archivio Storico della Società per le Belle Arti ed Esposizione Permanente di Milano; Federico Zanoner, dell’Archivio Storico del Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto; la Biblioteca Statale del Monumento nazionale dell’Abbazia di Santa Giustina in Padova; la Biblioteca Civica di Padova; la Biblioteca di Filosofia dell’Università di Padova; la Biblioteca del Seminario Vescovile di Padova; la Biblioteca di Storia e Cultura del Piemonte “Giuseppe Grosso”.
provinciali organizzate in Italia. Un sintetico accenno alla presenza di opere a tema coloniale nelle Biennali veneziane e nelle Quadriennali romane è rintracciabile in M. Margozzi, Per una storia dell’Arte coloniale attraverso le esposizioni, cit., pp. 10-12. Un primo e parziale tentativo di approfondimento per quel che riguarda la rassegna d’arte lagunare è invece proposto in P. Manfren, Alterne vicende di arte coloniale a Venezia negli anni Trenta, in Donazione Eugenio Da Venezia, atti della giornata di studi (Rovereto, Palazzo Alberti Poja, 17 dicembre 2014), a cura di G. Dal Canton, B. Trevisan, Venezia, Fondazione Querini Stampalia - Fondazione Museo Civico di Rovereto, 2016, pp. 79-99 (“Quaderni della Donazione Eugenio Da Venezia”, 22).
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ESPOSIZIONE GENERALE ITALIANA DI TORINO
Torino, 1 aprile - 31 ottobre 1884
1. Esterno del Castello medievale e le capanne di Assab (da una fotografia di Berra)(da «Torino e l’Esposizione Italiana del 1884», 16, 1884)
A differenza dell’Esposizione torinese del 1871, parimenti organizzata dalla Società promotrice dell’Industria nazionale, quella del 1884 ottenne un grande successo di pubblico, con circa tre milioni di visitatori: gran parte del merito va al presidente del Comitato esecutivo, l’avvocato Tommaso Villa, allora anche consigliere comunale, che seppe felicemente coniugare gli interessi economici dei finanziatori privati e quelli nazional-propagandistici dell’amministrazione e del Governo, da subito partner attivi della rassegna (cfr. Le esposizioni torinesi 1805-1911, a cura di U. Levra, R. Roccia, Torino, Archivio Storico, 2003). Fu articolata in otto “divisioni”, accuratamente rispecchiate nel catalogo ufficiale, in 1007 pagine e una pianta generale, edito da UTET: Belle Arti, Produzioni scientifiche e letterarie, Didattica, Previdenza e assistenza pubblica, Industrie estrattive e chimiche, Industrie meccaniche, Industrie manifatturiere, Agricoltura e materie alimentari, affiancate da mostre speciali (come l’Esposizione temporanea di fiori, frutta ed erbaggi, la mostra di Antropologia, l’Esposizione Nazionale Alpina e il Padiglione della Città di Torino), per un totale di 14.237 espositori, distribuiti su un’area di 450.000 metri quadrati, di cui oltre 100.000 occupati dai padiglioni. Durante tutta la rassegna furono organizzate feste, gare, parate, concerti e spettacoli vari di intrattenimento. Come ormai tradizione dal 1829, l’Esposizione venne ospitata all’interno del Castello del Valentino e nel suo parco, che, in linea con le più moderne tendenze europee, venne trasformato in una vera e propria città delle meraviglie, con paesaggi evocati all’aperto attraverso architetture e padiglioni esotici e pittoreschi. Di particolare successo il Borgo Medievale, innalzato a sud del parco sulla sponda sinistra del Po, per ospitare la sezione dedicata all’arte antica (ampia la bibliografia in merito, per cui si rimanda all’aggiornato C. Ruggero Bardelli, Il Castello del Valentino, Torino, Il Quadrante, 2016). La parallela sezione di arte contemporanea venne invece allestita in un moderno padiglione a pianta rettangolare opera dell’ingegnere architetto Camillo Riccio, cui si accedeva per una gradinata fiancheggiata dalle possenti statue del Lavoro e del Pensiero, a rimarcare l’intima connessione della produzione artistica e industriale nell’età moderna: mentre mancavano al suo interno opere di soggetto coloniale, numerosi lavori sono riconducibili al filone orientalista.
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Sezione: BAIA DI ASSAB Se è vero che l’Esposizione Generale di Torino del 1884 ospitò la prima mostra coloniale italiana promossa a livello ministeriale, non erano però mancate in precedenza sul suolo nazionale altre occasioni di confronto con materiali africani, sia per impegno missionario, con significativo riguardo per la lotteria torinese organizzata nel 1858 dall’Opera per la Propagazione della Fede che segnò l’inizio dei rapporti tra il Piemonte e l’Abissinia (cfr. P. Gribaudi, I pionieri piemontesi nell’Africa Orientale: missionari, agricoltori, artigiani, esploratori, «Torino. Rassegna mensile municipale», 8, agosto 1935), sia per iniziativa di singoli viaggiatori ed esploratori o delle loro società di appartenenza. Si trattò per lo più di rassegne dalle dimensioni ridotte (cfr. ad esempio la Mostra degli oggetti dello Scioà portati dal capitano Martini, organizzata a Roma dalla Società Geografica Italiana nella primavera del 1878, comprensiva della famosa sella di re Menelik II ora al Museo Nazionale Preistorico Etnografico L. Pigorini) e, anche in caso di allestimenti permanenti (Collezione Miani nella veneziana Casa dell’Industria, a partire dall’agosto 1862), rivolte ad un pubblico selezionato di conoscitori e curiosi. Più improntata alla promozione degli ormai prossimi interessi coloniali dovette invece apparire la Mostra della Società di Esplorazione Commerciale in Africa, allestita all’interno dell’Esposizione Nazionale di Milano del 1881, che costituì un diretto antecedente della nostra rassegna torinese, originariamente destinata all’illustrazione dei prodotti commerciabili nella regione di recente possesso italiano (si veda l’introduzione al Campionario Commerciale di Assab, dell’Abissinia e dei Paesi Galla, Roma, tip. Eredi Botta, 1884). Alla mostra merceologica, promossa dal Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio (MAIC), fu però presto affiancata un’etno-esposizione vivente, tesa a sensibilizzare l’opinione pubblica alla causa delle giovane colonia (cfr. G. Abbattista, Torino 1884: Africani in mostra, «Contemporanea: rivista di storia dell’800 e del ’900», VII, 3, agosto 2004, pp. 369-409: 381): come testimoniato dalle illustrazioni apparse sulle riviste dell’epoca e dagli eccezionali scatti dell’editore, geografo e fotografo Giovan Battista Maggi, oggi conservati nel fondo personale presso l’Archivio della Fondazione Italiana per la Fotografia di Torino, agli assabesi venne riservata una modesta area recintata nei pressi del Villaggio medievale, dove i “selvaggi” erano esibiti come veri e propri “esemplari da mostra”. A ridosso del villaggio, formato da sei capanne di pelli secche di forma ovoidale alte poco più di un metro e prive di mobilio, si innalzavano tre più grandi costruzioni a pianta rettangolare, dove erano conservati prodotti coloniali e reperti geografici: nel primo edificio espositivo, inizialmente destinato ad accogliere le raccolte della Società di esplorazione commerciale in Africa (cfr. N. Lazzaro, L’Africa all’Esposizione, «Gazzetta Piemontese», 18 maggio 1884), vennero ospitate la raccolta del commerciante esploratore Alberto Pogliani, già benefattore del Museo di Storia Naturale di Genova e fervente patrocinatore della causa coloniale, e i materiali abissini e assabesi recati in Italia da Pietro Antonelli e Gustavo Bianchi, trucidato in Etiopia a meno di un mese dalla chiusura della rassegna. Il capannone più grande accoglieva la mostra ministeriale, curata da Francesco Colaci e Antonio Basso, che fin nei criteri d’allestimento rivelava la sua destinazione spiccatamente commerciale, richiamando l’attenzione del visitatore sulle merci d’esportazione più d’appeal, come l’oro, il caffé, l’avorio e le pelli conciate e crude, scenograficamente disposte a parete (oltre al citato catalogo, cfr. la Distinta degli oggetti della Mostra del Campionario commerciale Assabese del Ministero dell’Agricoltura, inviati al Museo Commerciale Italiano in Torino, Roma, Archivio Centrale dello Stato, Dic., Inv. 25/10-11, b. 90a). Più variegata e suggestiva,
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sebbene quantitativamente inferiore, la collezione inviata dalla neoistituita Società Africana d’Italia di Napoli, il cui allestimento fu affidato al suo stesso presidente Nicola Lazzaro: pelli di scimmie, montoni e tigri, armi e altre curiosità animali e vegetali tappezzavano le pareti, mentre nelle vetrine e sui banchi trovavano posto svariati prodotti della terra e del mare africano. L’esposizione era quindi completata dagli schizzi al carboncino di tipi e paesaggi africani, eseguiti dallo scienziato ed esploratore Giovan Battista Licata durante il soggiorno ad Assab dal maggio all’ottobre 1883 e successivamente impiegati a corredo della sua relazione di viaggio, pubblicata prima a puntate su «L’Illustrazione italiana» e quindi nel volume Assab e i Danachili. Viaggi e studi, edito da Treves (Milano, 1885): allineati al diffuso Orientalismo, imperante entro la vicina Esposizione di Belle Arti, i disegni di Licata contribuivano a diffondere un’immagine addomesticata del selvaggio, certo in linea con gli intenti degli organizzatori della rassegna. Un diverso approccio alla materia africana si intravede invece nella serie di illustrazioni, poste a corredo del volume Alla terra dei Galla di Gustavo Bianchi, che la ditta Treves esibiva non entro la sezione coloniale, ma nel proprio chiosco: tirate dal sensibilissimo Eduardo Ximens, già illustratore dell’Eva di Verga, le incisioni prendevano spunto dagli schizzi dello stesso esploratore e si facevano partecipi del suo puntuale interesse antropologico ed etnografico per le tribù dell’Etiopia, di cui si peritava di far risaltare le differenze nelle fisionomie, nelle capigliature, nell’impiego di orpelli ornamentali, negli usi e costumi domestici. Il più anziano degli Ximenes traduceva quindi a sua volta questo nuovo anelito con una linea incisiva, graffiante, viene da dire “investigativa”, capace di una resa veristica del soggetto, certo superiore agli stessi ritratti fotografici degli assabesi, realizzati in studio dai fratelli Lovazzano (ora nel Fondo Giglioli presso il Museo Pigorini), ingabbiati entro una logica tipicizzante: non è per caso che gli organizzatori della Mostra Coloniale di Genova del 1914 avrebbero riservato proprio a Ximenes un’intera sala espositiva, in virtù della vocazione documentaria dei suoi lavori. [C.M.]
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IV ESPOSIZIONE NAZIONALE ITALIANA
Palermo, 15 novembre 1891 - 5 giugno 1892
2. La Mostra Eritrea di Palermo (da «Palermo e l’Esposizione Nazionale del 1891-1892. Cronaca Illustrata», 15, 1892)
Con espositori in prevalenza di origine siciliana e senza alcuna grande novità o invenzione da proporre, l’Esposizione Nazionale di Palermo (la quarta in Italia e la prima organizzata nel Meridione), mancò completamente gli obiettivi di riscatto regionale di fronte all’opinione pubblica italiana ed europea che si erano prefissi i promotori, sostenuti per altro da Francesco Crispi, risolvendosi in una rassegna dai caratteri e orizzonti prevalentemente locali, come attestano anche i dati di affluenza dei visitatori (in totale 1.205.000 biglietti emessi). La progettazione dei padiglioni effimeri, destinati ad ospitare le dodici diverse sezioni di cui si componeva l’Esposizione, venne affidata al giovane architetto palermitano Ernesto Basile, che scelse di celebrare le gloriose tradizioni artistiche siciliane adottando uno stile eclettico di ispirazione arabo-normanna. Nel terzo blocco, innalzato presso l’estremità nord dell’area espositiva (per un totale di 130.000 mq), furono accolti i padiglioni delle Belle Arti, con la Galleria della Sicilia Monumentale ed Artistica e la Mostra d’arte contemporanea a premi, che ospitò ben 720 dipinti e 301 sculture, proponendosi così, per dimensioni, posizionamento e monumentalità dell’ingresso, quasi come una rassegna autonoma rispetto al resto dell’Esposizione: non mancò uno specifico catalogo (Esposizione Nazionale, Palermo 1891-1892. Catalogo della Sezione di Belle Arti, Palermo, Stabilimento Tipografico Virzi, 1891, 54 pp., 4 tavv.; versione digitale consultabile all’indirizzo http://www.bibliotecacentraleregionesiciliana.it/bib_bc_1_f_65.pdf, accesso 15/02/2017), che documenta l’abbondanza di opere di matrice orientalista presenti in rassegna, dove comparvero però anche tre lavori di specifico soggetto coloniale, rispettivamente di Benedetto Civiletti (monumentale gruppo in gesso in posizione privilegiata al centro delle sale della scultura, premiato con la medaglia d’oro; oggi solo in parte conservato presso la Gipsoteca di Palazzo Ziino a Palermo), Cesare Biseo (quadro ad olio premiato con medaglia d’argento e acquistato da re Umberto I, passato al Museo Coloniale di Roma e oggi esposto nel Corridoio Mattarella del Palazzo dei Normanni in Palermo) e Salvatore Buemi (gruppo in bronzo), dedicati alla battaglia (o meglio, alla rovinosa sconfitta) di Dogali, già entrata a far parte della mitologia nazionale nei termini di un eroismo assimilabile alle Termopili (cfr. M. Nani,
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Ai confini della nazione. Stampa e razzismo nell’Italia di fine Ottocento, Roma, Carocci, 2006; C. Belmonte, La Battaglia di Dogali. Iconografia di una sconfitta, tesi di specializzazione, Università di Pisa, a.a. 2010-2011, tutor prof. Vincenzo Farinella); al medesimo soggetto era dedicato anche un quadro ex voto, esposto nella Mostra Etnografica Siciliana curata da Giuseppe Pitrè e realizzato da un superstite siciliano di Dogali. Al visitatore dell’Esposizione ulteriori elementi di confronto con la cultura africana erano infine offerti entro il Padiglione della Società Geografica, che sorgeva sullo stesso piazzale di quello delle Belle Arti: ad arricchire la raccolta di manoscritti e lettere di più o meno illustri esploratori, tra cui Livingstone, Burton, Bianchi e Chiarini, e le carte geografiche relative alle più recenti scoperte, erano messi in mostra «la stupenda collezione di fotografie del dott. Traversi, le quali ritraggono gli svariatissimi tipi dello Scioà, del Tigrè e di altre contrade finitime ai nostri possedimenti africani; la maravigliosa collezione etnografica del conte Antonelli: armi, vestiario, ecc.; la carta in rilievo della Stazione di Zet-Marefià, non che i prodotti agricoli di essa stazione, un saggio dei quali è dato vedere esposto in appositi recipienti» («L’Esposizione Nazionale illustrata di Palermo», 17, 1891-1892, p. 131): materiali certo non inediti (in particolare la collezione Antonelli era stata già presentata a Torino nel 1884), ma di utile complemento “scientifico” a quanto visibile nella specifica mostra coloniale. Sezione: MOSTRA ERITREA Il progetto originario dell’Esposizione Nazionale non prevedeva alcuna rassegna coloniale, tanto che, quando questa venne proposta e approvata, si rese necessario l’affitto di ulteriori terreni (cfr. V. Garofalo, Il Caffè Arabo alla IV Esposizione Nazionale di Palermo: dai disegni di Ernesto Basile alla ricostruzione virtuale, contributo a congresso, 2016, consultabile all’indirizzo https://unipa.pure.elsevier.com/it/publications/ il-caff%C3%A8-arabo-alla-iv-esposizione-nazionale-di-palermo-dai-diseg-2, accesso 20/05/2017) e la mostra coloniale finì così all’estremità del complesso espositivo, oltre i padiglioni delle industrie metallurgiche, agricole ed alimentari: geograficamente periferica, fin dal suo annuncio la Mostra Eritrea conquistò l’attenzione dei media e del pubblico. Come già per il precedente torinese, nelle intenzioni del MAIC la mostra coloniale si poneva obiettivi essenzialmente di promozione commerciale: una grande vetrina dei guadagni possibili, anzi certi, per quegli imprenditori che avessero deciso di investire nelle terre recentemente italiane (cfr. G. Di Fede, Introduzione, in Esposizione Nazionale in Palermo 1891-92. Guida alla Mostra Eritrea. Cataloghi delle Collezioni Esposte. Compilazione curata dal Segretario della Commissione Giovanni Di Fede de’ Marchesi di Torreforte, Città di Castello, tipografia S. Lapi, 1892, p. V). Ma proprio l’esperienza di Torino aveva reso avvertiti gli organizzatori che la mostra merceologica non era sufficiente a soddisfare la curiosità del pubblico e a incoraggiare sentimenti di simpatia per la causa coloniale: fu quindi eretto un Villaggio indigeno, con diversi tukul destinati a ospitare i sessantacinque africani radunati dal giornalista e futuro ambasciatore Luigi Mercatelli, una chiesa cofta «modellata sullo stile di quella di Zagazig» («L’Esposizione Nazionale Illustrata di Palermo», 17, 1891-1892, p. 130) e un più grande edificio in stile arabo, originariamente destinato a rappresentare la cattedrale di Asmara e quindi adibito a punto di ristoro per i visitatori, dove era possibile degustare del caffè arabo assistendo a spettacoli di danza del ventre – «chiara prova», segnala opportunamente Abbattista, «dell’appiattimento di elementi africani ed elementi moreschi in una prospettiva “orientalistica”» (G. Abbattista, Umanità in mostra: esposizioni etniche e invenzio-
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XXXVI FIERA DELL’AGRICOLTURA E FIERA CAVALLI
Verona, 13-24 marzo 1932
35. Un settore della Mostra Agricola Coloniale dedicato alla concia delle pelli in Tripolitania. Alla parete la Giovanetta di Cirene di Mario Ridola (Roma, ASMAE, ASMAI, Africa III, Azione Culturale, b. 42, su concessione del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale)
La trentaseiesima edizione della rassegna, nata per iniziativa del Comune di Verona nel 1897 e poi organizzata dall’Ente Autonomo per le Fiere dell’Agricoltura e dei Cavalli sorto nella medesima città, viene allestita in varie sedi centrali e periferiche del capoluogo scaligero, tra le quali il Palazzo della Gran Guardia, i contigui Palazzi del Pallone, il Campo Sperimentale e i Magazzini Generali. Essa si presenta suddivisa in sei grandi gruppi merceologici, ossia quelli dei Prodotti per l’Agricoltura, dei Prodotti dell’Agricoltura, delle Istituzioni ed Industrie sussidiare all’Agricoltura, delle Piccole industrie ed Artigianato agricolo, delle Mostre Zootecniche e delle Mostre Speciali. In questo sesto e ultimo gruppo compare la Mostra Agricola Coloniale, organizzata dal Ministero delle Colonie nei tre saloni centrali del Palazzo della Gran Guardia. Sezione: MOSTRA AGRICOLA COLONIALE Tra gli espositori segnalati in catalogo, ove figurano anche ditte private e commercianti, compaiono il Ministero delle Colonie e il Museo Coloniale di Roma, i Governatorati di Somalia, Eritrea, Tripolitania, il Governo della Cirenaica, la Camera di Commercio della Tripolitania, la Società Anonima Italo-Somala (S.A.I.S.); è presente, tra gli altri, anche Isaia Baldrati, che porta da Asmara diverse tipologie di fibre tessili. Figurano con propri stand anche l’Ente Autonomo della Fiera di Tripoli e l’Istituto di Turismo Tripolitano, che espone vedute e programmi per il turismo (cfr. XXXVI Fiera dell’Agricoltura e Fiera Cavalli. Verona-1932 X. 13-24 marzo. Catalogo, ed. def., Verona, Società Editrice Arena, 1932, pp. 701-704, ma anche notizie sparse in catalogo alle varie voci merceologiche). Di particolare interesse sono le poche informazioni relative alla presenza di quattro artisti: Cesare Biscarra espone dei bronzi, Edoardo Del Neri presenta quadri che ritraggono paesaggi e figure della Tripolitania e della Cirenaica, Laurenzio Laurenzi propone quadri con paesaggi e figure dell’Eritrea e della Somalia, mentre Mario Ridola espone opere ad olio raffi-
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guranti tipi della Cirenaica (cfr. ivi, pp. 701-703, ma anche pp. 21, 58, 103, 155). Tra le fotografie relative alla mostra (cfr. ASMAE, ASMAI, Africa III, Azione Culturale, b. 42; una è riprodotta anche in Le Colonie alla Fiera di Verona, «L’Italia Coloniale», IX, 4, aprile 1932, p. 59) sono stati rintracciati alcuni scatti ove figurano delle opere: uno ritrae uno stand tripolitano dedicato alla concia delle pelli ove compare la Giovanetta di Cirene di Mario Ridola, realizzata nel 1924 circa ed entrata poi a far parte delle collezioni del Museo Coloniale (cfr. Dipinti, Sculture e Grafica delle Collezioni del Museo Africano, cit., p. 210). Un secondo scatto, che dà una panoramica di una delle sale, presenta sull’estrema sinistra due sculture, una figura su cammello, forse la già citata S.A.R. il Duca Amedeo di Savoia sul Mehari di Montemurro, e un busto femminile da identificare con il menzionato bronzo di Biscarra Come al tempo dei faraoni. Testa di Somala, entrambe già esposte dal Museo Coloniale ad Anversa nel 1930. Quest’ultima fotografia riporta manoscritta sul retro la dicitura «Villa Olmo (Como) 1936», tuttavia essa è chiaramente identificabile con uno degli scatti che compongono la pagina di presentazione della Mostra Agricola Coloniale pubblicata in catalogo (cfr. XXXVI Fiera dell’Agricoltura e Fiera Cavalli. Verona-1932 X. 13-24 marzo. Catalogo, cit., p. XXXI). [P.M.]
VII FIERA ESPOSIZIONE DEL LITTORIALE
Bologna, 14-31 maggio 1933
36. La Mostra del Ministero delle Colonie. Sulla parete di fondo si distinguono il Fruttivendolo libico di Mario Ridola e La Cirenaica di Edoardo Del Neri (Roma, ASMAE, ASMAI, Africa III, Azione Culturale, b. 42, su concessione del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale)
La Fiera del Littoriale di Bologna, organizzata dall’apposito Comitato, si configura come la prima grande esposizione volta alla valorizzazione delle forze agricole, industriali e commerciali dell’area padana. Tale rassegna campionaria, nata nel 1927 per iniziativa dell’allora podestà Leandro Arpinati e della Camera di Commercio bolognese, viene allestita sin dalla prima edizione negli ampi saloni sottostanti lo stadio del Littoriale, complesso polisportivo realizzato tra il 1925 e il 1926 per volere dello stesso podestà su progetto dell’architetto Giulio Ulisse Arata e dell’ingegnere Umberto Costanzini (cfr. I. Luminasi, Il Littoriale, «Il Comune di Bologna. Ras-
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segna mensile», XIII, 4, aprile 1927, pp. 270-282; La Fiera del Littoriale sotto l’Alto Patronato di Benito Mussolini, «Il Comune di Bologna. Rassegna mensile», XIII, 6, giugno 1927, pp. 505-506). La settima edizione della rassegna presenta più di millecinquecento espositori e spazia, al pari di altre fiere campionarie, dall’abbigliamento alla meccanica, dall’agricoltura alla chimica, non tralasciando l’artigianato e le piccole industrie. A ciò si aggiungono padiglioni come quello riservato agli Italiani all’Estero, nonché il cosiddetto Villaggio del Libro, pronto ad ospitare il I Congresso degli Scrittori Italiani. A tali rassegne si affiancano quelle allestite da diversi Ministeri, come quelli della Guerra, delle Finanze, dell’Aeronautica, della Marina e delle Colonie (cfr. VII Esposizione al Littoriale, «Il Comune di Bologna. Rassegna mensile», XX, 5, maggio 1933, pp. 1-3). Sezione: MOSTRA DEL MINISTERO DELLE COLONIE Non si sono purtroppo reperite fonti d’epoca specificamente dedicate alla sezione coloniale presente alla fiera bolognese del 1933. Inoltre, l’opuscolo di una ventina di pagine edito dall’ENIT, intitolato VII Fiera Esposizione Littoriale. 14-31 maggio 1933-XI. Bologna, si rivela essere una piccola guida turistica ai luoghi d’arte della città felsinea, una sorta di suggerimento per i visitatori della fiera a cui, in realtà, l’opuscolo accenna solamente. Tuttavia, è possibile avere un’idea della mostra coloniale osservando una fotografia conservata in ASMAE, ASMAI, Africa III, Azione Culturale, b. 42, e alcuni fotogrammi a partire dal minuto 38:09 del Giornale Luce B0270 del maggio 1933, relativo all’inaugurazione della fiera da parte di Edmondo Rossoni (cfr. https://www.youtube.com/watch?v=xiR__lznRR0, accesso 16/06/2017). Per quanto è possibile comprendere da tali fonti, la rassegna presenta i consueti materiali relativi a raccolte e campioni della produzione e dell’artigianato coloniale, carte geografiche e grafici sulla produzione, oggetti etnografici. Guardando con attenzione è possibile notare alle parete destra rispetto all’ingresso la presenza di diversi dipinti che, almeno in parte, risultano provenienti dalle raccolte del Museo Coloniale. Tra le opere identificabili figura il Fruttivendolo libico, olio di grandi dimensioni eseguito da Mario Ridola attorno al 1924; il dipinto era stato esposto a Bengasi nel 1925 in alcuni locali del nuovo palazzo del Parlamento, in occasione di una personale dell’artista. Sulla medesima parete si distinguono inoltre i grandi oli raffiguranti le personificazioni della Cirenaica e della Tripolitania realizzati da Edoardo Del Neri (per queste notizie e immagini delle opere cfr. Bengasi: la mostra del pittore Mario Ridola, «L’Italia Coloniale», II, 9, settembre 1925, p. 168; Dipinti, Sculture e Grafica delle Collezioni del Museo Africano, cit., pp. 211, 121). [P.M.]
SECONDA MOSTRA INTERNAZIONALE D’ARTE COLONIALE
Napoli, ottobre 1934 - gennaio 1935 La mostra, al pari della rassegna romana del 1931, è organizzata dall’Ente Autonomo della Fiera di Tripoli. Tra i membri del comitato esecutivo presieduto dal ministro delle Colonie Emilio De Bono figurano Giuseppe Bruni, Enrico Felicella, Angelo De Rubeis, Umberto Giglio, Rodolfo Micacchi, alcuni personaggi connessi all’ambito missionario presenti in relazione alla Mostra delle Missioni cattoliche, nonché
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esperti d’arte quali Michele Biancale e Ugo Ortona, rispettivamente commissario e vicecommissario artistico dell’intera esposizione. La giuria di accettazione delle opere, oltre che dallo stesso Biancale, è composta da Attilio Selva, monsignor Pietro Ercole, Mattia Limoncelli, Florestano di Fausto, Paolo Emilio Passaro, Carlo Siviero ed Eugenio Viti. Oltre a Castelnuovo viene messa a disposizione degli organizzatori la vicina Casina degli Spagnoli, detta anche Palazzina spagnola. Per ospitare le sezioni estere si edificano nuovi padiglioni nel cortile, nel giardino e nei fossati del castello; in quest’ultima area viene creato, su progetto di Florestano di Fausto, un Villaggio indigeno in cui compaiono le attrattive più popolari e folcloristiche della mostra. In un redazionale dell’«Italia Coloniale» si legge che nel concepire il villaggio entro il fossato l’architetto aveva voluto raffigurare «le orde arabe che riuscirono a lambire ma non ad offendere la civiltà occidentale e cristiana» di cui, dunque, il castello rappresentava la saldezza e la forza dominatrice, ergendosi al di sopra dell’effimera costruzione in stile indigeno (cfr. C. Zoli, La Mostra Internazionale d’Arte Coloniale a Napoli. La sezione italiana, «L’Illustrazione Italiana», LXI, 44, 4 novembre 1934, pp. 715-718; L’inaugurazione della II Mostra Internaz. d’Arte Coloniale nel restaurato Maschio Angioino, «L’Italia Coloniale», XI, 9, settembre 1934, p. 141; in La Biennale di Venezia, ASAC, Raccolta documentaria extra Biennale, b. 28, f. 24: Il ripristino del Castello Aragonese e la Mostra coloniale a Napoli, [«Corriere della Sera», 19 aprile 1934], ritaglio stampa; V. Gorresio, Una giornata a Castelnuovo (dal nostro inviato speciale), [«L’Azione Coloniale», 5 ottobre 1934], ritaglio stampa). Come nazioni straniere sono presenti, seppur in maniera diseguale, la Francia, il Belgio e il Portogallo. Gli organizzatori tentano, per quel che concerne sezioni e mostre italiane, di ovviare alla prevalenza di dilettantismo in varie maniere: vengono inviati in Tripolitania alcuni mesi prima della mostra otto artisti che, sovvenzionati dalla Fiera di Tripoli e trasportati dalla Società di Navigazione Tirrenia, hanno il compito di dipingere dal vero la realtà africana; la giuria si impegna poi a considerare il grado di “genuinità” coloniale delle creazioni, dando la precedenza all’opera «lavorata o, perlomeno ispirata sul posto» (cfr. Programma, in II Mostra Internazionale d’Arte Coloniale. Napoli 1934-1935. Catalogo, II ed., Roma, Fratelli Palombi, 1934, pp. 23-29: 24). Inoltre si procede con l’invito di autori «già favorevolmente noti come specializzati in una arte coloniale autentica» (cfr. ivi, p. 25). Per la disamina dell’esposizione si farà riferimento all’ordine e alle notizie reperite nel catalogo, nonché a quelle rinvenute in diversi materiali d’epoca, questi ultimi necessari a compensare il catalogo che, a ben guardare, non è esaustivo per alcune sezioni. Maggior spazio verrà dato alle rassegne italiane, mentre per quelle straniere si darà conto solamente dei nomi degli artisti presenti. Per avere un’idea della rassegna si veda anche il Giornale Luce B0552 del settembre 1934 ai minuti 07:53-08:57, on line https://www.youtube.com/watch?v=ZvnZl4bQRoo, accesso 30/06/2016. Sezione: RACCOLTA DI CIMELI DI PROPRIETà DI S.A.R. IL PRINCIPE DI PIEMONTE La raccolta è ordinata entro vetrine nella cosiddetta Sala dei Baroni, nota anche come Gran sala aragonese o Sala Maggiore, ampio ambiente collocato all’angolo della torre “di Beverello”. In tale sezione sono esposti sciabole e pugnali lavorati, di foggia eritrea, araba e somala, corone, croci copte, cofani, astucci, zanne di elefante con montature in oro e riccamente scolpite, e materiali simili (cfr. C. Zoli, La Mostra Internazionale d’Arte Coloniale a Napoli. La sezione italiana, cit., p. 716).
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Molti di tali oggetti, stando a quanto indicato per ogni pezzo in catalogo, sono stati donati al principe di Piemonte da diversi gruppi o singoli capi di tribù e cabile dei territori italiani. Sezione: MOSTRA RETROSPETTIVA D’ARTE ITALIANA DEI SECOLI XV-XVIII
Sempre nella Sala dei Baroni vengono esposte diverse opere dei secoli passati, connesse in qualche modo a episodi o a una sorta di gusto orientalista ante litteram. Fanno eccezione due dei sette arazzi fiamminghi delle collezioni del Museo Nazionale di Napoli, rappresentanti la cinquecentesca battaglia di Pavia. Le altre opere, circa una ventina stando al catalogo, sono realizzate da maestri quali Paolo Caliari detto il Veronese, Giovanni Mansueti, Carlo Caliari, Vittore Carpaccio, Jacopo Palma il giovane, Tiziano Vecellio, Alessandro e Pietro Longhi, Iacopo Dal Ponte detto Bassano, Ferdinando Toniolo, Giovanni Antonio Pellegrini, G.A. Castiglioni; se esse, in parte, provengono da rinomati siti e gallerie veneziane e milanesi, circa una decina arriva dalla raccolta del pittore e collezionista Italico Brass, conservata nella veneziana Abbazia della Misericordia (cfr. N. Ivanoff, La Scuola Vecchia dell’Abbazia della Misericordia e i suoi tesori, «Emporium», XCIII, 554, febbraio 1941, pp. 71-80). Sezione: [AUTORI VARI] Dalla Sala dei Baroni si accede agli ambienti del primo piano, nell’ala orientale del castello, ove si incontra per prima la cosiddetta Sala delle Armi. Qui, in occasione della rassegna, figurano «ricche rastrelliere di interessanti alabarde, scudi e faretre turchesche, provenienti dal Museo Correr di Venezia» (cfr. C. Zoli, La Mostra Internazionale d’Arte Coloniale a Napoli. La sezione italiana, cit., p. 716), nonché ritratti dipinti e scultorei di illustri personaggi connessi alla politica coloniale italiana realizzati dai contemporanei Francesco Nagni, Francesco Jerace, Gaetano Chiaramonte e Carlo Siviero. Sezione: MOSTRA RETROSPETTIVA D’ARTE ITALIANA DELL’OTTOCENTO Tale rassegna è allestita al pianterreno, nella cosiddetta Sala di Carlo V, e presenta quarantacinque pezzi, di cui diciotto, tra disegni e dipinti, di Michele Cammarano (fra questi Il prigioniero dell’Amba, diversi studi per la Battaglia di Dogali, Accampamento nei dintorni di Massaua, Paesaggio africano), sei di Stefano Ussi (a parte Un Fachiro danzante, le restanti sono cornici che riuniscono studi dedicati al Marocco), altrettanti di Cesare Biseo (oltre a quattro tavole con disegni per il Marocco di Edmondo De Amicis, sono presenti una tavola di studi per la sua Battaglia di Dogali e un Bazar in un villaggio sul Nilo), quattro di Domenico Morelli (tutti tipi umani, come Arabo che suona il salterio e Donna orientale), due di Alberto Pasini (Paesaggio orientale e Carovana di beduini nel deserto), altrettanti di Henry Dubois (entrambi intitolati Soldato coloniale); sono rappresentati da un’unica opera o da una cornice che racchiude al suo interno diversi studi, Vincenzo Gemito (con la scultura Testa di moretto), Ettore Cercone (cornice con nove studi di orientali), Luigi Fabron (Studio di Arabo), Vincenzo Marinelli (Bivacco), Lorenzo Delleani (Scena araba) e Mariano Fortuny (Arabo morto). In questa sezione l’apporto dei collezionisti privati è notevole, tant’è che, per esempio, tutte le opere di Cammarano giungono dalle raccolte di Sibilla Grazzini Cammarano, Enrico Fraia, Felice Perugino, Pasquale Russi e Franco Schlitzer; parimenti, tutte le
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opere di Biseo provengono dalle collezioni di Maria Biseo e Salvatore Ruju, mentre una Testa di odalisca di Morelli risulta di proprietà dello stesso Michele Biancale. Sezione: MOSTRA DI LUIGI SURDI E ALTRI La mostra di Surdi, uno degli otto artisti inviati in colonia, è allestita al primo piano del Maschio Angioino nella sala I, successiva a quella delle Armi. La rassegna consta di una quindicina di opere a soggetto tripolino, fra cui L’argentaro, due scene di mercato, due opere dal titolo Via di Tripoli, e ritratti di tipi quali L’ebreo e Arabo. Nella stessa sala figurano inoltre sette opere di Alessandro Pomi (come Mercato di cammelli, Testa di Arabo, Alì), due di Antonio Barrera (Divagazione Coloniale e Informazioni) e tre di Giacomo Balla (Contrasti, Tiratore scelto, Alì). Sono qui esposte, in aggiunta, sei opere scultoree di Angiolo Vannetti a soggetto sia nordafricano che indocinese (come Predone del Sahara e Preghiera ammanita). Sezione: MOSTRA DI GIUSEPPE CASCIARO La sala II propone, oltre a un bozzetto della scultorea Madre araba di Attilio Selva, cinquantadue opere di Giuseppe Casciaro, anch’egli facente parte degli otto artisti sovvenzionati dall’Ente Fiera di Tripoli. Dai titoli in catalogo si evince che le opere sono in massima parte paesaggi e scorci di città e oasi tripolitane (quali per esempio Sulla via di Zuara, Giama el Turk, Porta Gargaresh-Tripoli, Case di Arabi-Tagiura, Giardino dei Monopoli, Moschea di Sidi Ames, Sulla via di Porta Benito, Oasi di Zanzur). Sezione: MOSTRA DI ALESSIO ISSUPOFF La sala III ospita una personale di Aleksej Vladimirovicˇ Isupov, russo d’origine ma da alcuni anni trasferitosi in Italia e qui noto come Alessio Issupoff. L’artista espone trenta opere, per lo più dedicate a singole figure o a scene di vita orientale, di cui ventisette pitture (fra le quali Uomo con Corano, Mercante di stoffa, Zaptié sull’attenti, Madre con bambino, Musicista con chitarra, Festa di sposalizio e Dal parrucchiere) e tre sculture (Testa di atleta, Maschera, Donna orientale). Sezione: MOSTRA DI GIGI BRONDI Nella sala IV, accompagnate da tre sculture di Angiolo Vannetti (Venere nera, Donna araba, Babbuino), figurano quindici dipinti di Luigi detto Gigi Brondi, che nei primi anni Trenta era giunto in Camerun (cfr. U. Tegani, Un pittore italiano nel Camerun, [«L’Ambrosiano», 9 ottobre 1936], ritaglio stampa, La Biennale di Venezia, ASAC, Raccolta documentaria, Artisti, b. “Brondi, Gigi”, inv. n. 6458). Tra le sue opere compaiono scorci e nature morte a soggetto esotico, come La foresta e L’Ananas, ma egli è soprattutto un apprezzato ritrattista di tipi indigeni, come in Alla finestra, Ragazza Bakok, Donna di Calabar, Fanciulla del Cameroun, Sulla spiaggia (cfr. C. Zoli, La Mostra Internazionale d’Arte Coloniale a Napoli. La sezione italiana, cit., pp. 717-718; V. Gorresio, Una giornata a Castelnuovo (dal nostro inviato speciale), cit.; A. Neppi, Gli artisti italiani alla Mostra Coloniale di Napoli, «L’Italia Coloniale», XI, 10, ottobre 1934, pp. 148-149: 149). Sezione: MOSTRA DI GIORGIO OPRANDI E ALTRI AUTORI Nella V sala è organizzata la rassegna del noto artista bergamasco, che espone qui trenta opere, per lo più paesaggi e scene di vita eritree ed egiziane (come Verso Cassala, Mercato di Tessenei, Mercato di Agordat, Il Nilo-Cairo, Saline a Massaua). Fanno
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IL LIBRO COLONIALE DEL TEMPO FASCISTA. VII MOSTRA-VENDITA DEL SINDACATO ROMANO DEGLI AUTORI E SCRITTORI
Roma, primavera 1936
38. La sezione delle Forze Armate. Nella teca il mantello da parata di Ras Mulughietà, ai lati della teca tre opere di Eduardo Ximenes (Roma, ASMAE, ASMAI, Africa III, Azione Culturale, b. 43, su concessione del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale)
La rassegna, come si apprende dal catalogo, nasce su iniziativa del Sindacato Romano degli Autori e Scrittori, con gli auspici dei Ministeri delle Colonie e della Stampa e Propaganda. Il commissario organizzatore è lo scrittore e critico d’arte Francesco Sapori, che allestisce la mostra al pianterreno del Palazzo delle Esposizioni in quattordici sale principali, disposte intorno a un salone centrale ove si svolgono le vendite; da quest’ultimo si accede inoltre alla sala dei convegni, attraversata la quale si giunge a due ambienti, riservati al sacrario dedicato al duca degli Abruzzi e all’Istituto Idrografico della Regia Marina di Genova. Sono presenti diverse sezioni, quali Archeologia e scuole, Cartografia, Viaggi, Pionieri, Libri stranieri, Scienze mediche e naturali, Agricoltura, una sezione ordinata in tre ambienti (sale VIII-X) denominata “Nelle colonie italiane”, e ancora, le sale riservate a Cartelli e Stampe (menzionata anche come sezione Manifesti e Stampe di Propaganda), Periodici, Forze Armate, Missioni; a queste si aggiunge una saletta destinata alle Isole Italiane nell’Egeo. Oltre a numerosi studiosi che figurano in qualità di collaboratori (tra questi compaiono i più volte menzionati Umberto Giglio, Angelo Piccioli, Enrico De Agostini), come ordinatori della mostra dal punto di vista artistico compaiono i pittori Antonio Barrera, Francesco Dal Pozzo e Carlo Vittorio Testi. Oltre sessanta sono gli espositori, tra enti e istituti con sede in Italia e in Libia, fra i quali compaiono il Ministero delle Colonie e il Museo Coloniale di Roma, nonché l’Ente Autonomo Fiera Campionaria di Tripoli. Nella sezione Manifesti e Stampe di Propaganda (sala XII) vengono esposti, oltre a vari opuscoli e cataloghi, alcuni manifesti realizzati da artisti per eventi connessi all’ambito coloniale, quali per esempio la Fiera di Tripoli (disegni di Adolfo Busi, Virgilio Retrosi, Carlo Vittorio Testi, Giacinto Mondaini), La Lotteria di Tripoli (creazioni di Sepo ossia Severo Pozzati, Adolfo Busi), le Mostre d’Arte Coloniale di Roma e Napoli (lavori di Alessandro Limongelli e Ugo Ortona, Alfredo Capitani, Luigi Martinati), la I Mostra Conciaria di pelli delle Colonie Italiane del 1932 (disegno di Giuseppe Rondini). A questi si aggiungono manifesti per reclamizzare prodotti come le dispense dedicate a La guerra in Abissinia edite nel 1897 da Treves, l’Amaro Felsina della Ramazzotti e i materiali
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della ditta Ettore Moretti (gli ultimi due realizzati da Gino Boccasile), nonché un viaggio in Cirenaica organizzato dall’Istituto Coloniale Fascista nel 1933 (bozzetto di Augusto Favalli e Domenico Belli). Si segnala che parte di tali manifesti si può ora ammirare anche on line grazie al recente riordino, con relativa digitalizzazione, della collezione trevigiana Nando Salce, http://www.collezionesalce.beniculturali. it/, accesso 01/07/2017). Vengono qui esposte anche delle serie di cartoline di propaganda turistica e fieristica per Tripoli, realizzate con bozzetti di Romano Dazzi e Milo Corso Malverna; da alcuni esemplari reperiti sul mercato antiquario si apprende che una serie, quella realizzata da Dazzi per la fiera tripolina del 1929, è intitolata “Africa, te teneo” ed è stampata dalle Edizioni d’Arte Fauno di Roma per l’Ente Autonomo Fiera Campionaria di Tripoli con disegni in bianco e nero, aventi titoli quali Fatma, Donna araba, Giovane araba, Arabi, Meharista, Il bivacco, Il portastendardo, Sosta di carovana, Riposo, Fuoco!, Ascari eritrei all’assalto, mentre alcune cartoline di Corso Malverna, edite dall’Ente Turismo Tripolitano, presentano disegni a colori di scorci e figure locali con titoli come Un aspetto della Tripoli berbera: da Bab el Gedid, oppure Tripolitania: terzetto di oriundi fezzanesi e ancora Coperte o scoperte, arabe e beduine sono sempre pretto folclore africano. Nella stessa sala figura anche una sezione di bianco e nero, in cui Francesco Dal Pozzo espone dodici xilografie di una serie intitolata “Libia”, Giuseppe Rondini sei xilografie a soggetto coloniale, mentre Roberto Rosati e Luigi Servolini ne presentano rispettivamente tre e otto. Per queste notizie cfr. Il libro coloniale del tempo fascista. VII Mostra-vendita del sindacato romano degli autori e scrittori. Catalogo, I ed., Roma, s.n., 1936, pp. VII-X, 231-235. Osservando delle fotografie d’epoca e alcuni fotogrammi relativi alla rassegna in un Giornale Luce coevo, si può inoltre notare come nell’ambiente delle Forze Armate (sala XIV) figurino alcuni dei disegni relativi al primo conflitto italo-etiopico realizzati da Eduardo Ximenes per «L’Illustrazione Italiana» e conservati al Museo Coloniale. Tra questi si possono individuare in uno scatto d’epoca Tigray. Amba Alagi, pubblicato nell’ottobre 1895, Colonna Ameglio. Eritrea. Combattimento di Debra Ailà, pubblicato nel novembre 1895, Ingresso delle truppe dalla porta principale del forte di Adigrat, pubblicato nel febbraio 1896; nel Giornale Luce si scorgono invece Eritrea. Incontro di Baratieri con la colonna Galliano, pubblicato nel febbraio 1896, Lo scontro al passo di Alekwà e Combattimento di Mai-Meret. Il Reggimento del colonnello Stevani respinge i ribelli comandati da Ras Sebhat, entrambi pubblicati nel marzo 1896 (cfr. fotografie in ASMAE, ASMAI, Africa III, Azione culturale, b. 43; Giornale Luce B0878 del 6 maggio 1936, fotogrammi ai minuti 26:00-27:15, on line https://www. youtube.com/watch?v=nfbjcvqlDXQ, accesso 16/06/2017; Dipinti, Sculture e Grafica delle Collezioni del Museo Africano, cit., pp. 244-247). [P.M.]
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MOSTRA D’ARTE COLONIALE
Milano, 14-30 giugno 1936 La rassegna, della cui organizzazione si occupa una commissione ordinatrice guidata dal presidente della sezione lombarda dell’Istituto Coloniale Fascista Luigi Silva, viene allestita con circa centottanta opere in cinque sale del Palazzo della Permanente di Milano nel mese successivo alla proclamazione dell’Impero. La mostra ospita nella prima sala una personale di Luigi Brignoli, che espone quarantaquattro dipinti tra i quali Flautista arabo, Piccola araba, Toletta dell’odalisca, ai quali viene affiancato un bronzo a soggetto animale di Giovanni Battista Ricci. Nella seconda sala sono presenti undici opere di Natalia Mola e una dozzina di lavori di Aldo Mazza; compare qui con una personale di oltre venti dipinti intitolata Paesaggi e tipi della Somalia italiana il pittore Giorgio Grazia; a tali lavori si aggiungono quattro sculture, due delle quali di Giovanni Battista Ricci, le restanti di Ernesto Bazzaro e Antonio Cappelletti. La terza sala raggruppa opere di numerosi pittori, quali Domenico De Bernardi con sette lavori, Gigi Brondi con cinque, Virginio Ghiringhelli e Guido Tallone con tre opere ciascuno, Leonardo Pracchi, Federico Patellani e Anselmo Bucci con due lavori ciascuno, Pierangiolo Basorini con una sola opera; figurano qui anche gli scultori Giovanni Battista Ricci con quattro lavori, Antonio Cappelletti con due ed Ernesto Bazzaro con una sola opera. Nella quarta sala sono presenti il futurista Osvaldo Barbieri, noto come Oswaldo BOT (Barbieri Osvaldo Terribile), con otto opere, Giovanni Battista Ricci qui con quattro pastelli, Leonardo Pracchi con tre opere e un non meglio identificato Bianchi con un solo lavoro. Nella quinta sala figurano Claudio Martinenghi con quasi trenta opere, Luigi Bracchi con tre disegni, Mario Vellani Marchi con due lavori, ognuno composto da tre disegni colorati, e Giovanni Battista Ricci con un bronzo. Per tali informazioni e approfondimenti cfr. Mostra d’arte coloniale. Palazzo della Permanente, 14-30 giugno 1936. Istituto coloniale fascista sezione lombarda, Milano, Gualdoni, 1936; S. Colombo, La differenza tra noi e “gli altri”: su alcune mostre coloniali milanesi organizzate nel Ventennio fascista, «Il capitale culturale», XIV (2016), pp. 711-738: 719-724, on line http://riviste.unimc.it/index.php/cap-cult/article/ view/1388/1097. In La Biennale di Venezia, ASAC, Raccolta documentaria, Artisti, b. “Grazia, Giorgio”, inv. n. 19831: «Pro Familia» [9 agosto 1936], ritaglio stampa; scheda informativa di Giorgio Grazia, Bologna, giugno 1938. [P.M.]
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MOSTRA COLONIALE CELEBRATIVA DELLA VITTORIA IMPERIALE
Como, 5-24 maggio 1937 La rassegna, organizzata dalla sezione comasca dell’Istituto Coloniale Fascista per le celebrazioni dell’annuale dell’Impero, viene allestita in oltre venti sale dei due piani di Villa Olmo. Numerosi sono i componenti del comitato promotore, di cui è presidente onorario il principe Adalberto di Savoia duca di Bergamo, e del comitato esecutivo, presieduto dall’ingegnere Aurelio Moro e avente tra i suoi componenti l’architetto Giuseppe Terragni. Inoltre, tra le commissioni deputate allo svolgimento delle attività per l’allestimento della mostra ne è presente una tecnico-artistica, formata da ingegneri e artisti fra i quali Mario Radice, Manlio Rho, Piero Saibene, Domenico (Ico) Parisi, Aristide Bianchi, Eugenio Rossi. La rassegna offre uno sguardo sulla storia dell’espansione italiana in Africa, partendo dal periodo ottocentesco e giungendo all’Impero fascista; sono esposti eterogenei materiali e cimeli prestati sia da collezionisti privati, quali ad esempio i politici Attilio Teruzzi, Giuseppe Bottai, Roberto Farinacci, che da musei e istituti, tra i quali figurano, oltre a svariate sezioni dell’Istituto Coloniale Fascista, il Ministero dell’Africa Italiana con il Museo Coloniale di Roma. Quest’ultimo dispone di due sale (in pianta Z) al primo piano, alle quali si accede passando per la sala del libro coloniale (in pianta V). Da quanto segnalato in catalogo in merito a tali ambienti si apprende che nella seconda sala, dedicata alle prime guerre d’Africa, è esposta, oltre ad una «bella stampa» relativa ad un’«attanagliante visione dell’agguato di Dogali» di cui non è specificato l’autore, una «ricca serie di suggestive riproduzioni degli acquarelli di Ximenes che si conservano a Roma»; di queste opere, pubblicate anche nell’«Illustrazione Italiana» tra il 1894 e il 1896, vengono segnalati alcuni titoli che, seppur parziali, possono essere ricondotti a Tigray. Amba Alagi, Lo scontro al passo di Alekwà, Ingresso delle truppe dalla porta principale del forte di Adigrat, Ritorno ad Asmara di superstiti dalla battaglia di Adwa-marzo 1896, Colonna Ameglio. Eritrea. Combattimento di Debra Ailà, Eritrea. Incontro di Baratieri con la colonna Galliano, Combattimento di MaiMeret. Il Reggimento del colonnello Stevani respinge i ribelli comandati da Ras Sebhat. In aggiunta, nel Giornale Luce relativo alla rassegna, il B1104 del 2 giugno 1937, fotogrammi ai minuti 51:32-52:30, spec. minuto 52:11 (on line https://www.youtube. com/watch?v=86aHzKq4Bbg, accesso 16/06/2017), è riconoscibile, proprio accanto al Combattimento di Mai-Meret, anche Abba Gerima. Il terzo assalto della brigata Dabormida, sempre di Eduardo Ximenes. Vengono inoltre segnalate in catalogo alcune «pitture originali abissine su tela e trattanti soggetti religiosi e avventure di caccia grossa» (cfr. Catalogo ufficiale della Mostra coloniale celebrativa della Vittoria Imperiale. Villa Olmo, Como, 5-24 maggio XV-2° dell’Impero, Como, La Provincia di Como, 1937, pp. 28-31; Dipinti, Sculture e Grafica delle Collezioni del Museo Africano, cit., pp. 244-248). [P.M.]
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XX FIERA CAMPIONARIA DI PADOVA
Padova, 9-26 giugno 1938
39. Mostra dell’Istituto Fascista dell’Africa Italiana (da «Padova. Rassegna mensile del Comune», XI, 6, giugno 1938, Biblioteca Civica di Padova, su concessione del Comune di Padova - Assessorato alla Cultura)
40. Pannelli dipinti relativi ad Addis Abeba (Etiopia) e alla Somalia, esposti nella prima sala del Padiglione dell’I.F.A.I. (da Ventennale della Fiera di Padova. 1919-1938, 9-26 giugno 1938, Padova, Ufficio Stampa e Propaganda Fiera di Padova, 1939, su concessione della Biblioteca di Filosofia dell’Università degli Studi di Padova)
Nel 1938 la Fiera di Padova, spogliatasi dell’etichetta di internazionalità, è ormai divenuta un fiera nazionale interamente votata al raggiungimento dell’autarchia (cfr. G. De Marzi, Nell’anno XVI°, in Ventennale della Fiera di Padova. 1919-1938.
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9-26 giugno 1938, Padova, Ufficio Stampa e Propaganda Fiera di Padova, 1939, p. 5; sulla fiera patavina si veda almeno La Fiera di Padova: profilo di un quarantennio. 1919-1959, a cura di P.F. Gaslini, Milano, Pizzi, 1960). Solo scorrendo il sommario del sontuoso volume commemorativo si può avere un’idea delle numerose mostre organizzate per la ventesima edizione: accanto a rassegne come quelle dell’abbigliamento, dell’arredamento e dell’alimentazione, trovano posto la Mostra delle Bonifiche del Veneto, quella dello sport e quella di cineradio e apparecchi scientifici, solo per citarne alcune. Sono poi presenti sezioni dall’evidente carattere celebrativo e propagandistico, quali la Mostra del Ventennale della Vittoria, la Mostra dell’Ala fascista alla conquista dell’Impero e la rassegna allestita dall’I.F.A.I., l’Istituto Fascista dell’Africa Italiana erede dell’Istituto Coloniale Fascista; non manca inoltre una Mostra Missionaria dei Salesiani, pronta a offrire alle folle «panorami pieni di mistero, paurosi di lontananza, orridi di solitudine nei quali brillava la Chiesetta della Missione e il Convento delle Figlie di Maria Ausiliatrice» e illustrante le attività dei missionari, fra cui ad esempio «la raccolta dei piccoli esseri abbandonati da madri a cui più che la voce del sangue possono il pregiudizio, la fame e l’ignoranza» (cfr. Ventennale della Fiera di Padova. 1919-1938. 9-26 giugno 1938, cit., p. 317). Sezione: Mostra dell’Istituto Fascista dell’Africa Italiana In tale circostanza l’Istituto allestisce la rassegna in un padiglione appositamente progettato da Walter Roveroni (informazione desunta da una didascalia relativa a una veduta dell’edificio pubblicata ivi, p. 267), che crea un’architettura monumentale e slanciata. L’interno è suddiviso in due ampi saloni tra loro comunicanti: il primo, oltre a due ingrandimenti fotografici delle carte geografiche dei territori dell’impero, presenta otto pannelli decorativi illustrati con simboli e caratteristiche della Libia, delle Isole Italiane dell’Egeo e dell’A.O.I.; tali decorazioni, il cui autore non è menzionato ma è forse da identificare con lo stesso Roveroni, noto come cartellonista, dovevano fornire «un panorama dell’Impero Italiano nell’interpretazione di un artista, cioè senza pesantezza di cifre o di rigida documentazione scientifica, ma con poche pennellate di colore, con quei chiaroscuri e quelle raffigurazioni idealizzate che in brevi tratti dischiudono la visuale di tutto il mondo» (ivi, p. 270). Alcuni di tali pannelli compaiono nel volume commemorativo della rassegna: la Somalia, per esempio, è simboleggiata da due zebù, una stilizzata versione del Villaggio duca degli Abruzzi, un banano e un indigeno che ne trasporta i frutti, poi commercializzati dalla Regia Azienda Monopolio Banane a cui accenna l’acronimo RAMB riportato nel dipinto, una canna da zucchero, un’indigena che raccoglie il cotone, una croce cattolica e un dubat delle truppe coloniali somale. L’Etiopia è invece evocata tramite la sua capitale, Addis Abeba, ove si mescolano simboli della latinità e del fascismo, come un’antica insegna romana, la Lupa e dei gagliardetti con la scritta “Duce”, ed emblemi della locale tradizione copta e dell’ex impero negussita, quali una croce finemente lavorata, la cattedrale di San Giorgio, un prete copto e un evanescente Leone di Giuda. Ancora nella prima sala figurano una sezione bibliografica con materiale di propaganda realizzato dall’I.F.A.I. e un pilastro centrale che, sempre attraverso sintetiche rappresentazioni, descrive al visitatore le molteplici attività svolte dall’Istituto (cfr. ivi, p. 271). Il secondo salone presenta numerose fotografie di vari formati relative a paesaggi dei possedimenti italiani, un banco centrale con campioni di vari prodotti e materie prime reperibili nei territori dell’impero, un plastico che visualizza l’organizzazione periferica nazionale dell’I.F.A.I. e, sotto di esso, una Mostra Filatelica del Ministero dell’Africa Italiana (cfr. ivi, p. 272). [P.M.]
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Rho; tra le opere futuriste pubblicate nel volume compaiono però, oltre a una composizione di Acquaviva (Sfera dentata a doppia rotazione di Passo Uarien), una di Monachesi (Traffici coloniali) e una di Oriani (Fantasia di Dubat), anche un dipinto di Renato Di Bosso, ossia Renato Righetti (Il volo sul villaggio coloniale Michele Bianchi) e uno di Marisa Mori (Il volo d’Italia trascina il cielo di Roma al di sopra della nera insidia); in un articolo d’epoca si legge inoltre che sono qui esposte creazioni di Tullio Crali (un’aeropittura su Rodi), Chetoffi, ossia Ivan (Giovanni) Ketoff, Barbara (Olga Biglieri), Cesare Andreoni (che presenta «scene di dubat fissate con efficacia»). Una sezione a sé è composta da opere realizzate dai giovani dei Gruppi Universitari Fascisti, tra cui figurano Mario Bertini del G.U.F. di Pisa (bassorilievo Servizio logistico in A.O.I.), Giuseppe Leone del G.U.F. di Napoli (Composizione, scena di lavoro agreste), Militza Montanari del G.U.F. di Bologna (Il 9 maggio, scena di sottomissione di etiopi all’arrivo di cavalieri fascisti), Mino Rosi del G.U.F. di Pisa (Allegoria della disciplina); un articolo segnala per tale sezione anche il pittore Luigi Panarella, lo scultore Giovanni Amoroso e i bianconeristi Giovanni d’Aroma e Angelo La Barbera. Per tali notizie si è fatto riferimento, ove non segnalato diversamente, a U. Ortona, Le terre d’oltremare e l’arte italiana contemporanea, Napoli, Edizioni della Mostra d’Oltremare, 1941; in MART, Archivio Storico, fondo Crali, Cra.2.159: E. Balestreri, Le Mostre d’arte alla Triennale delle Terre italiane d’Oltremare, [«Nuovo Cittadino», 20 maggio 1940], ritaglio stampa; P. Scarpa, Alla Triennale di Napoli. Le terre d’Oltremare e l’Arte italiana, [«Messaggero», 5 giugno 1940], ritaglio stampa. [P.M.]
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Finito di stampare nel mese di novembre 2017 per conto della casa editrice Il Poligrafo presso la Litocenter di Piazzola sul Brenta (Padova)
biblioteca di arte
1. L’Incontro di Fromont e Gerart e il suo restauro a cura di Franca Pellegrini
10. Francesca Cortesi Bosco Viaggio nell’ermetismo del Rinascimento. Lotto Dürer Giorgione
2. Maria Beatrice Autizi La moda nell’arte. Percorsi nella pittura a Padova
11. Il libro miniato e il suo committente. Per la ricostruzione delle biblioteche ecclesiastiche del Medioevo italiano (secc. XI-XIV) a cura di Teresa D’Urso, Alessandra Perriccioli Saggese, Giuseppa Z. Zanichelli
3.
Andrea Brustolon: opere restaurate. La scultura lignea in età barocca a cura di Anna Maria Spiazzi e Marta Mazza
4.
Tempo e Ritratto. La memoria e l’immagine dal Rinascimento a oggi a cura di Caterina Virdis Limentani e Novella Macola
5. Maria Beatrice Autizi Moda e arte nel Trecento. Lusso, fasto e identità al tempo dei Carraresi 6.
Il codice miniato in Europa. Libri per la chiesa, per la città, per la corte a cura di Giordana Mariani Canova e Alessandra Perriccioli Saggese
7. Maria Vittoria Spissu Il Maestro di Ozieri. Le inquietudini nordiche di un pittore nella Sardegna del Cinquecento 8.
Laura Pasquini Diavoli e Inferni nel Medioevo Origine e sviluppo delle immagini dal VI al XV secolo
9.
Chiara Ponchia Frammenti dell’Aldilà Miniature trecentesce della Divina Commedia
12. Uno sguardo verso nord. Scritti in onore di Caterina Virdis Limentani a cura di Mari Pietrogiovanna 13. Marta Nezzo Ugo Ojetti, critica, azione, ideologia. Dalle Biennali d’arte antica al Premio Cremona 14. Giuliana Tomasella Esporre l’Italia coloniale. Interpretazioni dell’alterità in preparazione
Gianluca del Monaco Simone di Filippo, detto “dei Crocifissi”. Pittura e devozione del secondo Trecento bolognese