biblioteca di architettura 19
UN DIALOGO ININTERROTTO Studi su Flora Ruchat-Roncati a cura di Serena Maffioletti, Nicola Navone, Carlo Toson
ilpoligrafo
Archivio del Moderno Accademia di architettura Università della Svizzera italiana
Questo volume ha origine dalla giornata di studi “Flora Ruchat-Roncati, le opere, la ricerca, l’insegnamento”, (Politecnico di Milano, 16 aprile 2013), a cura di Carmen Andriani, Serena Maffioletti, Carlo Toson, Ilaria Valente organizzata dal Politecnico di Milano, Scuola di architettura e società, Dottorato di ricerca in Progettazione architettonica e urbana - Dipartimento DAStU; dall’Università Iuav di Venezia, Dipartimento di Architettura Costruzione Conservazione, Dipartimento di Culture del progetto, Scuola di dottorato; dall’Archivio del Moderno dell’Accademia di architettura - Università della Svizzera italiana; con la collaborazione dell’InArch - Istituto Nazionale di Architettura. I curatori desiderano manifestare la loro gratitudine alla famiglia di Flora Ruchat-Roncati, al marito Leo Zanier e alle figlie Anna Ruchat e Elisa Roncati Zanier per l’attenzione partecipe e il generoso sostegno. Il ricordo di Leo, mancato il 29 aprile 2017, ci ha accompagnato nelle fasi finali del volume. Alla sua memoria è dedicato. La pubblicazione del volume è stata resa possibile grazie al sostegno di: Leo Zanier AArchitects, Udine Impresa edile Rugo Sante di Enemonzo (UD)
progetto grafico Il Poligrafo casa editrice redazione Alessandro Lise copyright © dicembre 2018 Il Poligrafo casa editrice 35121 Padova piazza Eremitani - via Cassan, 34 tel. 049 8360887 - fax 049 8360864 e-mail casaeditrice@poligrafo.it www.poligrafo.it ISBN 978-88-9387-013-9
indice
9 Nota dei curatori
13 Con Flora, per Flora Leo Zanier
tra ticino e zurigo
17 Cultura politecnica e costruzione del territorio in Svizzera Ilaria Valente
21 Losanna, 1970 Mario Botta 27 Quattro progetti incompiuti, tranne uno Aurelio Galfetti 31 Flora e le scuole di Riva San Vitale Ivo Trümpy 43 Dagli esordi al Bagno di Bellinzona. Congetture sull’architettura di Flora Ruchat-Roncati Nicola Navone 91 L’insegnamento e la ricerca Sandra Giraudi 105 L’architettura della nuova linea ferroviaria AlpTransit San Gottardo: lettera a Flora Pascal Sigrist 123 Stöckli Leo Zanier
frammenti di territori 137 143
Il viaggio in Italia Carmen Andriani Flora in Friuli. Quattro progetti Carlo Toson
159 185 193
Composizioni infrastrutturali: i sogni ad occhi aperti di Flora Ruchat-Roncati Serena Maffioletti Housing sociale a Taranto Rosario Pavia Ritmi in levare Gabriella Raggi
ritratto di flora 201 La maternitĂ del progetto Serena Maffioletti
apparati 209 Profilo biografico di Flora Ruchat-Roncati Nicola Navone 215 Regesto delle opere a cura di Matteo Iannello 227 Bibliografia a cura di Matteo Iannello
237 Note biografiche degli Autori
UN DIALOGO ININTERROTTO
Abbreviazioni AdM, FRR
Archivio del Moderno, Fondo Flora Ruchat-Roncati
AdM, LG
Archivio del Moderno, Fondo Aurelio Galfetti
AF, GdP
Archivio fotografico del «Giornale del Popolo», Lugano
APIT
Archivio privato Ivo Trümpy, Riva San Vitale
APMB
Archivio privato Mario Botta, Mendrisio
ASTi
Archivio di Stato del Canton Ticino, Bellinzona
AUTC
Archivio dell’Ufficio tecnico del Comune di Chiasso
BGG
Beratungsgruppe für Gestaltung AlpTransit San Gottardo
ETH
Politecnico Federale di Zurigo
FLC
Fondation Le Corbusier, Parigi
Ove non diversamente specificato, gli elaborati grafici e le fotografie pubblicate provengono dal Fondo Flora Ruchat-Roncati dell’Archivio del Moderno, Università della Svizzera italiana
nota dei curatori
Flora Ruchat-Roncati visse i confini come limiti da travalicare, muovendosi dentro e fuori di essi, oltrepassandoli nel pensiero e nella prassi: confini geografici, culturali, esistenziali. Si mosse tra il nord e il sud del Gottardo, tra il nord e il sud del confine italosvizzero, tra le aspre comunità della montuosa Carnia e le corrose bellezze del meridione d’Italia, tra Udine e e Roma, scavalcando insieme ai confini geografici quelli paesaggistico-architettonici, socio-politici e culturali. Travalicò i vincoli delle culture progettuali: dal solido insegnamento di Rino Tami, dal forte sodalizio con Aurelio Galfetti, dal misurabile perimetro teso tra Vacchini, Botta e Snozzi si staccò, muovendo tanto verso il nord svizzero, verso l’approdo al Politecnico di Zurigo depositario della tradizione razionalista e della professionalità civile, e verso il sud italiano, verso il dialogo con il duro mondo delle cooperative edilizie e del progetto abitativo popolare. Infranse confini disciplinari: per quanto magistralmente indirizzato da Tami, il progetto infrastrutturale conseguì con lei un nuovo traguardo, che coniugò la tipizzazione organicamente ambientale del maestro al progetto paesaggistico come razionale risposta alle attuali, complesse modificazioni dei luoghi. Mise in gioco una solidissima professionalità e una visione dell’architettura colta nelle sue radici urbane non solo per tracciare un nuovo orizzonte al progetto paesaggistico-infrastrutturale, ma anche per infrangere la separazione tra architettura e ingegneria, che asservendo di volta in volta l’una all’altra, depauperava entrambe. Raccomandandolo nella scuola e nei molti interventi pubblici, scritti o verbalmente trasmessi, praticandolo fortemente e quotidianamente nel progetto, è nel dialogo con gli ingegneri che nacquero quelle grandi forme, generate dal dominio della statica sui fatti geografici e sui vettori della mobilità. Il superamento del confine trasformato in agire quotidiano portava con sé un costante sommovimento, uno spostamento in avanti delle consuetudini accademiche, sociali, generazionali e di genere, scosse dal suo moto verso un orizzonte umano capace di vivere molte sfaccettature, di inventare alternative migliori. Questa volontà di superamento, questa capacità di mobilità non nascevano da un protagonismo globale inquieto, da un presenzialismo superficiale ansioso, quanto, all’opposto, dalla continua umanistica aspirazione a comprendere più a fondo i problemi reali e attuali, emergenti da una domanda esistenziale e sociale. I luoghi erano da lei abitati, diventavano “case”, e non solo dove ne ha costruite per sé e la sua fami-
nota dei curatori
glia – a Zurigo, a Riva San Vitale, a Roma, in Carnia –, trasformandole in osservatori, in laboratori, in poli gravitazionali di persone e di progetti (in confusione), da cui comprendere e partecipare, con tutti gli strumenti della sua forte umanità e della sua vasta professionalità. Abitare significava conoscere, capire: non colonizzare un luogo, ma sentirlo, avere tempo e spazio per svolgere il filo di un pensiero personale, di una lettura profonda, di una proposta inedita, di un progetto capace. La scelta dei luoghi e quella dei temi/problemi coincidevano, e lei tanto aderiva ad essi, quando da essi si distaccava, portando in ciascuno una forza maturata altrove, l’esperienza cresciuta in altri luoghi e con altri attori, attiva e scaltra come una grandissima, generosissima “passeur”, della vita e dell’architettura. Alla complessità di questa progettista, di questa professoressa, di questa donna questo libro si rivolge, ritrovando nei molti territori materiali e immateriali del suo agire un testimone per delineare una tessera di quel variegato e per certi versi fantastico puzzle che fu la sua vita. Il volume raccoglie così il racconto di chi ha condiviso alcune di quelle tessere: momenti e temi della professione, della didattica, della ricerca, della vita. Persone tutte che l’hanno amata e ne conservano un ricordo incancellabile, scientifico e umano. Queste persone sono state coinvolte nel convegno “Flora Ruchat-Roncati. Le opere, la ricerca, l’insegnamento”, organizzato al Politecnico di Milano il 16 aprile 2013 da Carmen Andriani, Serena Maffioletti, Carlo Toson e Ilaria Valente con Marco Bovati, con il sostegno del Politecnico di Milano, Scuola di architettura e società, Dottorato di ricerca in progettazione architettonica e urbana - Dipartimento DAStU; dell’Università Iuav di Venezia, Dipartimento architettura costruzione conservazione, Dipartimento di culture del progetto, Scuola di dottorato; e dell’Archivio del Moderno dell’Accademia di architettura - Università della Svizzera italiana. Convegno che è stato accompagnato da una mostra, poi riproposta a Roma, curata da Carmen Andriani con Andrea Oldani, Davide Ferrari, Raffaella Massacesi ed Elena Fontanella e sostenuta dall’InArch - Istituto Nazionale di Architettura. La vitalità di Flora Ruchat-Roncati non prevedeva un’oculata gestione della propria fortuna critica: era una seminatrice, non una raccoglitrice, una seminatrice il cui gesto generoso disperdeva (volontariamente?) al vento non poche sementi. E benché molte volte il suo lavoro sia stato pubblicato, solo una monografia le è stata dedicata nel 1998, in occasione del suo congedo dall’insegnamento al Politecnico di Zurigo. La sua ricerca e la sua opera attendono dunque uno studio analitico vasto quanto l’orizzonte del suo magistero professionale e accademico, della sua riflessione d’intellettuale impegnata e di donna combattente, che consenta di giungere a una vera e propria monografia. Né questo volume lo è: esso è una prima ricognizione testimoniale, che getta alcune basi interpretative, disegna alcune costellazioni critiche anche sulla base di quegli inestinguibili documenti che sono i ricordi di chi è stato compagno di un breve o lungo tratto del suo percorso: il compagno di vita Leo Zanier, i sodali degli esordi professionali Mario Botta, Aurelio Galfetti e Ivo Trümpy, gli allievi Sandra Giraudi, che ne è stata anche assistente al Politecnico federale, e Nicola Navone, i collaboratori di molti progetti Rosario Pavia, Gabriella Raggi, Pascal Sigrist e Carlo Toson, le allieve d’elezione Carmen Andriani, Ilaria Valente e Serena Maffioletti. La donazione, voluta da Flora Ruchat-Roncati, del proprio archivio professionale all’Archivio del Moderno e l’ordinamento del fondo archivistico, avviato nell’oc-
nota dei curatori
casione di questo volume e tuttora in corso, sono la premessa a nuovi studi, fra i quali l’indagine monografica avviata dall’Archivio del Moderno, che permetteranno di restituire, in tutta la sua ricchezza, la singolare vicenda di una personalità egualmente partecipe della cultura architettonica italiana e svizzera, naturalmente incline a varcare confini e pienamente inserita in un orizzonte europeo.
Ritratto di Flora Ruchat-Roncati e Leo Zanier negli anni ’90 (foto Danilo De Marco)
con flora, per flora Leo Zanier
Erano giorni in cui tutti ancora speravamo convinti. Radio, chemio, riduzione della massa tumorale, operazione, convalescenza. Così ci dicevano anche oncologo e chirurgo negli incontri quasi quotidiani. E poi viaggio, appena possibile, magari in Egitto. Dove, per diverse ragioni, quasi tutte brutte, non eravamo riusciti ad andare. Flora, seduta o semisdraiata nel letto, compilava sudoku in giornali e riviste, sempre più velocemente. In un block a quadretti, quando quelli prestampati erano esauriti, ne inventava altri di sana pianta. Era diventata una specialista. Io facevo solitari sull’iPad o seguivo le sue compilazioni. E si chiacchierava, si rideva, ci raccontavamo storie, si leggeva tanto. Avevamo molte visite di figlie e figli, parenti, conoscenti e amici, di suoi ex studenti e colleghi. Portavano libri, fiori e sorrisi. Parlavamo anche di lavoro. Un giorno si spalanca la porta ed entrano veloci in monopattino, affiancate, Cecilia e Matilde, allora sei e due anni, chiassose ridendo. Seguono Elisa e Giamma. Le nipotine girano un po’ per la stanza, scoprono la scatola dei guanti chirurgici, ne cavano due, aprono il rubinetto del lavandino, li riempiono d’acqua. Uno scappa di mano e crea una gran pozza sul pavimento che tocca asciugare. «Non sarebbe meglio se invece di acqua ci metteste dentro aria?» Diciamo. Detto e fatto. I guanti diventano subito come delle tette di vitella. Quattro capezzoli verticali e uno orizzontale: il pollice. Lanciati in aria sopra il letto di Flora volano a reazione e si svuotano fischiando. Giamma ne sigilla uno con un nodo, dopo averci anche lui soffiato dentro. Ora è come una gran tetta di vacca da latte olandese. Altri ne gonfia Elisa. Dopo un po’ le tette sono tante e girano spinte dalle loro manine attorno e sopra il letto. Flora ride, anche noi, è diventata una festa, piena di trilli e gridolini. Piccola storia Zen. Consola e non consola. Ma mi viene incontro spesso. Un ricco mercante si rivolge a un monaco illuminato. Gli chiede e poi gli commissiona, avendo il monaco solo dopo molte insistenze accettato, una scrittura bene augurante per la sua famiglia, promettendogli un lauto compenso. Dopo alcuni giorni il monaco porta al mercante una lunga striscia di seta con su scritto, a china col pennello: prima muore il padre poi il figlio poi il nipote
leo zanier
Il mercante non apprezza, va in collera, minaccia di far bastonare il monaco dai suoi servi: «Perché insulti così la mia famiglia?» «Ma cosa hai capito? – gli risponde divertito il monaco. – Quello che ti ho scritto è il miglior augurio che possa farvi. Si sa che tutti dobbiamo morire. Ma se prima muore il figlio, il padre non riesce a trovare consolazione ed il nipote o non nasce o resta orfano. Se invece muore prima il nipote sia il padre che il nonno restano disperati e inconsolabili. Quindi che tutto succeda nell’ordine naturale delle cose è l’augurio che faccio a te e alla tua famiglia». Il tutto può essere dato al femminile: prima muore la nonna poi le figlie poi le nipoti
Così è successo. Nell’ordine più naturale delle cose. Tra lo strazio di tutti: troppo presto. È sempre troppo presto. Ma non ci sono solo i livelli delle generazioni: ad ogni livello, chiamiamole così, si organizzano delle caselle abitate, in questo caso, una da Flora e da me. E questa casella, che era piena di vita intensa, creativa, di affetti, si svuota a metà e diventa quasi fredda penombra. Ma con figli e nipoti e amiche e amici che vanno e vengono, luci calde, vive. Natale 2012: il primo natale senza Flora, a Riva. Son venute tutte, figlie e nipoti. È la sera della vigilia. Sotto l’albero, che è un grande ramo di pino, con palle colorate, pigne di gesso, pigne di cioccolato, candele accese, si spacchettano i regali. Gridolini di sorpresa, saltelli e balletti, risate di piacere. Sono steso sul letto, nella camera accanto, penso: «Come non fosse mai esistita...». Ma guardo tutta quella vita, tutta quella grazia, tutta quella bellezza, tutta quell’intelligenza, che non esisterebbero senza di lei. Né questa casa, anche bellissima, e le tante altre case anche enormi che ha fatto e scuole asili palestre piscine autostrade ferrovie. Di cui si è con grande impegno e sapienza occupata. Di cui voi parlerete. Di cui lascerete memoria...
TRA TICINO E ZURIGO
Flora Ruchat-Roncati, Renato Salvi, Centrale di ventilazione Terri Nord, Autostrada N16 Transjurane, 1989-1998 (foto Heinrich Helfenstein)
cultura politecnica e costruzione del territorio in svizzera Ilaria Valente
Nell’aprile del 2013, presso la Scuola di architettura del Politecnico di Milano, si è tenuta una giornata di studi accompagnata da una piccola mostra sull’opera di Flora Ruchat-Roncati. L’iniziativa è stata concepita da Serena Maffioletti e da me stessa, con Carlo Toson e Carmen Andriani. Nell’anno precedente alla scomparsa di Flora, Serena e io avevamo tenuto un corso di Architettura delle infrastrutture e in quell’occasione avevamo condiviso il nostro interesse per il lavoro di Flora, invitandola a tenere una lezione. Qualche tempo prima avevo chiesto a Flora un intervento nel Dottorato di ricerca in Progettazione architettonica e urbana,1 nel corso del quale aveva tracciato un’interessante descrizione del suo approccio al progetto e alla composizione, con ampi riferimenti al suo insegnamento e al nesso tra la sua ricerca e alcune sperimentazioni nel campo dell’arte. L’invito era seguito a due conversazioni intrattenute con lei a Riva San Vitale, perché volevo scrivere sul suo lavoro, che m’interessava da tempo. Non la conoscevo ancora personalmente e ho incontrato la sua grande disponibilità a illustrare la sua ricerca progettuale e a discuterne a lungo, anche in modo molto informale davanti a una tazza di caffè nella cucina della sua bella casa, oltre che davanti ai disegni e alle fotografie. Ero rimasta molto colpita dalla sua intelligenza, dalla sua passione e dalla sua attenzione: avevamo rivisto insieme più volte il testo del dialogo sul progetto AlpTransit,2 progetto che, allora, non era ancora stato pubblicato se non parzialmente. I contributi della giornata di studi sono raccolti in questo volume e descrivono bene lo spessore della figura di architetto e di professore, la passione civile e la grande umanità di Flora Ruchat-Roncati. Gli interventi dei colleghi e degli amici invitati hanno ripercorso i temi e i luoghi dove ha esercitato l’attività di progettista. L’intreccio è illuminante, perché chiarisce i punti fermi di una pratica progettuale che si è precisata nel tempo attraverso l’interazione e l’assimilazione di esperienze anche molto diverse: dal Canton Ticino, a Roma, a Taranto, al Friuli, ai paesaggi delle infrastrutture elvetiche; dall’abitare alle infrastrutture, le case e i ponti; dalla passione giovanile per Le Corbusier che, accanto a quella per le arti, ha informato in filigrana la fondamentale plasticità della sua architettura. Fin dall’inizio mi hanno colpito la forza e la competenza con cui Flora RuchatRoncati si era cimentata sul terreno e nel confronto con l’ingegneria, il che ha un significato particolare in Svizzera. È noto che dalla metà dell’Ottocento, la figura dell’ingegnere, così come il Genio civile e il Genio militare, acquistano un ruolo centrale nella costruzione della Confederazione. Già dalla metà del Settecento gli ingegneri svizzeri, come Grubenmann, poi Dufour, Ritter, fino a Maillart, sono grandi
mario botta
Mario Botta, Tita Carloni, Aurelio Galfetti, Flora Ruchat-Roncati, Luigi Snozzi, Progetto per il campus del Politecnico federale di Losanna a Dorigny, 1970 1-2. Modello (APMB)
ďœ˛ďœ˛
losanna, 1970
3. Planimetria 4. Schemi delle fasi di sviluppo
ďœ˛ďœł
ivo trmpy
Aurelio Galfetti, Flora Ruchat-Rocati, Ivo Trümpy, Centro scolastico, Riva San Vitale, 1961-1974 1. Carta topografica di Riva San Vitale, Canton Ticino; in evidenza l’area del Centro scolastico 2. Veduta aerea di Riva San Vitale, 12 maggio 1964; in basso a destra il cantiere, in fase di conclusione, della prima tappa delle scuole (ETH Bib., Comet Photo AG, Zurigo) 3. Veduta da est del Centro scolastico, con la palestra e l’asilo (APIT)
flora e le scuole di riva san vitale
4. Pianta del piano terreno 5. Pianta del primo piano 6. Pianta del secondo piano
ďœłďœł
ivo trmpy
Aurelio Galfetti, Flora Ruchat-Roncati, Ivo Trümpy, Centro Scolastico, Riva San Vitale, prima fase 1961-1964, seconda fase 1968-1974 7. Prospetto meridionale della prima fase (foto di Alberto Flammer) 8. Seconda fase, modello di studio 9. Le Corbusier, progetto delle “petites maisons” per l’appezzamento Durand a Oued Ouchaïa, Algeri, 1933-1934, modello di studio (Parigi, Fondation Le Corbusier; ©FLC) 10. Le Corbusier, Quartiers modernes Frugès a Pessac, Francia (da Le Corbusier, Oeuvre complète, I, 1910-1929, Zurigo, Girsberger, 1929; ©FLC)
flora e le scuole di riva san vitale
11. Prima fase delle scuole, prospetto orientale e occidentale di uno dei corpi, variante non eseguita, 15 gennaio 1963 (AdM, LG) 12. Le Corbusier, progetto dei “grand immeubles” per l’appezzamento Durand a Oued Ouchaïa, Algeri, 1933-1934, sezione trasversale (da Le Corbusier, Oeuvre complète, II, 1929-1934, Zurigo, Girsberger, 1934; ©FLC).
nicola navone
17. Flora Ruchat-Roncati, Aurelio Galfetti, Ivo Trümpy, Casa Ruchat, Morbio Inferiore (Canton Ticino), 1966-1967, veduta da est (foto di Alberto Flammer)
dagli esordi al bagno di bellinzona
Di tutt’altro tenore è il progetto datato 13 giugno 196641 (figg. 21-22). La pianta è questa volta generata da un parallelepipedo prossimo a un quadrato (11,98 per 10,90 metri di lato), suddiviso lungo l’asse nordovest-sudest in tre campate, che coincidono con la struttura portante primaria, e collocato a cavaliere del muro di cinta che delimita il lotto verso la strada. Elemento caratteristico dell’impianto, e perno su cui s’incardinano gli sviluppi successivi, è l’imbricazione di spazi chiusi e aperti (questi ultimi costituiti da generose terrazze coperte), il cui principale corollario, e traslazione sul piano della distribuzione, è costituito dalla sovrapposizione di una scala interna e di una scala esterna: la prima porta dall’ingresso al piano principale (e dall’ingresso scende al piano interrato), mentre la seconda conduce dalla terrazza a doppia altezza del primo piano a quella del livello superiore (una soluzione memore della rampa di Villa Savoye, e applicata anche nella scala a chiocciola che collega il soggiorno a doppia altezza con il tetto terrazza di Casa Rotalinti). Collocata in posizione baricentrica e a due rampe, la scala “anfibia” di Casa Ruchat (per due piani interna e nell’ultimo esterna) è affiancata da una seconda scala, orientata come la precedente ma in posizione defilata, tra la camera e il bagno, che assicura il collegamento interno tra primo e secondo piano, dove i soli spazi chiusi sono costituiti dalla lavanderia e da uno studiolo.42 Gli ambienti principali si trovano sempre al primo piano e il soggiorno è ancora a doppia altezza. I prospetti sono rivestiti di mattoni di cotto, con i solai di cemento armato lasciati a vista e una poderosa copertura piana, pure di cemento armato, che aggetta su due lati e presenta due aperture quadrate in corrispondenza delle terrazze sottostanti. Tale materializzazione, tuttavia, sembra il frutto di un improvviso ripensamento, giacché nel formulario che accompagna la richiesta della licenza edilizia, datato 15 giugno 1966, i mattoni di paramento e i serramenti di legno sostituiscono il cemento armato a vista e i serramenti di metallo originariamente previsti43 e poi reintegrati nello sviluppo del progetto. Il progetto del 13 giugno 1966 segna un vero e proprio cambiamento di paradigma. Se nelle prime due varianti l’attenzione viene focalizzata sull’articolazione plastica dell’edificio, forse dettata dal desiderio di adeguare il volume alla forma del lotto e di limitarne la scala, e su una ricerca della varietà che porta a frammentare i prospetti in una serie di episodi (mi riferisco al proliferare della forma e delle dimensioni delle finestre), nel successivo radicale ripensamento ci si affida alla forza ordinatrice della geometria, disponendo un volume articolato dall’imbricazione di spazi aperti e chiusi, le cui dimensioni richiamano le case ottocentesche della borghesia forese. Cambia, inoltre, il rapporto con il paesaggio: mentre nelle prime ipotesi la casa si poneva in relazione con la collina di Morbio e di Sagno, ora l’edificio oppone da quel lato un prospetto quasi completamente cieco, ad eccezione della grande finestra che illumina la scala secondaria, di un’apertura verticale in corrispondenza della loggia (che permarrà nello sviluppo successivo) e di una bassa finestra orizzontale nella rimessa per l’automobile. A dispetto delle sue numerose aperture, e fatto salvo il piano terreno, affacciato su un giardino cinto da muri (sorta di hortus conclusus o di chioso, come si dice in Ticino), l’edificio assume un carattere introverso. La loggia a doppia altezza, fulcro dello spazio domestico, è chiusa per buona parte da una parete alta 3,5 metri (per un’altezza complessiva dello spazio di 4,9 metri) che libera la vista soltanto alle due estremità, in corrispondenza dell’accesso alla loggia, da un lato, e della camera da letto, dall’altro. Una soluzione che, al netto delle due incisioni laterali, ricorda il cor-
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dagli esordi al bagno di bellinzona
Flora Ruchat-Roncati, Aurelio Galfetti, Ivo TrĂźmpy, Casa Ruchat, Morbio Inferiore, 1966-1967 18. Secondo progetto preliminare, piante, 10 marzo 1966, inedito 19. Secondo progetto preliminare, sezioni e prospetti, 18 marzo 1966, inedito 20. Secondo progetto preliminare, schizzi prospettici, [1966], inedito 21. Progetto del giugno 1966, piante, 13 giugno 1966, inedito 22. Progetto del giugno 1966, prospetti, 13 giugno 1966, inedito (AdM, LG)
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tracciato, gli architetti collocano al piano terreno il refettorio con la cucina e la scala interna che porta al piano superiore e, separato, un piccolo vano tecnico. Il resto della superficie viene trattato come un vasto portico a un piano, che diventa a doppia altezza laddove vi sono le scale di accesso al primo piano e alle due sezioni, collegate dall’ampio locale alternativamente utilizzabile come sala per i giochi e dormitorio, così da generare uno spazio fluido e continuo. Anche in questo caso siamo di fronte a un impianto planimetrico compatto che articola, al suo interno, spazi aperti e chiusi, stabilendo tuttavia con il sito un rapporto diverso: non soltanto perché la permeabilità del piano terreno dell’asilo di Riva richiama piuttosto le prime due varianti di Casa Ruchat (dove il grande portico, in parte a doppia altezza, era posto in continuità con il prato), ma soprattutto per il carattere assai meno introverso dell’edificio, proiettato sul paesaggio circostante attraverso le ampie aperture a tutt’altezza. Tra i due progetti sembra stabilirsi una sorta di dialogo a distanza, nel quale saranno piuttosto le differenze a prevalere, a cominciare dalla soluzione strutturale. Nella casa a Morbio Inferiore è evidente, a mano a mano che il progetto si consolida, il desiderio di differenziare la copertura e i suoi elementi portanti dai volumi che questa accoglie sotto di sé. Per questo motivo i portanti perimetrali non si configurano come pilastri quadrati, ma su tre lati si mutano in un setto di calcestruzzo armato disposto a un terzo del prospetto e a questo perpendicolare:51 una soluzione che suggerisce l’immagine di un movimento rotatorio e rinvia a un impianto che, nel decennio precedente, aveva trovato applicazione finanche negli oggetti di arredo, come il celebre tavolino da caffè PK 61 disegnato nel 1956 da Poul Kjerholm per E. Kold Christensen e che ritroviamo, singolare mise en abyme, nel tavolino raffigurato in una delle prospettive di studio degli interni di Casa Ruchat disegnate da Flora.52 Diversamente da quanto accade nell’asilo di Riva, in Casa Ruchat si sovrappongono, saldandosi tra loro, due sistemi strutturali: quello associato alla copertura introduce una tensione dinamica e, per gli ampi tratti a sbalzo del solaio, inclina a un certo “eroismo”, mentre quello associato ai volumi d’abitazione appare assai più semplice e, alla metà degli anni Sessanta, del tutto convenzionale. Ma proprio qui sorge un’ambiguità che rimane irrisolta. In primo luogo, i due sistemi non sono indipendenti, bensì collaborano l’uno con l’altro; inoltre, il sistema associato ai volumi d’abitazione non è una pura struttura a telaio con pareti di tamponamento, ma una struttura mista con muri e pilastri di calcestruzzo armato. Questa caratteristica, naturalmente, non agevola una netta differenziazione tra le due strutture (ovvero tra la copertura e i volumi che questa accoglie e ripara), sicché Flora Ruchat-Roncati sarà tentata (come documentano due elaborati grafici pubblicati nella monografia apparsa nel 1998, ma non reperiti tra le carte pervenute all’Archivio del Moderno) di ricorrere alla policromia, attribuendo ai volumi che contengono gli ambienti domestici una colorazione scura (che non sapremmo meglio precisare, trattandosi di una riproduzione in bianco e nero, e non potendoci avvalere dell’originale), su cui spiccano i setti e il muro in cemento armato (verso la strada) che reggono perimetralmente la copertura.53 Una soluzione che tuttavia non trova riscontro nelle fotografie che ritraggono la casa da poco terminata (e che sono un’imprescindibile testimonianza di un’opera nel frattempo sconciata dai nuovi proprietari) (fig. 30). Terminata, occorre aggiungere, introducendo rispetto alla variante dell’agosto 1966 ulteriori modifiche, documentate dalla
dagli esordi al bagno di bellinzona
Flora Ruchat-Roncati, Aurelio Galfetti, Ivo Trümpy, Casa Ruchat, Morbio Inferiore, 1966-1967 30. Veduta da nord, 1967 ca 31. Disegni per pubblicazione
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serie di disegni del 30 gennaio 196754 e dalle piante pubblicate nel 1977 sulle pagine di «L’architettura: cronache e storia»55 (fig. 31). Ma Casa Ruchat non intesse soltanto relazioni interne all’opera dei suoi autori. È infatti palese l’affinità con la lecorbusiana Villa Shodhan, seppure al netto della diversa scala: affinità che risiede soprattutto nella già evidenziata imbricazione di spazi interni ed esterni, conclusa dalla poderosa linea orizzontale del tetto, la cui autonomia, rispetto alle altre parti che compongono il volume, è qui in parte mitigata dal raccordo con la parete che chiude l’edificio verso la strada. Com’è pure affine la scelta di concepire le terrazze che scavano il volume come entità separate dal giardino (a cui si può accedere solo passando dall’interno della casa): entità che instaurano con il paesaggio, quantomeno nel progetto realizzato, un rapporto fondato su un’appropriazione visuale associata a un distacco fisico, similmente a quanto accade nella Villa Savoye56 (di cui Casa Ruchat sarebbe, secondo Flora, «una versione domestica»),57 opera del resto associata esplicitamente, nell’Oeuvre complète, a Villa Shodhan (definita come una declinazione tropicale e indiana, «au calendrier Le Corbusier d’après 1950», delle risorse insite in quel celebre precedente).58 La ricostruzione della genesi di Casa Ruchat sembra dimostrare come il richiamo al modello lecorbusiano sia sollecitato dalla dinamica interna al progetto, su cui s’innesta in seconda istanza riorientando le scelte degli architetti. Detto altrimenti, non sembra essere stato l’improvviso imporsi del modello di Villa Shodhan a determinare il radicale cambiamento d’impostazione del progetto, quanto piuttosto il contrario: l’affermazione di una volontà di cambiamento, per una serie di considerazioni maturate sulla scorta delle prime varianti progettuali, ha indotto gli architetti a cercare esempi utili ad attuarlo nel migliore dei modi, individuandoli all’interno di una ben precisa tradizione. In particolare, il richiamo a Villa Shodhan potrebbe essere stato sollecitato dalla volontà di conferire a Casa Ruchat una geometria chiara e una volumetria maggiore di quanto richiesto dal programma funzionale, poiché comprensiva delle ampie superfici destinate alle terrazze: e dunque tali da differenziarla dalla «fungaia di villini»59 che stava inesorabilmente invadendo i terreni attorno ai villaggi ticinesi. E questo in perfetta consonanza con il rifiuto di quell’attitudine “mimetica” attribuita agli architetti che avevano sposato, con esiti tuttavia notevoli, gli orientamenti organicisti veicolati nel piccolo cantone subalpino sia dal versante italiano che da quello ultramontano (zurighese in particolare).60 Un’attitudine a cui Ruchat-Roncati, Galfetti e Trümpy (e gli altri architetti loro coetanei, poi arbitrariamente raccolti sotto l’etichetta di “Scuola ticinese”) oppongono una sorta di “presa di distanza” che si traduce, come abbiamo visto in Casa Ruchat e come vedremo nel Bagno di Bellinzona, in una “messa in scena” del paesaggio del tutto diversa, poiché fondata principalmente su un’attenta selezione delle vedute e sulla ricerca del lecorbusiano “sguardo orizzontale”. Analogamente a Casa Rotalinti, Casa Ruchat riafferma il desiderio di insediarsi nel territorio con volumi dalla geometria elementare, profondamente scavati e pertanto animati da risoluti rapporti chiaroscurali. Volumi che accolgono, articolandoli attraverso vere e proprie promenades architecturales, logge, terrazze e giardini pensili, e si configurano appunto come macchine per percepire il paesaggio, secondo il dettame lecorbusiano per il quale «un site ou un paysage n’existe que par le truchement des yeux. Il s’agit donc de les rendre présents dans le meilleur de leur ensemble ou de
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leurs parties».61 Un’impostazione che sarà radicalmente riformulata nelle prime opere di Mario Botta, da Casa Caccia a Casa Bianchi a Riva San Vitale. La posta in gioco per gli architetti di questa generazione, infatti, non è più l’integrazione di un edificio in un determinato luogo, ma il contributo che l’edificio può offrire alla costruzione del territorio, ordinandone la struttura e la percezione. In questo giro di anni il rapporto tra architettura e territorio viene assumendo un ruolo centrale nella riflessione di Flora Ruchat-Roncati e Aurelio Galfetti, grazie anche alle esperienze compiute accanto a Rino Tami in quel grande laboratorio di progettazione che fu la costruzione dell’autostrada N2 Chiasso - San Gottardo (sulla quale converrà rinviare al saggio di Serena Maffioletti in questo stesso volume). È anche di queste esperienze che si alimenta l’opera probabilmente più nota di Galfetti, Ruchat-Roncati e Trümpy, vale a dire il Bagno di Bellinzona, la cui progettazione prende avvio a poco più di un anno di distanza dalle prime ipotesi per Casa Ruchat. Il Bagno di Bellinzona Esito di un concorso di architettura bandito il 31 marzo 1967, il progetto di Aurelio Galfetti, Flora Ruchat-Roncati e Ivo Trümpy per il Bagno di Bellinzona (fig. 32) si destreggia tra i vincoli imposti dal bando e gli obiettivi cui mirano i tre architetti. Tra questi vi è, in primo luogo, la costruzione di una passerella pedonale sopraelevata, che nella sua massima estensione avrebbe collegato l’area prossima al Ginnasio cantonale (sorto da poco secondo il progetto di Alberto Camenzind e Bruno Brocchi), al limitare del quartiere di via Vela, con la golena del fiume Ticino, luogo di svago dei bellinzonesi, eccedendo in tal modo, e di gran lunga, le dimensioni del lotto individuato dal bando di concorso: circostanza che evidenzia il coraggio e la lungimiranza della giuria e soprattutto della committenza, che non soltanto non si oppose a un progetto che avrebbe comportato, per essere realizzato compiutamente, l’acquisto di ulteriori appezzamenti di terreno, ma lo assunse sino in fondo, sostenendolo anche quando fu oggetto di una tenace opposizione, superata soltanto dopo aver affrontato e vinto un referendum popolare. Da questo punto di vista, il progetto per il Bagno di Bellinzona esemplifica l’approccio ai concorsi coltivato da Aurelio Galfetti, Flora Ruchat-Roncati e Ivo Trümpy, per i quali il tema progettuale va anzitutto considerato nella sua valenza urbanistica e territoriale, muovendo dalla grande scala e prescindendo dai limiti giuridici imposti dal bando di concorso (con l’accortezza, nel caso della proposta concorsuale per il Bagno di Bellinzona, di circoscrivere la passerella, nelle tavole e nel modello, entro i confini del lotto, palesando la sua reale estensione soltanto negli schizzi che illustrano la tavola di presentazione; figg. 33-35).62 Questo particolare approccio è condiviso da architetti come Luigi Snozzi (membro della giuria, accanto a Tita Carloni e all’architetto luganese Sergio Pagnamenta) o Mario Botta, che lo manifesteranno in modo altrettanto esemplare nel secondo concorso, bandito nel 1978, per l’ampliamento della stazione ferroviaria di Zurigo; e che è tuttora operante, come attitudine di fondo (sovente inibita dalla sempre maggiore difficoltà a premiare proposte che mettono in discussione gli assunti del bando), nei migliori rappresentanti delle nuove generazioni di architetti ticinesi, a configurare una sorta di tradizione.
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Aurelio Galfetti, Flora Ruchat-Roncati, Ivo TrĂźmpy, Bagno di Bellinzona (Canton Ticino), 1967-1970 32. Veduta aerea da nord, 1970 33. Progetto di concorso, pianta del primo piano, agosto 1967 34. Progetto di concorso, veduta del modello, 1967 (AFGdP) 35. Progetto di concorso, particolare della tavola di presentazione, agosto 1967
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di Bellinzona si vedano i saggi di B. Reichlin, Un paradigma di architettura territoriale, cit. e F. Graf, M. Sciarini, La costruzione dell’architettura, il restauro della costruzione, in Il Bagno di Bellinzona..., cit., pp. 45-68. 82 Cfr. Storia illustrata del progetto. Le varianti intermedie e il progetto approvato (ottobre 1967-aprile 1968), in Il Bagno di Bellinzona..., cit., pp. 76-89. 83 Si veda, al riguardo, l’analisi compiuta da F. Graf, M. Sciarini, La costruzione dell’architettura..., cit., pp. 45-68, da cui desumo la citazione. 84 Secondo la testimonianza rilasciata allo scrivente da Aurelio Galfetti e Flora Ruchat-Roncati. 85 Citazione tratta dal rapporto della giuria conservato in AdM, Fondo Aurelio Galfetti, e citato ivi, p. 45. 86 La citazione è tratta da Ch. Baudelaire, Exposition universelle 1855 Beaux-arts. I. Méthode de critique. De l’idée moderne du progrès appliquée aux Beaux-Arts. Déplacement de la vitalité (nella versione originale: «J’ai essayé plus d’une fois, comme tous mes amis, de m’enfermer dans un système pour y prêcher à mon aise. Mais un système est une espèce de damnation qui nous pousse à une abjuration perpétuelle; il en faut toujours en inventer un autre, et cette fatigue est un cruel châtiment»).
l’insegnamento e la ricerca Sandra Giraudi
L’insegnamento e il mestiere dell’architetto: due ruoli in Flora Ruchat-Roncati uniti in una naturale e profonda necessità primaria. Consolidare il ricordo della sua persona e della sua eredità culturale significa riconoscere una diversità insostituibile. Significa intuire, in ogni traccia del suo cammino, la forza per cogliere ogni spunto della vita al fine di costruire, “con coscienza”, ideali nella realtà. La lettura e la comprensione dell’insieme del suo insegnamento, non solo quello legato alla didattica, implicano l’approfondimento del suo percorso umano e professionale, costellato di scelte consapevoli, indagate con severa costanza. Prima ancora di definire le proprie scelte, Flora Ruchat-Roncati provocava dialoghi e confronti, arte indispensabile per crescere nel tempo. Fondata sulla volontà di comunicare e conoscere l’essere umano colto nell’inscindibile relazione con il proprio ambiente, la sua indole anticipava quanto sarebbe diventato il suo specifico approccio alla vita anche attraverso la professione, sondando ogni orientamento che il mestiere le concedeva, valicandone le barriere fissate dalla società. Questo scritto raccoglie momenti essenziali della sua ricerca e del suo insegnamento con l’oggettività di uno sguardo attento e la soggettività dell’esperienza diretta: quella di una formazione, tracciata e maturata al suo fianco al Politecnico di Zurigo e poi oltre, l’amicizia. Il messaggio di questo contributo ha l’obiettivo di marcare l’importanza della “continuità”: un valore che Flora poneva in primo piano, perché anche l’insegnamento e la ricerca sono senza inizio e fine, e perché la consapevolezza di ciò rende ogni apporto utile. La sintesi della ricerca e della didattica di Flora Ruchat-Roncati non può limitarsi agli anni istituzionali. È essenziale focalizzare anche i suoi ultimi insegnamenti: momenti che Flora avrebbe voluto trascrivere in pagine mai raccontate, pensieri che prendevano forma in un presente compiuto. Questi ultimi tasselli rivelano una priorità: la relazione fra “il prima” e “il dopo” l’insegnamento accademico. Nel 1985, dopo diverse esperienze didattiche in numerose e rinomate università, Flora Ruchat-Roncati è nominata professore ordinario al Politecnico di Zurigo, la prima donna nella storia dell’istituzione svizzera, la medesima dove aveva studiato negli anni Cinquanta. Fine del suo insegnamento è formare soprattutto persone responsabili e culturalmente preparate, capaci di riflettersi nel proprio tempo, non soltanto architetti. L’insegnamento diventa così il modo per approfondire il “senso” del mestiere, liberandolo dai vincoli che la società di oggi impone quasi non fosse più necessario, scalzato
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dai tanti ingegneri e specialisti. Obiettivo della sua didattica è modellare gli strumenti per diventare indispensabili nel proprio ruolo, aprendo nuovi sensi alle potenzialità del mestiere. L’architetto è più forte se libero dai limiti imposti da tradizioni divenute estranee allo sviluppo della realtà contemporanea. Nelle sue lezioni i disegni di Piranesi raffiguranti le prigioni fantasiose dove tutto era possibile, anche la libertà, erano sempre presenti. Così immaginava e formava architetti per il futuro, capaci di riconoscere il proprio ruolo senza subire condizionamenti. Prima d’intraprendere con determinazione la propria formazione, sull’eco delle parole di Vitruvio – pagine di un regalo importante – Flora Ruchat-Roncati mantiene riserve sulla scelta definitiva: architettura, pittura, scultura o persino scalpellino. Vitruvio, anticipando quanto le appariva più che mai attuale, proclamava che l’architetto deve essere in grado di fare tutto, di conoscere tutto, ogni scienza e ogni arte: l’unica strada per raggiungere una sintesi coerente e unitaria del progetto architettonico. Al termine degli studi decide che non le bastava essere solo un architetto: ed è proprio per questa scelta che diventa un eccellente architetto, in continuo confronto con altri mestieri. La soglia fra questi ruoli, sempre tesa a raggiungere il potenziale più arricchente, era una delle ragioni “certe” di Flora Ruchat-Roncati. Era presente in ogni suo insegnamento e ricerca, motivando il fine da raggiungere: indagare la realtà oltre le apparenti abitudini, individuare significati oltre le funzioni richieste, sperimentare ogni trasformazione oltre qualsiasi imposizione. Era un architetto abile a tessere i fili tra tante discipline diverse: pertanto un architetto moderno, così come Vitruvio descriveva nelle sue pagine. L’insegnamento ha concesso a Flora Ruchat-Roncati un importante spazio d’indagine e riflessione sul senso del mestiere, divenuto il vero senso della sua ricerca. Il parallelismo tra entrambi i ruoli, insegnante e architetto, l’ha condotta a sviluppare il proprio modo di pensare l’architettura, acquisito e maturato dall’esperienza, in base a oggettive fondamenta, definendo momenti stabili lungo il percorso progettuale, inteso quale processo di trasformazione. Approccio sostanziale è comprendere ogni realtà oltre l’abitudine quotidiana, individuandone razionalmente e soggettivamente le priorità. In un naturale rigore insegnava a riconoscere l’eccezione, la priorità di accogliere per ordinare ogni realtà, sempre trasformabile. Le basi dell’architettura trasmesse da Flora Ruchat-Roncati trovano origine nella sua cultura e personalità. Sono le radici di un albero che ha ramificato strategie didattiche dinamiche, pronte a cogliere spunti anche nelle giovani generazioni, ma solo se riconducibili a una logica di “continuità” rispetto alle fonti. La sua didattica fondava le proprie ragioni soprattutto in una successione culturale, necessaria per trasformare nel presente il passato, essenziale per aggiungere nuovi tasselli alla storia. Una citazione di Elio Vittorini tornava spesso nei suoi scritti e nelle lezioni: «Non si compie mai un lavoro che va da A a Z, ma si assume un materiale preformato, un’esperienza collettiva già cosciente di se stessa e la si trasforma, senza tuttavia che la società a cui la si restituisce possa sentirla estranea, disconoscerla o rifiutarla».1 L’insegnamento di Flora Ruchat-Roncati poggia saldamente sulla sua esperienza, a risultato della maturazione di conoscenze assimilate nel proprio vissuto. Soprattutto nasce dai suoi “luoghi”, dove saggia nella vita ciò che poi avrebbe focalizzato nella didattica. Questi luoghi diventano campo di sperimentazione, coinvolgendo i temi
l’insegnamento e la ricerca
1. Flora Ruchat-Roncati in Italia, primi anni Sessanta 2. Flora Ruchat-Roncati al cantiere delle Scuole di Riva San Vitale, 1964 ca 3. Vista della casa per il fine settimana a Brusino, lago di Lugano, 1958 4. Studio recente che apparenta la casa a Brusino al secondo schema planimetrico di Le Corbusier
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5-7. La casa di Flora Ruchat-Roncati a Riva San Vitale, 1967-1996, viste della corte e dell’interno (foto di Detlef Leinweber)
l’insegnamento e la ricerca
successivamente affrontati nella professione e nella scuola: in ognuno possedeva una casa, un rifugio, che usava come architetto e come donna. Il primo luogo: Riva San Vitale Nel 1967 Flora Ruchat-Roncati acquisisce a Riva San Vitale la “corte”, uno spazio sempre presente nella sua vita e parte di una memoria positiva del passato (figg. 5-7). La corte, in tutte le variazioni di spazio fra collettivo e privato, è il luogo dove le generazioni s’incontrano, dove il tempo scorre uguale per tutti, dove si sviluppano idee e pensieri. In una precisa visione accoglie, nella sua corte, amici e compagni di vita aperti ad approfondire insieme il senso di questo spazio. Sullo sfondo di un profondo idealismo, coglie il lascito del momento storico e culturale nel quale è cresciuta: la Seconda Guerra mondiale nella vicinissima Italia e, per quanto marginali, le conseguenze per il Ticino le sono presenti, con sentimenti di ristrettezza e preoccupazione. È intensamente attenta ai movimenti culturali generati da quel conflitto, da quanti l’hanno preceduto e seguito: dai futuristi alla ricerca di una città ideale, al razionalismo italiano dell’architettura del regime, al costruttivismo russo e alle sperimentazioni viennesi. I pensieri dibattuti nella sua “corte”, calcavano l’entusiasmo e la ricerca di questi movimenti. Il secondo luogo: Roma Nel 1975 Flora Ruchat-Roncati intraprende una sorta di fuga nella stratificazione storica di una capitale, con i suoi viali e piazze: Roma. Ad attirare la sua attenzione sono soprattutto i luoghi “marginali” della città, una volta appartenuti a qualcuno, ora frammenti di storia di nessuno; luoghi costruiti sulle tracce di un passato denso di significati, oggi aree dal potenziale aperto a mutazioni urbane. Il tema della riconversione diventa argomento centrale nella sua indagine, alla quale seguirà una sperimentazione costante nella pratica professionale e nella didattica (fig. 5). Ad affascinare la sua ricerca è lo spazio pubblico in tutte le sue forme. Piazza Navona ne ne svela il genius loci, dove il vuoto e la massa, “dati” a priori, preesistono alla struttura degli edifici, alle loro caratteristiche, ai loro diversi livelli di nobiltà. Di piazza Navona scrive: È uno spazio magico, tra i pochi che nell’esperienza di una vita si collezionano sulle dita di una mano. Ma proprio perché magico, e la magia è segreta, quindi indicibile, aggireremo questo oggetto da lontano, senza pretendere, senza volere, trasmettere nessun sentimento. Poesia è ciò che resta dopo che si è resa nota la funzione.2
Poesia e magia vincoleranno Flora Ruchat-Roncati a Roma. Il terzo luogo: Zurigo Nel 1984 Flora Ruchat-Roncati si trasferisce in una nuova realtà urbana a seguito dell’ufficializzazione del suo futuro istituzionale presso il Politecnico federale di Zurigo. La città a nord delle Alpi, a confronto con sostanziali temi infrastrutturali e con un intenso dinamismo produttivo, le offre soggetti ideali di riflessione sulle trasformazioni e il recupero qualitativo delle periferie. Le estensioni delle zone in-
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All’esterno le due canne devono essere scalate una rispetto all’altra in modo da evitare il ricircolo dell’aria, cioè che l’aria calda spinta dal treno in uscita dal tunnel non sia aspirata dal treno che nel medesimo istante entra nella canna adiacente.
4.
Dato che si tratta di una linea adibita sia ai treni merci che ai treni ad alta velocità, i raggi di curvatura sono importanti. Spostare anche di poco il tracciato in un determinato punto, ad esempio per ottenere una migliore integrazione nel paesaggio, ha delle ripercussioni su un tratto considerevole.
5.
La linea esistente deve rimanere in funzione. Per evitare qualsiasi incrocio che renderebbe impossibile l’uso della galleria, il suo tracciato deve essere modificato leggermente in modo tale da farlo passare sopra la nuova linea veloce.
La risposta architettonica proposta è in fondo abbastanza semplice: la nuova tratta della linea esistente, nello scavalcare quella veloce, disegna con chiarezza il segmento posteriore di una grande superficie inclinata a forma di mezza luna o di falce, attraverso la quale fuoriescono le due canne scalate del nuovo tunnel. La superficie di questa “falce” è sopraelevata nella parte posteriore per darle maggior forza dal punto di vista visivo. È ricoperta con blocchi di pietra in analogia con le opere di sostegno che si trovano lungo la Valle Leventina, una sorta di richiamo al paesaggio costruito storico lungo la linea ferroviaria esistente, che i futuri fruitori della galleria di base non vedranno più. Per un’integrazione ottimale dell’insieme, la depressione del terreno che si forma ai piedi della montagna viene riempita con materiale di scavo. Le superfici antistanti e retrostanti la “falce” sono riconvertite in spazi naturali. Esse permettono anche di integrare alcune opere accessorie necessarie al funzionamento del tunnel come degli edifici tecnici, delle vasche di raffreddamento o dei pozzi di ventilazione, strutture architettoniche “criptiche”, data la loro grande estensione sotterranea. Siccome la topografia e i dati tecnici relativi ai due ingressi del tunnel sono molto simili, la risposta architettonica per il portale nord di Erstfeld e per quello sud di Bodio è identica. Non si tratta di semplici entrate o uscite di un tunnel, ma della costruzione di nuovi paesaggi che si estendono in lunghezza per più di 800 metri, diventando così i “luoghi dei portali”. Al portale nord a Erstfeld, un grande muro di sostegno a monte della “falce” fa parte del nuovo paesaggio, una sorta di parete rocciosa artificiale costruita per proteggere dall’eventuale caduta di sassi. Lavorando sull’integrazione e la geometria di questo muro, siamo giunti ben presto alla conclusione che bisognava fosse il più scuro possibile in modo da confondersi alla vista con il fianco boscoso della montagna e da non compromettere il disegno preciso della “falce”. Ricorderai certamente che abbiamo dovuto insistere parecchio con le persone interessate, sempre col rischio che l’idea venisse bocciata... Ironia della sorte o semplice coincidenza, l’impresa ha cominciato a dipingere il muro di nero il 24 ottobre 2012, un po’ come se quel giorno l’intero cantiere si fosse messo in lutto... Il camino di ventilazione della Val Nalps Uno dei tre accessi intermedi necessari alla costruzione e allo sfruttamento della galleria di base si trova a Sedrun. La parte principale è costituita da un pozzo verticale, vero e proprio cordone ombelicale del sistema che, con la sua altezza vertiginosa di
l’architettura della nuova linea ferroviaria alptransit san gottardo
800 metri, sembra tratto da un romanzo di Jules Verne. Per la ventilazione di questo pozzo è stato costruito un camino in una valle laterale, la Val Nalps, ai bordi della stretta strada che porta alla diga del Lai da Nalps. Esso conduce direttamente nelle viscere della terra e si tratta del primo manufatto definitivo costruito per il progetto AlpTransit San Gottardo. Frutto di un lavoro interdisciplinare, esso risponde attraverso la forma ai numerosi vincoli imposti: inserito come un cuneo da boscaiolo nel fianco ripido della montagna, funge allo stesso tempo da paravalanghe, da accesso per la manutenzione, da piazzola di manovra e da camino di aerazione da cui esce l’aria calda che risale dai tubi della galleria situata circa 900 metri più in basso. La centrale di Faido A Faido, altro accesso intermedio al tunnel, la scommessa, a fronte di diversi commitenti, è stata quella di concepire un edificio unico che potesse ospitare funzioni molto diverse tra loro: la centrale di ventilazione della stazione multifunzionale della galleria, l’edificio della tecnica ferroviaria, gli impianti coperti della sottostazione elettrica adiacente delle FFS e l’accesso al cunicolo di sondaggio nella sinclinale di Piora. Tutti questi elementi sono stati integrati dentro a un lungo muro di sostegno, zoccolo minerale dalla geometria precisa che lascia indovinare le attività ospitate, nave di cemento solidamente ancorata ai piedi della parete rocciosa. Insieme alla nuova sottostazione elettrica a cielo aperto che fornisce energia al tunnel, e a un piazzale d’ingresso, l’edificio farà parte di una composizione d’insieme, un richiamo alla presenza della galleria di base che si trova 2 km circa dentro la montagna. Non riesco ancora ad abituarmi all’idea, ma purtroppo avevi ragione quando a volte dicevi che forse non avresti mai visto la realizzazione di questa centrale, per la quale ci eravamo spesi molto e che, lo so, ti stava particolarmente a cuore. Spero che non me ne vorrai se mi permetto di citare Le Corbusier: «Questo progetto, signora, non è nato all’improvviso dalla matita frettolosa di un disegnatore di studio, fra una telefonata e l’altra. Ma è stato maturato a lungo, accarezzato, in giorni di calma perfetta di fronte a un sito altamente classico».5 Portali di gallerie I portali unitari delle gallerie lungo il nuovo tracciato hanno una sezione di forma poligonale. Tale forma è data dall’altezza minima necessaria al passaggio dei treni, evitando così di rialzare inutilmente i tratti ferroviari o stradali che passerebbero sopra. I bordi superiori sono tagliati a 45° circa, profilo spiccatamente ferroviario in opposizione a quello rettangolare delle gallerie stradali; le volte così formate permettono di guadagnare spazio e, allo stesso tempo, di ottenere un’ottimizzazione dal punto di vista statico. I muri laterali riprendono l’inclinazione di 10:1 dei muri d’ala esterni, che diventano così parte integrante dei portali. La superficie libera all’interno del profilo non è mai inferiore ai 41 metri quadrati, area minima indispensabile a livello aerodinamico per il passaggio dei treni ad alta velocità. Il vantaggio di questa tipologia è che la si può applicare a forme di terreno molto diverse ed è valida sia per gallerie a binario unico che per quelle a più binari. I portali sono in calcestruzzo a vista, materiale scelto per tutte le opere di genio civile lungo il tracciato. Alcune, nel frattempo, sono quasi completate, inserite in
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1. Schizzo concettuale sulla percezione del paesaggio lungo la linea ferroviaria di pianura prevista sull’asse del San Gottardo tra Zurigo e Lugano, con indicazione dei tempi di percorrenza a una velocità di circa 200 km/h 2. I vincoli tecnici e topografici hanno un’influenza sulle sezioni trasversali, coordinate le une rispetto alle altre 3. Principio di costruzione geometrica dei profili di tunnel poligonali 4. Schizzi delle differenti tipologie di portali (BGG)
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5. Schizzo di concetto della “falce” del portale, attraversata dalle due canne a un binario 6. Schizzo di concetto del portale sud della galleria di base del San Gottardo 7. “Falce” in pietre del portale nord della galleria di base del San Gottardo (BGG)
pascal sigrist Committenza AlpTransit Gotthard AG Beratungsgruppe für Gestaltung (BGG) Architetti Uli Huber, presidente (dal 1993) Pierre Feddersen (dal 1993) Rainer Klostermann (dal 1993) Flora Ruchat-Roncati (dal 1993, †2012) Pascal Sigrist (dal 1997) Rappresentante committenza Peter Zbinden (1993-1997) Walter Schneebeli (1994-2007) Alex Regli (dal 2007) Ingegnere consulente Christian Menn (1994-2006) Segretario Alessandro Gasparoli (1993-2007) Ingegneria civile Basler & Hofmann (B&H) Ingenieurgemeinschaft Gotthard-Basistunnel Nord (IG GBT N) Ingenieurgemeinschaft Aussenanlagen Sedrun Ingenieurgemeinschaft Gotthard-Basistunnel Süd (IG GBT S) Consorzio AlpTransit Biasca (CAB) Consorzio Ingegneri Piano di Magadino (CIPM) Consorzio Ingegneri ITC Itecsa Toscano (ITC)
8. Sezione trasversale del paesaggio del portale sud della galleria di base del San Gottardo (BGG) 9. Paesaggio del portale nord della galleria di base del San Gottardo: stato prima del cantiere (AlpTransit Gotthard AG) 10. Paesaggio del portale nord della galleria di base del San Gottardo: visualizzazione dello stato dei luoghi a lavori conclusi (BGG)
l’architettura della nuova linea ferroviaria alptransit san gottardo
11. Pozzo di ventilazione dietro la “falce”, Erstfeld (BGG) 12. Paesaggio del portale sud della galleria di base del San Gottardo (AlpTransit Gotthard AG) 13. Laghetti di raffreddamento presso il portale sud della galleria di base del San Gottardo (BGG)
leo zanier
Il fondo del cortile è tutto in calcestruzzo, anche a tre livelli, di lastre, gettate in opera, la superficie è di cemento e ghiaietto lavato. Anche qui poche aperture: tre per gli alberi: attorno al nocciolo e al ligustro, che già c’erano, e per un cubo di bosso, messo nuovo. Altre tre occasioni vengono lasciate alla terra per manifestarsi: un triangolo da dove parte la nuova glicine, la stretta fessura, già incontrata, che accompagna il muro lungo, un’altra più larga sotto la grande finestra, dove crescono una calla gigante, almeno venti piante di belles de nuit (che dai e dai son riuscito a farle sentire a casa loro), una salvia, piante di ciclamini, e pochi steli di mughetti, sperando che tutti si trovino bene assieme e si moltiplichino. Per il resto è come essere a Volterra: pietre i muri, pietre le scale, pietra la terra. Nel cortile abbiamo installato anche un grande tavolo appoggiato su due antiche casse di birra: faggio stagionato, spigoli rafforzati, correggia in ferro, ovviamente isolate dal pavimento e con il piano del tavolo che non appoggia direttamente sulle casse, ma tramite due morali. Il piano è un enorme tavolone, ha lo spessore di una mano, è ricavato dalla parte centrale di un cedro del Libano e rivela, nella parte più larga, quasi un metro di diametro. Il proprietario della segheria di Capolago, dove l’abbiamo scelto, ce l’ha portato con il camion fino all’entrata del cortile, ma poi, sembrandoci di peso spropositato, mentre, perdendo tempo, cercavamo chi poteva aiutare a trasportarlo, se l’è caricato sulla schiena e, scomparso sotto, da solo l’ha portato sul posto, piegato e nascosto. Di lui si vedevano solo i due piedi zampettare e, ai due lati del tavolone, le nocche delle dita, come fosse abbracciato alla traversa di una croce immane. Non Cristo, ma piuttosto Simone di Cirene: la forza e la tranquillità del mestiere, del lavoro ben fatto... in conto terzi. Dentro questo spazio: concluso e aperto, magico e razionale, colorato e discreto, a lato del tavolo, dove ora scrivo, c’è il davanzale largo e basso della vasta finestra a bilico, ora aperta in orizzontale, come se non ci fosse. Il davanzale è largo come il muro, a giusta altezza dal pavimento, con sotto la Bolletta. Sul davanzale, date le dimensioni, ci si può allungare completamente o star seduti con le gambe stese, i pensieri possono allora scorrere e perdersi come l’acqua che sotto sciabordando scorre. Si potrebbe stare qui per ore a osservare il tremito degli steli di bambù di fronte e sotto i guizzi argentei delle giovani alborelle o le incursioni di feroci trote che cacciandole le allenano a virare e le anatre che proprio qui, in primavera, aprono palestra e vi fanno scuola di nuoto e pesca agli anatroccoli appena nati, poco più in basso, nei nidi attorno ai ponti. L’acqua che sotto vibra fa tremare un riflesso di onde sul soffitto frammisto ai bagliori del fuoco se la stufa è accesa e aperta. Non solo si potrebbe, si può, oltre che a lavorare, star qui, così, ore, in una sempre più distaccata osservazione, mentre lentamente si consuma il fuoco nella stufa e, prima o dopo, come programmato, scatta sul buio, da solo, anche il computer. Riva San Vitale - Zurigo, gennaio/febbraio 1997 - gennaio 1999
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J. Pirona, Vocabolario friulano, Venezia, Antonelli, 1871. G.A. Pirona, Il nuovo Pirona, Vocabolario friulano, Udine, Bosetti, 1935. L. Zanier, Licôf, Udine, Kappa Vu, 2007. L. Zanier, Il câli, Udine, Ribis, 1993.
FRAMMENTI DI TERRITORI
il viaggio in italia Carmen Andriani
Una delle prime foto che ritraggono Flora Ruchat-Roncati in Italia risale al 1960. Flora ha 23 anni, prossima alla laurea in Architettura al Politecnico di Zurigo, dove si è formata seguendo l’impostazione tecnico-scientifica di uno degli atenei più importanti d’Europa. L’arrivo a Zurigo rappresenta per Flora l’emancipazione dalla provincia. Della scuola politecnica di fatto approfitta ben poco, essendo diventata una giovane madre e, troppo presto, una giovane vedova. L’incontro decisivo è con Rino Tami, suo professore e punto di riferimento per molti anni a seguire: «Riusciva a comunicare e a farsi capire», dice di lui Flora.1 La convinse a laurearsi. Così come, qualche anno prima, il padre, Giuseppe Roncati, stimato ingegnere civile, l’aveva convinta ad intraprendere la formazione universitaria. Flora aveva deciso di iscriversi alla Facoltà di Architettura dopo aver ricevuto in regalo i volumi de Le Vite di Giorgio Vasari: «Così – le aveva detto il padre – imparerai a scegliere stuccatori, cesellatori, pittori».2 In questo modo l’architettura diviene per Flora un mestiere, ma anche un progetto di vita.
Abitcoop Consorzio nazionale cooperative di abitazione, Flora Ruchat-Roncati, Cooperativa CoLaSiderTa, Taranto, 1976-1981
La biografia di Flora si dipana in molti luoghi e in ciascuno di essi si radica un pezzo della sua esistenza. L’Italia è uno di questi e, dopo il Ticino, uno dei più importanti. Vi giunge nel 1975 con il ruolo di consulente per il Consorzio nazionale della lega delle cooperative, un organismo impegnato a coordinare i programmi di edilizia residenziale pubblica per il quale progetterà, in un’area di bordo nella periferia di Taranto, il complesso sperimentale CoLaSiderTa. Non solo a Taranto, ma anche a Crotone e in altri luoghi del meridione italiano erano previsti alloggi sociali con fondi governativi per dare un impulso alla città pubblica e garantire una casa a chi ne avesse bisogno. Erano intenti nobili, influenzati dal clima ideologico di quegli anni, ma praticati in un contesto difficile ed arretrato, sia economicamente che socialmente. «Ho progettato a Taranto – dichiarava Flora Ruchat-Roncati –; ero consulente a Crotone ed erano interventi sperimentali in regioni in cui la Lega non era presente. Per poter intervenire la struttura era coordinata da Roma».3 Flora rimase profondamente colpita dalla dimensione complessa di questo profondo Sud, così diverso dalla comunità ticinese, eppure capace di offrire «una realtà umana e sociale straordinaria».4 Bisognava capire quali fossero i bisogni reali, tradurli nella dimensione economica e, attraverso le numerose riunioni con la committenza sociale (a Taranto gli operai della Italsider), bisognava saper gestire la domanda,
carmen andriani
e trasformarla in architettura per una città più giusta. Così avveniva a Taranto. Un Piano di zona regolato dalla Legge 167, soggetto a vincoli strettissimi, nella volumetria, nella profondità e nelle altezze, diventava forma urbana. Un segno potente, un muro di residenze leggermente incurvato verso la campagna segnava il limite e al tempo stesso il punto di unione fra le aree esterne ancora libere e la città, verso cui il nuovo insediamento si apriva quasi a volerla includere al suo interno. abbracciandola. In questo senso il “muro” di Taranto avrebbe funzionato da infrastruttura residenziale e urbana, garantendo innovazione tipologica, spazi comuni e servizi. Infrastruttura come sistema di relazioni, come dispositivo capace di rilevare le potenzialità di un territorio e di rimetterle in gioco, aprendo una nuova prospettiva di vita al contesto ed ai suoi abitanti. Così era stato per la lunga passerella del Bagno di Bellinzona, realizzato alla fine degli anni Sessanta; così sarebbe stato per il progetto romano di parco lineare condotto con Gabriella Raggi in un’area al margine di Testaccio, quartiere operaio della Roma industriale di fine Ottocento: tracciati che diventano manufatti, confrontandosi con la topografia del suolo. Un edificio da solo conta poco. Quello che importa sono le stratificazioni delle storie che esso contiene, il senso nella città che occupa, il riconoscimento delle persone che lo abitano nel tempo. Difficile parlare di architettura separandola dalle relazioni che la legano al luogo di appartenenza e da cui essa è scaturita: passaggio importante, questo, nel pensiero di Flora Ruchat-Roncati, puntualmente riverberato nelle ragioni del progetto e nelle scelte di volta in volta condivise: «Guardate Roma ad esempio...», dichiarava in un’intervista.5 Roma è uno dei luoghi della biografia di Flora. Vi arriva a metà degli anni Settanta e vi rimane per un decennio. Lavora in vari luoghi d’Italia e abita a Roma, in una strada appartata del quartiere di San Saba fra la piazza del mercato, piazza Bernini, e i blocchi residenziali in mattoni di Quadrio Pirani. Le palazzine, non più alte di quattro piani, scendono digradando fino al Tevere. Un ritaglio discreto, in un insieme ibrido, di ciò che resta del quartiere popolare del Rione San Saba, costruito per la classe impiegatizia agli inizi del Novecento, confinante con il Testaccio, di fronte all’algido e silente Aventino, vicino dunque alla chiesa del Piranesi, Santa Maria del Priorato. L’orografia fa il resto. Il piccolo Aventino, come viene soprannominato, scende con strade e scalinate, tortuose ed alberate entrambe, verso il parco archeologico e monumentale. Dieci minuti a piedi bastano per arrivare in un’altra dimensione scalare, quando la vista si amplia a dismisura sulle prospettive profonde e multiple dei monumenti archeologici: dal grande vuoto del Circo Massimo al volume pieno del Colosseo direttamente poggiato a terra. In mezzo il Palatino, di lato il rialzo topografico del Celio, alle spalle il volume bianco e stereometrico del Palazzo della FAO. Si dice che Flora Ruchat-Roncati amasse citare Piranesi nelle lezioni ai suoi studenti: si può pensare che trattasse delle Carceri, per la moltiplicazione prospettica e la loro irriducibilità a sistema finito, o del Campo Marzio, rappresentazione mai superata della forma urbis romana. Per Flora Ruchat-Roncati stare a Roma significava «abitare nella memoria»: abitare in una dimensione complessa, plastica, emotivamente coinvolgente, imponderabile. Magia e poesia: questo era Roma per Flora Ruchat-Roncati, come è ricordato in questo libro.6 Dunque resistente ai principi del Moderno, distante dalla cultura prag-
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matica e razionale in cui l’architetto ticinese, da giovane, si era formata. Ma “abitare nella memoria” significava abitarla in maniera attiva: «Guardate Roma ad esempio...». Il vissuto di tante storie è negli edifici, nei materiali di cui sono fatti, come fossero carne ed ossa, come fossero la linfa vitale che dà senso alle cose, che le lega le une alle altre in un mutare continuo e fecondo, in una trasformazione e sedimentazione, che rende viva la storia e la rinnova momento per momento, riservandole un posto nel nostro presente. «Per conoscere un posto veramente devi starci. Devi viverci. Devi stabilire un rapporto di empatia con il luogo».7 La permanenza in Italia, in modo continuativo e stabile, copre circa un decennio, a partire dal 1975. In questi anni si contano diversi incarichi professionali, ristrutturazioni di case private, un complesso residenziale a Roma nella zona dell’Agro Romano de La Pisana, una casa a Genova Nervi, una a Teramo, altre a Roma.8 Parallela all’attività professionale quella dell’insegnamento: nel 1979 Flora Ruchat-Roncati è all’Università di Reggio Calabria per il seminario “Autobiografia di un territorio”; fra il 1983 e il 1984 è Visiting critic presso diverse università fra cui l’Università di Harvard a Cambridge, la Syracuse University di Firenze e quella di Syracuse (NY); collabora con l’Università La Sapienza a Roma dove partecipa a diversi seminari. La sua notorietà internazionale aumenta: nel 1985 viene chiamata al Politecnico di Zurigo come Professore ordinario di Progettazione architettonica, prima donna nella storia dell’ETH a ricoprire questo ruolo. A partire dalla metà degli anni Ottanta dunque il baricentro biografico si sposta di nuovo, ma non per questo si spegne il rapporto con l’Italia, rinsaldato non solo dalle occasioni di lavoro ma anche dalla vita vissuta, dal moltiplicarsi delle amicizie, dal consolidarsi degli affetti, dal cumulo di ricordi e consuetudini che la casa romana ha sedimentato.9 Risale al 1989 un altro importante incarico,10 che riguarda le sedi svizzere dell’Ambasciata e dell’Istituto di Cultura, entrambe a Roma. Il primo è un progetto di manutenzione, consolidamento e ristrutturazione; il secondo comprende anche un piccolo ampliamento. L’Ambasciata svizzera a Roma è un edificio degli inizi del Novecento, immerso nel parco, caratterizzato da un corpo principale con facciata cinquecentesca e da due corpi aggiunti. Il progetto punta sul potenziamento degli spazi di rappresentanza e sul rapporto con la grande terrazza esterna, che viene articolata in due livelli: il primo diventa un patio in continuità con la grande sala interna, il secondo è trasformato in un giardino geometrico in forma di hortus conclusus. Una fontana che sgorga dalle fessure del muro superiore collega i due livelli. L’acqua, la luce zenitale, l’articolazione dei muri perimetrali e i piani distinti delle terrazze realizzano un’inedita tensione spaziale, mettendo in contatto gli interni dell’edificio con il parco circostante. Anche Villa Maraini, costruita nel 1905 ed oggi sede dell’Istituto Svizzero, include un parco e un corpo principale con decorazioni e bassorilievi in cemento di grande interesse. L’ampliamento ha incluso il ridisegno completo della galleria sotterranea di collegamento, una nuova destinazione funzionale della dépendance, il completamento del muro di cinta, un nuovo accesso al parco, l’inserimento di un edificio compatto per atelier lungo il muro e due rampe di collegamento dei nuovi interventi. Si è trat-
serena maffioletti
terie in un unico gesto armonico e insieme umanistico, che accoglie l’infrastruttura come elemento del paesaggio culturale. Non è la ricerca di un lessico tipizzato, standardizzato, ripetibile, ma il processo di una continua strategia inclusiva; non è la volontà di una grammatica, ma la sedimentazione di un modo di agire che attraverso la prova, l’esercizio della qualità del disegno autoriale capisce l’individualità di ogni condizione di un territorio denso di forme, magari brutte, e di storie, magari minori, e ad esso offre una puntuale risposta risolutiva. Da queste contaminazioni di temi e figure nascono i nuovi segni: sezioni complesse integrano le corsie della mobilità carrabile e dolce alle protezioni acustiche e visive, increspando il paesaggio con movimenti del terreno confusi tra i rilevati ripariali della pianura. La metamorfosi in portali degli appoggi di un viadotto costruisce un ordine gigante che identifica una soglia, un luogo nello spazio isotropo della città diffusa; gli appoggi, sagomati in grandi pareti, introducono una sequenza di setti a sostegno del viadotto, conclusi al sommo dal parapetto che funge da trabeazione: è questo elemento architettonico, battuto dal ritmo come un acquedotto, a fungere da orizzonte visivo all’insediamento limitrofo, a ricordarci che anche gli archetipi possono rimisurare e incardinare la città diffusa. Appropriandosi delle ricerche del Novecento sulle relazioni tra residenza, lavoro e movimento, ma apponendosi alla loro separazione, propone nuove strutture insediative e consolida quelle esistenti, componendo trame con tipi edilizi diversi ma tutti dai forti caratteri urbani, al fine di costruire brani compatti, qualificati ora da alti gradi di accessibilità. La parkway non è un orizzonte di riferimento perché il contesto non lo consente, ma nemmeno è un obiettivo culturale: i nuovi paesaggi richiedono invece la presenza dell’architettura in quanto forma e in quanto funzione. Nell’incontro tra l’eterogenea morfologia della periferia e le potenzialità multiscalari dell’infrastruttura RuchatRoncati coglie la tangenziale come strumento dell’urbanità contemporanea: separate dalla strada tramite ampie fasce verdi, le strutture insediative conseguono forti caratteri civili attraverso la densità e la qualità delle relazioni, e l’uso di tipi edilizi diversi, ma tutti di origine urbana. Numerosi disegni indagano il trinomio strada territoriale/spazio aperto/edificio alto così profondamente discusso dal razionalismo: Ruchat-Roncati elabora, infatti, proposte sulla relazione tra edificio alto e grande infrastruttura, immaginandoli come elementi integrati ed interagenti. L’edificio alto (per il quale annota la sezione dell’Unité d’habitation) è radicato all’incrocio di più tracciati viari, posti a quote differenti attraverso una sezione complessa, dotata di lobby a più livelli: le linee del movimento orizzontali e verticali, esterne e interne, ne disegnano la sezione, i prospetti, il volume. Flora Ruchat-Roncati non perverrà all’elaborazione di proposte esecutive, ma le numerose e complesse indicazioni grafiche esprimono la sua richiesta di dialogo tra le discipline: È chiaro quanto una simile problematica vada al di là di una corretta soluzione tecnica del manufatto stradale e coinvolga per contro una dimensione squisitamente interdisciplinare (geografica-urbanistica-paesaggistica-bioetica) estesa al territorio inteso come ecosistema. La nuova tangenziale di Brescia si pone così, quasi paradossalmente, come occasione inequivocabile per restituire al paesaggio antropizzato un preciso limite di riferimento e al tempo stesso recuperare all’interno del processo di sviluppo e modificazione dello spazio adiacente un ordine tra edificato, spazio pubblico e verde attrezzato: un
composizioni infrastrutturali
equilibrio tra tessuto e arterie di traffico che permetta di riconvertirlo alla sua vocazione residenziale, ad una legittima qualità urbana».19
Un unitario, difficile insegnamento ci ha dato Flora Ruchat-Roncati, mostrando come la coraggiosa determinazione a sperimentare con sempre nuova libertà i molti territori del progetto architettonico abbia sedimentato lungo quarant’anni forse la più completa e profonda riflessione sul progetto infrastrutturale contemporaneo, sul suo specifico potenziale rifondativo e sulla sua singolare condizione estetica. La conquista per il progetto di un ruolo essenziale nel disegno territoriale che accompagna i suoi anni d’esordio diviene nel tempo consapevolezza profonda della pregnanza della frase di Laugier «Unità del dettaglio, tumulto dell’insieme», capendo come il singolo elemento, il singolo gesto valga come frammento costruttivo di un tutto, difficile e senza confini. E qui sta il sogno ad occhi aperti di Flora Ruchat-Roncati: il suo continuo credere, quotidianamente rinnovato, nel valore civile di tutta l’architettura, anche la più bistrattata dagli stessi che la commissionano e la progettano: le infrastrutture della mobilità. Che lei come pochi ha di nuovo elevato ad Architettura della società.
1 Sono qui presentati alcuni dei progetti redatti da Flora Ruchat-Roncati: da essi è escluso il progetto dell’AlpTansit, presentato in questo volume da Pascal Sigrist. 2 Lo testimoniano i molti giovani che sono stati suoi partner in progetti e in ricerche: in questo volume raccontano l’intensa collaborazione Pascal Sigrist e Carlo Toson, ma io stessa mi ritengo un’allieva del progetto infrastrutturale di Flora Ruchat-Roncati. 3 F. Ruchat-Roncati, dattiloscritto, conferenza, s.d. 4 In conversazioni amichevoli Flora Ruchat-Roncati scherzosamente diceva di aver fatto davvero poche cose in collaborazione con Tami, ma maestra di autoironico understatement immagino minimizzasse il suo contributo. A riprova di questo atteggiamento è fatto che, pur all’interno di un pluriennale dialogo tra noi intercorso sul progetto infrastrutturale, iniziato nel 2002 con la pubblicazione del progetto dell’autostrada Transjurane e di alcuni materiali del progetto per l’AlpTransit (in Infrastrutture e paesaggi contemporanei, a cura di S. Maffioletti e S. Rocchetto, Padova, Il Poligrafo, 2002) non abbia mai parlato dei due progetti per le aree di servizio autostradale di Coldrerio e di Chiasso: i due progetti sono qui pubblicati per la prima volta. 5 R. Tami, Problemi estetici dell’autostrada, «Rivista Tecnica della Svizzera italiana», 24, 31 dicembre 1969, p. 1610. Per una più approfondita lettura dell’attività svolta da Rino Tami per la progettazione dell’autostrada N2 si veda il saggio di S. Maffioletti, L’«orgogliosa modestia» della N2, in Rino Tami. Opera completa, a cura di K. Frampton e R. Bergossi, Mendrisio, Mendrisio Academy Press, 2008, pp. 137-175. 6 R. Tami, cit. in S. Maffioletti, L’«orgogliosa modestia» della N2, cit. p. 166. 7 [F. Ruchat-Roncati], Autostrada Transjurane - A16 Svizzera 1989-1998, in Infrastrutture e paesaggi contemporanei, a cura di S. Maffioletti e S. Rocchetto, cit. p. 92. 8 F. Ruchat-Roncati, La capanna d’Adamo è in Paradiso, e quella di Eva?, «Controspazio», 6, 1996, p. 38. 9 [F. Ruchat-Roncati], Autostrada Transjurane - A16 Svizzera 1989-1998, cit. p. 92. 10 La strada collega Bellinzona a Disentis, cioè i cantoni Ticino e Grigioni, attraverso il passo del Lucomagno. Storicamente itinerario importante di connessione tra Milano e le regioni svizzero-tedesche, la strada divenne carrozzabile nel 1878. 11 Sono stati consultati i materiali del Fondo Flora Ruchat-Roncati, Archivio del Moderno, tuttora in ordinamento. 12 F. Ruchat-Roncati, Lettera all’ing. Mauro Pedretti, 12.1.1999 Zurigo. In questa lettera Flora RuchatRoncati precisa il contesto e l’obiettivo della sua proposta: «[...] i disegni allegati non sono progetti, ma commento alla soluzione che state elaborando [...] – scrive a Pedretti – vuol dire che se intravvedi una possibilità di completare la proposta tecnica con una soluzione formale, dovrai fornirmi comunque parecchie informazioni per arrivare a formulare dettagli in modo corretto». 13 La citazione di Flora Ruchat-Roncati è tratta da I. Valente, Topografia e tettonica. Il disegno della strada come cristallizzazione dei flussi, in Le forme del cemento. Dinamicità, a cura di C. Andriani, Roma, Gangemi, 2011, pp. 78-81.
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Il gruppo di progettazione è formato dallo studio di ingegneria Spataro Petoud Partner SA, da Flora Ruchat-Roncati e Pascal Sigrist, il concorso di svolge nel 2005. 15 F. Ruchat-Roncati, Riflessioni generali sulla consulenza architettonica al progetto di allargamento della tangenziale Brescia-Sud, s.d. 16 Il progetto è redatto dal dipartimento Lavori pubblici della provincia di Brescia; collaboratore per lo sviluppo del progetto di consulenza architettonica è l’arch. Silvano Lanzi, Verscio, Canton Ticino. 17 Così Flora Ruchat-Roncati mi diceva in occasione di diversi incontri. Era infatti desiderosa di proporre la sua singolare esperienza di architetto progettista di infrastrutture in Italia, in un Paese cui era legata da molti affetti e da lunghi soggiorni segnati da impegnativi incarichi professionali: un Paese, peraltro, poco attento a una progettazione qualificata delle reti della mobilità. Di fatto Flora Ruchat-Roncati si è sempre impegnata molto nella divulgazione in Italia tanto della propria esperienza quanto di una riflessione sul progetto infrastrutturale in ambito universitario, editoriale, culturale. 18 Cfr. C. Mistura, Costantino Dardi. Forme dell’infrastruttura, Padova, Il Poligrafo, 2016. 19 F. Ruchat-Roncati, Riflessioni generali sulla consulenza architettonica..., cit.
housing sociale a taranto Rosario Pavia
Flora Ruchat-Roncati iniziò a lavorare a Roma nel 1976 come consulente dell’Ufficio tecnico del Consorzio nazionale delle cooperative di abitazione. Il Consorzio era la struttura di coordinamento dei programmi di edilizia residenziale che usufruivano di agevolazioni pubbliche nell’assegnazione delle aree e nell’assunzione di mutui: il Consorzio aderiva alla Lega delle cooperative, ovvero il principale organismo economico della sinistra di allora. Erano gli anni Settanta e l’impegno politico degli architetti s’identificava in gran parte con il diritto alla casa e la città pubblica. In quegli anni le politiche abitative s’inserivano in una programmazione ben definita dal Piano decennale previsto dalla L. 457/78 e in un’ampia disponibilità di aree urbanizzate attraverso i Piani di edilizia economica e popolare (PEEP) istituiti con la L. 167/62. L’intervento pubblico nell’edilizia sociale era consistente, circa il 20-25% della produzione totale di alloggi. Attraverso l’edilizia residenziale pubblica si pensava di riorganizzare la città, di riqualificarla, di darle una nuova forma e nello stesso tempo di migliorare le condizioni di vita della popolazione. Le cooperative di abitazione aderenti alla Lega realizzavano ogni anno circa 30.000 alloggi. Questo contesto operativo, schierato ideologicamente e molto impegnato sul piano dell’housing sociale doveva essere molto attraente per Flora Ruchat-Roncati. In verità il Consorzio era una struttura di coordinamento che non interveniva direttamente nella progettazione. Ma con lei ci fu un’eccezione: tenendo conto della sua esperienza (il Bagno di Bellinzona progettato con Aurelio Galfetti e Ivo Trümpy era un’opera già molto nota), il Consorzio assunse direttamente la progettazione di un programma di edilizia sperimentale a Taranto, la città dell’Italsider. Taranto, nel secondo dopoguerra, da città portuale in crisi si era trasformata in breve tempo in una grande città industriale: l’Italsider era la più grande acciaieria d’Italia con oltre 25.000 addetti, 40.000 con l’indotto. Taranto, nuova città operaia che si riscattava nel lavoro, chiedeva anche una modernizzazione dello spazio urbano. Negli anni Settanta non si percepiva ancora il danno ambientale: Taranto non era ancora individuata come la città delle nuvole inquinanti.1 La città si espandeva velocemente con nuovi quartieri, competendo con la straordinaria ampiezza dell’insediamento industriale, la cui estensione era già allora pari al centro abitato. Il complesso residenziale della cooperativa CoLaSiderTa, il cui progetto fu affidato a Flora Ruchat-Roncati, era collocato all’esterno della città consolidata, in un’area
rosario pavia
Abitcoop Consorzio nazionale cooperative di abitazione, Flora Ruchat-Roncati, Cooperativa CoLaSiderTa, Taranto, 1976-1981 1. Tavola sinottica: planivolumetrico dell’intervento; piante ai diversi livelli, sezioni e prospetti; schemi aggregativi; piante e sezioni degli alloggi tipo 2. Piante degli alloggi simplex e loro aggregazione 3. Piante degli alloggi duplex
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4. Piante ai livelli degli alloggi duplex, 20 febbraio 1978 5. Piante ai livelli degli alloggi simplex, 20 febbraio 1978
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rosario pavia
di bordo di un Piano di zona per l’edilizia economica e popolare. La committenza, costituita da una cooperativa operaia, motivata e consapevole che voleva partecipare e capire il progetto, fu uno dei motivi del suo interesse per questo incarico. Un incarico difficile per l’utenza, il sito, i vincoli urbanistici, il sistema costruttivo proposto dall’impresa. Flora Ruchat-Roncati colse immediatamente il ruolo di avamposto del complesso. In uno schizzo di lavoro conferì all’intervento la funzione d’infrastruttura urbana, di limite, di muro di recinzione della città: una cinta muraria convessa che guarda alla campagna e uno spazio concavo rivolto verso la città. Il progetto doveva confrontarsi con un Piano di zona estremamente rigido. Questi piani di zona per l’edilizia residenziale realizzarono in Italia la città moderna, il passaggio dalla città compatta a un tessuto urbano diverso, non più legato alla relazione tra rete viaria ed edificio, ma caratterizzato da vuoti piuttosto che pieni, da densificazioni concentrate in edifici alti e spesso continui. Il Piano di zona, in cui s’inserisce il progetto, imponeva un disegno planimetrico definito, vincolante, unitario nell’impianto urbanistico, ma non nell’attuazione. Il Piano di zona è un vincolo, che può divenire una matrice progettuale: è stato questo l’atteggiamento di Flora Ruchat-Roncati, che interpretò e riscattò la rigidità del segno curvilineo imposto dal piano, dandogli un’inaspettata complessità. E non fu facile per lei convincere la cooperativa delle sue scelte tipologiche moderne, che rompevano nettamente con la tradizione edilizia locale. La sezione dell’edificio è complessa: in basso uno spazio tra pilotis e un atrio porticato su due livelli, poi due livelli di alloggi simplex, sopra tre livelli di alloggi duplex. Il complesso di 234 alloggi, lungo circa 230 m, è articolato in cinque corpi di fabbrica, serviti da blocchi scala e ballatoi. Le logge sono orientate a sud-est verso la campagna; i ballatoi, sul lato opposto, sono rivolti verso la città. La struttura portante è in setti di cemento armato. Flora Ruchat-Roncati aveva assimilato il complesso a una grande infrastruttura urbana, rivelando anche in quell’occasione il suo interesse per la potenza del segno infrastrutturale. La complessità della sezione, il forte confronto tra la verticalità dei setti e l’orizzontalità dei ballatoi conferiscono al complesso una dinamicità e un carattere che non troviamo negli altri edifici del quartiere Salinella. Il complesso, trattato come un’unità di abitazione, divenne per lungo tempo il segno emergente della modernità, un modello di riferimento per la periferia pubblica di Taranto. In seguito la spinta modernista inaugurata da questo progetto si esaurirà del tutto: la diffusione urbana e la piccola dimensione degli interventi edilizi si imporranno anche a Taranto. Flora Ruchat-Roncati ebbe un forte ascendente sui soci della cooperativa, che incontrò in numerose e appassionate assemblee: far accettare scelte come i ballatoi e gli alloggi duplex non fu facile. Attraverso il confronto con lei la cooperativa si aprì al nuovo, accettò di sperimentare un abitare moderno. In seguito quella comunità di operai si disperse, la cooperativa fu sciolta, ci furono numerose compravendite, cambiarono i proprietari. I nuovi utenti, per nulla legati al progetto originario, apportarono continui cambiamenti: dal tamponamento dei ballatoi con anonimi infissi di alluminio, alla sostituzione dei pavimenti in cemento degli spazi comuni. Flora Ruchat-Roncati riuscì ad avere un buon rapporto anche con l’impresa cooperativa di costruzione. Questa aveva investito in sistemi costruttivi industrializ-
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6. Porzione del prospetto sud, 18 novembre 1977
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vita, ed anche le manifestazioni della vita femminile. Questo scatto che autorizza l’architettura a costruire tanto uno spazio in senso proprio, quanto uno spazio metaforico è stato in quell’occasione particolarmente efficace. Per Flora Ruchat-Roncati l’architettura, come la musica, è certamente elaborata sulla carta e nell’astrazione (delle linee e della misure), ma essa non esiste veramente che dopo, una volta suonata o costruita, nello spazio che essa trasforma, che è diventato sensuale, materiale, capace di commuovere.15
Nell’articolo La capanna di Adamo è in Paradiso, e quella di Eva?16 Flora RuchatRoncati non offriva risposte a quella domanda cruciale. Forse mai lei volle dare indicazioni definitive e risolutive, piuttosto circondando il tema con interpretazioni, multiformi e cangianti, personali, rischiose e libere, irraggiate da una generosità vitale...: forte delle sue capacità, debole per sua volontà. Così che la risposta a quella domanda, per lei così presente, sta invece nell’invenzione del quotidiano, negli incontri e nei dialoghi, nei progetti e nella scuola...: il quotidiano come sola costruzione di una duratura capanna di Eva. E non occorre ricordare le sue case sempre accoglienti, i grandi tavoli sempre carichi di cibo onorato da molti ospiti, i viaggi condivisi e i cantieri mostrati, per cogliere la sua visione della vita come quotidiano atto di maternità: «Le formule non sono nulla: la vita è tutto. E la vita è spirito e cuore, uniti».17
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F. Ruchat-Roncati, intervento al seminario Le donne e l’architettura: i progetti, la professione, i luoghi, la formazione, curato da A. Gallo, S. Maffioletti, T. Pelzel, tenuto all’Università Iuav di Venezia il 2 8 aprile 2005 in occasione della presentazione del numero 732 di «Casabella», aprile 2005, a cura di C. Baglione e M. Daguerre. 2 Tavola rotonda a cura di C. Baglione e M. Daguerre, «Casabella», 732, aprile 2005, pp. 12-15. 3 F. Ruchat-Roncati, intervento al seminario Le donne e l’architettura, «Casabella», 732, aprile 2005, p. 13. 4 F. Ruchat-Roncati, intervento al convegno internazionale “L’architettura delle strade”, tenutosi per la celebrazione del 75° anniversario della fondazione di ANAS Spa, Auditorium Parco della Musica, Roma 27 ottobre 2003. 5 F. Ruchat-Roncati, intervento al seminario Le donne e l’architettura, cit. 6 F. Ruchat-Roncati, La capanna d’Adamo è in Paradiso, e quella di Eva?, «Controspazio», 6, novembredicembre 1996, pp. 36-37. 7 Ivi, p. 36. 8 I tre corsi sono tenuti nel semestre estivo 1994, invernale 1994-1995, estivo 1995 e sono pubblicati in tre volumetti: Frauen in der Geschichte des Bauens. Die 20er Jahre und die “Neue Frau” (vol. I), Wohnräume und Wohnformen. Zuweisungen und Aneignungen (vol. II), Ausstellungen-Darstellungen (vol. III), a cura di P. Stojanik e M. Haner, Zürich, ETH Zürich, 1996. 9 F. Ruchat-Roncati, AdM, Fondo Flora Ruchat-Roncati, Attività didattica e di ricerca, conferenza, dattiloscritto. 10 F. Ruchat-Roncati, Die Rolle der Mäzenatin: zwischen Vokation und Resignation. Madame de Mandrot, in Die 20er Jahre und die “Neue Frau”, cit., pp. 86-95. 11 Poi divenuto SAM - Schwiescherisches Architekturmuseum. L’esposizione si tenne dal 1 aprile al 25 giugno 1989. 12 D. Huber, Die Tugend der Not. Zu den beiden historischen Ausstellungen für Freuenarbeit (saffa 1928 und 1958), in Ausstellungen-Darstellungen, cit., pp. 129-137. 13 S. Malangone, saffa 1928, 1958... 1988? Und heute, elaborato teorico presso l’Accademia di architettura, USI, relatore Nicola Navone, a.a. 2016-2017. Ringrazio Nicola Navone per la segnalazione. 14 I. Lamuniere, L’espace peut-il être tactile? A propos de l’exposition au Musée d’architecture de Bâle de 1989, in Flora Ruchat-Roncati, a cura di P. Carrard, D. Geissbühler, S. Giraudi, Zürich, gta Verlag, 1998, p. 16. 15 Ivi, p. 15. 16 F. Ruchat-Roncati, La capanna d’Adamo è in Paradiso, e quella di Eva?, cit. 17 E. Gray, cit. in P. Stojanik, Eileen Gray. Metamorphosen, in Die 20er Jahre und die “Neue Frau”, cit., p. 106.
APPARATI
Flora Ruchat-Roncati negli anni ’80
profilo biografico di flora ruchat-roncati Nicola Navone
Flora Ruchat-Roncati nasce a Mendrisio (Canton Ticino) il 4 giugno 1937 da Giuseppe Roncati (1904-1988) e Angela Maria Bertola (1912-2008). I Roncati sono originari di Meride, un villaggio da secoli epicentro di un’intensa migrazione nei mestieri dell’edilizia che ha coinvolto anche la loro famiglia («mio nonno era muratore, e ha vissuto tutto dall’interno il destino del ticinese emigrato costretto a mettere radici in vari paesi», ricorderà Flora Ruchat-Roncati).1 Figlio di Lodovico Roncati e Maria Sottocornola, fratello di Rodolfo e Flora (morta prematuramente di tubercolosi), Giuseppe, per familiari e amici “Peppo”, consegue nel 1928 la laurea di ingegnere civile al Politecnico di Milano, superando nell’autunno di quell’anno l’esame di Stato per l’abilitazione professionale.2 Dopo aver lavorato nello studio dell’ingegnere Alfredo Pariani, a Intra,3 e alle dipendenze della Società Elettrica Interregionale Cisalpina, che gli avrebbe affidato, dal giugno 1930 all’ottobre 1932, «l’incarico dei progetti di tutta la parte architettonica dell’impianto e delle opere in cemento armato» degli impianti idroelettrici di Montespluga,4 Giuseppe Roncati dirige dal 1933 al 1944 l’Ufficio tecnico del Comune di Mendrisio, realizzando al contempo diverse opere per committenti privati. Dal 19445 si dedica alla sola attività professionale indipendente, che nel fervore edilizio degli anni Cinquanta e Sessanta gli frutta ulteriori commesse, fra le quali il Ginnasio (ora Scuola media) di Mendrisio, inaugurato il 27 settembre 1958.6 Il 16 settembre 1935 Giuseppe Roncati sposa Angela Maria Bertola, figlia di Angelo Bertola (1876-1936) e Lina Chiattone.7 Dottore in Filosofia all’Università di Heidelberg con una dissertazione sul De Monarchia di Dante,8 Angelo è un avvocato e uomo politico di parte radicale, presidente della Società dei liberi pensatori ticinesi, deputato al Gran Consiglio ticinese e pretore di Mendrisio dal 1911 al 1933.9 Lina, invece, è la prima cugina dell’architetto Mario Chiattone e nipote degli scultori Antonio e Giuseppe Chiattone. Figlia unica di una famiglia borghese che condivide riti e ideali del proprio ceto, Flora Roncati frequenta il liceo di Lugano, dove consegue la maturità scientifica nel 1956.10 Quello stesso anno si iscrive al Dipartimento di Architettura del Politecnico federale di Zurigo. Pur riconoscendo di essere «nata da una famiglia di costruttori» e di avere «respirato sin da piccola un certo tipo di problematiche (ma anche un vocabolario, una sensibilità) relative al mondo dell’edilizia»,11 la scelta compiuta da Flora Ruchat-Roncati non è il frutto di una vocazione (concetto verso cui provava una naturale diffidenza), ma di un groviglio di concause, fra cui vi è il desiderio di se-
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guire il proprio compagno, André Ruchat (1936-1960), che al Politecnico ha deciso di studiare ingegneria civile. Figlio di un insegnante originario di Grandcour (Cantone Vaud), che ha abbandonato la scuola per lavorare in una ditta di spedizioni a Chiasso, al confine fra Italia e Svizzera, e poi, dagli anni di guerra, come funzionario federale, André sposa Flora il 19 gennaio 1959.12 L’8 dicembre di quello stesso anno nasce la loro figlia Anna. Fra i docenti di Flora Ruchat-Roncati al Politecnico federale vi è Rino Tami, il maggiore architetto attivo allora in Ticino, che diverrà una sorta di Lieber Meister autorevole e generoso.13 Allo studio Ruchat-Roncati affianca la pratica, lavorando sia da Rino Tami, sia nell’ufficio milanese dei fratelli Vito e Gustavo Latis14 (per il tramite dello stesso Tami, con cui i Latis erano legati da rapporti di amicizia risalenti agli anni della guerra, quando erano stati costretti a riparare in Svizzera), o elaborando progetti per committenti pubblici e privati, grazie all’intermediazione del padre, che si destreggia tra il desiderio di mettere a frutto a favore della figlia la propria rete di relazioni e la discrezione che deve usare per non urtarne la suscettibilità (lei così riluttante ad accettarne il sostegno). Fra il 1958 e il 1960, mentre è ancora studente, Flora Ruchat-Roncati firma almeno cinque progetti: la sistemazione della piazza davanti a Palazzo Carpano, l’edificio ad appartamenti costruito su progetto del padre a Boffalora, il quartiere settentrionale di Chiasso (1958); la casa per il fine settimana, con darsena per la barca, che i Roncati edificano a Brusino, in riva al lago di Lugano (1958); il progetto per la casa della famiglia Medici a Mendrisio e per la casa di vacanza della famiglia Salvioni, a Champfèr in Engadina (ambedue negli anni 1959-1960); e, infine, il progetto presentato al concorso per il nuovo Centro scolastico di Chiasso (1959-1960), di cui si è scritto in questo stesso volume. Nel frattempo la famiglia si è trasferita a Lugano, in via San Gottardo 28, di fronte alla stazione, nella stessa casa d’appartamenti in cui era da poco andato ad abitare Aurelio Galfetti (e che Flora Ruchat-Roncati lascerà nel 1963 per stabilirsi a Pregassona, alla periferia orientale della città).15 Mentre Flora, in congedo maternità, studia per il diploma, suo marito è stato assunto come ingegnere civile dall’impresa edile Vicari,16 nell’attesa di realizzare il comune progetto di trasferirsi in Africa, nella Costa d’Avorio, indipendente dal 1960. Ma il 25 ottobre di quello stesso anno André Ruchat muore durante un volo di esercitazione militare a Meiringen,17 annichilendo ogni progetto, se non quello di crescere la piccola Anna e ottenere il diploma di architetto, che riuscirà a conseguire nel 1961 grazie all’incoraggiamento e al sostegno di Rino Tami, Fredi Ehrat e Aurelio Galfetti. In quel giro di anni Flora Ruchat-Roncati lavora con Antonio Antorini e Francesco Pozzi al progetto per la nuova Casa dei Bambini di Chiasso e avvia l’intensa collaborazione con Aurelio Galfetti e Ivo Trümpy che, per quanto riguarda Galfetti, ha radici nell’amicizia con André Ruchat, di cui è coetaneo e con cui ha frequentato il liceo di Lugano, prima di trasferirsi a Zurigo per studiare al Politecnico federale. Una collaborazione che s’intreccia con una profonda amicizia, coltivata anche durante i viaggi compiuti in Italia, Francia, Spagna. A queste mete si aggiunge il Brasile, sulla scorta delle relazioni professionali che nel 1962 portano suo padre a São Paulo, dove una fotografia18 lo ritrae sul cantiere dell’Edificio Italia, un grattacielo di 46 piani realizzato fra il 1956 e il 1965 secondo il progetto dell’architetto Franz Heep, un allievo di
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Walter Gropius che aveva lavorato nello studio di Le Corbusier, prima di associarsi nel 1933 con Jean Ginsberg e trasferirsi in Brasile nel 1947. Fra i numerosi progetti, realizzati o meno, elaborati da Flora Ruchat-Roncati con Galfetti e Trümpy nello studio di Bedano, vanno ricordate le Scuole e la Casa dei bambini di Riva San Vitale, la Casa dei bambini di Viganello, la Casa per i suoceri Paul e Marthe Ruchat a Morbio Inferiore, e una lunga serie di progetti, per incarico diretto o su concorso, per i quali si rinvia al Regesto in appendice. La fine del sodalizio professionale con Aurelio Galfetti coincide con la conclusione del cantiere della loro opera più nota, il Bagno di Bellinzona, ufficialmente inaugurato nel 1970 e del tutto completato l’anno successivo. Prima ancora che quell’esperienza volga al termine, Flora Ruchat-Roncati si stabilisce a Riva San Vitale, nella grande casa a corte che ha acquistato nel 1968,19 ristrutturandola secondo il proprio progetto. Sino al 1974 i suoi lavori si situano ancora in ambito ticinese, con la collaborazione di Ivo Trümpy e Aurelio Bianchini, talvolta di Giancarlo Durisch, con il quale vince il primo premio al concorso d’idee per il quartiere “Masserone” a Rancate. Altre occasioni le pervengono per il tramite di Rino Tami, che le procura l’incarico di progettare le aree di servizio di Chiasso e Coldrerio, lungo l’autostrada Chiasso-San Gottardo: la prima non realizzata, la seconda costruita secondo un altro progetto.20 Il Ticino e la sua aria di provincia le vanno, però, sempre più stretti e nel 1975 decide di trasferirsi a Roma con Leo Zanier (1935-2017), poeta e sindacalista friulano conosciuto a Zurigo, da cui, il 2 novembre 1974, ha avuto la figlia Elisa. A Roma Flora Ruchat-Roncati si stabilisce dapprima in un appartamento al numero civico 28 di via Robecchi Brichetti, nel quartiere Ostiense, quindi, dal 1978, al numero 4 di via Zuccari, a San Saba. Ha inizio la sua collaborazione con il Consorzio nazionale cooperative di abitazione (Abitcoop), per il quale allestisce diversi progetti, fra cui il complesso residenziale CoLaSiderTa, realizzato a Taranto fra il 1976 e il 1981 per i lavoratori siderurgici dell’Italsider. Il tema dello spazio domestico, oltre che nelle proposte per l’edilizia residenziale cooperativa, viene indagato in numerosi progetti d’interni, principalmente a Roma e in provincia, ma con puntuali occasioni anche nel resto d’Italia. Il 1977 è anche l’anno della prima esperienza didattica di Flora Ruchat-Roncati, presso l’Istituto Universitario Statale di Architettura a Reggio Calabria,21 a cui seguono, nel 1979, due anni di docenza al Dipartimento di Architettura del Politecnico federale di Zurigo, dove rinsalda i contatti con Dolf Schnebli, ordinario di Progettazione dal 1971, suo mentore al Politecnico e, dal 1987 al 1998, suo associato insieme a Tobias Ammann. Nei primi anni Ottanta l’attività didattica di Flora Ruchat-Roncati s’intensifica attraverso le esperienze come critico invitato alla Syracuse University, alla Cornell University e all’Academie van Bouwkunst di Amsterdam, sino a sfociare, nel 1985, nella nomina a professore ordinario di Progettazione al Politecnico federale di Zurigo, prima donna nella storia dell’ateneo ad assumere questo ruolo, che terrà sino al 2003. La sua vita si dipana ora fra tre poli ugualmente importanti: Riva San Vitale, Roma (dove pure mantiene i contatti con le Università “la Sapienza” e “Roma Tre”) e Zurigo. Nel 1989 vince, in associazione con Renato Salvi, il concorso a inviti, bandito l’anno precedente, per la progettazione dei quattro portali delle gallerie che attraversano i monti Terri e Russelin, lungo il tracciato dell’autostrada N16 Transjurane (un concorso largamente orientato dall’esperienza compiuta in Ticino, durante la
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costruzione della N2 Chiasso-San Gottardo, da Rino Tami, chiamato a far parte della giuria). La collaborazione con Salvi s’interrompe bruscamente una decina d’anni dopo, quando le opere esito del concorso sono state realizzate, ma il tracciato autostradale, nel suo insieme, non è ancora stato portato a termine. Nel frattempo ha avuto inizio l’esperienza di Flora Ruchat-Roncati con il Beratungsgruppe für Gestaltung di AlpTransit, la nuova trasversale ferroviaria alpina ad alta velocità, che la impegnerà fino alla sua scomparsa.22 I due decenni che seguono la nomina a professore ordinario al Politecnico sono, infatti, densi d’incarichi, una parte dei quali svolti insieme a Dolf Schnebli e Tobias Ammann (come il Centro amministrativo e di formazione dell’Unione di Banche Svizzere a Manno, presso Lugano, o il “Quartiere Nord” nel campus del Politecnico federale di Losanna), e una parte individualmente o con altri architetti (come gli interventi a Villa Maraini, sede dell’Istituto Svizzero di Roma, o all’Ambasciata di Svizzera ai Parioli, nei quali è affiancata da Daniel Modigliani). Nel dicembre del 1997 il gta Institut del Politecnico di Zurigo le dedica un’esposizione e un volume monografico che documentano la sua opera di architetto e docente.23 Il suo pensionamento, avvenuto cinque anni più tardi, non recide tuttavia i legami che la vincolano all’insegnamento, continuando a esercitare il suo magistero in varie forme, fra cui prevale il ruolo di critico invitato, che assume volentieri e che svolge anche a Mendrisio, all’Accademia di architettura dell’Università della Svizzera italiana. Gli ultimi anni sono caratterizzati, oltre che dall’esperienza di AlpTransit, dai progetti che realizza in Friuli insieme a Carlo Toson e Simone Mocchiutti, talvolta con la complicità di Leo Zanier.24 I soggiorni a Roma si diradano e la sua vita scorre fra Riva San Vitale e Zurigo, dove scompare il 24 ottobre 2012.
1 A. Airaghi, Fare architettura fra Lugano, Roma e Zurigo, «Agorà», 19, 1989, pp. 34-35. Il testo dell’intervista è pubblicato nel sito www.alidaairaghi.com/intervista-allarchitetto-flora-ruchat-roncati (ultima consultazione 7 maggio 2018). 2 AdM, Fondo Giuseppe Roncati, Curriculum vitae, agosto 1936. 3 AdM, Fondo Giuseppe Roncati, Certificato dell’ing. Alfredo Pariani, 4 maggio 1933. 4 AdM, Fondo Giuseppe Roncati, Curriculum vitae, agosto 1936. Dopo il suo licenziamento per scarsità di lavoro, avrebbe ricevuto l’incarico di studiare il «progetto dell’impianto Idro-elettrico del Basso Liro», che lo avrebbe occupato nella prima metà del 1933. 5 «Gazzetta ticinese», 27 dicembre 1943. 6 «Gazzetta ticinese», 29 settembre 1958. L’edificio è documentato da disegni e fotografie conservate in AdM, Fondo Giuseppe Roncati. 7 L’annuncio dell’imminente matrimonio si trova in «Gazzetta ticinese», 7 settembre 1935. 8 A. Bertola, Ueber Dante’s Werk «De Monarchia». Inaugural-Dissertation, Heidelberg, J. Hörning, 1903. La tesi è discussa con Georg Jellinek (1851-1911). 9 Queste notizie sono state desunte dallo spoglio dei quotidiani locali, e in particolare di «Gazzetta ticinese». 10 «Gazzetta ticinese», 10 luglio 1956. 11 A. Airaghi, Fare architettura fra Lugano, Roma e Zurigo, cit. 12 «Gazzetta ticinese», 19 gennaio 1959. 13 Un accenno ai corsi di progettazione seguiti da Flora Ruchat-Roncati al Dipartimento di architettura del Politecnico di Zurigo è contenuto in H. Bihlmaier, K. Frey, E. Perotti, Leben, Lernen und Lehren. Karriere einer «polyedrischen» Architektin, «Werk & Bauen + Wohnen», 12, 2017, pp. 20-24, in part. pp. 21-22 (ma l’affermazione secondo cui «Tami hatte am Bauhaus studiert» è errata: frequentò dal 1927 al 1929 la Regia Scuola Superiore di Architettura, a Roma, interrompendo gli studi per motivi di salute, e per un breve periodo, nel 1934, il Politecnico federale di Zurigo). Si segnala, infine, il progetto per un centro turistico sulle rive del lago Verbano,
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elaborato da Flora Ruchat-Roncati nell’atelier di progettazione di Rino Tami, pubblicato in G. Curonici, Architektur und Tourismus im Tessin, «Werk», IL, 7, 1962, pp. 244-247, in part. p. 245. 14 AdM, Fondo Flora Ruchat-Roncati, Curriculum vitae di Flora Ruchat-Roncati, s.d. 15 Devo l’informazione ad Anna Ruchat, a cui sono grato per il prezioso apporto offerto durante la stesura di questo profilo biografico. 16 «Gazzetta ticinese», 28 ottobre 1960. 17 A. Ruchat, Volo in ombra, Pescara, Quarup, 2013. 18 AdM, Fondo Giuseppe Roncati. 19 Il rogito notarile è conservato nell’Archivio privato Ruchat-Roncati, Riva San Vitale. 20 Per queste opere si rinvia al saggio di Serena Maffioletti in questo stesso volume. 21 Occasione probabilmente procurata da Enrico Costa, dall’anno accademico 1975-1976 professore incaricato (poi ordinario) di Teorie dell’Urbanistica a Reggio Calabria, fra i promotori, nell’ambito della Lega delle cooperative, del complesso residenziale cooperativo “La Pertusola” a Crotone. 22 Si veda il saggio di Pascal Sigrist in questo stesso volume. 23 Flora Ruchat-Roncati, a cura di P. Carrard, D. Geissbühler, S. Giraudi, Zurich, gta Verlag, 1998. 24 Per queste opere si rimanda al saggio di Carlo Toson in questo stesso volume.
bibliografia
N. Navone, Introvertiertes Gehäuse. Die Casa Ruchat in Morbio Inferiore (1967), «Werk, Bauen + Wohnen», CIV, 2017, 12 pp. 44-46. I. Valente, Strasse ordnet den Raum. Zur Dialektik von Landschaft und Bauwerk, «Werk, Bauen + Wohnen», CIV, 2017, 12, pp. 39-41. P. Amaldi, AlpTransit, «Faces», hiver 2017-2018, 73, pp. 18-20. P. Sigrist, L’architecture de la nouvelle ligne ferroviaire Alp Transit Saint-Gothard, «Faces», hiver 2017-2018, 73, pp. 21-25. N. Navone, Frammenti di una provincia pedagogica. Le scuole elementari e l’asilo di Riva San Vitale di Aurelio Galfetti, Flora Ruchat-Roncati, Ivo Trümpy, Mendrisio, Mendrisio Academy Press, in corso di pubblicazione (2019), in part. cap. II.
interviste e fonti audiovisive A. Pianezzola, Incontro con l’architetto Flora Ruchat-Roncati, Radio della Svizzera italiana, «Filo diretto», 10 dicembre 1995. Persönlich mit Flora Ruchat-Roncati und Rudolf Schenda, Schweizer Radio DRS 1, «Persönlich», 17 dicembre 1995. G. Christen, Reflexe, Schweizer Radio DRS 2, 16 dicembre 1997. Architetture nel territorio, a cura di M. Daguerre, Mendrisio, Tarmac, 2001.
note biografiche degli autori
Carmen Andriani, architetto, professore ordinario in Progettazione architettonica e urbana presso il Dipartimento di Architettura e Design dell’Università degli Studi di Genova e, in precedenza, presso l’Università di Chieti-Pescara, si occupa di progettazione sia in contesti consolidati urbani che in ambiti territoriali vasti, con particolare riferimento alle aree costiere, ai processi di dismissione e trasformazione delle aree portuali, al rapporto fra infrastrutture minori e paesaggi dell’entroterra, ai processi di rigenerazione dei territori fragili in ambito mediterraneo. Si occupa altresì del rapporto fra progetto di architettura e siti archeologici sia in Italia (Roma, Benevento, Villa Adriana e Villa d’Este), che in Medio Oriente (Libia, Giordania, Egitto), attraverso ricerche scientifiche, progetti e missioni. Visiting professor presso diverse università italiane e straniere, autrice di numerosi progetti esposti e pubblicati, ha conseguito nel tempo premi e riconoscimenti. Suoi scritti e progetti sono pubblicati su numerosi cataloghi e riviste d’architettura fra cui «Casabella», «Domus», «PORTUS», «Topos. European landscape magazine», «Il Progetto», «Parametro», «Arte e Critica», «Piano Progetto Città» ecc. Ha fondato e diretto la collana “Forme del Cemento” (Gangemi, 2005-2014) e ha curato il volume Cemento Futuro (Skira, 2016), indagine sul rapporto fra brevetto e forma. Si occupa da diversi anni della nozione di patrimonio dell’esistente in relazione ai paesaggi contemporanei (ideazione e cura scientifica del convegno “Ricordo al Futuro” , Biennale di Venezia, 2008; cura del volume Patrimonio ed Abitare, Donzelli, 2010). Nel 2013 vince il premio alla carriera nell’ambito della 1° Manifestazione Internazionale d’Arte ICASTICA ad Arezzo. Vive e lavora fra Genova, Roma e Milano. Mario Botta dopo un periodo di apprendistato a Lugano, frequenta il liceo artistico di Milano e prosegue gli studi all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia dove si laurea nel 1969 con i relatori Carlo Scarpa e Giuseppe Mazzariol. Durante il periodo trascorso a Venezia ha occasione di incontrare e lavorare per Le Corbusier e Louis I. Kahn. Nel 1970 apre il proprio studio a Lugano e, da allora, svolge parallelamente anche un’intensa attività didattica con conferenze, seminari e corsi presso scuole d’architettura in Europa, in Asia, negli Stati Uniti e in America Latina. Partendo dalla prime realizzazioni di case unifamiliari in Canton Ticino, il suo lavoro ha abbracciato molte tipologie edilizie: scuole, banche, edifici amministrativi, biblioteche, musei ed edifici religiosi. Ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti internazionali. Membro onorario di molte istituzioni culturali, è stato insignito del dottorato honoris causa in varie università in Argentina, Grecia, Romania, Bulgaria, Brasile e Svizzera. Nel 1996, nell’ambito della creazione dell’Università della Svizzera italiana, si è impegnato come ideatore dell’Accademia di architettura a Mendrisio. Un ulteriore strumento a favore del dibattito culturale sull’architettura è il Teatro dell’architettura a Mendrisio che ha iniziato la propria attività espositiva nell’autunno 2018. Aurelio Galfetti si diploma in architettura nel 1960 al Politecnico Federale di Zurigo, aprendo uno studio a Lugano. L’anno successivo trasferisce l’ufficio a Bedano e si associa con Flora Ruchat-Roncati e Ivo Trümpy. Dal 1971 lavora autonomamente, dal 1976 a Bellinzona e dal 1992 ad oggi a Lugano, collaborando con Mario Botta, Ivano Gianola, Luigi Snozzi, Rino Tami, Livio
note biografiche degli autori
Vacchini. È stato professore invitato al Politecnico Federale di Losanna e all’Université Paris 8, primo direttore e ordinario di Progettazione all’Accademia di architettura di Mendrisio Università della Svizzera italiana, dove ha insegnato dal 1996 al 2006. Membro di numerose giurie internazionali, ha tenuto seminari e conferenze in Europa, America, Australia. Le sue opere sono state pubblicate dalle principali riviste di settore a livello internazionale e raccolte in volumi monografici o collettanei. Sandra Giraudi nel 1984 si diploma alla Scuola Tecnica Superiore di Lugano conseguendo i premi Maraini e Schindler. Nel 1989 si laurea in architettura presso il Politecnico Federale di Zurigo dove per anni affianca attività professionale e didattica. Sino al 2010 ha condiviso un ufficio con Felix Wettstein, indagando il territorio in ogni sua scala, dalla dimensione domestica alla città, confrontandosi spesso con opere pubbliche. Dal 1998 al 2006 è membro della Commissione Cantonale delle Bellezze Naturali e del Paesaggio. Le opere realizzate sono numerose, così come i concorsi vinti e diversi riconoscimenti: nel 2001 e nel 2005 il premio dell’Holger Reiners Stiftung per le migliori case unifamiliari e nel 2003 il Premio SIA per i Laboratori d’Informatica dell’Università della Svizzera Italiana. Per la Stazione di Basilea, con Cruz y Ortiz, riceve nel 2005 il Silberne Hase e il Premio Heimatschutz, nel 2006 il Tageslicht-Award della Velux Stiftung. Nel 2010 fonda uno studio con Thomas Radczuweit, distinguendosi in diversi concorsi internazionali e mandati di studio in parallelo. Conduce diversi atelier di progettazione quale titolare: dal 2004 al 2007 presso l’Accademia di architettura di Mendrisio, nel 2012 al Politecnico Federale di Losanna, nel 2013 un Workshop intensivo all’Università Iuav di Venezia. Matteo Iannello, architetto, ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia dell’architettura e Conservazione dei beni architettonici (Palermo, 2012). Assegnista di ricerca presso l’Università Iuav di Venezia (2013), è attualmente ricercatore FNS per il progetto “L’architettura nel cantone Ticino, 1945-1980”, promosso dall’Archivio del Moderno e coordinato da Nicola Navone. La sua attività di ricerca si concentra prevalentemente nell’ambito della Storia dell’architettura contemporanea, con particolare interesse alla conoscenza e valorizzazione degli archivi di architettura e ingegneria del Novecento. Tra le sue pubblicazioni più recenti, il volume Roberto Sambonet artista e designer (Milano 2016); di prossima pubblicazione Carlo Scarpa in Sicilia 1952-1978 (Roma 2018). Serena Maffioletti, laureata in Architettura presso il Politecnico di Milano e dottore di ricerca, è professore ordinario di Composizione architettonica e urbana presso l’Università Iuav di Venezia. Responsabile scientifico dell’Archivio Progetti (dal 2012), già direttore del corso di laurea triennale Architettura Costruzione Conservazione, Iuav. Progettista e capogruppo di numerosi progetti, pubblicati, esposti in mostre e riconosciuti con premi. L’attività, che riunisce teoria, ricerca progettuale, didattica e indagine critica, è rivolta principalmente a indagare questi temi: rapporto del progetto con luoghi e tradizioni in particolare del Moderno; tradizioni e innovazioni dell’abitare la città e il territorio; progetti in luoghi della storia e in aree archeologiche; progetto infrastrutturale nei paesaggi contemporanei; architetture della metropoli. Tra gli studi dedicati all’architettura razionalista italiana e internazionale si evidenziano le ricerche su: i BBPR, in particolare le edizioni critiche degli scritti di Ernesto N. Rogers, Architettura, misura e grandezza dell’uomo (Il Poligrafo, 2010) e Il pentagramma di Rogers (Il Poligrafo, 2009), i saggi su Enrico Peressutti architetto e fotografo e su Lodovico B. di Belgiojoso progettista di memoriali per la deportazione. Numerosi studi riguardano il progetto infrastrutturale del Novecento, in particolare l’opera di Rino Tami e Flora Ruchat-Roncati per le autostrade svizzere, quella di Giulio Minoletti per le stazioni ferroviarie milanesi, quella di Costantino Dardi per il disegno del paesaggio autostradale italiano, così come il contributo che architetti e paesaggisti hanno proposto nella definizione della cultura infrastrutturale internazionale degli ultimi venti anni.
note biografiche degli autori
Nicola Navone è vicedirettore dell’Archivio del Moderno, docente all’Accademia di architettura di Mendrisio - Università della Svizzera italiana, membro del Collegio di Dottorato “Architettura. Innovazione e Patrimonio” - Università degli Studi di Roma Tre. Nell’ambito dei suoi studi, dedica all’architettura ticinese contemporanea i propri corsi all’Accademia di architettura e il progetto di ricerca, finanziato dal Fondo Nazionale Svizzero, “L’architettura nel Cantone Ticino, 1945-1980”, tuttora in corso. È autore di numerosi volumi e saggi, fra i quali Dal mito al progetto (con L. Tedeschi, 2003; ed. russa 2004), Bâtir pour les tsars (2007, ed. italiana 2010), Il Bagno di Bellinzona di Aurelio Galfetti, Flora Ruchat-Roncati, Ivo Trümpy (2010), Studi su Domenico Fontana (con G. Curcio e S. Villari, 2011). Rosario Pavia è stato professore ordinario di Teoria dell’Urbanistica presso la Facoltà di Architettura di Pescara e direttore della rivista «Piano Progetto Città». Tra le sue pubblicazioni: L’idea di città (1994), Paesaggi elettrici (1998), Babele (2002), Le paure dell’urbanistica (2005), Sea Bridge (2007), L’ultimo miglio (2011), Il passo della città. Temi per una metropoli futura (2015). È stato consulente del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e visiting research associate presso la Northteastern University of Boston e visiting professor presso la Harvard Graduate School of Design. Gabriella Raggi, laureata in Architettura presso La Sapienza di Roma nel 1975, svolge attività professionale autonoma dal 1980, dedicandosi, in particolare, fino alla prima metà degli anni Novanta, all’edilizia agevolata, con la progettazione di numerosi interventi di edilizia cooperativa, di cui una selezione è pubblicata in riviste specializzate di architettura. Dal 1998 al 2008 ha operato con il Comune di Roma: prima (1999-2003) come consulente generale del Dipartimento Urbanistica, dove ha promosso iniziative e programmi fortemente connotati sotto il profilo qualitativo, sia con procedure di trasformazione urbana che mediante l’avvio di concorsi di progettazione, tra cui i programmi di intervento pubblici e privati del Progetto urbano Ostiense Marconi e il piano di riuso dell’Ex Mattatoio; dal 2003 al 2008 come dirigente dell’Unità Interventi di qualità del Dipartimento Programmazione del Territorio, ove ha avviato e concluso programmi strategici di trasformazione urbana, quali ad esempio il coordinamento e la gestione dell’intero quadro di programmi di valorizzazione delle aree e compendi immobiliari in dismissione delle società pubbliche e/o partecipate dal Comune di Roma. Particolare rilevanza ha assunto la costruzione e gestione del primo programma di sostituzione edilizia nell’ambito urbano di Giustiniano Imperatore - Roma, avviato nel 2004 e concluso nel 2010, in cui ha rivestito anche il ruolo di soggetto attuatore. Dal 2017 ricopre il ruolo di coordinatore di staff dell’Assessorato all’Urbanistica di Roma Capitale. Pascal Sigrist si è laureato in architettura alla Scuola Politecnica Federale di Losanna (EPFL), dopo un anno di stage a Tokyo presso Toyo Ito, Raphael Viñoly e Satow. Partecipa a progetti come architetto indipendente ed è capo progetto nello studio Feddersen & Klostermann a Zurigo. Dal 1997 è membro della BGG, gruppo di esperti per la pianificazione della nuova trasversale ferroviaria del San Gottardo. Carlo Toson si è laureato in architettura all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia nel 1983. Lavora come libero professionista in Italia, Europa, Russia e Medio Oriente, specializzandosi nel settore del turismo e della valorizzazione del territorio. Ha svolto attività di docente in alcuni master post-laurea presso l’Università Iuav di Venezia, l’Università di Trieste e il Politecnico di Milano. Ha collaborato con Flora Ruchat-Roncati in diversi progetti, fra questi, la teorizzazione e la realizzazione del primo Albergo Diffuso (1978) nel comune di Comeglians (UD). Ivo Trümpy si diploma in architettura nel 1959 alla Scuola Tecnica Superiore di Lugano-Trevano. Dal 1961 al 1970 lavora in associazione con Aurelio Galfetti e Flora Ruchat-Roncati; dal 1970 ad oggi è contitolare dello studio Trümpy e Bianchini a Riva San Vitale. Dal 1971 al 2000 ha insegnato alla Scuola Tecnica Superiore, poi Scuola Universitaria della Svizzera italiana, affian-
note biografiche degli autori
cando dal 1988 al 1992 l’attività di docente di costruzione al Politecnico Federale di Zurigo, dove ha seguito i corsi di Master e i diplomi. Dal 1977 è membro della SIA - Società degli Ingegneri e Architetti Svizzeri e dal 1987 della FAS - Federazione degli architetti svizzeri, gruppo Ticino. Ilaria Valente è professore ordinario di Composizione architettonica e urbana presso il Dipartimento di Architettura e studi urbani del Politecnico di Milano, dove svolge attività didattica e di ricerca dal 1984. È dottore di ricerca in Composizione architettonica (1992, Iuav). Dal 2016 è Preside della Scuola di Architettura Urbanistica Ingegneria delle Costruzioni del Politecnico di Milano; dal 2017 è vice presidente di EAAE - European Association for Architectural Education. Ha sviluppato contributi teorici e progettuali sulla forma e sulla figura dello spazio aperto e dello spazio pubblico nella progettazione architettonica e urbana, sulla descrizione e interpretazione progettuale delle morfologie insediative, sugli strumenti e sulle metodologie di intervento in ambiti urbani marginali e abbandonati, sull’architettura delle infrastrutture. Ha collaborato con istituzioni nazionali e internazionali, tra cui Barragán Foundation e Triennale di Milano, è stata consulente del Comune di Milano e ha, negli anni, collaborato con diverse riviste di settore, tra cui «Domus», «Casabella», «Urbanistica». Ha al suo attivo numerosi contributi in seminari e convegni internazionali, in Italia e all’estero; è membro di comitati scientifici ed editoriali, dirige la collana “Confini- Strumenti e fondamenti dell’Architettura” (Christian Marinotti Editore). Leo Zanier, (1935-2017), poeta e sindacalista friulano. Dopo aver lavorato in Marocco si trasferisce in Svizzera, dove diventa presidente della Federazione delle colonie libere italiane e fonda, nel 1970, l’Ente di formazione e ricerca ECAP, di cui è stato a lungo direttore. Nei primi anni Settanta si trasferisce con Flora Ruchat-Roncati a Roma, dove lavora per la CGIL nazionale e dirige progetti europei di lotta alla povertà e alla marginalità. È ideatore del concetto di “Albergo diffuso” che vede il suo primo progetto pilota a Comeglians, Friuli. La sua opera poetica in friulano, che prende avvio con la raccolta Libers... di scugnî lâ nel 1964, ha avuto un ampio riconoscimento di pubblico e critica ed è stata tradotta in numerose lingue.
Finito di stampare nel mese di dicembre 2018 per conto della casa editrice Il Poligrafo presso le Grafiche Callegaro di Peraga di Vigonza (Padova)