Indistinti confini, di Antonella Gallo

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UniversitĂ Iuav di Venezia Dipartimento di Culture del Progetto



Antonella Gallo

indistinti confini tra ricerca e progetto

ilpoligrafo


Dipartimento di Culture del Progetto

Pubblicazione realizzata con il contributo dell’Università Iuav di Venezia

Revisione editoriale e grafica Il Poligrafo casa editrice Alessandro Lise copyright © marzo 2018 Il Poligrafo casa editrice 35121 Padova via Cassan, 34 (piazza Eremitani) tel. 049 8360887 - fax 049 8360864 e-mail casaeditrice@poligrafo.it ISBN 978-88-9387-052-8

Crediti fotografici Le foto della mostra “Lina Bo Bardi Architetto” (Venezia, 2004) sono di Carlo e Umberto Ferro; le foto dei modelli e dell’allestimento “Gli Scaloni di Douma” sono di Umberto Ferro; le foto alle pp. 66-72 sono di Nelson Kon


Indice

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Presentazione Luciano Semerani I segni dell’antropizzazione SPAZI APERTI

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Una piazza

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Un parco urbano

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Un parco rustico SPAZI DELLA NARRAZIONE

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Lina Bo Bardi. Venezia - San Paolo

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Gli Scaloni di Douma SPAZI CHIUSI

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Casa


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Indistinti confini

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Presentazione Luciano Semerani

Il lavoro documentato nelle pagine di questo libro può contribuire a una diversa conoscenza e a una specifica interpretazione del ruolo che due concetti – la morfologia e la topologia – possono svolgere nel procedimento progettuale. La presunzione non è certamente quella di costruire un capitolo di una “teoria dell’architettura” e men che meno di fornire un itinerario didattico nel quale queste due categorie, la morfologia e la topologia, costituiscano le basi di un metodo ad uso e consumo dello studente-architetto. Si tratta piuttosto di appunti estratti da una sorta di giornale di bordo, o meglio di un registro di cantiere, che riportano all’esperienza di un viaggio. Le opere che vengono qui pubblicate hanno in comune un aspetto: l’accentuazione, tra le diverse e tante proprietà intrinseche al fenomeno architettonico, delle proprietà spaziali che il luogo assume attraverso il progetto. Un vuoto residuale usato come mercato settimanale di paese, un parcheggio abbandonato, una boscaglia, l’atrio di un palazzo barocco, un’aula ricavata in un vecchio cotonificio, uno schema abitativo decontestualizzato assumono, ciascuno, una nuova identità mediante una rifondazione della natura dei confini interni ed esterni dello spazio aperto, del ritmo interno e del suo valore simbolico nella narrazione spaziale, dei dispositivi geometrici e ancora simbolici della casa dell’uomo. Si può dedurre che, attraverso la morfologia – che non è solo conoscenza delle forme ma uso delle relazioni che danno vita alle diverse forme –, e la topologia – che è la scoperta delle anomalie possibili tra gli oggetti nello spazio –, il linguaggio dell’architettura sia capace di trasformare “i non-luoghi” in “luoghi”, e che questo sia l’aspetto principale del mestiere dell’architetto. L’antropizzazione dell’ambiente che diventa “luogo” non è solo dettata dai bisogni e dall’organizzazione della vita ma diventa “rito propiziatorio”. Il “saper fare”, di cui Antonella ha scritto in altra sede, coincide spesso, come nell’architettura delle origini, con un’azione manuale che è padronanza dell’arte in tanto e in quanto è padronanza del corpo. Come nel canto, o nella danza, e a teatro. I segni nei quali si materializza tanto il disegno del progetto quanto la realizzazione dell’opera hanno un significato che ricollega l’hic et nunc all’indefinito tempo del “sempre”. L’appoggiare e il deporre delle lastre di pietra sopra l’erba di un prato o intorno a un albero anche striminzito sollecita ad una riflessione sul peso, la grandezza e lo spessore del marmo, il che è tutt’uno con il passaggio della forma dal regno astratto della geometria e della fisica a quello metafisico e a volte surrealista della figurazione. Morfologia e topologia portano, insomma, l’esperienza oltre la soglia della conoscenza oggettiva del reale verso il mondo delle immagini, dei riflessi, delle percezioni apparenti, infine all’immaginazione.

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I segni dell’antropizzazione

Anche se risale a quasi un secolo fa l’unificazione, da parte della fisica teorica, in un solo concetto, delle due categorie anticamente distinte dello spazio e del tempo, anche se l’intuizione di Sigfried Giedion di attribuire all’influsso di tale unificazione la rivoluzione spaziale dell’arte moderna pare oggi a molti frettolosa e superficiale, non si può non partire proprio dalle riflessioni di Giedion per cercare di capire il complesso delle implicazioni proprie del progetto di architettura in quanto veicolo dei segni dell’antropizzazione dello spazio. Il progetto di uno spazio abitato, sia esso una casa o una campagna o una città, è, ad un tempo, progetto di uno strumento e progetto di un teatro per le azioni dell’uomo. Volta a volta ricorriamo ai diversi termini – spazio-vuoto-luogo – per sottolineare le diverse accezioni, di carattere pratico o di carattere simbolico, che l’oggetto del progetto può assumere. Nella teoria del movimento moderno il tema della spazialità copre un ruolo centrale. Alla negazione della strada come elemento d’ordine nella costruzione della forma urbana, si accompagna l’idea di una nuova spazialità nella quale i corpi di fabbrica, arretrando rispetto al limite stabilito dalle vie di traffico, sono liberi di spingersi nello spazio aperto, nel verde e assumere attraverso la promenade architetural, un carattere topologico. Sigfried Giedion mostra, in Spazio Tempo Architettura1 come la sedimentazione della nozione di spazio-tempo ponga la promenade architetural come elemento centrale nella modalità di composizione modernista. Giedion travasa dalla fisica all’architettura questa nuova concezione rivoluzionaria spaziotemporale, cercando di dimostrare come lo spazio sviluppato dalle avanguardie moderniste sia concepito avendo come riferimento l’uomo in movimento, e non più a partire da un concetto di spazio come entità statica e assoluta. Nella città moderna, quella che si esprime attraverso piani urbani a grande scala, tecnici, razionali ed efficienti, di portata metropolitana, lo spazio aperto è la componente essenziale. È grazie a questo componente, il vuoto, che è possibile pensare a una città ricca di aria, natura e luce. Si tratta però di una natura ricondotta a suolo verde indifferenziato, non molto distante, a ben vedere, dal punto di vista formale, dal deserto. La Ville Radieuse o la Ville Verte di Le Corbusier, o la Großstadt di Hilberseimer incorporano lo spazio libero nel loro ordine, ma in modo astratto, come luogo idealizzato e come “sfondo” dell’edificio (o come supporto per la circolazione). Sebbene attraverso questi modelli si palesi un’idea di organizzazione dello spazio abitato diversa dalla conformazione spaziale della città storica, basata su insediamenti e strade, in nessuna delle due concezioni emerge il carattere dello spazio libero come vero e proprio elemento strutturante. Città, forma della città e architettura coincidono. Il Moderno ha avuto un ruolo importante nella storia dei vuoti urbani, però questa storia è molto più antica. Le immagini rinascimentali delle città ideali mostrano strade vuote e rettilinee, piazze immense e deserte dove non c’è anima viva. Questa Città, in quanto ideale, è l’espressione della perfezione, e, in quanto 10


tale, deserta, senza la presenza del popolo, senza la presenza della vita. Uno spazio euclideo, astratto e logico, opposto allo spazio sensibile, fisiologico e antropologico. Non sono pochi gli autori che ci insegnano a vedere nei segni depositati in uno spazio antropizzato un aspetto particolare, che fa intuire al progettista la ricchezza e la complessità del possibile approccio. Ernst Cassirer, interessato com’è alla dimensione simbolica dell’architettura, rileva che «lo spazio della percezione, lo spazio tattile e visivo, lontano dal coincidere con lo spazio della pura matematica, è separato da questo ultimo da una divergenza generale. Non si possono leggere le determinazioni di queste ultime in quelle del primo, né si possono dedurre dal pensiero: è necessario soprattutto modificare radicalmente il modo di vedere ed eliminare ciò che appare immediatamente dato nell’intuizione sensibile per arrivare allo “spazio logico” della matematica pura. Un confronto tra lo spazio “fisiologico” e lo spazio “metrico” su cui la geometria euclidea basa le sue costruzioni evidenzia queste relazioni di opposizione»2. Lo spazio costruito dalla prospettiva insomma non è concepito come l’ambiente che circonda il corpo solido; tra corpo e spazio si stabilisce una relazione di distanza. Nella prospettiva lo spazio è considerato come un’estensione astratta, all’interno della quale le figure sono poste secondo le regole dettate da questo tipo di spazio. Questo è ciò che si vede nelle immagini elaborate secondo le regole prospettiche che rappresentano le città ideali del Rinascimento. Una relazione tra spazio e materia molto diversa dall’architettura della città medievale. Se si confrontano le rappresentazioni delle città rinascimentali con quelle delle città medievali, le tavole di Urbino e il Lorenzetti per esempio, le differenze sono notevoli. Nel primo caso, le città rappresentate non sono reali, e sono composte da una architettura circondata da spazi vuoti, in totale assenza di attività umane. Nel secondo, al contrario, sono rappresentate le città reali e lo spazio pubblico come luogo antropologico, complesso, architettonicamente e socialmente occupato dalla presenza della vita. Le critiche alle città ideali di Le Corbusier e degli altri modernisti, già presenti nell’ultimo CIAM, ma che prendono corpo negli anni Sessanta, vedono la Ville Radieuse come una proposta contro la città, un mito, che, proprio come le città ideali del Rinascimento europeo, esprime il ripudio della città del Medioevo, sporca e disordinata. Le proposte urbane introdotte dalla modernità non sembrano mai riferirsi alla città concreta su cui intervengono. Nel suo libro Gli occhi della pelle. L’architettura e i sensi, Juhani Palasmaa ci ricorda che «il paradigma visivo è la condizione prevalente nella pianificazione urbana, dalle planimetrie delle città idealizzate del Rinascimento ai principi funzionalisti della zonizzazione e della progettazione che riflettono una sorta di “igienismo ottico”»3. L’assenza di eclettismo stilistico contrasta con l’architettura della città reale, che viene negata dalla città ideale moderna, sempre progettata come un unico grande edificio.

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Piazza Mercato, Villanova di Camposampiero, 2005 Planimetria progetto realizzato nella pagina di sinistra Parco Metropolitano del Nord-Est, vista del modello a scala territoriale, con l’individuazione delle figure e dei caposaldi (i fiumi, le quadre, le ville, i filari, i boschi, i campanili)

Questa concezione dinamica e ritmica di uno spazio che, in quanto invaso, viene integralmente riconfermato nelle dimensioni mandate a memoria dai cittadini, porta a una punteggiatura di apparecchi illuminanti su asta che hanno la funzione di integrare l’illuminazione con globi pendenti prevista entro portici. Negli otto anni intercorsi tra il concorso e l’appalto, con il drastico ridimensionamento dell’ambito di intervento imposto dall’amministrazione, il progetto necessita di essere ulteriormente precisato. Restano tuttavia confermate molte delle scelte che innervavano la strategia del progetto di concorso: la ricostruzione dei fronti est e ovest, divenuti intanto oggetto di uno specifico piano di recupero; la pavimentazione decorativa in asfalto nero incisa dal tracciato antiprospettico delle ricorrenze in pietra d’Istria; la realizzazione della strada carrabile a senso unico lungo il lato est; l’apparato del sistema di illuminazione. Nuove esigenze nel frattempo emerse – come la ridefinizione della zona antistante il volume della posta con una pavimentazione opportuna per la vendita ambulante del pesce e l’utilizzo di una parte della superficie della piazza a parcheggio, trovano soluzione. La volontà di risolvere in termini figurativi l’area parcheggio e la zona destinata al mercato ambulante del pesce è all’origine della figura matericamente e altimetricamente composita che qui incerniera le diverse funzioni, agganciandosi alla piazza: il semicerchio di ventiquattro metri di diametro in “pietra di Prun”, che individua lo spazio riservato al mercato del pesce; la sagoma seghettata in pietra bianca, alta cinquanta centimetri, che funge da seduta sul lato piazza e da barriera per la zona sosta sul lato rivolto al parcheggio; la strada carrabile lastricata, come il parcheggio, in basalto nero, la cui tessitura viene in alcuni punti interrotta dal prolungarsi delle ricorrenze in pietra bianca; gli intarsi in porfido che suddividono in corsie il parcheggio, protendendosi simili a fiamme verso il cardo. I diversi tipi di pavimentazione in pietra, previsti nel parcheggio, nella zona antistante la Posta, lungo la strada carrabile, oltre a rispondere all’esigenza di disporre di una pavimentazione resistente e di facile pulizia, hanno lo scopo di disincentivare una circolazione veloce in un luogo che privilegia una presenza pedonale. Da qui anche l’idea di marcare in modo più incisivo la differenza tra strada e piazza incavandola. La lunga fascia in pietra d’Istria, diventa – dopo lo scavo che ne abbassa la quota di circa quaranta centimetri rispetto al piano stradale – un compluvio che attraversa la piazza in diagonale, raccordando i due piani triangolari inclinati che ora formano la sua superficie. L’imposizione di un diverso valore materico a tre delle maglie della rete creata dall’incrocio dalle ricorrenze, fa affiorare in superficie una figura trapezoidale, che invade il manto di asfalto nero, completa il sistema d’articolazione spaziale costruito dagli elementi in pietra bianca e ha nel limite dentellato del parcheggio, nei blocchi monolitici delle panche, nella forza scultorea della fontana, nel compluvio delle acque gli elementi principali del disegno.

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Piazza Mercato a Villanova di Camposampiero, 2005, disegno di studio per l’intarsio in porfido che corre tra la pavimentazione in basalto nero dell’area parcheggio e l’emiciclo in pietra di prun del mercato del pesce, lato sud-est della piazza intarsi in marmo colorato e pavimentazione in asfalto sul lato est (dettaglio) nella pagina di sinistra pavimentazione dell’emiciclo in pietra di prun vista di dettaglio e casellario

nelle pagine precedenti casellario e disegno per la pavimentazione del lato sud-est della piazza: emiciclo in pietra di prun per il mercato del pesce, penne in porfido, lastre di basalto nero a correre per l’area parcheggio, rivestimento in marmo bianco di Verona per i blocchi triangolari in calcestruzzo di 45 cm di altezza che delimitano il parcheggio

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Un parco rustico

Il parco rustico del Palvico prende il nome da un torrente ed è nato in un bosco. Ormai la nozione consunta del welfare, oggetto delle attenzioni di dirigenti, sindacati, assessori, ministri, viene subito avanti quando si legge la parola parco. Ma il corso d’acqua che lambisce questo parco, dandogli nome e forma, prima di distendersi a valle, precipita qui dall’altipiano di Ledro attraverso un buco nella roccia, denominato “bus de la mort” – buco della morte –, dopo avere percorso gole profonde e burroni selvaggi. Un programma che spinge gli appassionati di canyoning, muniti di elmo giallo e tuta di gomma nera, ad infilare il loro corpo in un tunnel, il predetto “bus” o buco, per scivolare, trascinati dal fluido e dalla gravità, da una grandissima altezza fino a cadere in un catino d’acqua sottostante, non ampio ma sufficientemente profondo da rendere sicuro il tuffo. Lo specchio d’acqua è il punto d’arrivo per questi temerari che si calano imbracati lungo la roccia proprio seguendo il corso della cascata. Poi, lasciato l’anfiteatro roccioso, il Palvico scende a valle, rasserenato, tra boschi di abeti e di pini cresciuti sulle due rive. Una volta usciti dal pozzo e tolte le tute, i cultori del canyoning si mescolano a qualche bagnante, si distendono al sole, per confondersi con ciclisti, escursionisti e più tranquille famigliole in assetto da picnic. Siamo così entrati nello spirito del parco rustico del Palvico, in Comune di Storo, Trentino, un lembo di terra alberato, stretto tra montagna e torrente, attraversato da sentieri sterrati, che ogni tanto toccano l’argine non alto del corso d’acqua. Nasce da qui l’esigenza sentita dall’amministrazione comunale di attrezzare l’area con liberi outils da campo per il tempo libero e il ristoro (barbecues, panche e tavoli, sedute). Pochi e puntuali sono gli interventi previsti dal progetto che, nella sua essenza, interpreta l’arcipelago di boschi e boschetti disegnato da camminamenti e sentieri come un labirinto di masse verdi da ritmarsi attraverso emergenze in pietra, variazioni materiche e cromatiche delle superfici, utensili per il tempo libero e il ristoro. Gli utensili sono dei geometrici barbecues, panche e tavoli in larice sbiancato, sedute in pietra, presenze che, di volta in volta, senza nulla concedere al grazioso, ma anzi assecondando una certa durezza che contraddistingue questo luogo, traggono alimento dalle specificità offerte dal sito per radicarsi al suolo e contrappuntare il paesaggio. Disseminando dentro a quello che sin qui è stato percepito come una massa indistinta di conifere e arbusti tracce di natura diversa. Le tradizioni e la storia della Valle del Chiese narrano di eventi magici ed eresie, di processi per stregoneria ed episodi di violenza, oltre che del trionfale passaggio dei Lanzichecchi diretti al saccheggio di Roma. In qualche modo l’irrazionale e il demoniaco sono qui spesso riemersi nel costume e nelle maschere popolari. Il Parco Rustico perciò non è pensato come una favola, popolata da elfi, coboldi, fate e fauni. 40

Parco al torrente Palvico Storo (TN), 2010 Progetto: Antonella Gallo con Luciano Semerani (arredi in legno)

Il fuoco da campo (barbecue) in pietra di Lessinia


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Parco al torrente Palvico, Storo, 2010. Il grande Sole in pietra di Lessinia, dettaglio

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Più banalmente si è pensato che a dei convivi festivi fossero destinate le panche e i tavoli in larice sbiancato, mentre ai poeti e agli amanti fossero destinate le sette sedute monolitiche in pietra di Aurisina con vista fiume, lavorate a punta grezza sulle superfici verticali e bocciardate a mano sul piano di seduta. Dieci recinti cubici alti 80 cm, costruiti con pietrame, oltre ad accogliere e soprattutto occultare i bidoni per le immondizie, assolvono al compito principale di assegnare un ritmo al percorso, facendosi intravedere, simili a tumuli, tra le piante e lungo i sentieri. I barbecues, molto semplici, sono pensati come fuochi da campo. Due bassi muri costruiti a secco con blocchi di pietra sostengono la griglia di 1 × 1 m. Ogni muro si compone di undici conci di pietra di Lessinia chiara rullati in superficie, disposti su due corsi. Al primo corso, di 245 × 70 cm, complessivamente costituito da sette blocchi (70 × 35 × 25 cm), si sovrappone la tessitura del secondo costruita da due conci centrali di 50 × 51 × 30 cm delimitati da due di 45 × 36,5 × 25 cm. I conci centrali di entrambi i corsi sono stati opportunamente sagomati per offrire una sporgenza utile a sostenere la griglia. Tre obelischi, anch’essi in Aurisina e alti nove metri, sormontati da un capitello, la cui natura zoomorfa delle arietine volute qualcosa deve al surrealismo arcaico di matrice slava, insinuano ambiguamente memorie di antica provenienza, forse etrusca, forse retica. Un pretesto viene dal fatto che a nord del paese, sotto la parete dolomitica della Rocca Pagana, a quota 400 m sono stati trovati reperti di ceramiche con decorazione a spirale di una stazione retica del V sec. a.C. Dopo molte prove di ridisegno, schizzi e modelli in creta, è stato ciò che un abile scalpellino faceva progressivamente affiorare dalla polvere di calcare a indicare quale simulacro alla fine liberare del Fossile/ Ariete. Dei tre obelischi, uno – quello posto all’ingresso del parco – porta inciso lo stemma turrito del Comune. Lo affianca un’iscrizione lapidea lunga 2,6 m adagiata su un rilevato in terra destinato col tempo a essere sopraffatto dall’edera e dalla vite americana. Nell’insieme i tre obelischi realizzano una triangolazione e annunciano il grande Sole in pietra di Lessinia di 15 m di diametro, costruito da 67 grandi tessere, 67 lastre a spacco di cava di 11 cm di spessore, posate direttamente su un letto di sabbia e sagomate per comporre le venti sezioni di cerchio che, convergendo verso il polo di tre alberature isolate, disegnano un sole dall’irraggiamento irregolare e frammentario. Il grande Sole riconsegna alla natura, risignificandoli topologicamente, le tre alberature scampate all’opera di diradamento del bosco e il desolante vuoto che ne è derivato. Nato a ridosso del torrente per far posto alle manovre dei mezzi meccanici preposti allo scavo e alla manutenzione del corso d’acqua, poi dislocati altrove, ora, in questo lembo di terra che sino a qualche anno fa era un inospitale spiazzo di ghiaia, splende un primitivo sole di pietra e l’erba ricresciuta intorno ad esso e dalla terra che colma le larghe fughe interposte tra le sue pietre gli fa da cielo.

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Lina Bo Bardi Venezia - San Paolo

Nell’allestimento di un’esposizione c’è una scelta di fondo che bisogna fare tra due campi diversi della comunicazione i quali discendono da obiettivi diversi e conseguentemente usano mezzi diversi. Un progetto didascalico, che si propone di trasmettere una conoscenza analitica e razionale metterà ordine, avvalendosi di una linea di sviluppo cronologica e tipologica i documenti che la ricerca storica e/o scientifica considera, rispetto al tema espositivo, oggettivi e li presenterà, sul piano dell’allestimento, nella forma più neutra e precisa possibile. Un progetto di esposizione che sostiene una tesi, invece, non sarà solo la presentazione di fatti ma bensì la rappresentazione di un mondo, di un pensiero, di un clima, di un evento culturale o politico. Questo secondo tipo di comunicazione assegna ai mezzi dell’architettura dello spazio – al ritmo, ai simboli, ai segni, ai materiali, alle analogie e a tutte le altre risorse della retorica, e non ultimo al vuoto e al silenzio – un ruolo narrativo, complementare ma non competitivo con quello dei materiali esposti. Quando a Ca’ Pesaro, in concomitanza con la Mostra di architettura della Biennale di Venezia, abbiamo avuto la possibilità di esporre i risultati di un ampio lavoro di ricerca sulla figura di Lina Bo Bardi, non abbiamo avuto dubbi su quale fosse il campo da battere come filosofia e come tecnica dell’allestimento. Lina Bo Bardi, con il suo stesso modo di mostrare la civiltà afro-brasiliana, con i suoi scritti, per i principi museografici teorizzati assieme al marito Pietro Maria Bardi e applicati nella realizzazione del Museo d’arte di San Paolo e nelle sue molte mostre imponeva un dialogo, anzi una conversazione a tre, forse un contrasto, tra l’interno prezioso del salone d’ingresso del palazzo veneziano, i disegni e i modelli delle architetture in mostra, e un’infrastruttura espositiva espansa nello spazio, analoga a un sistema nervoso, o arterioso, o linfatico capace di irrorare di motivazioni accidentali l’eterogeneità delle tracce di una vita e di un’artisticità antiaccademica. Il ruolo formativo che è intrinseco al gesto di comunicare attraverso una mostra era chiaro a Lina; così come le era chiaro che l’efficacia di questa forma di comunicazione si lega a doppio filo al grado di coinvolgimento che è in grado di provocare l’allestimento. Dal progetto di civiltà che mette in mostra la sua personale scoperta del potenziale della cultura popolare brasiliana alla “rivoluzione museografica” del Museo d’arte di San Paolo, sino alle esposizioni allestite al SESC-Pompéia sul design e sulla cultura del quotidiano, le mostre portano al pubblico il suo sforzo di presentare una visione penetrante nella realtà dei fatti, nell’universalità delle cose e dei fenomeni esposti, nelle conquiste delle arti e nelle soluzioni tecniche collettive. Ma lo fanno in modo ludico e poetico. L’interazione con l’osservatore per Lina si dà in termini di esperienza, da promuovere sollecitando l’interesse di chi guarda e stimolando la sua curiosità. Va ricordato che la grande conoscenza delle arti dello spettacolo, unita a un estremo rigore tecnico, servono da base per gli allestimenti delle sue mostre. La necessità di un impatto forte sul pubblico, l’immediatezza degli slogan, la regia di un movimento di massa dentro a uno spazio liquido cadenzato da corpi sospesi, piani inclinati, vengono dal teatro d’avanguardia. 56

Mostra “Lina Bo Bardi Architetto / Lina Bo Bardi arquiteto” 9 Biennale Internazionale di Architettura, Ca’ Pesaro, Venezia 2004; MASP, Museo de Arte, São Paulo, 2006 Cura e progetto di allestimento: Luciano Semerani, Antonella Gallo, Giovanni Marras Realizzazione apparati scenici: Filippo Mastinu

Le “marionette meticce” in compensato dipinto, alte 4 m, che nella mostra introducono il tema de “La maschera”. Riproduzione fuoriscala di quelle realizzate da Lina Bo Bardi per l’allestimento “Mil brinquedos para a criança brasileira”, SESC-Pompéia, 1982



Mostra “Lina Bo Bardi Architetto”, Venezia, 2004 Cavalletti espositivi realizzati per l’allestimento, i prototipi originali delle sedute della Bo Bardi e in fondo la Grande Vaca Mecânica ricostruita a Venezia nella pagina di destra Grande Vaca Mecânica e Le Polochon, il maiale con due sederi disegnato dalla Bo Bardi per la messa in scena di Ubu - Folias Physicas, Pataphysicas e Musicaes di Alfred Jarry, regia di Cáca Rosset, São Paulo, 1985

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Le mostre di Lina Bo Bardi hanno inoltre a loro volta ereditato una tradizione espositiva, influenzata dalla funzione propagandistica che le esposizioni, l’architettura, la grafica hanno avuto negli anni ’20 e ’30 con il futurismo e il costruttivismo. Da Persico a Terragni, dai BBPR ad Albini la pratica di un’architettura interiore che sviluppa la sua narrazione spaziale più con la figuratività, il fuori scala, la citazione che non con l’apparato letterario, riprendendo dal cinema la tecnica del montaggio e dalla pittura la stratificazione delle velature, tutto questo ci veniva incontro incontrando la Bo Bardi. L’alto salone, che attraversa tutto il piano terreno, e va dalla Corte interna del Pozzo al Canal Grande, con le sue pareti di pietra e il suo soffitto di legno costituisce, come accade spesso a Venezia, un ossimoro tra un massimo di internalità – uno scrigno – e un esterno urbano – una strada. Lungo due cornici, sulle due pareti laterali, vigilano su questo luogo interno/esterno, i busti di tutti gli antichi padroni di casa. Qui, per noi, come nel MASP niente cronologie, niente tipologia. Solo topologia e affinità elettive. Contestualizzando il suo lavoro, le due mostre rileggono l’opera architettonica di Lina Bo Bardi senza dimenticarne l’opera grafica, i progetti realizzati per il teatro come scenografa e costumista, il design di mobili e gioielli, la sua inesauribile creatività in tutte le arti. L’impianto generale segue una tematica: dei titoli brevi ripresi dai manifesti, dalle provocazioni contenute negli scritti o dai titoli delle sue mostre – come “Il diritto al brutto”, “La mano del popolo brasiliano” – segnalati da 9 stendardi scendono dal soffitto individuando a terra delle isole di materiali, dei “fuochi” che disordinatamente, o meglio secondo affinità elettive, a volte di senso, a volte di forma, raggruppano caso per caso ora oggetti e disegni, ora si riducono a una singola ricostruzione di un momento. I titoli annunciati dagli stendardi trovano in aria un contrappunto rafforzativo nei pannelli in laminato stampato che pendono dal soffitto ad altezze variabili e riproducono, ingigantendoli, disegni, copertine di riviste o quadri realizzati da Lina. Entrambi, stendardi e laminati, hanno anche un’altra funzione, quella di abbassare percettivamente l’enorme altezza della sala e portare in secondo piano la pesantezza della travatura del soffitto. Le isole o fuochi non costruiscono un percorso obbligato. Di fatto la mostra non ha un inizio e una fine, permettendo al visitatore una visione completa ed esaustiva della “scena”, prima dell’approccio libero a un tema o dettaglio. Riprendendo la formula della prima sistemazione del MASP, e riprendendo anche negli accostamenti e nella topologia della dispositio, la bobardiana abolizione delle distinzioni di tempo, genere e scuola così care alla museografia accademica, i disegni delle opere, che riguardano essenzialmente il momento creativo dell’architetto, l’inizio del procedimento progettuale, sono esposti dentro a doppi vetri di sicurezza trattenuti da una base cubica opportunamente provvista di fessura sulla sommità. Un rimando ai caval59






Gli Scaloni di Douma

È segno di civiltà fermarsi davanti alla Fine, e riflettere conseguentemente sulle forme che l’architettura può assumere nella restituzione dei corpi al suolo. Con tutto quello che si può dire di teologico, teleologico ed estetico. All’inizio ci sono sempre delle istanze che vengono poste da una porzione più o meno grande dell’umanità, che ne attende una forma rappresentativa. Qui “l’inizio” coincide con “la fine”, nel senso che “il tema da interpretare è la Morte”. La “Morte” che più difficilmente riusciamo ad accettare è “il massacro di massa”, “l’infinito numero di morti” di una lunga guerra. L’atto più immediato, il solo possibile per i superstiti inermi è “la sepoltura dei morti”. L’architettura, a prima vista, ritorna al suo “grado zero”, perché il tema non è ancora “il monumento”, e anche “i segni” dei rituali funerari appartengono a tempi o luoghi che non sono quelli del “massacro di massa”. La “ricostruzione” avviene sulle ceneri della città distrutta, parte dalla “presa di coscienza della dimensione antropologica del tema della sepoltura”. Alle “ croci latine”, simbolo di un’identità altra, alle “impronte” della Valle delle Tombe di Palmira, resti di una civiltà arcaica, si contrappongono oggi in Siria le “tombe ipogee multipiani di Douma”. Omar Youssef Souleimane ci dice da Parigi: «Se la densità abitativa fa aumentare in altezza gli edifici, la densità della morte porta a costruire in profondità. È così che i cittadini di Douma ora costruiscono i loro nuovi cimiteri. La morte ha prodotto delle proprie forme d’arte in questa guerra, come le tombe di massa che la gente, in questo sobborgo agricolo di Damasco che è Douma, si è dovuta inventare per dare sepoltura alle migliaia di morti avuti in seguito ai raid aerei. Oltre 6.000 vittime solo nel 2015. Un numero sufficiente a distruggere tutti i terreni agricoli da cui dipende interamente la sopravvivenza alimentare della popolazione. Ecco perché le persone di Douma hanno dovuto economizzare sugli spazi di sepoltura. Da qui la decisione del Consiglio locale di scavare fosse profonde 4 metri entro le quali, a mezzo di una doppia rampa inclinata, si raggiunge una sequenza di celle funerarie sovrapposte in altezza, costruite a gradoni. Può sembrare, in un primo momento, che sia una cosa semplice ma in realtà la costruzione di questo tipo di tombe richiede una grande precisione, poiché ogni errore nella sovrapposizione dei piani orizzontali e verticali può causare uno sprofondamento. La livellazione del piano ascendente verso la superficie viene controllata con misurazioni precise. Sei gradonate speculari modellano la sezione rettangolare dello scavo in profondità. Ciascuna di loro funge da basamento per la realizzazione di un sistema di cellule sepolcrali, costruite per livelli sovrapposti. Questa invenzione avviata a Douma si è rapidamente diffusa in altre città dei distretti di Damasco. Va ricordato, in fatto di economia del suolo, quello che la gente di Homs ha fatto dal 2011, trasformando i parchi giochi in cimiteri. Potrebbe essere utile ricordare che alcuni di quei parchi erano già stati, in origine, cimiteri, come Bab Houd Park ad esempio, o Damascus Road Park. Alcune tombe sono senza nome, 74

The Echelons of Douma Progetto di allestimento, workshop W.A.Ve SYRIA “The Making of the Future”, IUAV 2017. Docente: Antonella Gallo Tutors: Laura Scala, Andrea Pastrello, Nicola Revolti. Studenti: Maria Sole Bruno, Giada Colussi, Giuliano Corò, Francesco Da Ros, Sofia de Stauber, Stefania Filippi, Luca Granzotto, Filippo Lazzer, Nicola Rigo, Nicoletta Ros, Mauro Serafin, Riccardo Vignoto, David Zulianello

Vista dell’allestimento





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Casa, 2011, unitĂ duplex Articolazione spaziale e orditura cruciforme delle travi, piano terra e primo piano, viste zenitali del modello

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Finito di stampare nel mese di marzo 2018 per conto della casa editrice Il Poligrafo srl presso le Grafiche Dipro di Roncade (Treviso)




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