A margine del mestiere, di Giuseppe Davanzo

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Giuseppe Davanzo

A MARGINE DEL MESTIERE

presentazione di Annalisa Viati Navone prefazione di Domenico Luciani

ILPOLIGRAFO


in copertina Giuseppe Davanzo documenta l’allestimento della Mostra delle sculture di Giuliano Vangi nella Pescheria del centro storico di Rimini, 1979

progetto grafico e redazione Il Poligrafo casa editrice grafica Laura Rigon redazione Alessandro Lise

Copyright © ottobre 2017 Il Poligrafo casa editrice srl 35121 Padova piazza Eremitani – via Cassan, 34 tel. 049 8360887 – fax 049 8360864 e-mail casaeditrice@poligrafo.it ISBN 978-88-9387-010-8


INDICE INDICE

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Dentro il mestiere dell’architettura. Note sulle memorie di Giuseppe Davanzo Annalisa Viati Navone

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Un posto, una panca, un quaderno. Il gusto della memoria Domenico Luciani

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Ritorno a casa Dopoguerra Giorgio, nel puro incanto dei monti Trevigianità e Università «Comunità» e Olivetti Infatuazione organica Laurea e dintorni Il mio studio tecnico «Una reggia per i buoi» Anni Sessanta-Settanta: la grande svolta Carmini, IUAV, Disegno industriale «Dai, andiamo in Spagna!» L’Amerikano Pier Carlo Santini


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Allestire, esporre, mostrare L’Afrikano Tempo libero La notte tra l’11 e il 12 marzo 2003 Il regalo di Maria Antico

appendice

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Annotazioni intorno alla progettazione

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Postfazione Martina e Serena Davanzo 261

Nota biografica di Giuseppe Davanzo


DENTRO IL MESTIERE DELL’ARCHITETTURA. NOTE SULLE MEMORIE DI GIUSEPPE DAVANZO Annalisa Viati Navone

«Sono ricordi di una vita normale», precisava l’autore in esergo al manoscritto, sottolineando come tali reminiscenze siano da considerarsi il dettato di una necessità interiore volta a ordinare le tappe di una vita pienamente spesa, piuttosto che come offerta al lettore di un piacevole romanzo autobiografico. Tuttavia, la condizione ibrida fra lo statuto di memorie di famiglia e diario dell’architetto destina questo scritto a un pubblico diversificato. Se ne può infatti prevedere un “uso centripeto”, e allora l’interesse d’una tale “scrittura della memoria” che procede nello stile dell’elzeviro, composta di frammenti talvolta ben concatenati, talaltra sciolti – condizione che svela il carattere di opera nel suo farsi, sottratta al lavoro di perfezionamento della forma che resta dunque configurata come un primo getto –, risiederà nel renderci partecipi delle esperienze umane e professionali vissute dal protagonista. Nato nel 1921 a Ponte di Piave presso Treviso, Giuseppe Davanzo sarà fra i giovani richiamati alle armi durante il Secondo Conflitto mondiale, rifiuterà coraggiosamente l’adesione alla Repubblica Sociale, subirà la prigionia in Germania, rientrerà rocambolescamente in patria rinsaldato nella convinzione che il rispetto incondizionato dei principi etici e morali debba informare le proprie scelte di vita e quelle legate al mestiere di architetto, che pratica fin da giovanissimo; in questo, partecipando del clima di “umanesimo filantropico” che impregnava buona parte degli intellettuali attivi nell’Italia del dopoguerra e orientava la visione politico-culturale de «Il Politecnico» di Elio Vittorini. È dunque la memoria culturale ad essere sollecitata dal racconto individuale e soggettivo di un autore-testimone


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preso dalla necessità di spiegarsi, fissando un quadro di sensazioni, di emozioni, di cose fatte che si sono intrecciate nella trama della sua vita e qui presentate come materiale grezzo, al pari delle narrazioni neorealiste. L’ipotesi che Davanzo sia stato marcato da tale temperie credo non sia peregrina ma fondata in parte sulla scelta ideologica di adesione al movimento di «Comunità» e al Partito comunista, in parte su un approccio metodologico al progetto che non prescinde dalla fase preliminare di inchiesta minuziosa sui bisogni dei fruitori e dei loro modi di vita, come nel caso paradigmatico della Casa-albergo per anziani a Castelfranco Veneto (1969-1971, con Livia Musini) di cui è qui proposto un breve, quanto perspicuo, accenno iconografico. Chi, invece, abbia una certa dimestichezza con l’architettura potrebbe prevedere di tali note un “uso centrifugo” posizionandole nel contesto immediato per poi prendere il largo procedendo nelle tante direzioni che i ricordi suggeriscono: ricordi che evocano la formazione all’Istituto universitario di architettura di Venezia (IUAV) prima e dopo la guerra, la didattica praticata come assistente di Scarpa, poi come professore associato nel medesimo Istituto, attraverso la pratica di un mestiere di cui tenta l’esegesi del processo creativo con quello zelo pedagogico che gli appartiene. Per l’io narrante non esiste distanza alcuna fra l’architettura e la vita, come per Proust fra la vita e la letteratura. Il testo è allora pretesto per svegliare l’appetito di studenti, storici e critici che vogliano approfondire la figura e l’opera di Davanzo, ma anche una sorta di paratesto che riporta alla luce modelli, fonti, ispirazioni, procedimenti e va messo in rapporto dialogico con la sua attività didattica e progettuale. Nel 1941 Davanzo si iscrive all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia; riesce a sostenere solo tre esami durante il periodo di leva, ma il contatto con Carlo Scarpa è già stabilito; parte al fronte con un piccolo bagaglio di nozioni legato alla disciplina, condizione che trasforma l’interruzione coatta in occasione di meditazione sull’essenza della materia cui stava consacrando la sua esistenza, sul potere suggestivo dell’antitesi e sul valore maieutico della dialettica nel processo progettuale, ch’egli, soldato della quarta

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armata, percepisce e riconosce durante le osservazioni delle “forme ambientali” del territorio provenzale. La pratica del mestiere di geometra nella fase della ricostruzione di una Treviso acremente provata dal bombardamento del 7 aprile 1944, coniugata alla ripresa degli studi universitari, rappresenta un’opportunità per interrogarsi su cosa sia l’Architettura e quali le doti per praticarla. Oltre ad enumerare «volontà, passione, sensibilità, emozione», Davanzo introduce la «capacità di interpretazione dei modi di vita della società in cui è immerso», un insegnamento che poteva essere derivato dall’impostazione pedagogica di Samonà, per il quale lo studente è chiamato “a fare”, coniugando proficuamente teoria e pratica e sviluppando una forma di sensibilità profonda verso le attese dei destinatari del progetto. Il lungo periodo di formazione che si conclude solo nel 1953, perché tante cose succedono nel frattempo, porta Davanzo a studiare con i maestri dell’architettura italiana, in una congiuntura delle più favorevoli per l’Istituto veneziano, dotato d’un corpo docenti d’eccellenza, fra cui spiccano Carlo Scarpa, Franco Albini, Bruno Zevi, Ignazio Gardella per citare solo coloro con cui l’autore entra in contatto. Se da Samonà avrà appreso il rifiuto delle «architetture disegnate» e astratte, perché si parte sempre da un problema reale, da Zevi avrà mutuato la fascinazione per Wright, condivisa e trasmessa anche da Samonà ai suoi studenti, che lo conduce a sperimentare nella casa a Ponte di Piave (1951, con Vasco Rossetto) gli effetti compositivi e spaziali del fare “alla maniera di”, un fare che produce quelle ricadute emotive ampiamente trattate nelle lezioni di Bruno Zevi. Da Albini dovette invece apprendere il rigore metodologico che sovrintendeva a un insegnamento notoriamente «molto puntiglioso e rigido» e in questi termini ricordato anche da Ludovico Barbiano di Belgiojoso, suo collega veneziano a partire dal 1954. Per il loro carattere metodologico, le Annotazioni intorno alla progettazione pubblicate in appendice presentano il duplice interesse di strumento didattico e esegetico dei progetti elaborati, e si configurano come altrettanti paratesti, indizi preziosi per ricostruire la genesi delle sue architetture, coagendo con le centinaia di immagini fotografiche scattate – Leica o Zenza Bronica a tracolla a seconda

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delle necessità fotografiche – durante i viaggi di lavoro e di piacere, ma anche una volta terminate le sue opere, per rileggerle da una prospettiva critica. Chi non riconoscerebbe la suggestione provocata dalla struttura interna della copertura di una casa vernacolare keniota visitata nel 1990 nell’espressione tettonica dell’intradosso della struttura di copertura del Centro diurno per anziani ad Abano Terme (1990-1997)? Un “intertesto” non confessato da Davanzo, ancorché sempre generoso di spiegazioni e chiarimenti sul processo creativo, ma lapalissiano quando si confrontino le due fotografie, si mettano in relazione le date delle due esperienze. Allo stesso modo siamo portati ad affiancare le esperienze vissute durante il viaggio in Spagna del 1965 con il movimentato solaio di copertura, una rivisitazione strutturale del muqarnas, che caratterizza l’immagine esterna della Casa-albergo per anziani di Castelfranco Veneto, dove l’accento cade sull’individuazione delle unità funzionali e l’individualizzazione degli spazi riservati agli ospiti. Perché all’origine d’ogni progetto si situa un’emozione, insegna il docente, che mette in moto un faticoso processo volto a trascegliere l’immagine lirica atta a produrre quella stessa emozione nel fruitore, e orientato alla «conquista della forma» che rimane l’insegnamento duraturo e inalterato trasmessogli da Scarpa, da cui Davanzo riprende anche la mania di annotare al margine degli elaborati grafici schizzi e appunti che esplicano, dettagliano, ricercano coerenza fra gli aspetti generali e particolari del “tema”. Se nella sequenza delle operazioni progettuali, quali si ritrovano nelle Annotazioni, la forma precede le altre componenti dell’architettura, cioè la struttura e lo spazio (per il quale Davanzo rimanda agli insegnamenti di Zevi), quando si tratta di esplicitarli nei singoli paragrafi, ecco che l’ordine temporale si dissolve a favore d’una co-presenza del problema formale, strutturale e spaziale, che nei migliori esempi legati all’impiego della tecnologia della prefabbricazione porta le diverse “forme” – della struttura, dello spazio e della funzione – a coincidere, per giungere alla conquista di «quella specie di punto magico capace di fermare una struttura nella perennità di una forma» che si vuole anche «aderente ad un determinato andamento espressivo “dell’anima dell’alveare umano” quale raccolto dall’architetto», per citare Luigi Moretti, di cui Davan-

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zo apprezza il complesso del Watergate di Washington durante il viaggio negli Stati Uniti. Riguardo alla questione della creazione e della creatività e ai rispettivi esiti linguistico-metodologici, su cui Davanzo torna sovente nei suoi ricordi, l’autore rivela una coraggiosa forma di affrancamento dall’«angoscia dell’influenza», per Harold Bloom all’origine del processo di premurosa cancellazione, da parte degli autori, d’ogni traccia di possibili riferimenti a predecessori o a mondi altri. Il “copiare”, il “fare alla maniera di” come Proust nei suoi Pastiches, sono atti ammessi. Non solo Wright, ma anche Neutra sarà oggetto, nel 1956, di una rivisitazione dichiarata nel progetto della casa Gazzoli a Treviso – pronubo forse Zevi, autore della monografia pubblicata nel 1954 per i tipi de Il Balcone, nella collana “Architetti del Movimento moderno”, curata dai BBPR, la stessa in cui aveva dato alle stampe nel 1947 la monografia consacrata a Wright. Il debito è evidente e confessato, ma siamo ancora negli anni giovanili, quando i creatori di qualsivoglia disciplina sono preda inerme della rete delle suggestioni. Le parole di Italo Calvino a tal proposito, nella Prefazione del 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, sono illuminanti: [...] in gioventù ogni libro nuovo che si legge è come un nuovo occhio che si apre e modifica la vista degli altri occhi o libri-occhi che si avevano prima, e nella nuova idea di letteratura che smaniavo di fare rivivevano tutti gli universi letterari che m’avevano incantato dal tempo dell’adolescenza in poi.

Tutti i riferimenti o uno solo, quello eletto, poco importa; fatto sta che molte opere architettoniche di Davanzo si prestano a rendere intelligibili le modalità d’uso del modello prescelto, teso a originare un procedimento che fra prove ed errori, pentimenti e ripensamenti, accetterà l’innesto di altre “maniere”, la contaminazione con altre fonti e riferimenti, ammetterà altre immagini, più emozionanti, di cui ricercare l’espressione formale: [...] progettare, sperimentare copiare [...] Sì, a copiare si può arrivare, carichi di entusiasmo, dopo aver visto e capito le opere dei maestri. Non solo: rielaborando le emozioni suggerite dagli accadimenti più inattesi, la nostra immaginazione può successiva-

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mente ricavare altre forme da sperimentare e da cui far nascere le architetture. [...]. In ogni modo bisogna saper “copiare”.

Davanzo sapeva bene che il foglio in attesa di essere percorso dalla matita non è bianco ma presenta già in filigrana le tante soluzioni formali esplorate prima di lui con le quali è inevitabile fare i conti. Quindi, per i critici interessati ad analizzare l’eredità dei grandi maestri e le conseguenti declinazioni europee, alcune sue opere si prestano bene ad essere considerate alla stregua dei Pastiches proustiani e come tali esaminate; ma anche per gli studiosi dei procedimenti creativi, che guardano speranzosi ai risultati più aggiornati delle neuroscienze e neuroestetiche sul “cervello che crea” e “l’occhio che pensa”, l’analisi genetica di alcuni suoi progetti, condotta integrandovi i tanti paratesti suggeriti e fabbricati dall’autore stesso, è una tentazione cui è difficile sottrarsi e presagisce una ricerca fruttuosa. È dunque l’Architettura la vera protagonista di questo racconto che si dipana fra teneri episodi familiari, vissuti accanto ad una consorte architetto-paesaggista e alle due figlie, una delle quali erede del mestiere dei genitori, ed eventi legati all’insegnamento e alla pratica del mestiere, nella consapevolezza che la progettazione è attività globale, che il tempo libero è «il tempo dedicato alla ricerca di soluzioni architettoniche da porre in atto», che fare l’architetto è essere architetto. Vale per Davanzo quanto Calvino esplicitava nel 1964 nel tentativo di spiegare l’essenza del suo mestiere di scrittore: [...] le letture e l’esperienza di vita non sono due universi ma uno. Ogni esperienza di vita per essere interpretata chiama certe letture e si fonde con esse. Che i libri nascano sempre da altri libri è una verità solo apparentemente in contraddizione con l’altra: che i libri nascano dalla vita pratica e dai rapporti tra gli uomini.

Leggendo allora queste reminiscenze ci si sentirà dentro l’architettura, nel recesso più intimo d’un archivio che attende di essere consultato e studiato, per un uso «centripeto» teso a comprendere e valorizzare l’opera di Giuseppe Davanzo, e a salvaguardare efficacemente opere celebrate dalla critica coeva e oggi in pericolo. E il pensiero corre precipuamente al Foro Boario di Padova

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DENTRO IL MESTIERE DELL’ARCHITETTURA

(1964-1968), fra gli spazi più suggestivi risultanti dall’impiego di elementi strutturali prefabbricati, che assume la bellezza d’una struttura scolpita, esemplare per gli effetti spaziali che Davanzo è riuscito ad orchestrare, nonché paradigmatico del suo proprio metodo progettuale dove l’immagine a forte carica emotiva – in questo caso il circo e l’aria spensierata e gioiosa delle fiere di paese – innesca il travagliato processo di conquista della forma. Senza negligere gli effetti di una utilizzazione “centrifuga” del suo archivio per una migliore comprensione di storie, vicende e personaggi che hanno attorniato Giuseppe Davanzo nei suoi ottantasei anni di vita, e dei tanti temi con i quali gli architetti del secolo scorso si sono confrontati, fra cui il dialogo fra l’architettura e le arti, affrontato nei circa quaranta allestimenti di mostre dove è ancora l’emozione o meglio «l’attrazione emotiva» a sovrintendere al processo conoscitivo dell’opera da esporre, all’individuazione di «quel che di affettivo che portava [l’artista] silenziosamente ad amarla», ad agire di conseguenza, perché l’architetto restituisse all’osservatore «l’incanto di quel fluido che dalle opere d’arte si trasmette e ci coniuga all’artista».

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UN POSTO, UNA PANCA, UN QUADERNO. IL GUSTO DELLA MEMORIA Domenico Luciani

Esce dunque, grazie a un lavoro collettivo coordinato dalle figlie, la raccolta di ricordi di Giuseppe Davanzo, articolata in diciannove quadri che corrono lungo un arco di tempo di oltre sei decenni, dal suo arresto l’8 settembre ’43 alla sua morte l’8 settembre 2007. Lui insiste, in più punti, e il lettore curioso si divertirà a trovarli, sull’idea che il racconto autobiografico si occupa di sessant’anni esatti, perché calcola l’intervallo 1945-2005, ma in realtà i quadri del suo diario iniziano gettando luce sull’esperienza di quel cruciale settembre ’43 e appaiono scivolare, o almeno a me piace lasciarli scivolare, fino ai suoi ultimi giorni di vita in quell’indimenticabile tarda estate del 2007. È dal Fort Coudon che si parte, precisamente dall’osservatorio di «Mont Faron, a quota 478 sopra Toulon», da quel «volto sereno e intellettuale» del giovane ufficiale della Wehrmacht che lo arresta, da luoghi della Francia meridionale e della Germania settentrionale perfettamente identificati. L’Hotel du Golf a Hyères. L’edificio di Erikastraße 41 in Amburgo. La scuola di Eppendorf. La fabbrica di Wietzendorf, dove conosce un meccanico tedesco che gli insegna a stare al tornio, un altro mestiere con le mani che gli piace, un ennesimo furto con gli occhi che verrà utile quando ci sarà da divertirsi a lavorare il legno. Abbiamo insomma davanti a noi un ventiduenne trevigiano, geometra di Ponte di Piave, da poco iscritto a Venezia alla Scuola di Architettura, trasformato dalla guerra in sottotenente e in prigioniero, anzi Internato Militare Italiano, IMI. E tutto perché ha detto no. «Bastava un “sì”. Eppure non l’ho mai voluto pronunciare. Perché?». Le annotazioni nelle quali circola questa domanda, sparse in modo diretto o indiretto in vari punti del libro, sono tra le più signi-

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ficative per intendere il senso e il gusto della memoria che lo percorre. È proprio intorno a questo interrogativo che Davanzo lavora a estrarre con cura dal suo deposito di ricordi quei frammenti che gli servono per ricostruire le figure cruciali e i valori costitutivi della sua formazione, le relazioni che hanno dato forma al suo modo di stare al mondo. Innanzitutto la madre col suo buon senso, sotto il quale stanno semplici granitici principi morali. A lei è dedicata, ci spostiamo al 1953, la nota più toccante del libro, il rimorso per non averla coinvolta nella festa di laurea «per quello squallido rispetto umano che non ho mai capito, per non sfigurare». E Mario Prevedello, amatissimo insegnante alle superiori, figura nota della Resistenza veneta, maestro e poi anche amico. Il primo quadro si conclude con un piccolo capo d’opera di scrittura autoironica, il racconto delle sei giornate e delle sei notti del ritorno a casa nell’aprile ’45, da Potsdam a Conegliano, via Berlino, Lipsia, Monaco, Brennero, Bassano, in un’Europa nel caos, con episodi di esilarante drammaticità e gesti di incoscienza picaresca, vissuti con due compagni d’occasione, in una minuscola armata brancaleone che rischia più volte la pelle. Storie che potrebbero apparire straordinarie e che, al contrario, come Davanzo avverte con insistenza, sono “vite normali”, certo vite di molti tra gli oltre seicentomila internati militari italiani nei campi tedeschi. Storie di cui da bambino sono stato anch’io testimone, in particolare del ritorno di mio padre nel maggio ’45: una scena tra le più nette e indelebili della mia memoria, che la lettura di questo diario mi ha fatto rivivere con intensità imprevista. Mi sono incantato sul primo dei diciannove quadri perché lo ritengo una prova maiuscola di scrittura evocativa e memoriale. Ma tutto il libro lo è, tutto l’intero vasto affresco che ci offre richiede uno sguardo attento. Se ne componessimo l’indice dei nomi e dei luoghi, verrebbe in evidenza un grande archivio di fatti, opere, figure e ritratti, momenti del nostro secondo Novecento. Intorno ad alcuni ambiti, società e costume, formazione e professione, arti e mestieri, soprattutto committenti e facitori dell’architettura e del design, la lunga esperienza di Giuseppe Davanzo ci aiuta, e ci sollecita, a tentare una

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riflessione di largo raggio e ampio respiro sulle cime e gli abissi che abbiamo attraversato. C’è già stata qualche occasione, e ce ne saranno altre, per rispondere alle sue sollecitazioni critiche, e anche per tornare a ragionare sul suo mestiere di architetto, per misurare ancor meglio la dimensione e il ruolo del corpus delle sue opere, la loro durata nel tempo, l’energia che continuano ad emettere. Ma intanto, di fronte a questo libro, è importante stringere sul suo dialogo con la memoria, sul lavoro di scavo, di estrazione e di scrittura, che a un certo punto lui stesso toglie dal margine e pone alla pari con l’architettura. Ho avuto il privilegio di una frequentazione con lui abbastanza intensa a partire dagli anni Ottanta (ma l’avevo conosciuto già nel 1956, nei primi incontri trevigiani di «Comunità») per immaginare, come ho già accennato, senza prove, ma con indizi e spie, che il lungo quadro intitolato “Tempo libero”, vero e proprio riassunto del senso della sua investigazione sul valore e il ruolo di quanto si muove “a margine del mestiere”, possa essere stato oggetto di sue attenzioni anche dopo il 2005. Il quadro è articolato in due parti distinte. Nella prima, descrive i suoi viaggi più lontani, compiuti con qualche familiare. Nella seconda, ci parla del suo luogo, del suo rifugio nella piccola casa (e barca) a Santa Croce, tra mare e Carso. Così, raccontando, quasi chiacchierando da par suo, senza cadere nell’annuncio di un bilancio riflessivo che non sarebbe nelle sue corde, ci parla di entrambi i pilastri su cui si regge il suo modo di vedere le cose. Un pilastro è la tensione tra il bisogno di conoscere il grande e vario mondo che ci circonda e il bisogno di quiete laboriosa e pensosa in un “piccolo porto” sicuro, in un posto al quale sempre si torna. Per un verso ci sorprende con la sua curiosità onnivora. Tutto gli appare degno d’interesse. Le arti e i mestieri vanno tutti conosciuti e utilizzati. Ogni cosa e forma va fotografata o disegnata, il grande albero e il mollusco, le nevi del Kilimangiaro e le ali dell’insetto, il ghiacciaio norvegese e la venatura del legno, il vecchio che aspetta e il bambino che gioca. Tutte le tecniche vanno provate e sperimentate. Davanzo è l’unico architetto, tra quelli che nascono dalla sfera scarpiana, che si diverta a trascinare robusti imprenditori e talentuosi ingegneri verso un corpo a corpo con la prefabbricazione pesante, operazione che raggiunge risultati sorprendenti e ha poi

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DOMENICO LUCIANI

destini conservativi assai vari, nella “reggia per i buoi” di Padova, nello ziggurat fieristico di Vicenza, negli impianti sportivi e nel malcapitato stabilimento industriale trevigiano. Per l’altro verso ci spiega l’indispensabilità di un luogo elettivo. Ed è lì che si raccolgono i pensieri. La pagina conclusiva di “Tempo libero” è una tenera invenzione colloquiale: «Mentre seduto sulla panchetta della terrazza sto mettendo giù qualcuna di queste note [...] in questo primo sabato di settembre [...]». Il secondo pilastro è il gusto di immergersi nel patrimonio soggettivo di memoria attraversando il deposito di ricordi puntuali, rovistandone gli strati, rimescolandoli per mezzo della scrittura, cercando per questa via di governare il senso del tempo e di prendere in carico l’ineluttabilità del suo scorrere nell’ordine della natura delle cose. Due brevi citazioni sono utili. La prima, dal quadro “Anni Sessanta e Settanta: la grande svolta”, per dar conto dell’infinita varietà dei ricordi e del loro presentarsi come lampi da afferrare e connettere tra loro. Col trascorrere degli anni, con l’avanzare dell’età, il depositarsi dei ricordi ha formato nella mia memoria sbiadita come una grossa pila elettrica a strati variegati, ciascuno dei quali contiene o trattiene un nome, un’immagine, un sesto senso, un lampo di vita, un numero della rubrica dei miei elaborati, una voce che mi saluta [...], tracce di un luogo [...], altri nomi e località, cantieri, personaggi importanti della mia storia e del mio paese o ignoti e poi bravi artigiani, [...] tutti da estrarre dalla pila.

La seconda è una confidenza sussurrata al lettore sul lavoro per estrarre i ricordi dalla pila, per riordinarli e farne un racconto; insomma sulle ragioni della scrittura, sulla sua stessa “necessità”. Ragioni delle quali Davanzo ci assicura di essersi invaghito solo nel 1991, settantenne, grazie a un dono, come racconta nell’ultimo quadro, e grazie agli incoraggiamenti convinti di molti amici lettori, tra i quali il grande poeta dei nostri paesaggi e delle nostre parole che stanno andando via via a nascondersi sotto strati troppo profondi della memoria: «[...] sono ricordi di una vita normale, come quella di tanti altri. Ma proprio questi ricordi, dei quali si alimenta, l’anziano, nella sua inutilità e solitudine, ha necessità di raccontare».

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IL GUSTO DELLA MEMORIA

Qui c’è tutto Giuseppe Davanzo: disincanto della saggezza e schietta accettazione della senile fragilità, ma anche tensione verso altri compiti da svolgere, nuova esperienza, arricchita da tutte le esperienze accumulate, impegnata a ritrovarne il filo, a dipanarlo, a passarlo.



Ad Alvise, Niccolò e Zeno, questo libro del nonno come regalo, per condurli a guardare le forme del mondo e degli uomini con il suo stesso sguardo mai stanco d’incantarsi e di capire, ma anche di rifiutare e denunciare



A MARGINE DEL MESTIERE


Chi si aspetta dalla lettura di queste memorie una dilettevole attrattiva atta ad occupare parte del suo tempo libero, può rimanere inappagato: sono ricordi di una vita normale, come quella di tanti altri. Ma proprio questi ricordi, dei quali si alimenta, l’anziano, nella sua inutilitĂ e solitudine, ha necessitĂ di raccontare


RITORNO A CASA

Ci svegliano alle cinque del mattino, ci tirano fuori dalle baracche dell’Oflag 83 di Wietzendorf. Siamo una quarantina tra sottotenenti e tenenti, e uno o due capitani. Capiamo che hanno bisogno di manodopera giovane e che ci costringeranno a lavorare. È il dicembre 1944, l’aria è gelida. L’ordine è di indossare l’uniforme. Del resto non abbiamo altro: un look consumato e sporco che segnala la nostra permanenza nei campi di concentramento, dove l’igiene è assente. Ciascuno col proprio fardello, siamo pronti per essere trasferiti in qualche campo di lavoro, destinazione ignota. È ancora notte fonda e i pochi lumi, semispenti per l’oscuramento aereo, segnano appena il percorso fino all’ingresso, dove ci aspettano due camion militari sui quali saliamo per essere portati in non so quale stazione ferroviaria e poi caricati in un treno merci. Ci lasciano in sosta finché l’alba grigia e piatta comincia a delineare la landa brumosa che già da mesi è parte della mia afflizione interiore, appena attenuata dal sapere che con me ci sono anche Aldo Bonanni, Giorgio Valle, Rinaldo Gabrielli, Iginio Bonfanti. La loro provenienza trentina li rende accattivanti per l’essenzialità di eloquio e di gesti. Cesco e Nico Fregonese di Salgareda, conversatore al dettaglio il primo quanto taciturno il secondo, sono in apprensione, non tanto per lo spostamento in sé – che si aggiunge agli altri dalla Francia alla Polonia, dall’Olanda a Bonn, poi dallo Straflager della Glandstoff di Colonia a Wietzendorf –, quanto per dover abbandonare le sia pur miserande “suppellettili” che eravamo riusciti a mettere insieme durante la permanenza nei campi.

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GIUSEPPE DAVANZO

1942. Modena, esercitazione al goniometro. 1943. Mensa di Pasqua al Fort de la Croix, in Provenza.

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1943. Il Fort Coudon, sopra Hyères, in Francia, dove Giuseppe Davanzo alloggia da ufficiale.

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GIORGIO, NEL PURO INCANTO DEI MONTI

Gli affetti e le amicizie che si vanno costruendo a guerra finita vanno saldandosi con quelle lasciate a casa alla partenza per la guerra. È il ’46 e l’annata si presenta feconda per le possibilità di nuove scelte e di nuovi legami, per le intense relazioni, i rapporti di solidarietà. In primavera vengo assalito da inspiegabili febbri che il medico però non ritiene preoccupanti, in quanto dovute all’inevitabile trapasso fisico dall’indigenza nella prigionia alla piena libertà d’azione e di nutrimento. Le febbri però, durando più del previsto, mi impongono una specie di convalescenza. E dove trascorrerla al meglio se non a Borca di Cadore ospitato dai Prevedello? Già a Treviso sono di casa, così come loro da me. Una volta lì, Giorgio, quattordicenne, viene spesso a parlarmi, entusiasta, di itinerari dolomitici che dice “bellissimi”. Limpido nel volto e ben formato nel fisico, taciturno ed osservatore, una mattina, all’alba, mi dice a mo’ d’invito: «Bepi, se vuoi, superato il “Passo del Gatto” si può salire in vetta al Pelmo e tornare in giornata. Ho studiato bene la via, non è difficile. Dai, che andiamo!». A casa c’è solo mamma Raffaella, gentile nel cuore e nei modi; Mario, il papà, arriverà solo la sera, con l’altro figlio, Gianpaolo. Così, quella stessa mattina, poco dopo le sei, Giorgio ed io partiamo. Lungi da me il pensiero della prudenza nel vestire, dato il caldo di agosto, e... via, con le scarpette da ginnastica marca Superga. La sera, prima dell’imbrunire, siamo di ritorno. Già troviamo già in casa Gianpaolo, Mario è più indietro per via della fatica nel fare la salita; ci vede venire giù da quell’unico sentiero che porta alla

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GIUSEPPE DAVANZO

Estate 1946. Giorgio Prevedello sul Monte Pelmo.

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vetta del Pelmo. Quando siamo tutti in casa, guardando me, scatena a voce bassa e rauca una strigliata raggelante. Giorgio corre in camera e io, là in vacanza-convalescenza, riesco a dire, come un cretino: «Non lo farò più». Mario, a muso duro, va a sedersi in poltrona fingendo di leggere «Il Gazzettino» e «L’Unità» portati con sé da Treviso. La casa di Borca aveva uno scoperto in pendio dove Raffaella piantava e raccoglieva o faceva raccogliere dai Rigoni, i vicini, le squisite patate per l’inverno. E così l’ottobre seguente, dalla casa di via Mengaldo a Treviso, va su Giorgio per la raccolta. La biasimata avventura del Pelmo: dimenticata. Una mattina di due giorni dopo la partenza di Giorgio, Mario passa per casa mia. Non ci sono. Invero mi trovavo al bar Urettini di Rivale Santa Margherita. Rimango sorpreso di vederlo transitare là, davanti alla vetrata, turbato e smarrito, e sostare cupo sulla porta. A suo tempo gli avevo confidato la mia cotta per la Luciana, responsabile del bar, e quindi a quell’ora sapeva di trovarmi da lei. Accertatosi che non fossi andato su col figliolo mi dice solo: «Giorgio non è tornato e da tre giorni non dà notizie di sé». «Mario, andiamo su subito». «È stato visto dai Rigoni, due giorni fa, avviarsi sul sentiero per il Pelmo, dopo aver raccolto le patate». Gli Scoiattoli di Pieve di Cadore lo ritrovarono nel precipizio sotto il Passo del Gatto. Era riconoscibile, ma sfracellato. Giorgio non c’era più. Aveva pagato con la sua giovane vita il sogno degli alti monti nel loro puro incanto. Il dolore si dilata fra tutti noi. È disperazione. Gli stiamo vicini, noi e gli amici del Caffè dei preti, i colleghi, i ragazzi. Lentamente Mario trova un barlume... nelle poesie e nei romanzi che riesce a scrivere e pubblicare. Non è più l’uomo dell’impegno politico. Colui che sapeva indicare la strada si ritira e resta per conto suo con Raffaella, mentre Gianpaolo si sposta a Roma come operatore in una grossa istituzione per lo sviluppo del Mezzogiorno, con Claudine e il loro figlioletto Giorgio jr.

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1949. Il primo studio in via Paris Bordon.

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1962. Lo studio in via Commenda, con la moglie Livia Musini e la figlia Serena. 1962. Con Paolo Carrer nello studio in via Commenda.

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1965. Lo studio in viale Appiani durante l’elaborazione del Foro Boario di Padova. Da sinistra: Mikuni Omura, Paolo Bastasi, Luciana Vettoretti, Aldo Rampazzo, Paolo Carrer, Giuseppe Davanzo, Elisa Pasini, Giandomenico Cocco. 1986. Lo studio in viale Appiani. Da sinistra: Giuliano Vascotto, Paolo Carrer, Luciana Vettoretti, Ezio Lauritano, Giuseppe Davanzo, Livia Musini, Vincenzo Casali.

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Gli chiedo se vuole essere socio dello studio, ma temendo gli alti e bassi della professione, rinuncia preferendo il posto sicuro di insegnante. Peccato! Gli anni Sessanta, della “svolta”, e poi anche i Settanta e gli Ottanta, dando sempre più consistenza e notorietà a me e allo Studio, comportarono che in esso si succedessero disegnatori, segretarie, giovani architetti, ma anche collaboratori esterni, titolari di studi di ingegneria, di architettura, di impianti e di urbanistica. Mi rendo conto che ho necessità di una diplomata segretaria d’azienda, con votazione massima in italiano e matematica. Su mia richiesta si fa avanti una sedicenne di nome Luciana. Ora, sposata, con due gemelli laureandi, è ancora da me in attività ed è custode della storia e archivio vivente di tutto il fare mio, di mia moglie Livia e di mia figlia Martina, anche lei oggi architetto e mia collaboratrice. Luciana sa tutto: sulla normativa, sui regolamenti, sulla legge Merloni. Sa che solo fare quel nome è sufficiente per farmi infuriare, e portarmi a detestarlo ogni volta di più: è il legislatore responsabile della caduta in verticale della qualità architettonica pubblica italiana. Per quella privata ci ha pensato l’evoluzione delle facoltà di architettura, sfornando giovani architetti informatici privi delle nozioni più elementari del nostro mestiere. Accade che, col 1965, capita in studio Mikuni Omura. Si è laureato a Tokio con Kenzo Tange. Vista la sua preparazione e capacità di approfondire graficamente ogni dettaglio, ci si intende e collaboriamo per una decina d’anni, finché, sposatosi, emigra con la moglie veneziana Maddalena a Perugia. Bravo e ostinato, “desidellava semple collegele tavole”. Ora mi aspetta in California, con sua figlia Emi, anch’essa architetto, mia ex allieva. All’inizio del ’70 ero alle prese con il Concorso Appalto per la Fiera di Vicenza e Roberto Poletti mi stava lasciando sguarnendomi il fianco. Da tempo non insegnavo più ai Carmini anche se ci andavo per uno strano corso di Industrial design, a tenere lezioni di Tecno-

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Ogni qual volta ripasso di là, tardo a distogliere lo sguardo: la Fiera mi sembra una nobile signora, attorniata, nel tempo, da grossolani pretendenti. Se la svolta degli anni Sessanta, lunga e fervida stagione, poté avere, per un verso, riflessi positivi, consentendomi di sedimentare esperienze e contemporaneamente di farmi conoscere, per un altro verso contemplò delle frustranti cadute, cioè degli esiti entusiasmanti ma senza seguito, per il passaggio della mano ad altri, i quali, spesso con improntitudine, aggredivano i miei manufatti rendendoli il più delle volte un’altra cosa, esposti al pubblico fraintendimento. Reduci dalla serie fortunata dei concorsi, Luciano Gemin vuole che Ciccio ed io partecipiamo con lui e con l’impresa Antoniazzi ad un appalto concorso per l’Impianto Natatorio e Sportivo di Treviso. Esterniamo la nostra gratitudine a Luciano per averci dato modo di giocare questa volta in casa. Lui aveva già abbozzato, per corpi staccati, un primo pensiero in risposta al bando, ma tutti noi capivamo che quell’idea sarebbe risultata debole. Leggo attentamente il testo del bando per individuare, se possibile, la configurazione di un’immagine unica, forte e articolata. Anche in questo caso, come nel palazzetto di Vicenza, le destinazioni d’uso rispondono alla regolamentazione sportiva. Il volume minimo di quattro metri cubi d’aria imposto dai regolamenti per ogni spettatore e atleta ci consentiva di variare le volumetrie dando luogo così a una copertura mossa, conformante l’impianto sportivo in un unico manufatto. Anche l’impresa si trovò d’accordo su questa soluzione, così che la configurazione del complesso in tal modo definita si impose, convincente. Tuttavia con un unico intoppo cui seguirono le tante quanto stupide polemiche che qui ritengo di dover chiarire una volta per tutte. Il bando prescriveva in 16,80 metri la larghezza della piscina coperta da 25 metri e a sei corsie da 2,50 metri ciascuna, aggiungendo giustamente 90 centimetri di battionda alle due corsie laterali, come indicato per le competizioni. Per la piscina scoperta il testo del bando prescriveva la larghezza, esattamente, di 20 metri anziché

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1968-1972. Impianto Natatorio e Sportivo a Treviso. 1972. Impianto Natatorio e Sportivo a Treviso: innalzamento in sede delle travi.

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di 21,80 per la formazione implicita di 8 corsie, cioè non teneva conto di quei 90 centimetri di battionda per ciascuna delle due corsie laterali, ad evitare che il ritorno dell’onda sul nuotatore in gara ne ritardasse i tempi di percorrenza. Rilevata l’omissione nel testo concorremmo ugualmente, garantendo i battionda ma con la formazione di 7 corsie che, dopo esserci informati, per regolamento erano ugualmente possibili. Alterare le misure prescritte dal bando poteva significare l’estromissione dal concorso. Semmai avremmo potuto far presente il problema se avessimo vinto. A vittoria conseguita l’impresa indicò subito all’Ufficio Tecnico del Comune l’inconveniente, del resto facilmente rimediabile col riconoscimento della modesta maggior spesa aggiuntiva per l’allargamento di 1,80 metri della piscina scoperta. Siccome tale errore era stato dovuto all’estensore tecnico del bando, costui, per non sfigurare, non volle riconoscere la maggior spesa lasciando all’impresa l’onere economico. Antoniazzi diede all’ingegnere capo quella volta, ricordo, una risposta memorabile: «Io non le vendo una lira per novanta centesimi. Le lascio la sua piscina di venti metri». E da qui presero il via i “lavaggi di bocca” degli amministratori e dei tecnici succedutisi: nessuno che si fosse preso la responsabilità di chiarire e chiudere la vicenda. Verso la fine di marzo, a due anni dall’inizio dei lavori, erano state assemblate in cantiere le lunghe travi della copertura a sezione triangolare, in conci di cemento armato precompresso a cavi scorrevoli. Il vederle lì a terra sugli appoggi provvisori, quali anticipatrici della suggestione formale dell’edificio, provocò in me grande emozione. Prima del loro innalzamento in sede, doveva essere verificata la freccia con i flessimetri applicati sotto ciascuna trave. Eravamo alla vigilia del grande momento della loro posa in opera, con la inevitabile sceneggiata delle autogrù e del direttore di manovra al centro di ogni trave che, per segnalare ai due gruisti i microinnalzamenti, si toccava appena con le mani i gomiti. La sera di quel 30 marzo vengo invitato con Livia da Lavinio Bellemo, mio amico e docente con me allo IUAV, nel suo palco alla Fenice, con Carlo Scarpa e la moglie Nini per l’opera Tristano e Isotta. Luciana, la segretaria del mio studio si era offerta come baby-sitter

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1973. Impianto Natatorio e Sportivo a Treviso: la piscina coperta ed esterno.

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1967. Scatti da un reportage fotografico sulle condizioni degli anziani nell’Istituto Pia Casa Cronici Giuseppe Menegazzi apparso su «Abitare», 113, 1973, pp. 252-253.

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1967. Casa-albergo per anziani a Castelfranco Veneto (TV): esterno tra gli alberi del parco.

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1969-1986. Casa-albergo per anziani a Castelfranco Veneto (TV): interno del soggiorno con vista sul verde del giardino. Casa per anziani: grafici della camera tipo e degli spazi comuni antistanti.

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segnali dei divieti di transito, gli scheletri inerti delle insegne pubblicitarie a rompere l’unità della piazza. Le conseguenze delle casualità deturpanti sono evidenti a tutti, ma mi era parso quella volta che proprio il Comune, con una ben appropriata esposizione d’arte, volesse avviare cittadini e visitatori a una percezione degli spazi monumentali nella loro ritrovata qualità e vivibilità, ripulendoli da tutta la congerie dei segni e degli oggetti che per necessità pratiche ed economiche lì si erano accumulati, come in tante altre città, senza alcuna pianificazione. Si andava dai fili elettrici all’edicola dei giornali, dai fanali alle planches per le affissioni, dalle insegne di ogni genere alle pensiline e tabelle di orari, dalle cabine telefoniche alla segnaletica stradale talora ossessiva e inestricabile, verticale e orizzontale e via deturpando. A tutto questo pensavo, dovendo intervenire a Rimini, sia pure temporaneamente. Con tali riflessioni ero già passato dallo stato d’ansia a quello più forte dell’entusiasmo e della sfida, sapendo di avere Pier Carlo al mio fianco. Dopo essermi reso conto del complesso delle sculture ed averle esaminate una ad una, proposi subito l’eliminazione della segnaletica verticale e orizzontale di piazza Cavour. In questo modo, pedonalizzata la piazza e ripulita la settecentesca e garbata pescheria, sarebbe stato possibile coniugarle, attraverso il voltone municipale, all’area retrostante il Palazzo dell’Arengo, liberata per divenire immediatamente giardino espositivo. Tale, in sintesi, la definizione dello spazio per la mostra, entro il quale avevo previsto e fatto realizzare percorsi e basamenti cementizi di diverso andamento e altezza, che fossero individuabili rispetto al porfido di pavimentazione, e chiarissero i cardini dell’esposizione: il grande cavallo di Marino Marini e, al centro della Piazza, il marmo di Pietro Cascella, proprio sotto la grande statua di Paolo V. Ricordo che tra gli scultori presenti con le loro opere a quella prima coraggiosa edizione di “Città, spazio, scultura” oltre ai due appena citati ci furono Viani, Tavernari, Cárdenas, Canuti, Consagra, Pomodoro e Vangi.

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L’entusiasmo del trio Santini, Valentini, Davanzo si rinnovò a Rimini per otto anni di seguito, in totale affiatamento: uno dei più bei periodi della mia attività. Compresi questi otto e i due musei – a Milano in S. Andrea e a Pieve di Cento – gli allestimenti che complessivamente ho realizzato sono stati circa quaranta, dei quali una quindicina con Pier Carlo. Solo la convivenza di giorni e giorni con le sculture che dovevo far vedere mi ha portato lentamente a maturare una riflessione: finché il blocco di marmo, il masso di pietra, il grande legno in tronco o il gesso nel cassone sono in cava, in laboratorio o nello studio, sono corpi inerti e muti, solo gli artisti vi vedono dentro la loro opera in divenire. Si racconta, ad esempio, che Michelangelo a Pietrasanta andasse di persona a scegliersi i blocchi puri in bianco statuario di Carrara. Trascorrendo i giorni con le sculture per posizionarle nel modo più appropriato e utile a coglierne i valori entro l’allestimento, le osservavo a lungo per capire quale fosse la giusta illuminazione o il punto di osservazione privilegiato, finché mi pareva, percorrendole col palmo della mano, di comprenderle correttamente. Quando confessai quel mio sistema a Pier Carlo, lui mi confermò che solo così avrebbe dovuto essere il processo di percezione emozionale della forma scultorea, indipendentemente dal fatto che appartenga al genere figurativo, all’astratto, all’informale o ad altro. Mi sembrò di riuscire ad esaltare la poetica purezza dei gessi di Alberto Viani contrapponendoli ad una pavimentazione articolata in tavolato di abete a superficie rugosa e a piano di sega, senza interferenze esterne, al chiuso della Sala dell’Arengo, sempre a Rimini. Alberto mi disse che avevo inventato un bello spazio per le sue forme e Scarpa glielo confermò con un telegramma. L’anno successivo fu la volta di Tavernari con le sue felici “narrazioni” all’aperto e quindi di Pietro Cascella per le opere del quale giocai con acqua e basi in mattoni che mi parevano consoni alla rudezza essenziale delle loro forme. L’anno di Minguzzi il Comune di Rimini, a mezzo di Valentini, ci disse che dal Governo non aveva avuto una lira né per me né

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In queste pagine 1973. “Città, spazio, scultura”, mostra collettiva nel centro storico di Rimini. Marino Marini e Pietro Cascella in Piazza Cavour. Le sculture più piccole raccolte sotto il porticato della settecentesca Pescheria.

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Sculture sotto il porticato del Palazzo dell’Arengo. Percorso in cemento per l’esplorazione delle opere nel giardino dietro al Palazzo dell’Arengo.

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In queste pagine 1974. Mostra dei gessi di Alberto Viani nel Palazzo dell’Arengo a Rimini. Studio dell’allestimento. Grafici. Interni dell’esposizione.

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Ritorna Scarpa. Lo rendiamo edotto dell’urgenza e delle sollecitazioni del Mazzotti, intrattenuto in qualche modo dai grafici schematici che ora, con trepidazione, sottoponiamo al Professore. Lui li guarda, serio, ma dal volto e dagli occhi affiora a poco, a poco un’espressione ironica finché, scuotendo il capo in segno di disapprovazione, sorride e dichiara: «Non avete capito niente: Arturo Martini ha bisogno di ben altro, faremo, faremo, state tranquilli!» E da quel momento venimmo coinvolti in una invenzione continua, in scoperte formali, in configurazioni spaziali, per cui ogni opera diveniva straordinariamente godibile nel suo habitat e in contrapposizione con le altre. Chi avrebbe pensato di posare il Tobiolo su un ampio specchio d’acqua predisposto appositamente nell’area del chiostro? E il Tito Livio in fondo al portico? E il Figliol Prodigo? Collocai il busto in marmo bianco di Lorenzo Viani, artista viareggino, efficace sotto il sole di ponente, contro il muro di mattoni, sostenendolo con una struttura in acciaio, dato che per quell’opera il Professore aveva lasciato che mi arrangiassi, ovviamente dopo avermi dato il “la” formale. E la sigla? Sarebbe stata costituita dai due leoni in bronzo davanti alla dogatura in legno dell’ingresso alla mostra. Infine aggiungemmo le tele di velatura per attenuare l’incidenza dello spazio chiesastico sulla percezione delle opere. Scarpa non voleva ci fosse confusione tra le pitture murali di Tommaso da Modena e le sculture di Martini. Della illuminazione, solo artificiale, ci sarebbe molto da raccontare, ma non posso tralasciare di citare almeno la battuta dell’elettricista cinquantenne che, in alto, sotto la capriata, sugli ultimi gradini della scaletta metallica, a Scarpa che gli gridava di sbrigarsi rispondeva: «Calma professore perché qua su sono in pericolo di vita, ho la mamma incinta e non vorrei cadere». È superfluo dire quanto preziosa fu per me quell’esperienza con Scarpa per Arturo Martini, che feci fruttare, a distanza d’anni, quando Pier Carlo Santini mi chiamò, nel ’73, per allestire la collettiva di scultura all’aperto nel centro storico di Rimini.

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1967. Mostra di Arturo Martini nel convento di Santa Caterina a Treviso, allestimento di Carlo Scarpa in collaborazione con Giuseppe Davanzo e Luciano Gemin.

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1984. Mostra delle opere di Paris Bordon, nel Palazzo dei Trecento a Treviso (in alto). 1980. Mostra dei bronzi di Alberto Viani nel Castello dell’Imperatore a Prato.

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1991. Mostra di sculture e disegni di Giuliano Vangi a Castel Sant’Elmo a Napoli (in alto). 1995. Mostra delle sculture di Giuliano Vangi al Forte Belvedere a Firenze.

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1967-1969. Lo scoglio di Basiluzzo, presso l’isola di Panarea.

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sottostante erano magiche miniere per la ricerca dei favi d’api, di mantidi religiose giganti, di conchiglie, stelle marine arancio e viola, paguri e chissà cos’altro le bambine si sfidavano a trovare nelle loro commoventi raccolte. Ci fu, in quell’anno, l’avventura dei “pancrazi”, oggetti a me assolutamente ignoti che un’aristocratica, diciamo, contessa mi illustrò in modo così affascinante, da spingermi ad una spedizione nella parte alta dell’isola. Solo lì, infatti, pareva dovessero trovarsi i bellissimi e rarissimi fiori. Ci andai, sudai, mi tagliuzzai, ma i “pancrazi”, se non li ricordo sarà perché proprio non li trovai. In uno degli ultimi giorni con il gommone dell’amico editore, Fausto, e con Gianni, stimato gastroenterologo, andiamo a Lipari. Desideravo fotografare la bianca, suggestiva estensione della cava di pomice in mezzo alla quale si situava l’edificio dell’azienda, sempre un pomice e con una serie di buchi neri che lo rendevano singolare. Prendo a scattare finché, avvicinandoci a riva, Gianni si leva il costume – tanto di là non passava nessuno! – e nudo si tuffa. Noi restiamo a bordo, abbastanza vicini, mentre lui, raggiunta a nuoto la riva, fa qualche passo senza accorgersi di calpestare gli escrementi dei gabbiani, bianchi sul bianco. Si innervosisce e vuol tornare a bordo, noi però pretendiamo che prima si pulisca mani e piedi. Ma poi, anche lui come noi, si accorge che sta passando il traghetto proveniente da Salina e diretto al molo di Lipari che in quel punto, per la virata stretta, si avvicina alla costa. Non dimenticherò mai il primario nudo sulla pomice al cospetto dei viaggiatori del traghetto, e le risate, le prese in giro durante il ritorno in gommone che si conclusero “in gloria” con una cena dal Cincotte. Ricordo che quello fu per me l’anno dei fiori: quanti ne fotografai! Non ricordo il nome di nessuno di essi, ma mi appassionavo ad indagare, con la macrofotografia, le loro complesse e straordinarie geometrie. Mi dedicai anche ad esaminare e fotografare vecchie unità abitative in degrado ma abitate per lo più da anziane signore indigenti, tra le quali c’era pure, mi dissero, l’autrice di un assassinio, ed altre casette restaurate con semplicità ma con garbo che insieme configuravano un habitat gradevole e autentico, ancora indenne dalle manomissioni speculative.

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Mentre seduto sulla panchetta della terrazza sto mettendo giù qualcuna di queste note, rivolto verso un mare terso sul quale si appoggia un cielo infuocato dal grande disco solare che va coricandosi, in questo primo sabato di settembre, percepisco l’andirivieni e le intese tra le nostre donne, dalle quali ho conferma della cena in “pastino”. Io non faccio niente, perché non ho voglia di far niente. Assaporo l’animazione, sento di essere nel vicinato come da bambino. Attraverso l’abitazione di Gianni, per raggiungere lo scoperto tra il costone e la casa. Qui, già allestita, appare nella sua singolare struttura la lunga tavolata il cui piano risulta da una aggregazione ingegneresca di pannelli per casseri, ceduti da Mirco perché avanzati dall’arredo della sua unità abitativa, più alcune tavole da cantiere rimaste dopo i lavori murari, più un piano in multistrato e un tavolino pieghevole arrivato in “pastino” non si sa come. Anche le panche per le sedute denunciano un’impronta approssimata “fai da te”, sicura e prevista per una ventina di commensali tra adulti e bambini. L’approntata discontinuità del piano-tavola acquisterà un aspetto invitante una volta coperta con la tovaglia in carta colorata, con la “posateria”, la “stoviglieria”, le “coppe”: se anche sono in plastica, il clima godereccio sarà sicuramente assicurato, perfino con una dotazione di corpi illuminanti a candele. Ciò che più mi affascina non sapendo mai come funziona... (ma funziona!) è, appena su dei gradini, un cubo di un metro, un po’ cementizio, un po’ murario, un po’ lapideo con, mi pare, un solo buco, messo in atto da Franco e Gianni e da loro denominato il “barbecue”. Dopo un commento mio e di Maro che lascio immaginare, l’impropria denominazione è stata sempre pronunciata sotto voce.

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LA NOTTE TRA L’11 E IL 12 MARZO 2003

Verso sera lascio lo studio e mi ritiro in casa. Sono solo. Livia è a Milano per raccogliere i complimenti del «Sole 24ore» e di altre testate sulle sue architetture paesaggistiche, e per animare i suoi rapporti di relazione con i colleghi del verde dell’AIAP. Ritornerà domani, così ho tutta la serata per me da dedicare alla visione, che mi riproponevo da giorni, della puntata di “Un caso di coscienza”, con Sebastiano Somma. Ho scoperto la trasmissione su Rai1, tempo fa, come altri otto milioni di italiani, e mi è piaciuta. Mi preparo due uova strapazzate, di quelle freschissime che l’amica Adonella Appiani ci porta dalle sue galline di Cavaso del Tomba e le accompagno con una appetitosa insalata di cetrioli. Quindi mi sistemo sul divano con i tre telcomandi: per la tele, per il registratore, per il decoder – non si sa mai. È da stamattina, da quando mi sono alzato, che mi squassa una tosse rabbiosa, con accessi improvvisi, accompagnata da un raffreddore che è come un’inondazione. Mi passerà, mi son detto. Comincio però ad avvertire una certa fatica a seguire le sequenze della trasmissione, a causa degli starnuti, dei colpi di tosse e della respirazione affannosa. Non ce la faccio a vedere la fine e così alle 22:30, prestissimo per me, vado a letto, sotto l’accogliente trapunta blu regalatami da Livia in un suo slancio di bontà. Mi addormento, stranamente, quasi subito. Sogno non so cosa, forse inseguo il film che avevo cominciato a guardare nella serata. Un colpo di tosse mi costringe a svegliarmi. Un violento sussulto mi blocca il respiro: sto soffocando. Provo inutilmente ad inspirare ma non passa un filo d’aria e l’espirazione è bloccata. Non so cosa tentare. Non ho scampo. 227


Giuseppe Davanzo nel 1995.


NOTA BIOGRAFICA DI GIUSEPPE DAVANZO

Giuseppe Davanzo nasce a Ponte di Piave (Treviso) nel 1921. Dal 1934 risiede e lavora a Treviso. Nel 1941 si iscrive all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia, ma un mese dopo è chiamato alle armi; fatto prigioniero, ritorna dalla Germania nell’aprile del 1945. Riprende gli studi universitari e si laurea nel luglio del 1953. La sua formazione è fortemente segnata dalla lezione di Carlo Scarpa, Franco Albini e Giuseppe Samonà, maestri che diventeranno riferimenti per l’elaborazione del proprio linguaggio. Inizia la libera professione impegnandosi nella ricerca, nella sperimentazione sulla prefabbricazione e nello studio della potenzialità espressiva del calcestruzzo che, tra gli anni ’60 e ’70, lo portano alla progettazione di significative opere e all’aggiudicazione dei concorsi per il Foro Boario di Padova, il Palazzetto dello Sport di Vicenza, la Fiera di Vicenza, il Complesso per sport natatori a Treviso. Nella progettazione e direzione lavori, individualmente e in collaborazione, affronta i temi della residenza unifamiliare e collettiva, dei servizi sociali, culturali e ricreativi, delle attrezzature per l’assistenza, dell’edilizia scolastica e industriale, degli edifici per lo spettacolo, per lo sport e per le attività terziarie, dell’intervento nei centri storici e del restauro. Si occupa di arredo urbano e di industrial design. Realizza più di trenta allestimenti di mostre d’arte antica e contemporanea in molte città e musei. Gli vengono assegnati i premi regionali In/Arch nel 1967 per le Scuole Elementari di Ponte di Piave (TV), nel 1969 per il Foro Boario di Padova e nel 1990 per la Casa per Anziani a Castelfranco Veneto. Riceve il Premio di Architettura città/territorio “Oderzo 1997”, prima edizione.

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Finito di stampare nel mese di ottobre 2017 per conto della casa editrice Il Poligrafo srl presso le Grafiche Callegaro di Peraga di Vigonza (Padova)




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