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Armando Morbiato
L’INCANTO DEL VIAGGIATORE Diari (1957-1967) e ricordi di un emigrante
a cura di Luciano Morbiato prefazione di Francesco Vallerani
ILPOLIGRAFO
progetto grafico e redazione Il Poligrafo casa editrice redazione Alessandro Lise Copyright © giugno 2020 Il Poligrafo casa editrice srl 35121 Padova piazza Eremitani – via Cassan, 34 tel. 049 8360887 – fax 049 8360864 e-mail casaeditrice@poligrafo.it ISBN 978-88-9387-123-5
INDICE
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«Il mondo là fuori mi sta aspettando». Dall’altrove sognato alle geografie della memoria Francesco Vallerani
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Premessa Luciano Morbiato
L’INCANTO DEL VIAGGIATORE
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origini dell’irrequietezza
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una visione del mondo
L’invito al viaggio
In Australia (1957-1961) Un lungo viaggio di ritorno (giugno-ottobre 1961) Germania e Svizzera (1962-1964) Da Padova a Capetown (1964-1965) Lavorare in Sudafrica (1965-1966) L’America (1966-1967)
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intermezzo
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ripeness is all
Vita con Emerenziana (1968-1982)
La fine dei viaggi
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appendice lettere familiari
Gennaio 1955 - settembre 1956 Ottobre 1957 - giugno 1961 Luglio-novembre 1961 Giugno 1962 - settembre 1964 Dicembre 1964 - marzo 1965 Aprile 1965 - aprile 1966 Agosto 1966 - giugno 1967 Novembre 1976
«IL MONDO LÀ FUORI MI STA ASPETTANDO». DALL’ALTROVE SOGNATO ALLE GEOGRAFIE DELLA MEMORIA Francesco Vallerani
A un certo momento della vita l’orizzonte quotidiano può non bastare. Non esiste una regola certa per definire l’irrequieta forza creatrice che spinge a desiderare l’altrove. La consuetudine con i luoghi delle proprie radici è un vincolo dinamico, che evolve, si trasforma. Può indebolirsi in base a vicende soggettive o per eventi esterni rispetto al divenire delle singole esistenze. Il muoversi da un luogo all’altro è l’essenza ancestrale degli esseri viventi dislocati nelle molteplici tipologie di biosfera e litosfera. Il senso più profondo della mobilità è un tutt’uno con le procedure della conoscenza, dell’accumulo di esperienze necessarie non solo alla semplice sopravvivenza, ma anche alle componenti più complesse della soggettività in rapporto alle strutture sociali. Mobilità, orizzonti e luoghi sono l’abecedario per definire una cartografia di base, la prima pagina di quell’atlante esistenziale che ogni individuo inizia fin dalla più tenera età a costruire per cogliere la sua posizione nel mondo. Si tratta di fogli tematici, ben definiti e catalogabili, che compongono quel patrimonio di mappe mentali necessario per orientarci durante il viaggio della vita e che non sempre utilizziamo al meglio. Ogni breve spostamento dalla residenza abituale che non sia legato ai modi e ai tempi della consuetudine quotidiana, presenta già il nucleo fondativo dell’erranza, dello spostarsi per curiosità, della coscienza del muoversi che allontana dagli scenari abituali. Oggi più che mai appare evidente lo stretto legame tra le varie tipologie di mobilità vicinali e le più memorabili esperienze che trasgrediscono (in senso letterale) i confini della territorialità dome-
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stica. Basti considerare il camminare e la pratica della passeggiata, specie quando inizia dopo aver chiuso dietro di sé la porta di casa. Una ormai secolare tradizione letteraria, e soprattutto una più recente trattazione saggistica, elogia e approfondisce i significati dell’andare a piedi, come ancestrale modalità di viaggio. Fin dai ricordi del consueto incipit delle fiabe dell’infanzia, in cui la dinamica narrativa si appoggiava al ripetitivo “…e cammina cammina”, appariva evidente che lo sviluppo dei fatti necessita di mobilità, di repentini mutamenti di scenari, del meraviglioso e dell’imprevisto. Al di là del valore condiviso del camminare, certamente accentuato dal suo indiscusso carattere di eticità in un mondo dove qualunque atto umano produce impatti disdicevoli e dannosi, tale pratica itinerante va vista come il più semplice e immediato esercizio per sviluppare l’innata attitudine a capire e misurare lo spazio vissuto. È l’andare a piedi che consente il definirsi della mente del viaggiatore. Ma serve anche a codificare le geografie ufficiali, espressione di un ordine sociale, con le successive evoluzioni tecniche e le sempre più raffinate restituzioni grafiche. Non a caso le antiche misurazioni delle distanze si calcolavano in piedi, passi e pertiche; con quest’ultimo termine si intendeva lo strumento usato dagli agrimensori, personaggi itineranti che percorrevano a piedi i territori e i paesaggi di regni, ducati e contee fin dall’inizio dell’età moderna. La mente del viaggiatore si forma passando dalla propria casa alla borgata e poi con i successivi ampliamenti della conoscenza di altri luoghi, con altri nomi, altri campanili e con la consapevolezza di essere andati ancora più lontano quando cambiano i dialetti, i nomi degli oggetti, i cibi. Ecco che si capisce il ruolo di demarcazione di un fiume, specie se con alveo largo e quindi scarso di ponti, o di una vallata rispetto alla presenza di un valico poco agevole. Ma spostarsi prevede anche una rigorosa sequenza esistenziale, riconducibile al susseguirsi dei riti di passaggio. È ovvio che ci si sta riferendo a situazioni geoculturali già ampiamente mutate a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso. Ho deciso di soffermarmi su queste prime osservazioni con l’obiettivo formale di introdurre il lettore al resoconto della lunga
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stagione di viaggi e di esperienze vissute da Albino (Armando) Morbiato, preziosa documentazione stilata con buona regolarità nel decennio che va dal 1957 al 1967. Si tratta di un caso emblematico di ciò che Pierre Michon ha definito “vite minuscole”, termine che non implica alcuna valutazione spregiativa, ma che, al contrario, cerca di evidenziare l’accezione di patrimonio esistenziale circoscritto all’unicità delle relazioni familiari, sociali e territoriali di ogni individuo. Sovviene anche l’affascinante concetto di “microcosmo”, così brillantemente trattato da Claudio Magris in un suo testo di qualche anno fa. In realtà è l’eterno e infinito filone delle scritture memoriali, in questo caso declinato sul tema altrettanto diffuso e attraente dei racconti di viaggio. A volte emerge in ognuno di noi quello stimolo a salvare dall’oblio non solo le proprie vicende passate, ma anche quelle dei familiari e parenti più cari, e in particolare a seguito del loro decesso, spesso definito con triste eleganza “l’ultimo viaggio”. La differenza tra le biografie di personaggi famosi e la pratica dell’autobiografia come omaggio alla smisurata abbondanza dei micromondi individuali non è solo una questione di scala, di proporzioni. Il ritrovamento di vecchie fotografie, le lettere ingiallite ricevute durante il servizio militare, i ricettari di cucina con l’obsoleta calligrafia della nonna, le svariate tipologie di documenti relativi alle ordinarie vicende di ogni giorno, l’atto di compravendita della casa, i disegni e i quaderni delle scuole elementari, tutto ciò costituisce il materiale più comune che ci lega al passato, che ravviva memorie e tenerezze di un mondo ristretto. Tale specificità si snoda, però, attraverso percorsi esistenziali replicabili, collocati all’interno di un comune contesto storico, economico e culturale riconducibile al dibattersi quotidiano della società contemporanea. I testi di Albino Morbiato emergono dal limbo della creatività individuale grazie all’interessamento del fratello Luciano, da sempre attento esploratore di storie popolari e di narrazioni letterarie. La mia posizione di geografo accademico si sovrappone al profondo sentimento di amicizia che mi lega ai due fratelli, ma anche di condivisione di interessi e in buona parte di una simpatetica visione della vita. Da qualche anno si parlava sempre più spesso di
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questo materiale manoscritto, conservato con cura da Albino, come di una opportunità inespressa per riportare alla luce un frammento di vita vissuta. Nulla di nuovo, ovviamente, rispetto a quanto già si pratica a partire dal 1984 presso l’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano, sull’Appennino tosco-emiliano, dove sono raccolti scritti di gente comune in cui si riflette, in varie forme, la vita di tutti e, per certi aspetti, lo sfondo più autentico su cui si proietta la storia d’Italia. A tutt’oggi si tratta di un patrimonio di oltre ottomila tra diari, epistolari, memorie autobiografiche, che sono stati versati sia dagli stessi autori che dagli eredi di chi, deceduto, probabilmente non avrebbe mai pensato di affidare alla perennità di una istituzione archivistica i fogli, le lettere o i taccuini su cui sono stati fissati momenti di vita e memorie di eventi. L’Archivio Diaristico può ritenersi senza dubbio il corrispettivo popolare e naif del più aulico corpus degli autografi di scrittori e poeti conservati presso il Centro Manoscritti dell’Università di Pavia, dedicato ai protagonisti della letteratura italiana moderna e contemporanea. Al di là di queste annotazioni di margine, non ho avuto il piacere di accedere ai documenti originali, toccare con mano la materialità della carta, modesto supporto che ha accolto la grafia di chi vi ha scritto in contesti e situazioni rievocabili solo con il fervore di una vivida e empatica immaginazione. Al solo pensiero che si tratti di fogli e pagine che hanno viaggiato per migliaia di chilometri, accompagnando l’autore da un emisfero all’altro, prezioso supporto cartaceo a cui affidare confidenze e dettagli da ricordare, emozioni e sensazioni, mi lascio andare al fascino degli oggetti che accompagnano le nostre esistenze. Tutti noi conserviamo oggetti, accudendoli con rispetto, specie se evocanti persone care o momenti importanti della nostra esistenza. Ma la carta scritta? Qui si va ben oltre la semplice attitudine di rigattiere dell’anima, di magazziniere dell’oggettistica familiare che si conserva e tramanda in quanto continua a esistere anche dopo la caducità della vita umana. Il manoscritto trasmette informazioni, può essere letto anche da estranei, possiede un’eloquenza che l’oggetto perde una volta estinto il suo possessore. Se poi le parole scritte passano dalla materialità dei fogli che hanno
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accolto l’inchiostro dell’autore a quella della carta stampata, ecco che il processo si conclude, producendo l’oggetto libro che è il salvataggio definitivo del patrimonio di memorie. Dal villaggio al mondo: oltre la catena delle radici Come di solito avviene, ogni storia di viaggi ha inizio da un punto di partenza, dal luogo di nascita o di abituale residenza del protagonista. Questo dettaglio informativo serve a garantire non solo coerenza narrativa, ma anche ad accentuare la singolarità della scelta di vita che ha fatto del luogo natio non tanto una rassicurante nicchia entro cui rinchiudersi, ma una vera e propria rampa di lancio verso il fascino delle più lontane geografie. Negli anni Trenta del secolo scorso, Camin, dove Albino è nato, era un modesto villaggio di crocevia, collocato nelle ancora ben coltivate campagne che lambivano il margine sud orientale della periferia di Padova. La prevalenza dell’attività agricola era già in declino tra le due guerre, tanto da presentarsi in quei paraggi diverse opportunità per impieghi artigianali, in parte anticipatori di ciò che a partire dagli anni Sessanta trasformerà la porzione di campagne tra il Naviglio del Brenta e il canale di San Gregorio in una delle zone industriali più estese d’Italia. Guardando oggi il sito di Camin, attraverso la proiezione satellitare, si resta impressionati dallo spaventoso accerchiamento dell’alluvione cementizia fatta di magazzini, piazzali per la logistica, impianti produttivi, strade e ferrovie. Senza dubbio chi nasce nella Camin di oggi non può che sviluppare l’istinto del viaggiatore, vuoi per curiosità di conoscenza, ma soprattutto per desiderio di fuga. Ma questa è un’altra storia. Non si evince, infatti, dal testo di Albino alcun accenno di negatività nei confronti del piccolo villaggio. Infatti la “grande trasformazione” si verifica proprio negli anni della sua erranza d’oltreoceano. Dai colloqui con il fratello Luciano, riportati in prima persona nelle pagine iniziali del resoconto, si evidenzia invece il ruolo strategico della parrocchia e del patronato di Camin nel favorire l’iniziazione al viaggio. Le gite in montagna o i pellegrinaggi verso qualche santuario avevano il sopravvento rispetto ad altre destinazioni, in particola-
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re le spiagge o i centri storici. Cambiare scenario, allontanarsi dallo spazio vissuto anche per un solo giorno è l’avvio dell’apprendistato alla complessità del mondo. L’eredità ancestrale che riconduce ogni essere umano ad antiche viandanze non emerge allo stesso modo nei singoli individui. C’è infatti il potere del radicamento ai luoghi che svolge la funzione di antidoto alle smanie del viaggio, che può avere molteplici aspetti: la famiglia, le consuetudini, un amore, un buon lavoro, la paura delle critiche dei paesani. È l’eterna dicotomia tra oppressione e sicurezza che connota l’esistenza nelle piccole comunità. Forse Camin non poteva certo definirsi il villaggio di opprimente chiusura entro gli orizzonti noti, se non altro per la sua vicinanza con Padova, anche perché le vicende belliche, la mobilità dei militari e di chi migrava avevano offerto traumatiche opportunità di aprirsi al mondo. Come spesso accadeva nei paesi del Veneto contadino, quando la rete dei corsi d’acqua, dal piccolo fosso al fiume, era ancora vivificata da portate consistenti, ricche di pesci e poco inquinate dai reflui della chimica agraria, l’andare al fiume significava prendere le misure del proprio mondo. E le acque di Camin, sia il canale di San Gregorio che il Naviglio, facevano parte degli itinerari dei viaggi commerciali tra il porto di Venezia e le banchine fluviali dell’entroterra. Come i binari della ferrovia, i canali navigabili lasciavano sognare di lontane destinazioni. Vi sono segni anche nei luoghi apparentemente più soffocanti che, a saperli leggere e interpretare, sono in grado di stimolare la curiosità del viaggiatore. Basta il racconto di un emigrante che torna per pochi giorni, qualche lettura di libri di avventure, ma anche la stessa visione dalla sommità dell’argine del canale di San Gregorio verso il profilo lontano delle montagne a infiammare l’indicibile emozione di sentirsi pronti a spiccare il volo. Anch’io vivo in un piccolo villaggio rurale e recuperando molti dei racconti ascoltati dai pochi paesani che riesco a frequentare, è opinione comune che una delle rare opportunità di lasciare il proprio microcosmo è l’esperienza del servizio militare. Per Albino, invece, quel primo temporaneo sradicamento dalle case, dalla chiesa e dalla bottega del paese è stato il necessario antefatto per saggiare le proprie attitudini e propensioni al grande cambio esistenziale.
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La seduzione delle radici, cosi efficace nel trattenere la maggior parte dei suoi coetanei, non riusciva a scalfire la solidità della sua innata propensione a partire, a lasciare tutto e tutti. Tale stato d’animo al giorno d’oggi, nel bel mezzo del proliferare delle cosiddette “generazioni Erasmus”, sarebbe tutt’altro che insolito; alla metà degli anni Cinquanta non poteva invece che considerarsi un bizzarro colpo di testa, l’anomalia comportamentale di un giovane recalcitrante e insofferente del grigio buon senso di chi ha paura delle novità. Un atlante della mente Da subito Albino ha dimostrato una innata passione per gli atlanti geografici, sintesi grafica e simbolica della straordinaria varietà di forme che connotano la contrapposizione tra terre emerse e pervasività dell’idrosfera. Il compianto Denis Cosgrove, geografo inglese e caro amico dei miei anni migliori, raccontava spesso di come un suo professore delle scuole superiori diceva che in ogni casa non devono mancare una copia della Bibbia, un’edizione dei sonetti di Shakespeare e un buon atlante geografico. Forse in casa Morbiato la Bibbia non mancava, mentre invece, se escludiamo l’ovvio disinteresse per la letteratura inglese in una famiglia della campagna veneta, di atlanti non c’era traccia. La sete di conoscenza geografica di Albino ha potuto quindi placarsi grazie all’atlante del suo amico Elio, ricevuto in prestito e restituito per più volte, le cui tavole erano il supporto grafico ove collocarsi in sognanti visioni, dando via libera all’immaginazione, alla creazione di itinerari, fissando nella memoria toponimi, profili costieri, costruendo così una preziosa lista di terre da visitare, di luoghi dove vivere. Si tratta della ben nota condizione dell’armchair traveller, il viaggiatore in poltrona, ovvero chi esperisce senza mobilità, inquinante e costosa, i più disparati luoghi del pianeta, combinando la forza dell’immaginazione con il supporto di libri di viaggio, guide e atlanti. Pensando ai nostri giorni, le odierne opportunità consentite dalla rete immateriale consultabile sul proprio terminal informativo che è il computer, di certo ai tempi della gioventù di Albino non si sarebbero potute definire che fantascientifiche.
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Marlow, il protagonista di Cuore di Tenebra, celebre romanzo breve di Joseph Conrad, ricorda: Quando ero ragazzino avevo una passione per le carte geografiche. Contemplavo per ore il Sud America, l’Africa o l’Australia e mi perdevo in tutti gli splendori dell’esplorazione. A quei tempi c’erano ancora molti spazi vuoti sulla terra, e quando ne vedevo uno che sulla carta pareva particolarmente invitante (ma lo parevano tutti) ci mettevo sopra un dito e dicevo: Quando sarò grande ci andrò.
Mi piace supporre che anche Albino, difronte alla dilatazione spaziale consentita dalle tavole dell’atlante, possa aver pensato (come del resto accade per ogni viaggiatore in poltrona) alle immense potenzialità che giacciono latenti e inespresse tra i simboli e i colori con cui si rappresentano i rilievi, le pianure, l’idrografia, le città, i confini. Il fascino delle mappe sta proprio nella loro immobile eloquenza che sa trasmettere invitanti e seducenti messaggi a chi ha l’animo pronto per elaborare itinerari, viaggi ed esperienze di vita nelle più disparate tipologie dell’altrove. Ma c’è un altro episodio che ritengo significativo nel consolidarsi della cartografia emozionale di Albino: si riferisce alla visita di villa Giovanelli, a seguito del parón Bruno Cacco, falegname e suo datore di lavoro, per la manutenzione di alcuni mobili degli altolocati proprietari, forse nella biblioteca privata. Nella sala, il giovane apprendista si imbatte in uno degli esemplari che componevano l’atlante di Antonio Zatta, con una pagina aperta sul Nord America orientale: è un’autentica rivelazione! L’occhio ignorante (nel senso dell’ignorant eye evocato dallo scrittore vittoriano Samuel Butler), che si emoziona senza i condizionamenti di nozioni già acquisite, forgia quella sorta di marchio indelebile utile a plasmare il complesso sistema di percezioni di un individuo, specie se dotato di attitudini e predisposizioni già attivate nei confronti della fascinazione di tutto ciò che si è soliti definire come “logica cartografica”. E come ben sanno gli amici e i conoscenti di Albino, la cartografia storica e gli antichi atlanti avranno un ruolo non indifferente in successive fasi della sua vita. In un’epoca in cui i voli intercontinentali erano ancora poco diffusi, la pianificazione del lungo viaggio verso l’Australia, la pri-
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ma destinazione scelta da Albino per la sua nuova vita in qualità di emigrante e viaggiatore, necessitava di un’attenta lettura delle carte geografiche, scorrendo il dito tremante per l’emozione lungo il tracciato che avrebbe percorso la nave Aurelia. Altro che le attuali 18 o 20 ore di volo, a seconda delle compagnie aeree, richieste per raggiungere Sidney dall’Europa! Oggi vi è completa indifferenza nei confronti di ciò che si sorvola. L’odierna compressione di spazio e di tempo annulla il senso più autentico del viaggio, elimina l’inconscio senso di appartenenza alla storia dell’umanità, fatta di migrazioni, esplorazioni, viaggi, conquiste e che può essere trasmesso dall’apparente immutabilità delle raffigurazioni ridotte e simboliche restituite dalle tavole degli atlanti. L’imbarco di Albino dal porto di Genova, insieme ad altre centinaia di emigranti, con destinazione Australia, è un atto arcaico, dunque ai nostri occhi molto apprezzabile, in quanto carico del fascino assicurato dalla continuità di un legame con il mare molto vicino alle condizioni premoderne, nonostante per la motonave Aurelia si trattasse di una imbarcazione ben diversa dagli antichi velieri. Così si legge infatti, ricorrendo allo straordinario, immediato e smisurato magazzino di informazioni che è la rete, a proposito della nave in questione: Varata ad Amburgo nel 1938, di 10022 t.s.l. a propulsione dieselelettrica, con velocità 16 nodi. Vennero effettuati lavori presso l’Arsenale Triestino e la nave fu adattata al trasporto di 1124 emigranti. Riconsegnata nel maggio 1955, entrò in servizio per l’Australia con una partenza da Trieste il 13 maggio 1955 cui seguirono regolari partenze da Genova dal 15 novembre successivo.
Far viaggiare il lettore Al resoconto di viaggio di Albino si accompagna una coerente e ragionata selezione di un coevo epistolario intercorso tra il viaggiatore e i suoi familiari, in particolare con Luciano, forse, tra i numerosi fratelli, il più attento e interessato a quanto stava combinando il primogenito. Pur con il rilevante scarto temporale tra l’invio di una lettera e la risposta, l’esperienza del viaggio pre-digitale poteva comunque essere seguita con poche settimane di scarto da chi era a casa, assecondando per l’appunto i tempi delle spedizioni postali. 15
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Vi è dunque un suggestivo contrappunto tra le brevi annotazioni giornaliere, con l’accurata indicazione delle date, redatte durante le oltre tre settimane di navigazione tra Genova, Malta, canale di Suez, mar Rosso e Oceano Indiano e il successivo scambio di lettere. Il medesimo scambio di informazioni si verifica durante il viaggio dall’Australia al Giappone. Confesso di aver aperto un atlante per seguire il tracciato descritto da Albino: nulla di particolarmente avventuroso o toponimi ignoti, ma ho gradito molto ripercorrere le tappe di un viaggio in nave, condividendo con spontanea empatia le emozioni di chi per anni ha sognato di essere nei luoghi grazie all’avida e curiosa consultazione delle carte geografiche o alla lettura di altri racconti di viaggio. Al giorno d’oggi, con l’elitario e suggestivo dibattito circa il flight shaming, ovvero la vergogna di volare in quanto scelta dannosa per l’integrità dell’atmosfera, il viaggio in una nave mercantile di Albino potrebbe anche essere valutato come uno stimolante spunto di riflessione ante litteram per altre mobilità. Temo però che le tendenze in atto non tarderanno a ridimensionare la pur lodevole decisione di ridurre i voli. In effetti, dal suo sintetico primo diario di bordo, si evince che il viaggio in nave è stata un’esperienza memorabile, come quando, la mattina del 9 luglio del 1957, l’Aurelia è in vista di Port Said: «è l’Africa, lo so e fa una certa impressione, per anni l’ho considerata quasi un mito, ora ci sono, ma tant’è, questi giorni sono tutti speciali». Ma anche l’arrivo a Aden e la visita del porto franco «è stata un’esperienza, per quasi dieci ore ho vissuto come in sogno, ciò che avevo letto in mille romanzi adesso era lì e io per poco ne facevo parte». Che dire leggendo queste semplici e spontanee affermazioni? Non hanno certo la pretesa di essere accurate descrizioni finalizzate alla pubblicazione in riviste specialistiche, ma riescono perfettamente a farci capire come Albino fosse nel bel mezzo di ciò che gli antropologi definiscono “rito di passaggio”, una sorta di iniziazione per esser parte della elitaria schiera dei viaggiatori (e in effetti Albino racconta di aver ricevuto il “battesimo equatoriale” dopo che la nave ha iniziato a navigare le acque dell’emisfero sud). A proposito di emisfero australe, i fratelli a casa preferivano identificare l’avventurosa destinazione di Albino non tanto con la prag-
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matica concretezza del toponimo “Australia” (certamente in grado di evocare il fascino dell’andare lontano, anche se resta pur sempre una destinazione per gli emigranti di mezzo mondo), ma bensì con la tanto più esotica ed evocatrice definizione di “Mari del Sud”. Sono le parole magiche che schiudono l’immaginario dei viaggi e che innescano la definizione di fervide illusioni, tanto che Luciano non esita a rievocare per il fratello in viaggio la coeva mitologia del celebre viaggio attraverso il Pacifico meridionale (i mari del Sud per l’appunto) di Thor Heyerdahl a bordo del Kon Tiki. Si può agevolmente immaginare la trepidazione in casa Morbiato nell’attesa delle lettere dall’Australia, oggetto fragile e inconfondibile per tipo di carta e specifici suggelli. Come antichi dispacci da terre lontane, informavano e stimolavano la fantasia, veicolando e diffondendo spicchi di esotismo tra la ripetitiva quotidianità dei familiari rimasti a Camin. È la consueta procedura che quasi sempre governa le relazioni tra chi sta nell’avamposto lontano e quelli destinati a presidiare lo spazio vissuto, visto come monotono e noioso, anche se conosciuto e quindi rassicurante. Sia che si tratti dell’epica dei grandi esploratori e delle vaste colonizzazioni, che delle più prosaiche e semplici migrazioni di bassa manovalanza, le lettere dai “nuovi mondi” sono il più immediato e semplice strumento di comunicazione per informare chi risiede nel paese di origine. Nel nostro caso l’esperienza straordinaria di Albino ha avuto un indubbio effetto di dilatazione degli orizzonti anche in chi non ha viaggiato, stimolandone l’alfabetizzazione geografica e la curiosità. Come già più volte accennato, è Luciano, il fratello più giovane, che dimostra una particolare assonanza ed empatia con l’esperienza di Albino. Il suo atteggiamento di emulazione non si limita all’infeconda passività della contemplazione, ma dà luogo ad azioni concrete, dotandosi degli strumenti per intraprendere a sua volta il percorso esistenziale del fratello maggiore. Il primo passo da compiere? La conoscenza della lingua inglese. All’epoca era ancora poco praticata nei programmi educativi nazionali, rispetto alla forte predilezione per il francese e, soprattutto nel nordest italiano, per il tedesco. E infatti, quasi a dimostrare di aver avviato il non facile percorso per ottenere l’abilitazione di viaggiatore pronto a varcare i confini
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nazionali, nell’ultima facciata di una lettera del 14 aprile del 1961 si rivolge al fratello in inglese, esito di un impegno di studio avviato qualche tempo prima: «I’m very happy to write to you an English letter. Excuse-me if I don’t write in English as Shakespeare». Certo, dopo cinque mesi di studio non si poteva pretendere di esprimere concetti complessi, ma la chiusura della missiva dimostra che Luciano non è ancora pronto a recidere il forte legame alle radici locali: I close the letter, while our father is eating fish and bread, and drinking the Roberto Scanco’s black wine. In Italy now it is about eleven o’clock p.m., I go, then, in bed. Good night.
Il vino nero di Scanco (forse grintón?) è la quintessenza più profonda del radicamento ai luoghi, l’icona di una sensorialità autentica che si colloca con forza invincibile nella costruzione dell’immaginario, prezioso punto di riferimento nella mappa nostalgica del viaggiatore. In un’altra lettera, di qualche mese successiva rispetto a quella appena menzionata, Luciano scrive al fratello di un suo prossimo viaggetto «in bicicletta per l’Emilia, starò via una decina di giorni, dormendo agli Ostelli della Gioventù, visiterò Bologna, Rimini, S. Marino e Ravenna. Sarà un piccolo viaggio entro la cerchia della nostra terra, in scala ridotta rispetto al tuo». Sarà anche un viaggio più breve, ma l’apprendistato di Luciano sembra ora concluso. Partire da casa con la bicicletta, confidando nelle proprie forze e senza il ricorso a mezzi meccanici per dedicarsi alla conoscenza di mete vicine lo colloca già in quello status esperienziale solitamente definito come “esotismo del quotidiano”. La mobilità che implica l’efficienza della corporeità, come l’andare a piedi, il pedalare o il remare, garantisce al viaggiatore un ben più accentuato distacco dai modi e i tempi del quotidiano, in cui l’immersione sensoriale nella fisicità dei paesaggi lo avvicina ai tratti attitudinali di chi affronta l’altrove con incertezza, curiosità e la disposizione a emozionarsi, ovvero gli elementi fondanti che trasformano in avventura anche l’itinerario fuori porta. Mi piace immaginare i componenti della famiglia Morbiato che aprono le buste spedite dall’altrove e che ne condividono i contenuti: ecco che durante la lettura il tavolo nella cucina della casa di
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Camin si trasforma in un piano di carteggio, con l’atlante ben aperto, a seconda della provenienza delle missive, sui fogli dell’Australia, dell’arcipelago indonesiano con al centro il mar di Banda, dell’Africa di sud ovest, o l’America istmica, dove i destinatari cercano l’ubicazione dei toponimi nominati da Albino per poter in qualche modo definire gli itinerari percorsi. E infatti così scrive Luciano in una lettera dell’8 settembre del 1961: Caro Albino, atlante alla mano ho appena finito di seguire il percorso della transiberiana attraverso Manciuria, Mongolia, Siberia e Russia. Attorno alla tavola gli occhi luccicano, mentre parliamo del tuo itinerario o rileggiamo i tuoi commentari.
Per arricchire la vita: fuori del mio ambiente, nel vasto mondo… Partendo da Camin, il mini mondo delle radici, non come turista, ma animato da ben altre e più lungimiranti prospettive, vi è stata una frattura con la quotidianità, sia temporale che sociale e soprattutto familiare. Nulla di diverso, senza dubbio, rispetto a chi partiva dall’Italia, proprio in quegli stessi anni, con l’obiettivo di trovare un lavoro. Ma qui sono le peculiari premesse che non vanno scordate, ovvero la curiosità del viaggio. Il lavoro ha ovviamente prevalso una volta giunto a destinazione, anche se i tre anni trascorsi nelle Snowy Mountains hanno consentito ad Albino di addentrarsi in un contesto geografico ben lontano dalle più consuete e trite iconografie dell’Australia elogiata nei pieghevoli promozionali per attirare i turisti internazionali. Leggendo delle escursioni effettuate nel risalire la valle dello Snowy river, non posso fare a meno di aprire una temporanea finestra sul mio pc, accantonando per pochi minuti la stesura di questo testo. In tal modo mi addentro nella solita stanza delle meraviglie digitali entro cui ci si può davvero perdere, dove l’esuberanza informativa, accedendo a un link dopo l’altro, ben presto sovrasta e impedisce di amministrare con serenità l’alluvione di notizie e dettagli. Conscio dell’effetto domino, mi limito a seguire un breve video su Youtube dedicato ad alcuni canoisti buontemponi che scendono con viveri e cibo il tratto mediano del fiume, a valle degli impianti idroelettrici descritti in questo libro.
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Ed eccomi ritornato al dovere della scrittura. Stavo appunto cercando di evidenziare come lo spirito del viaggio fosse il vero movente della temporanea emigrazione di Albino. E infatti, poco prima di lasciare l’Australia, così egli rievoca il suo stato d’animo: non pensavo che al viaggio di ritorno, non per via del ritorno, per via del viaggio! Non l’ho deciso subito l’itinerario […], ma l’ho pensato, accarezzato a lungo, maturato, perché a tornare in aereo, in 24 ore sarei stato a casa, e poi non avevo ancora visto il mondo, per i soldi ero venuto e avevo lavorato quattro anni, ma anche per il viaggio, per il viaggio.
Inizia allora il lungo itinerario di ritorno, ovviamente non in aereo, ribadendo in una lettera ai suoi cari, spedita da Sydney il 30 giugno del 1961: «non vi preoccupate per me, ho intenzione di vedere il più possibile di questa parte di mondo». Quattro anni di duro lavoro nei pericolosi cantieri delle dighe nelle Alpi australiane non sono riusciti a placare questa energia psicologica. È la forza incontenibile dell’irrequietezza, attitudine a elevato rischio di insubordinazione sociale, a partire dal livello base della famiglia, che rinnega lo statu quo del proprio orizzonte domestico, incapace di accettare una scelta di vita prevedibile. La spinta verso l’altrove è un movente che deriva dall’ancestrale istinto dell’erranza, che millenni di condizionamenti culturali hanno cercato di inquadrare, contenere e motivare all’interno di un progetto sociale condiviso. Si tratta delle finalità affidate all’esploratore che scopre, al militare che colonizza, al prete che converte, allo scienziato che studia. Meno bene è visto chi viaggia per spirito d’avventura, assecondando ataviche pulsioni o sogni di ricchezza, tanto che alla definizione di “avventuriero” corrisponde una specifica iconografia artistica e letteraria fatta di pelle bruciata dal sole, barba incolta, tatuaggi, cicatrici e un grosso pugnale che pende dalla cintura. Ma la dimensione del viaggiatore non è permanente. L’antropologia del viaggio, infatti, contempla sempre il “ritorno a casa”, come ultima fase del rito di passaggio, ovvero il raggiungimento di una nuova condizione esistenziale dopo aver superato la fase della separazione (che corrisponde al distacco della partenza)
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e quella della marginalità (affrontata durante le fasi del viaggio e nei prolungati soggiorni nell’altrove). Può accadere, come in effetti è accaduto nei successivi viaggi di Albino in Africa e nelle Americhe, che il processo si riattivi, richiamando non solo “l’orgasmo del peregrinare” dei viaggiatori italiani di fine Ottocento, ma anche l’horreur du domicile elogiato da Baudelaire e ripreso da Bruce Chatwin in Anatomy of Restlessness (“Anatomia dell’irrequietezza”). Al di là di questi rimandi a un condiviso patrimonio culturale, la consapevolezza di non avere ancora concluso il suo rito di passaggio, Albino la esprime bene in una lettera spedita a Joan, una sua conoscenza australiana, poche settimane dopo il suo ritorno a Camin nel novembre del 1961: I started working two weeks ago and I’m happy enough because I know it won’t last for long (I don’t mind the work, I do not like the place and the people I’m working with) […] we haven’t got many things in common any more […] At spring time we’ll build my house and then I am free, free to go where and when I like.
È una confidenza importante, che mostra una sorta di ansia di vivere intensamente, di non sprecare le occasioni; nemmeno la riaggregazione con la famiglia e il paese riescono a ricostruire la dimestichezza esistenziale con l’atlante delle radici, collocando così Albino nella non comune tipologia dell’away insider (ovvero del “radicato-fuori casa”), codificata dalla geografia umanistica nord americana. Si tratta di un paesaggio della mente che si insinua nelle persone che, alienate nel luogo natio, raggiungono la completa realizzazione dell’io solo nel conoscere e assaporare luoghi nuovi, seguendo i percorsi già tracciati dall’Ulisse dantesco, dai personaggi delle storie di mare di Conrad o i vagabondi di Kerouac. La ricerca continua di esperienze inedite e il bisogno vitale di accumulare emozioni dai luoghi e da nuove amicizie sono comunque sostenuti dalla pragmatica solidità dell’essere attivo in occupazioni ben remunerate, dunque tutt’altro che perdersi in romantici vagabondaggi da flâneur. Forte della positiva esperienza australiana, da cui deriva una innegabile autorevolezza e carisma, specie per i fratelli minori, Albino confida, ancora nella lettera a Joan:
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I have convinced my family that I am not better but slightly different from the mass, and so I can go on without remorse, living my life as I think I should, because there is a thing I’m trying to do: get old without regrets, and I am happy, Joan dear: I know what I want and how to get it.
Questa è la palese dichiarazione di un progetto di vita, certamente complicato da realizzare e che necessita di una non comune fermezza emotiva per tenere collegati i paesaggi della familiarità con le ignote geografie della lontananza. Poche sere fa, una piovosa serata di novembre, vado a trovare Albino per parlare di cartografia antica, per avere suggerimenti e consigli sulla monumentale raccolta di mappe del Sud America curata dal belga Philippe Vandermaelen nella prima metà del XIX secolo, materiale forse di una qualche utilità per un mio progetto di ricerca dedicato a un viaggiatore milanese che ha risalito il rio Pilcomayo, affluente del rio Paraguay, nel 1876. Lo trovo seduto nel suo studio, con le scaffalature dei libri di viaggio e i contenitori delle mappe, con appesi al muro vecchie foto, ritagli di giornale, manifesti provenienti da terre lontane, oggetti esotici. In un attimo mi sovviene il paragone con il famoso acquerello di Eduard Hildebrandt che rappresenta il vecchio Alexander von Humboldt, ultraottantenne e ancora dal vigoroso aspetto, nella sua casa berlinese, anch’egli circondato da libri e mappe e oggetti. Fatte le debite proporzioni, ciò che vorrei evidenziare con questo audace confronto è la scena del viaggiatore a riposo, appagato e sereno in attesa del corso degli eventi. Gli chiedo: «Come stai Albino?», ben sapendo che era reduce da un periodo con problemi di salute. «Non posso lamentarmi», mi risponde con tono rilassato, «son qui seduto, tranquillo, ho una bella età, no? …e ho anche girato il mondo!». Emerge con semplice chiarezza che la coscienza di aver vissuto in modo consapevole è il miglior antidoto per affrontare l’inevitabile declino che accomuna la condizione umana. Grazie Albino: come vorremmo tutti noi poter esprimere lo stesso stato d’animo! A conclusione di queste pagine vorrei quindi ribadire l’importanza del lascito delle esperienze vissute da Albino, sia per quanto
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riguarda il valore di testimonianza di una specifica epoca di transizione, nel bel mezzo del miracolo economico italiano, sia per il fatto che la forma libro ne consentirà una indubbia divulgazione. A beneficio degli appassionati di viaggi innanzitutto, ma anche di amici e parenti, rievocando forse in questi ultimi quelle stesse emozioni e sentimenti raccontati dalla recluta Morbiato Luciano nella lettera spedita al fratello viaggiatore da Cosenza, il 9 maggio 1964: Non so se te l’ho mai detto o scritto, ma fin da ragazzo ho guardato a te come ad un modello da seguire. Anche se ora leggo letteratura d’avanguardia e pretendo di avere una mia personalità, tu possiedi per me una fortissima carica di spirito attivo nel senso migliore della parola, e mi domando se non farò meglio a trovare una mia strada fuori del mio ambiente, nel vasto mondo.
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PREMESSA Luciano Morbiato
Tra il 1957 e il 1967 Armando Morbiato, Albino per i famigliari, è stato un emigrante, come milioni di altri giovani italiani, ma – a differenza della maggioranza di essi – ha compiuto nello stesso periodo una serie di viaggi in numerosi Paesi del mondo, soggiornando a lungo e lavorando in Australia e in Africa, in Europa e in America, ha solcato i mari del Sud-Est asiatico, visitando decine di approdi, e percorso il continente africano da Port Said a Cape Town (con il fratello Francesco) e quello americano dal Canada all’Argentina, con tutti i mezzi di trasporto. Dal giorno della sua prima partenza a quello del ritorno definitivo – almeno per le esperienze di lavoro e viaggio, incrociati e alimentati a vicenda – egli ha consegnato appunti di diario a quaderni e fogli volanti, oltre ad aver mantenuto con la famiglia un costante legame attraverso decine e decine di lettere, inviate e ricevute. A distanza di oltre cinquant’anni – un tempo che ha inciso profondamente sul volto del protagonista (per fermarsi alla fisionomia) e dei suoi corrispondenti (alcuni dei quali sono scomparsi), e che ha cambiato vistosamente e in profondità anche i Paesi nei quali egli ha vissuto o che ha attraversato – la lettura in sequenza dei pur compositi testi, conferisce loro un valore non solo documentale, ma anche letterario: esse sono, certo, le testimonianze di un’esperienza, eppure costituiscono anche i capitoli di un romanzo di formazione e di avventure, di una autobiografia individuale e familiare, avventurosa e sentimentale, quantunque involontaria e lacunosa. Per connettere e ambientare questo corpus, dopo aver estratto i diversi frammenti dai cassetti che li hanno conservati, per realizzare
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un testo compiuto è stato tuttavia necessario disporli in una catena narrativa elementare, riunendo i diari e integrandoli con appunti, ricordi e colloqui che hanno permesso di colmare le lacune e ridurre le ellissi, senza arrivare tuttavia alla puntuale ricostruzione di una cronaca né aspirare alla narrazione autobiografica, ma nell’intento di ristabilire una sequenza di episodi e di favorire la comprensione dei numerosi, a volte repentini, cambiamenti di orizzonte e di condizione del protagonista. Assieme alle lettere sono stati conservati numerosi documenti – dalle lettere di altri corrispondenti alla cartografia usata – e fotografie, la cui riproduzione contribuisce a delineare un quadro di rapporti, incontri, relazioni di straordinaria ricchezza e varietà. Se il decennio dei viaggi è il fatale centro di attrazione, l’impresa che giustifica l’interesse di un’opera di allestimento ed edizione, anche il tempo che precede e il tempo che segue – come un invito al viaggio e un addio, un allontanamento e un riaccostamento al paese e alla patria – acquistano una conseguente importanza e una necessità di descrizione e narrazione. Si può parlare di canto e controcanto, che rimbalzano tra un continente e un altro, senza contare che il tempo entro il quale avvenimenti e racconti si situano è quello storico di un decennio della Repubblica italiana colmo di promesse ma anche di realizzazioni, non solo materiali, al cui centro si colloca la celebrazione del centenario dell’Unità nazionale; un decennio in cui anche il mondo pareva teso verso un progresso inarrestabile, con innumerevoli comunità che si affacciavano alla scena con il desiderio, se non la capacità, di essere protagoniste. Questo singolo e complessivo viaggio, raccontato e rievocato, è diventato parte integrante di quella apertura di possibilità, poi gradualmente ma inesorabilmente rientrata, tranne che all’interno del flusso turistico canalizzato e sterilizzato o della inarrestabile migrazione. Una fotografia (e un’altra) per cominciare La fotografia del bambino – disteso su una soffice pelle di pecora, nudo, a pancia in giù, con il busto sollevato, in equilibrio con
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PREMESSA
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i piedi in aria, le mani sul cuscino – non è riemersa da un cassettone, ma è sempre stata presente nella cucina, infilata sulla vetrina della credenza, esposta, mostrata. E il bambino guarda: ha guardato il fotografo (il padovano Colombo) e ha continuato a guardare, per niente impaurito, con sicurezza, curiosità, fiducia: le qualità già annunciate dallo sguardo franco. Si sarebbe tentati di paragonarla alla foto che dieci anni dopo le si è affiancata, nella fessura della vetrina: nell’immagine, in formato ovale, il bambino è ripreso di fronte, seduto sul lenzuolo steso sull’erba, con una mano che poggia sul cuscino, vestito di una camicetta senza maniche, sospesa con un fiocco vistoso sopra la spalla; è rubicondo, e risulta schiacciato dalla posizione, forse a disagio nell’attesa, tanto che la bocca aperta è atteggiata a un pianto sommesso: non si fida, forse ha paura. I piccoli corpi occupano in modo differente lo spazio: il primo è allungato, sospeso, in equilibrio; il secondo è posato a terra con le mani avanti, velato, protetto dallo straccio annodato. Non si possono caricare di significati questi piccoli rettangoli di cartoncino opaco in bianco e nero, più grigio che nero: eppure, la rarità e la lontananza nel tempo, dalla quale ci arrivano, ne fanno non solo dei documenti preziosi, storicizzati, ma quasi dei modelli di comportamento per la vita individuale, tanto che si è tentati di interrogarli, provando a cogliere un messaggio che solo la vita successiva potrà confermare e verificare. Saranno un uomo d’azione, di movimento e un uomo di riflessione, di sospensione? Ora è più facile dirlo: sono stati un uomo d’azione l’uno e, in confronto, l’altro, non lo è stato. Le pagine che seguono sono dedicate al primo, ma senza il secondo non sarebbero venute fuori, non tutte, e non in questo modo; senza i poeti – si è tentati di ripetere, con una divertita esagerazione – non ci sarebbero gli eroi, perché non ne vivrebbe la memoria. Dunque, un eroe il primo e il secondo un poeta? Lasciamo la domanda senza risposta, perché la storia non è ancora iniziata, ma soltanto annunciata.
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Ma quando gli dico ch’egli è tra i fortunati che han visto l’aurora sulle isole più belle della terra, al ricordo sorride e risponde che il sole si levava che il giorno era vecchio per loro. Cesare Pavese, I Mari del Sud, 1930
per i miei nipoti e i nuovi viaggiatori
ORIGINI DELL’IRREQUIETEZZA
Pour l’enfant amoureux de cartes et d’estampes, L’univers est égal à son vaste appetit. Ah! que le monde est grand à la clarté des lampes! Aux yeux du souvenir que le monde est petit! Charles Baudelaire, Le Voyage, 1857
[ Per il fanciullo appassionato di mappe e stampe, L’universo è pari al suo desiderio senza limiti. Com’è grande il mondo al lume delle lampade! Agli occhi del ricordo com’è piccolo il mondo! ]
L’INVITO AL VIAGGIO
1.
Un’infanzia a Voltesèa
Prima del racconto dei miei viaggi, delle mie peregrinazioni per il mondo, vengono gli anni di formazione, intrecciati con la storia della mia famiglia, che si può ridurre a un iniziale privilegio: sono stato il primogenito dei sette figli dei miei genitori. Comincio allora da mia madre, e da una sua foto, dove ha i capelli raccolti e un fiore a chiudere lo scialle sul petto: Maria Bodin – come altre sue coetanee in posa, tra il 1920 e il 1930 – forse per via del bel viso serio dall’ovale perfetto, sembra più vecchia dei suoi diciotto anni. Ventenne, poi, faceva l’operaia nella fabbrica padovana, di “tessuti non tessuti”, impiantata tra il mercato coperto e la barriera della Stanga: ci arrivava a piedi da Camin, una camminata di cinque chilometri, dalla casa sul Piagno dove abitavano i “Penacio”, la madre Veronica, detta Jìja, e i fratelli; e dovevano ringraziare il prete se, alla Viscosa, avevano assunto lei, la maggiore, dopo che il padre Albino era finito sotto il tram alla Stanga, tornando dalla fabbrica. Finito il servizio militare nel Genio – a Casale Monferrato, si vantava – Gino Morbiato faceva allora il muratore da Ferraro ed era capitato a fare lavori all’interno della fabbrica, così aveva notato quella ragazza che sorrideva appena, tra le chiassose operaie in cuffia e grembiule; le aveva parlato durante la pausa per mangiare, dopo che erano state riscaldate a bagnomaria le pignatèe di smalto o alluminio con la minestra di fagioli. Si era fatto coraggio e le aveva proposto di incontrarsi con il cugino Ubaldo alla piccola sagra dell’Addolorata, in ottobre, al capitello delle Valli, dove lei era venuta in compagnia dell’amica Ida. 33
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Alla madre, quel giovane povero, anche più povero di loro, certamente serio e pieno di buona volontà, ma che non aveva un lavoro sicuro, non piaceva; e poi, con i figli piccoli, lei aveva ancora bisogno della figlia Maria per mandare avanti la casa. Dovette cedere, alla fine, e Gino e Maria si sposarono nel 1932, andarono a stare alla “Voltesèa” (Voltabrusegana), tra i campi, vicino alla ferrovia per Bologna, nella casa col portico dove abitavano i “Borèa”, in tanti, in troppi: oltre alla famiglia di Sante, padre di Gino, c’erano Neno e Jìjo, fratelli di Sante, con le famiglie. Gli sposi avevano una camera da letto esposta al sole, che guardava la corte, ma la cucina, buia, col pavimento in terra battuta, era a tramontana. La giovane Maria era ammirata dai tanti uomini dei Borèa, ma anche le donne ne apprezzavano le doti, aveva le mani d’oro, dicevano, e lei lavorava per tutti a tagliare, cucire, allungare, accorciare, rivoltare, e rattoppare, beninteso. Allo scoccare dei nove mesi da quel San Martino (ma forse era una settimana prima, primaróle, le fa co le vóle), alla fine di luglio era nato il loro bambino, e pazienza se Gino era disoccupato, avrebbe cercato fino a trovare un altro lavoro: faticare non gli faceva paura, come quell’inverno del 1929, passato in proverbio, che lui e i suoi fratelli avevano spalato allegramente per giorni e giorni nel centro di Padova la neve abbondante e provvidenziale. Il nome del bambino fu motivo di breve contrasto tra i genitori: lei pensava che Albino, il nome del suo povero papà, doveva comparire nei documenti per primo, ma Gino, arrivato all’ufficio dell’anagrafe che stava nella piazza Capitaniato, soto la Scavessà, all’impiegato dichiarò Armando, lasciando Albino per secondo, e chissà che non fosse stata una minima rivalsa sull’àmia: finì che restò nei documenti Armando, ma sua mamma lo chiamò Albino e tutti in famiglia la seguirono. Ero un bambino sano e bellissimo (secondo le donne di casa Borèa), e sveglio. Andai all’asilo alla Mandria, e poi alle elementari a Voltesèa, in prima e seconda, imparando a leggere sui libri che esaltavano il lavoro nei campi e la conquista dell’impero in Africa. Andavo a piedi, dal viottolo erboso ai binari della ferrovia, li attraversavo e camminavo fino al paese, passando di fianco alla grande casa dei “S-ciaóni”; una volta mi ritrovai con i sandali (le carioche) impigliati
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L’INCANTO DEL VIAGGIATORE
nel cavo della rotaia, ma, gridando, riuscii a richiamare qualcuno (lo zio Neno?), che mi liberò, e il treno di Bologna passò che avevamo già disceso il terrapieno ed eravamo oltre la siepe di acero campestre, lungo il viottolo che portava dai Borèa. Tra i ricordi d’infanzia mi resta quel giorno in asilo, che stavo seduto su una panca nella sala refettorio assieme a tutti gli altri bambini: mentre dalle grandi finestre aperte entrava un suono lento di campane, la suora ci annunciò con voce grave che era morto il Papa (era Pio XI, che morì il 10 febbraio 1939, ma questo lo seppi molto tempo più tardi). Intanto era nato mio fratello Adriano, anche lui con un secondo nome, usato in famiglia, Danilo, che finì per relegare il primo nei certificati, e ancora un anno dopo mia sorella, Adriana, chiamata anche Natalina, perché arrivò che si era vicini a Natale, e Natale si chiamava un cugino, che stava nella casa sovraffollata, e che di Maria non si dimenticò mai. 2.
A Camin: la scuola in tempo di guerra
Nella camera vicino al granaio dormivamo ora in cinque, ma non si poteva continuare a lungo, perciò, quando a Camin, poco lontano dal Piagno, nella strada della chiesa, appena dopo la grande croce di pietra eretta a memoria di un furto sacrilego, Gaetano Mercanzin, detto “Tini Panèe”, costruiva una casa e ne affittava delle sezioni, Maria pensò che fosse un’occasione da non perdere per stare da cristiani, allontanarsi dalla tribù dei Borèa, che a volte litigavano per i grappoli di una pergola di uva aspra, e avvicinarsi alla madre, anche se sapeva che non avrebbe certo potuto esserle di aiuto. Non le pareva vero: era tornata nel suo bel paese, abitava in una casa piena di sole e aria, nella cucina dalle pietre rosse che aveva una cameretta accanto, mentre su per le scale dai gradini di legno, scuro e lustro per via del mordente, c’era una cameretta passante prima della camera grande sopra la cucina; fuori, di là del passaggio comune dove si affacciavano altre porte di abitazioni, una specie di ballatoio ma a livello terra, c’era un orto minuscolo da seminarci una gombina d’insalata e piantare due zinnie, e magari tenere tre galline.
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Camin, scuola elementare “G. Ferrari� Classe V elementare, Camin 1943-1944
Camin, chiesa parrocchiale di San Salvatore Camin, Casa del Fascio, arch. Quirino De Giorgio, 1939 (ante 1922 e post 1945: Casa del Popolo)
Funerali partigiani, Camin, maggio 1945 Noventa: Villa Giovanelli, in seguito Colonna, Fortis...
Il Canadà e le Colonie Inglesi... [America del Nord-Est], 1778 da Atlante novissimo, illustrato ed accresciuto sulle osservazioni e scoperte fatte dai più celebri e più recenti geografi, in Venezia, presso Antonio Zatta, 1785, con privilegio dell’eccel.imo Senato, opera in 4 tomi con incisioni di Giuliano Zuliani e Marco Alvise Pitteri
UN LUNGO VIAGGIO DI RITORNO (GIUGNO-OTTOBRE 1961)
16 giugno 1961 Questo è il mio ultimo giorno in Island Bend: non sarà facile dimenticare perché qui ho avuto tanti amici e tanti ricordi. Ieri sera abbiamo avuto il Farewell Party, una grande bevuta nella cantina, è stata una cosa indimenticabile: alla fine quattro amici mi portarono di peso nel letto dove rimandai due galloni di birra. Stamattina mi svegliai con la testa che mi scoppiava, non potevo reggermi. Ora va un po’ meglio e mi sto preparando per la partenza che avverrà domani mattina. A Cooma c’è un’altra grande bevuta in vista, conosco centinaia di persone. 30 giugno Questo è l’ultimo giorno a Sydney e in Australia. Mi spiace di partire, più di quanto pensavo: ho passato due settimane meravigliose con Severino, Cecilie e Gene. Siamo stati a Kotoombe nelle Blue Mountains e alle Jeanolan Coves e abbiamo passato delle belle serate e nottate nella nostra camera in 84 Lang Road. 1 luglio Il giorno è arrivato, a stento mi sono alzato dal letto, ho dormito solo quattro ore, ma non importa: oggi si parte. 7:10 am. Con la macchina di Severino, ieri siamo stati a Burwood; Cecilie e Gene aspettavano, davvero brave ragazze e sempre puntuali, non le dimenticherò facilmente, e non potrò dimenticare questo grande paese, anche se io non lo conosco tutto. Mi sono fatto il Re-entry Permit: per quattro anni sono stato deciso a non farlo, volevo partire sbattendo la porta.
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ARMANDO MORBIATO
Farò il possibile per rimanere a casa, ma se non potrò, ora so che ci posso tornare, in Australia. Alle 8 del mattino arriviamo al n. 9 di Woolloomooloo, c’è poca gente in giro, il sole è appena uscito, ma l’aria del mare è fresca. Sarà un sabato magnifico. Severino e le due ragazze vorrebbero venire con me; io vorrei restare con loro. Il Sinabang sembra abbastanza grande, è molto basso sull’acqua, dev’essere carico di merce; i ponti sono carichi di fusti, speriamo non siano infiammabili. Vecchie signore e uomini con la gotta in vista: spero tanto che non siano i miei compagni di viaggio. Cecilie ha freddo e si stringe a me, a Severino spiace molto che me ne vado. Abbiamo discusso a lungo la possibilità di andare assieme da Singapore all’Europa per via terra: è impossibile. La macchina non è pagata, il fratello Teo – che vive a Liverpool con la moglie Marie Jean e un bambino – potrebbe rimanere senza lavoro, e Severino si sente responsabile anche per loro. Ieri sera Severino è rimasto senza lavoro, lui non ha paura ma sarà dura; comincia a essere dura per molti in Australia. Alle 8:30 siamo saliti a bordo del Sinabang; decine di asiatici (cinesi, credo) si muovono intorno, la nave è già sotto pressione. Mi assegnano una cabina, n. 5-6, è più grande di quanto credevo, contiene due letti, uno dei quali è pieno di valigie (credo del mio compagno di cabina, che non vedo per ora). La cabina è circa 3 metri e mezzo per 4, ha due letti fissi, un grande armadio fisso a due porte, due lavandini con grande specchio, tavolo, sedia, termosifone e ventilatore: una bella cabina, una finestra si apre sulla città di Sydney ancora per pochi minuti. La Cecilie parla di nascondersi sotto il letto. Altra gente sale a bordo, vecchi e vecchie che mi pare si reggano in piedi a stento (ma il mio pregiudizio sarà smentito in seguito); sul molo alcune ragazze parlano animatamente con una vecchia lady tremolante, che per fortuna non si avvicina alla scaletta d’imbarco. Un grande rimorchiatore si avvicina al Sinabang, la sirena urla rauca, presto si parte. Un ultimo rapido saluto, un’ultima promessa di scriverci e di rivederci ancora, butto alcuni coriandoli ai miei amici sul molo.
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La nave comincia a muoversi, i coriandoli si rompono, non so staccare gli occhi da Cecilie, da Severino e Gene. Un capitolo della mia vita si è chiuso. Agito un fazzoletto a tre persone che più quasi non distinguo... è finita, cento metri o mille km non fa differenza. La baia di Sydney è meravigliosa, tutto intorno sono alberi, case e ville nascoste dal verde di mille giardini; e ovunque sono grandi gru, magazzini e navi da carico e da passeggeri; grandi vaporetti lasciano Circular Key per Manly e North-Sydney. Ho visto la portaerei Melbourne e alcune fregate della Marina Australiana. Alle 9 e 45 usciamo dalla baia e la lunga onda oceanica fa fare al Sinabang un movimento oscillatorio che finirà temporaneamente nel Borneo fra due settimane. Il mio compagno di cabina è un sudafricano di origine australiana, è stato a rivedere la sua terra dopo vent’anni. Si chiama Cecil Dawson, avrà circa cinquant’anni, è del tipo “gaudente”, un lupo che non sa rassegnarsi all’inizio della spellatura, ma che discute con competenza di molte cose. Ieri sera assieme al Capitano, al Secondo e a Cecil abbiamo parlato del problema sudafricano, il mio compagno di cabina non sembra un estremista sulla questione negra. Degli altri tre passeggeri, Mrs. Laura Sligo, una new zelandese di circa 55 anni che ha visitato tutto il mondo “o quasi”, ora sta andando a Sandakan dove suo marito è sepolto (era nella RAF); sa parlare solo di comprare, di mangiare e di Azioni della Borsa di Sydney, per il momento non mi è simpatica. Mrs. e Mr. Douglas S. Wylie, lui inglese e per quaranta anni residente in Nuova Guinea (Lae) dove aveva una piantagione di gomma, un tipo molto decente, avrà 70 anni; sua moglie può avere qualunque età dai 50 ai 105 anni. Nel complesso non sono stato fortunato, pensavo di avere qualche giovane compagno di viaggio. Il Capitano sembra un’esperta e degna persona; il secondo in comando è un Olandese di circa quarant’anni, mangia di tutto e beve come un pesce; il terzo ufficiale, che mangia al nostro tavolo, è il chief officer engineer. L’equipaggio è formato da 33 cinesi da Hong Kong, sembra che siano ovunque; quello che attende alla nostra cabina si chiama Chuy Ying, ha una faccina come un colabrodo ed è molto gentile, o così mi sembra.
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per ripidi tornanti, tra gole e strette vallate. D’improvviso siamo costretti a fermarci dietro una lunga fila di auto e camion, scendiamo e proseguiamo a piedi verso la testa della colonna e, dopo la curva, scopriamo il motivo dell’improvvisa fermata: due camion, incrociandosi, sono venuti a collisione; uno si è rovesciato sulla strada e ora la sua poderosa mole ostruisce il passaggio, sì che dovremo attendere che arrivino dei mezzi da qualche città vicina a rimuoverlo. Quando riprendiamo il viaggio, sono passate due ore e mezza: di arrivare a Città del Capo per stasera, non se ne parla nemmeno. Comincia a piovere, in breve si aprono le cateratte del cielo, lampi, tuoni e acqua a volontà, mentre la lunga fila di auto e camion procede lentamente nella sera tempestosa. Arriviamo a Knysna, da Kradock 535 km; alle 19 si cena alla locanda, quindi troviamo una pensioncina per la notte; poco prima di andare a letto, a causa del temporale è mancata la luce. Brancoliamo per la camera al buio prima di infilarci sotto le coperte. [F] Giovedì 11 febbraio 1965 (sessantaseiesimo giorno) Knysna - Swellendam - Cape Town La giornata è magnifica, la burrasca della sera prima ha spazzato via le nuvole ed ora il cielo è terso e pulito. A Mossel Bay la strada lascia il mare; fa caldo ma è un caldo asciutto e piacevole, Qui siamo ancora in piena estate e incrociamo auto di gitanti, con canotti e surf sulla bagagliera, che se ne vanno ad abbronzarsi al mare. Comperata un’anguria di incredibile grandezza. A Swellendam, il cartello stradale indica «Cape Town, 150 miles» (240 km), e la strada sale verso l’ultima catena di montagne, dopo delle quali si dovrebbe scendere alla pianura verso la città. Per tre ore corriamo per valli e altipiani boscosi, sono le 5 pomeridiane quando arriviamo all’ultimo passo, prima della discesa finale; davanti a noi, in lontananza, luccica un’ampia baia, dove le barche a vela solcano le acque tranquille, sulla terraferma si eleva la Montagna della Tavola con ai lati due picchi appuntiti, e tra i monti e la baia è adagiata la città,
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Cape Town, illuminata in pieno dai raggi del sole al tramonto. Mi fermo, scendiamo dall’auto e restiamo in muta contemplazione. Quanti e quali pensieri mi turbinavano per il capo in quel momento! Finalmente, quel lungo, tormentato, meraviglioso viaggio era terminato; eravamo arrivati alla meta tanto agognata. Albino si volge verso di me, ci guardiamo: una stretta di mano vigorosa suggella e compendia in sé mille parole, mille pensieri, e le paure, le speranze, passate e future. Domani, chissà quali altri problemi, quali ostacoli, quali delusioni avrà in serbo per noi, ma domani è un altro giorno ed ora non lasceremo che tali pensieri turbino la felicità di questi attimi irripetibili. Rimontiamo in macchina e scendiamo a capofitto verso la città. [F]
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LAVORARE IN SUDAFRICA (1965-1966)
“Scendiamo a capofitto verso la città del capo di Buona Speranza”, così – il giorno 11 febbraio 1965 – terminava il diario del nostro grande viaggio di 66 giorni da Padova a Cape Town: ne eravamo felici e un po’ orgogliosi, Francesco e io. Per i primi giorni fummo ospiti di Cecil Dawson: il mio compagno di cabina a bordo del Sinabang e di viaggio nei mari della Cina abitava in una villetta di Parow East, un sobborgo della città, assieme alla moglie e alla figlia Anne. Il Sudafrica è uno splendido paese, che non tenterò di descrivere, anche se non era proprio all’avanguardia per i diritti civili, nel 1965. Trovammo lavoro subito, Francesco come posatore di pavimenti e io come falegname. Fui subito a mio agio nel laboratorio, dove mi assegnarono due assistenti di colore, che ne sapevano più di me sulla produzione particolare e io li trattavo di conseguenza, ma la direzione mi riprese, seppure in modo soft, perché davo loro troppa confidenza. Nei dieci anni in cui sono stato, fondamentalmente, un emigrante, la mia professione ha avuto una parte molto importante, per questo ci torno di tanto in tanto in queste pagine, in particolare sui primi anni trascorsi a bottega, a partire dal 1944. Avevo allora undici anni e, finita la V elementare, non avevo che una prospettiva, quella di imparare un mestiere, la stessa di tutti i miei compagni di classe, che abitavano nella periferia di Padova, una zona in gran parte ancora agricola. Poche erano tuttavia le famiglie che vivevano coltivando i campi, perciò per i ragazzi non c’era molta scelta: nessuno studiava, tutti andavano a bottega, chi da un falegname (marangón), chi da un capomastro, chi da un meccanico (che riparava biciclette), chi da
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un calzolaio (scarparo). Ci furono quelli che, dopo avere imparato a risuolare vecchie scarpe, cominciarono a cucire quelle nuove, a mettersi in proprio, ad aprire una fabbrichetta vicino a casa, tra i campi, fino a trasferire l’attività nel capannone, e quando ci riuscirono il miracolo economico del nordest era partito, anche da Camin, periferia di Padova, diventata ZIP. Ma questa è Storia, non la mia storia... A Parow East, dunque, ero stato assunto da Arderne Scott Timbers, in Gunners Circle Epping, ma non ci rimasi che un paio di mesi e poco più, anche se mi trovavo bene: non avevo attraversato l’Africa da nord a sud per stabilirmi in un sobborgo di Cape Town, che pure era una splendida città di arte e storia. Non mi ricordo come, venni a sapere che la De Beers Diamond Company cercava operai specializzati per il centro diamantifero di Oranjemund, alla foce del fiume Orange, nell’Africa del Sud-Ovest, allora sotto mandato sudafricano, nella Costa degli Scheletri, lambita dal deserto del Namib. Salutai Francesco, che stava cercando di mettersi in proprio e che ci sarebbe riuscito con facilità, dato che il Sudafrica era veramente un paese che offriva tante possibilità: bastava soltanto essere bianchi (anche a me, senza troppe formalità ed esami, diedero la patente di guida). Il 17 aprile presi il treno per Lüderitz e per una esperienza unica: il viaggio durò circa 60 ore, due giorni e tre notti, attraverso paesaggi fantastici, a volte spettrali, nei quali il semideserto si alternava ai resti di montagne sgretolate nel corso di millenni, e la luna illuminava quei massi enormi, posti come sentinelle alla fine del mondo. La maggior parte delle innumerevoli fermate del convoglio corrispondeva a un cartello con un nome di luogo accanto a una casetta persa nel nulla: tra i pochissimi passeggeri, parlai con Gisela van B., una ragazzotta che stava tornando a casa e doveva arrivare molto più a nord, a Grootfontein. Ci salutammo a Lüderitz, un porto peschereccio sull’Atlantico, il cui paesaggio era disseminato di massi erratici, senza un albero, mentre il centro abitato aveva le case dal tetto aguzzo, come quelle nel nord della Germania, da dove erano arrivati negli anni Ottanta dell’Ottocento i primi coloni.
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Qualcuno, non ricordo chi fosse, dato che non conoscevo nessuno (forse era un dipendente della De Beers), mi portò in un luogo poco lontano, che chiamavano Angua Fria (“Acqua Fredda” dell’Oceano, evidentemente), dove c’era una croce lusitana, a ricordo di una delle tappe della corsa verso il Capo di Buona Speranza e le spezie dei mari orientali che, negli ultimi anni del XV secolo, i navigatori portoghesi avevano usato per rifornirsi di acqua; attorno a quella pietra, eretta molto tempo dopo, soffiava un vento di una violenza mai più sperimentata. Passai la notte in un piccolo albergo e l’indomani una jeep mi riportò verso sud, costeggiando l’oceano, nella Sperrzone, la zona sigillata, di totale ed esclusiva competenza della compagnia. A destra avevo le onde dell’Atlantico infuriato, a sinistra il deserto, dove la sabbia aveva ormai inghiottito i pochi edifici e strani macchinari finivano di arrugginirsi, entrambi resti abbandonati della corsa ai diamanti. Al confine della Sperrzone venni preso in consegna da un altro mezzo col quale arrivai a Oranjemund, dove rimasi fino a dicembre. Mi trovai subito bene: ero addetto alla manutenzione, avevo un leading hand sudafricano e un aiutante, Tobias, un giovane di etnìa ovambo del nord, che portava al polso un braccialetto di plastica, di colore rosso, perché era da cinque anni al servizio della compagnia. Un giorno mi accompagnò per alcune riparazioni che dovevo fare in una villetta dove abitava la famiglia di un dirigente (o un ingegnere), a un certo punto la padrona di casa mi chiese se volevo una tazza di tè e io feci un cenno anche per Tobias, lei capì e portò la tazza per me, prendendo da un armadietto quella per il mio compagno nero. Oranjemund era una cittadina completamente autosufficiente, situata in una zona semidesertica pochi km a nord della foce del fiume Orange e del confine col Sudafrica; non c’erano baracche, ma edifici moderni, dalle villette con giardino per famiglie ai grandi edifici per gli uffici e per le operazioni connesse a un unico scopo: la ricerca a livello industriale dei diamanti, messi a nudo da macchinari enormi e modernissimi a partire dalla roccia primigenia, rimossa a migliaia di tonnellate da depositi alluvionali, nelle crepe e negli interstizi dei quali potevano esserci dei frammenti di “vetro”, dei composti di purissimo carbonio dai mille riflessi. Nei mesi in cui vi rimasi non ne vidi nessuno!
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The Snowy Mountains Scheme
Panorama di Island Bend, nella valle dello Snowy River Diga sullo Snowy River
Junction Shaft Diga Tumut
I “barbuti” di Island Bend
Appeso a un cavo sul torrente Con Bert Beszelzen nel camp di Island Bend
Sciatori a Smiggins Hole: con la famiglia di Dick van der Viet, luglio 1959
Con Till H. e un compagno di viaggio hindu nei dintorni di Kuala Lumpur Baia di Hong Kong
L’Impero del Giapon..., 1785 da Atlante novissimo..., in Venezia, presso Antonio Zatta, 1785
Alamo Nuestra Señora de Guadalupe, Città del Messico
Panorama di Teotihuacan Piramide di Teotihuacan
La flotta inglese all’assedio di Portobelo del 1739, incisione, Norimberga, eredi Lohman, 1740 ca
Fuerte de la Gloria, Portobelo Roger nella laguna di Portobelo
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sintesi dell’andirivieni di burrasche e bonacce che ha caratterizzato il nostro lungo cammino verso una più serena convivenza. 5.
Home is the sailor
Sto seduto su una poltroncina nello studio, un ampio locale al piano terra della casa di Vigonza, con i cassettoni pieni di grandi e piccoli fogli incisi, dai “fiori” del Mattioli e del Gerard alle mappe del Braun Hogemberg, dello Zatta e del Coronelli, alle vedute del Volkammer: è qui che confeziono i passepartout (molti di meno, ora) e ricevo gli ultimi clienti e gli amici; nel giardino accanto è la casetta prefabbricata dove vivono circa 40 gatti, mentre altri quattro, a volte cinque, sono fuori e girano per casa. Quando mi stanco di leggere l’ultimo fascicolo di «Limes», le memorie di Fermor, la seconda guerra mondiale di Churchill..., spengo la lampada che pende sopra la mia testa e resto nella semi-oscurità che è normale in questo ambiente. Non distinguo le fotografie che ho appese alle pareti, ma le conosco bene e le posso ripassare mentalmente: sulla sinistra, di fronte a me, la Marina militare italiana in azioni di guerra nel Mediterraneo; a partire dalla parete a destra, immagini alla rinfusa di incontri ed esperienze: sono con il gruppo dei barbuti compagni di lavoro a Island Bend (New South Wales, Australia), con David Bannister nel suo giardinetto a Cheltenham, con Francesco sulla strada per Nairobi, con tutti i parenti invitati al mio secondo matrimonio, in posa di fronte alla chiesa di Mussolente; oltre la porta, altre foto personali importanti, un primo piano dell’ascensione al Monte Bianco, la figura intera vicino a un cartello stradale dalle parti di Kyoto (1961), in gruppo coi miei fratelli sulla scaletta d’imbarco per Tunisi (1975). Alle pareti sono appesi decine di oggetti, altri stanno nelle vetrinette: lancia e scudo in pelle dal sud dell’Etiopia (simili a quelli di una foto del giovane Ailè Selassiè), la sciabola (parang) dei Daiacchi da una longhouse sul fiume Rajang (nel Borneo, britannico nel 1961), uno sgabello scolpito e un tamburo dall’allora (1964) Rhodesia, punte di freccia capsiane, frammenti di ceramica dal nord Africa alla Grecia, fino alle scodelle istoriate medievali da un convento in riva al Bacchiglione.
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Gli scaffali sono pieni di libri che ho salvato per poche lire rovistando tra le cataste di pattume editoriale: tutte le campagne militari della prima metà del Novecento fino a Rommel nel deserto, romanzi di Thomas Mann e di Guido Piovene, che non leggo, mentre rileggo ogni tanto l’Inferno di Dante, ma vorrei risentire lettura e commento dalla bella voce di Sermonti, anche se non ho voglia di alzarmi e far partire una delle audiocassette. Oggetti libri carte fotografie, tutto scompare, poco a poco, e tutto mi scorre davanti, mi affianca, sento che mi appartiene. A volte mi sorprendo a inseguire un motivo sepolto e riemergente, al quale si aggiungono le parole di una canzone, cantata assieme a compagni di lavoro in Australia, in Germania o di viaggio in Borneo, in Rhodesia, in Perù, molti anni fa, tra sessanta e quaranta; inseguo la canzone e la eseguo mentalmente, finché scompare, con i luoghi e le persone cui è associata: «Waltzing Matilda, Sag mir wo die Blumen sind, It’s a long way to Tipperary...». Poi arriva, inaspettata, quella che mi accompagnava nel breve tratto di strada polverosa che separa la chiesa di Camin dal ponte sul Piovego a Noventa, quando pedalavo su una vecchia bicicletta per arrivare alla bottega di Cacco, a quattordici anni, insoddisfatto ma non arreso, e ripetevo l’ingenua canzone sentita al cinema parrocchiale, perché confusamente mi indicava un’altra strada, ignota e bella; e anche ora mi ripeto quei versi, perché ho trovato e percorso proprio quel cammino: «... il sole che illumina il mondo / tramonta tra i boschi e le spiagge / fanciulle selvagge / lasciatevi sfiorar / dal venticello che viene dal mar ...». Nelle parole sentivo allora una promessa di gioiosa libertà e provavo, insieme, uno struggimento, che arrivava alle lacrime, asciugate in fretta prima di scendere alla bottega tra le casette allineate all’argine, prima della villa. Non so molto altro, chi la cantava, in quale film, ma so che è servita. I gatti passeggiano sopra il basso mobile che divide lo studio-laboratorio dall’angolo con le poltroncine, sgranocchiano qualcosa dalla ciotola e saltano con eleganza sullo sgabello vicino a me, si strusciano sulla manica della mia felpa, già fiorita di peli come se fosse diventata una pelliccia: il pelo del gatto e le carte geografiche,
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non pare ci sia relazione alcuna, ma sono al centro del silenzio, turbinano i peli e si posano per riprendere il volo, le carte stanno a fatica nelle cartelle, potrebbero uscirne, svolazzare intorno, posarsi per raccontare storie incredibili, di luoghi che non ci sono più o si sono trasformati, mentre qualche altro non è mai esistito, se non per il nome su una carta. Perché mi sono deciso a radunare pagine ingiallite, diari incompleti, lettere dimenticate, aggiungendo ricordi che si stanno annebbiando, immagini che non hanno più riscontro nella realtà? Per tentare di raccontare una vita, l’esperienza di un emigrante che ha voluto fare del viaggio non solo il ripetuto trasferimento verso lontani luoghi di lavoro, ma anche un mezzo di conoscenza degli uomini, di scoperta del mondo. Non c’è stato niente di pianificato e non ne è risultato un itinerario eroico, mi sembra tuttavia che le pagine che precedono siano complessivamente la testimonianza sincera, il fedele riassunto della mia lunga vita nelle sue varie “epoche”. Mi sarebbe piaciuto farne un racconto per i miei figli, ma così non è stato.
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Vita con Emerenziana
Emerenziana a Cartagine
Plan monumental d’Alger, 1950. Cerchiata in rosso la Cattedrale
Cristo portacroce, tela di fine Ottocento proveniente dalla ex-Cattedrale di Algeri
Daniela e Armando con l’antiquario Marcello Broseghini a Balze sull’Appennino tosco-emiliano a fianco e nelle pagine successive Studio-laboratorio di Armando Morbiato a Vigonza (Padova)
NOVEMBRE 1976
Lettera di Albino dalla Tunisia (1976) Djerba 10-11-76 Cara gente nostra scusate il lieve ritardo, ma ci siamo dovuti sistemare. Siamo in un albergo a Djerba e stiamo bene. Durante il giorno il sole brucia e si può fare il bagno in mare (l’hotel è sulla spiaggia), la notte fa un po’ fresco (Emerenziana dice freddo) ma c’è il riscaldamento elettrico; comunque, più si va avanti con la stagione, meno caldo farà, speriamo bene. Emerenziana sta bene nel complesso, le manca ancora il respiro, ma alla sera piuttosto che al mattino. Comunque, il riposo quasi assoluto e il sole e l’aria pura dovrebbero essere di qualche giovamento. Vi dirò in breve come siamo arrivati. Partiti alle 4 del sabato, è cominciato a piovere quasi subito, e fin quasi a Brescia è stato brutto, tra la pioggia e il buio pesto, poi ha smesso mezz’ora, nei pressi di Cremona in dieci minuti si è rifatta notte e per un’ora, forse più, un pauroso temporale ci ha quasi sommersi... il Po a Cremona è stato uno spettacolo indimenticabile, con le vastissime golene colme d’acqua, a Emerenziana veniva da piangere... Ai bordi della strada e qua e là in lontananza vasti allagamenti dovuti al mare d’acqua che era caduto nella mattinata e nei giorni precedenti. A Casteggio l’autostrada era interrotta e ci hanno fatto uscire, a Voghera lo Staffora era in piena, non avevo mai visto nulla di simile. Oltre Voghera la polizia ci impedì l’ingresso in autostrada, ci siamo allora avviati verso Tortona, la pioggia era cessata ma si estendevano gli allagamenti locali, tre volte abbiamo attraversati tratti di strada allagati, che se la Seicento D si fermava... Fra Voghera e Tortona i carabinieri bloccavano la Statale, lo Staffora aveva asportato la sede stradale più avanti, un certo panico si andava diffondendo tra gli automobilisti (la nostra nave partiva alle 12). Ci siamo fermati a un distributore e ci fu
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LETTERE FAMILIARI
indicato lo svincolo di Castelnuovo, pochi km più avanti, così ci siamo presentati all’ingresso dell’Autostrada che era su un terrapieno, oltre il quale tutto il paese di Castelnuovo era sott’acqua. Ci siamo presentati all’ingresso senza tanta convinzione e ci dissero che, sì, per il momento per Genova si poteva andare... grosso sospiro di sollievo, erano circa le 9:30; sulla corsia opposta della GE-MI, che era interrotta, la fila di macchine ferme si allungava sempre più... Erano le 11 e siamo entrati a Genova, ma dalla parte sbagliata, perché in Autostrada non c’era nessuna indicazione per il porto (porto di Genova); siamo arrivati all’imbarco alle 11:45, dopo aver corso un po’ da matti, col rosso, senso vietato ecc. La nave Leopardi però partì all’una e così fu bene e non ci fu il minimo controllo doganale, e con i prezzi di qui si poteva avere molta più roba... e soldi. Mare mosso tutto il pomeriggio e la notte, forza 5-6 dissero a bordo, ed Em si ebbe il mal di mare con conseguenti continue vomitate, e così andò ai pesci un pranzo da 4000 L... Giorno dopo, sosta a Cagliari, mare calmo, tempo splendido. Arrivo a Tunisi in orario, 6:30, formalità lunghe ma senza intoppi, alle 21 Hotel Carlton, Av. Bourghiba, decente, 3 D e 700 m., e siamo in Tunisia. Djerba è veramente un piccolo paradiso, almeno finché dura questo tempo. Camere con servizi decenti in paese, almeno per ora, niente da fare. Abbiamo quasi affittato una villetta sul mare 70 D al mese, ma l’idea di essere tutti soli per mesi non mi andò giù, così per ora almeno siamo in un hotel, prezzo al minimo, specialmente per lunga permanenza, 2 D ½ a testa al giorno, senza colazione, con 2 pasti. Il vero guaio è che il Dinaro tunisino non ci costa 1200 L, come nel 74, e neppure 1400, come nel 75, ma 2200 lire. Fino al 30.11 abbiamo pagato qui, nel frattempo si potrebbe trovare un’altra sistemazione, vedremo. Per ora non manderò cartoline, salutate voi tutti. Luciano, se decidete di passare alcuni giorni in Tunisia, non vi costerebbe troppo, penso, mezza pensione in questo hotel (a Natale è pieno, devi decidere prestino) circa 15.000 L per 2 persone, bus Tunisi-Djerba per 2 persone, andata e ritorno, circa 26.000 L. A noi forse sarebbe utilissima la vostra venuta: se saremo costretti a rimanere in hotel, ci serviranno circa 300.000, ma non vi voglio in alcun modo forzare, solo, Luciano, se non verrete, dovrai (ti prego) in qualche modo farmi avere la valuta che la Banca d’Italia libera fra 80 giorni. Comunque, non fare nulla per ora, forse non serve. Se venite vi darò molte altre informazioni. Ciao Antonella.
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