L'inchiostro bianco. Madri e figlie nella narrativa italiana contemporanea, Il Poligrafo

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soggetti rivelati ritratti, storie, scritture di donne collana di studi coordinata da Saveria Chemotti

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Saveria Chemotti

l’inchiostro bianco madri e figlie nella narrativa italiana contemporanea

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bruna giacomini

Volume pubblicato con il contributo del Dipartimento di Italianistica dell’Università degli Studi di Padova

Copyright © marzo 2009 Regione del Veneto Il Poligrafo casa editrice Il Poligrafo casa editrice srl 35121 Padova piazza Eremitani - via Cassan, 34 tel. 049 8360887 - fax 049 8360864 e-mail casaeditrice@poligrafo.it ISBN 978-88-7115-620-0

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introduzione

INDICE

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Quale materno?

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Intermittenze

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Sibilla Aleramo: il congedo dalla madre e la maternità come ri-creazione

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Grazia Deledda: la madre sacrificale

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Paola Drigo: la madre ferita

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Gianna Manzini, Anna Maria Ortese e Fausta Cialente: l’epifania della madre

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Alba de Céspedes: la madre desiderante

111 Elsa Morante: la maternità naturale e la disillusione dei figli

127 Natalia Ginzburg: la maternità protettrice

e lo sguardo dei figli

143 Giovanna Zangrandi: la madre terra, la madre regina 155 Lalla Romano: la figlia nostalgica e la madre «mediterranea» 171 Gina Lagorio: la beatitudine dell’amore materno 201 Francesca Duranti: la madre regina e nemica 215 Francesca Sanvitale: madre e figlia, una doppia agnizione 227 Fabrizia Ramondino: l’esilio dal materno 241 Carla Cerati: la cattiva figlia

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bruna giacomini

251 Dacia Maraini: il materno ritrovato 271 Elena Ferrante: il corpo a corpo con la madre 299 Elisabetta Rasy: la madre estranea 307 Altre voci. Passim 327 Indice dei nomi

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introduzione

Presentazione Giancarlo Galan Presidente della Regione del Veneto

Se il Ventesimo secolo può essere definito il “secolo delle donne”, si rende oggi utile e opportuno, giunti nel nuovo millennio, tornare a riflettere sulle tematiche e sulle personalità che hanno fortemente contri­ buito a scrivere pagine straordinarie di una storia, quella vissuta, scritta e narrata dalle donne, che rappresenta la rivoluzione più importante tra le molte che hanno caratterizzato l’epoca da cui veniamo. Valorizzare questo patrimonio inestimabile di culture e di esperienze significa porre le basi per conoscere meglio noi stessi e gli altri. Oltre a rievocare frammenti del nostro passato, a definire i contorni di un lungo percorso di emancipazione e di liberazione tutt’altro che terminato, queste pubblicazioni si prefiggono l’obiettivo di fornire nuovi contributi per la riscoperta e l’interpretazione di una realtà che, forse troppo banalmente, ci limitiamo a chiamare femminile. Un orizzonte di esperienze, di “linguaggi”, di memorie, di vissuti, di aperture e di silenzi caratterizza le riflessioni contenute in questi saggi, dove si confrontano voci autorevoli del mondo della cultura, del­ l’economia e della società in genere. Un orizzonte complesso e proble­ matico, ma che presenta valori da preservare, custodire, trasmettere alle nuove generazioni, così da darci un ritratto puntuale e pluridisciplinare della ricca, composita, a volte difficile e sofferta, real­tà femminile. Proprio in quest’ottica di proposta, di ricerca e di divulgazione si inserisce e prende forma l’azione della Regione del Veneto: la politica, se può e vuole, deve saper affrontare i nuovi scenari del futuro, contri­ buendo con le sue idealità e le sue concretezze a creare le condizioni per rinnovare le strutture della società e rinnovarsi. E il “soggetto donna” 7


giancarlo galan

in questa azione di rinnovamento della società e della politica non può non assumere un ruolo sempre più rilevante. Sappiamo quanto il Veneto delle donne sia una realtà dinamica, viva, che tende a inserirsi pienamente nella società e nelle istituzioni, volendo vivere da protagonista tutte le profonde trasformazioni eco­ nomiche e sociali che questa terra ha conosciuto negli ultimi decenni. In breve, il Veneto delle donne costituisce, da sempre, una speranza di cambiamento e una risorsa insostituibile per ogni ipotesi di sviluppo duraturo e di crescita civile e culturale. Nelle politiche e nelle iniziative legislative la Giunta Regionale vuole quindi rivestire un ruolo attivo sulla questione delle pari opportunità. La particolare attenzione all’iniziativa editoriale “Soggetti rivelati” testimonia concretamente il senso di una scelta, nonché un evidente impegno su questo fronte.

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presentazione

Presentazione Maria Luisa Coppola Assessore Regionale alle Politiche di Bilancio Diritti Umani e Pari Opportunità

Con l’iniziativa editoriale denominata “Soggetti rivelati. Ritratti, storie, scritture di donne” la Giunta Regionale del Veneto e l’Asses­ sorato alle Pari Opportunità partecipano alla realizzazione di un pro­get­to che è anche l’occasione per uno sguardo d’insieme sulla realtà femminile contemporanea e sulle dinamiche che in questo periodo la attraversano. Oggi sembra finalmente possibile superare un’ottica parziale e settoriale, quasi “di nicchia”. Sembra possibile muoversi in direzione di una prospettiva più ampia e senza più essere costretti a ragionare nei termini di una generica e astratta “questione femminile”, prendendo atto anche delle contraddizioni, dei momenti di tensione, di luci e ombre, inevitabili per chi voglia dedicarsi a una lettura complessiva dell’universo femminile. Queste opere si propongono di ridare voce alle figure di donne che hanno lasciato un segno profondo della loro fecondità e della loro crea­tività nei campi dell’arte, della letteratura, della filosofia, della psicologia, delle scienze, della religione, della politica, del costume. L’attenzione sarà per questo rivolta ai tanti percorsi individuali, alle tante storie e alle tracce che emergono dal nostro passato e sono de­gne di entrare a far parte di questa galleria ideale, non meno che “fisica”, reale, vissuta, perché intessuta di vicende biografiche intense e spesso in largo anticipo sui tempi. In tale dimensione ogni singola storia è un frammento di verità e di umanità e la sorpresa sta nella ricchezza e nella varietà di queste radici.

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isi coppola

La pluralità di temi e prospettive diventa, infatti, una chiave di lettura essenziale non solo per un’analisi incisiva, ma anche per far sorgere intorno a queste pubblicazioni, alle autrici trattate e ai temi affrontati, nuove occasioni di dibattito e approfondimento. L’iniziativa editoriale che presentiamo, e in cui confluiranno ricerche e studi di vario tipo, vuole senz’altro contribuire a sviluppare questo dibattito, preparando un comune terreno di incontro per le donne e con le donne. La storia umana è unica, ma il punto di partenza per una nuova riflessione sul passato e sul presente deve necessariamente ripartire da una conoscenza più profonda della cultura femminile, troppo spesso dimenticata o addirittura negata, ma che è da sempre fulcro centrale e insostituibile della società civile e chiede di essere valorizzata e cono­ sciuta più da vicino per diventare, finalmente, una presenza dialogante, capace, soprattutto, di rompere le barriere e scardinare consolidati luoghi comuni. Ripercorrere e rileggere criticamente, come avviene in queste pagine, la narrativa italiana contemporanea e gli itinerari delle nostre scrittrici più significative diventa anche un modo privilegiato per seguire e per esaminare quelle che sono state le molteplici evoluzioni dell’essere madre, del materno, del rapporto – unico, fortissimo, viscerale – che sempre lega madri e figlie, oltre e nonostante le barriere culturali e gene­ razionali. Molto spesso è proprio lo sguardo della letteratura e dell’arte a consentire una comprensione più profonda degli eventi cruciali e dei cambiamenti che hanno variamente attraversato la nostra società, la cultura, il costume, la famiglia in questi ultimi decenni. Nella medesima ottica, il “filtro” del materno e della letteratura rappresenta un punto di osservazione privilegiato per poter indagare la reale sostanza di questi mutamenti e le prospettive aperte per l’immediato futuro.

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l’inchiostro bianco


Nella parola come nella scrittura femminile non cessa mai di risuonare ciò che, avendoci una volta attraversato, toccato impercettibilmente, profondamente, conserva il potere di colpirci, il canto, la prima musica, quella prima voce d’amore, che ogni donna preserva, custodisce viva. [...] La donna non è mai lontana dalla madre [...]. Sempre in lei sussiste un po’ del latte materno. La donna scrive con l’inchiostro bianco. Hélène Cixous, Il riso della Medusa (in Aa.Vv., Critiche femministe e teorie letterarie, a cura di R. Baccolini, M.G. Fabi, V. Fortunati, R. Monticelli, Bologna, Clueb, 1975, p. 229)


QUALE MATERNO?

C’è una genealogia di donne nella nostra famiglia: abbiamo una madre, una nonna, una bisnonna materne e delle figlie. Di questa genealogia di donne, dato il nostro esilio nella famiglia del padre-marito, tendiamo a dimenticarne la singolarità e perfino a rinnegarla. Cerchiamo di situarci in questa genealogia femminile per conquistare e custodire la nostra identità. Non dimentichiamo nemmeno che abbiamo già una storia, che certe donne, anche se era culturalmente difficile, hanno segnato la nostra storia, e che troppo spesso noi non ne abbiamo conoscenza.1

Nella cultura e nella letteratura del Novecento, la relazione madre-figlia, nodo dell’autobiografia e centro tematico forte della scrittura femminile, è stata descritta spesso, dalla testimonianza di innumerevoli donne, come luogo di conflitti e di sofferenza e anche l’emancipazione femminile, soprattutto negli anni Settanta, è stata collegata all’uccisione simbolica della madre come origine e modello di annullamento di sé che non lasciava spazio a desideri, progetti, ambizioni, percepiti come espansione oltre il canone designato della soggettività femminile. La contrapposizione tra maternità, trappola biologica ineluttabile e creatività scaturiva per questo da un dettato epistemologico che aveva le sue radici in un’adesione inconsapevole alla pratica materna della cultura patriarcale: in tale prospettiva la maternità veniva connotata «non come un campo di azione o di scelte ma come un processo biologico, naturale, di cui le donne sono tramite e motore, quindi qualcosa di molto diverso da altre forme di realizzazione di sé»2. La maternità, originariamente e simbolicamente, è stato l’orientamento prioritario, l’unico ordine in cui doveva esistere una donna, 1 L. Irigaray, Il corpo a corpo con la madre, in Sessi e genealogie, Milano, Baldini, Castoldi Dalai, 20063, p. 30. 2 C. Botti, Madri cattive. Una riflessione su bioetica e gravidanza, Milano, Il Saggiatore, 2007, p. 28.

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pena la sua non identificazione come tale: se una donna poneva in discussione il materno rischiava di mettere in crisi la sua stessa condizione di donna. Perfino le campagne per la tutela della maternità come valore sociale, reclamando importanti e radicali modificazioni nell’assetto della società, in campo etico e giuridico, la consideravano come stagione del pieno estrinsecarsi della personalità femminile, rimuovendo ogni dubbio sul suo significato nel ‘destino’ individuale e privato e quindi nel ‘desiderio’ di ogni donna. Intere generazioni di donne sono cresciute nel segno della maternità naturale e all’ombra dell’ingombrante archetipo della madre che simboleggia l’ineludibile potenza dell’oggetto materno e il suo fascino captante. Per questo liberarsi dalla maternità come ruolo, per come si è realizzato storicamente e socialmente, ha significato aprire un conflitto con la maternità stessa e allora misurarsi con il «fantasma» della madre significa, per le donne, reinterpretare la propria differenza sessuale, rompendo la continuità col modello materno codificato, per cercare nelle proprie madri la donna, rifiutando al contempo come figlie, il mimetismo cieco per instaurare una relazione di somiglianza nella differenza. Nella relazione primaria tra madre e figlia molte donne ancora «oscillano tra vicinanza fusionale e fuga precipitosa al grido di “mai come lei” e [...] confondono il “con te” necessario al mantenimento di un’origine condivisa con un “come te” imprigionante e mortifero per l’inconscietà di chi lo abita e per le concrezioni culturali e simboliche che si sono formate nel corso della storia». La discontinuità della genealogia femminile esprime la difficoltà di costruire una tradizione femminile che altro non è che «la registrazione dell’insicurezza della madre a dare un’eredità che non crede di avere e della paura della figlia ad assumere tale eredità che può mettere in discussione la propria autonomia»3. Come madre, la donna può esercitare sulla figlia un potere così assoluto e pervasivo da diventare paralizzante; già Jung4 affermava

3 A. Rossi Doria, in Carte di donne, a cura di S. Contini e A. Scattigno, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2005, p. 237. 4 C.G. Jung, L’archetipo della madre, Torino, Boringhieri, 1990, p. 31.

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quale materno?

che l’archetipo della madre si esprimerebbe nei due aspetti di madre «amorosa» e di madre «terrificante»: su questo piano pare non esistere per la figlia una reale possibilità di difesa se non con un’aperta ribellione che rifiuti il modello di identificazione e di amore che la madre trasmette. Non è possibile evolversi in una vera donna se non è stato esperito, a suo tempo, il processo essenziale di identificazione-separazione dalla figura primaria di sostegno e di riferimento. In anni più recenti molte sono le studiose che hanno contribuito all’evoluzione del pensiero femminile sul materno evidenziando, nelle loro ricerche, la complessità, l’ambivalenza e la contraddittorietà del rapporto relazionale madre-figlia come luogo di una passione perduta e volutamente annullata per le sue valenze eversive in un contesto storico e sociologico in cui si mette finalmente in discussione l’ordine simbolico del padre, sottraendo la figura della madre all’immaginario maschile, per fondare un ordine simbolico antagonista fondato sul progetto utopico di «rimettere al mondo se stesse»5. È necessario anche che noi scopriamo ed affermiamo che siamo sempre madri dal momento che siamo donne. Mettiamo al mondo qualcosa di diverso dai figli, generiamo qualcosa che non è il bambino: amore, desiderio, linguaggio, arte, società, politica, religione, ecc. Ma questa creazione da secoli ci è stata vietata e bisogna che noi ci riappropriamo di questa dimensione materna che ci appartiene in quanto donne.6

Riflettere oggi sulla figura materna e sul suo portato simbolico significa, perciò, fare i conti necessariamente anche con l’enigma del materno e la sua dimensione paradossale7, sottoponendo la parola «madre» a interrogazioni e teorizzazioni diverse che rifluiscono in termini come madre interna, madre immaginaria, madre reale, madre simbolica ponendo in essere modi di intendere e modi di relazioni molto distanti tra loro8. Significa, soprattutto, riflettere sull’immagine simbolica dell’identità femminile che è radicata nella coscienza occidentale moderna e che incarna le qualità della cura, L. Irigaray, Il corpo a corpo con la madre, cit., p. 28. Ivi, p. 29. 7 Cfr. Diotima, L’ombra della madre, Napoli, Liguori, 2007. 8 Cfr. Corpo a corpo. Madre e figlia nella psicoanalisi, a cura di G. Buzzati e A. Salvo, Laterza, Bari, 1995. 5 6

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della dedizione, dell’accudimento; un topos secolare che intende l’amore materno come archetipo dell’amore generoso e disinteressato, espressione per eccellenza dell’essere per l’altro, «peculiare specificità e dignità di soggetto di dono»9, con una implicita valenza sacrificale che confina la donna, in quanto legata solo a un destino naturale di riproduttrice dei corpi, negli spazi della sfera privata con pesanti risvolti di esclusione, disuguaglianza, subalternità anche in quelli della sfera pubblica. Infatti «ritrovare le madri nei nodi stretti delle tessiture patrilineari ha significato per le figlie fronteggiare il posto vuoto della propria rappresentazione, del proprio svuotamento di soggettività per farne un sito di desiderio e di un’identificazione»10: ripensare se stesse attraverso la madre ha comportato un impegno intenso a simbolizzare la relazione così che miserie e ricchezze del materno assumano valore legittimante del femminile. Ricollocare in una prospettiva dialettica funzionale, nel sociale e nel politico, a livello oggettivo e soggettivo, il ruolo della madre, significa, in primis, imparare ad «amarla», cioè a riconoscere il significato e l’importanza del suo dono della parola nella vita, per sottrarsi al circolo vizioso di svalutazione del proprio sesso, creando, sia pure per tentativi successivi, il linguaggio per raccontare la storia della nostra relazione con il materno: L’esperienza estetica che ci fa amare un racconto, un romanzo, uno stile narrativo, un genere di scrittura, proviene da quel luogo dell’io dove sono depositate le storie generate dalla nostra antica relazione con la madre, qualunque sia la teoria e metodologia interpretativa attraverso cui, a posteriori, razionalizziamo la nostra risposta.11

Se il linguaggio ha assunto nella storia delle donne una particolare rilevanza per ricostruire la realtà oggettiva attraverso percezioni soggettive del mondo, la «lingua madre» è da sempre considerata come vera «lingua naturale», l’unico mezzo per comunicare e per 9 E. Pulcini, Il desiderio di donare. Simbolica del dono e identità femminile, in Il potere di unire. Femminile, desiderio, cura, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, p. 161. 10 Aa.Vv., Trame parentali trame letterarie, a cura di M. Del Sapio Garbero, Napoli, Liguori, 2000, p. 5. 11 Aa.Vv., Lo specchio materno. Madri e figlie tra biografia e letteratura, a cura di A. Scacchi, Roma, Luca Sassella, 2005, p. 22.

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ELSA MORANTE: LA MATERNITÀ NATURALE E LA DISILLUSIONE DEI FIGLI

Malanotte a te Aracoeli, che hai ricevuto il seme di me come una grazia, e l’hai covato nel tuo calduccio ventre come un tesoro, e poi ti sei sgravata di me con gioia per consegnarmi, nudo, ai tuoi sicari.

Nella sua variegata opera letteraria1, Elsa Morante mostra di prediligere i personaggi femminili che interpretano la vita con semplicità, strettamente connessi alla naturalità elementare e alla semplicità dell’esistenza e, in molti testi, canta la maternità senza riuscire ad accettarla fino in fondo nella sua essenza simbolica: le donne create dalla sua penna sono per la maggior parte ritagliate da un medesimo pattern in cui esse non si autodefiniscono e non sono il soggetto del loro linguaggio. Le rievocazioni delle figure femminili, infatti, sono al contempo reali e perverse come immagini rimandate da specchi deformanti, perché ognuna riflette un aspetto distorto o idealizzato della scrittrice stessa che ha vissuto la sua femminilità in maniera molto turbata2. In particolare, solo le madri non corrotte dai valori borghesi e da un sistema di valori maschili in cui la priorità è il benessere finanziario, a suo parere, riescono a prendersi cura dei figli perché non hanno perso il loro istinto materno, la loro naturalezza e non rischiano di trasformarsi in donne frustrate e odiose, incapaci di partecipare alla vita della loro famiglia, nonostante l’abbiano generata3. 1 Cfr. Aa.Vv., Per Elsa Morante, Milano, Linea d’ombra edizioni, 1993; Aa.Vv., Vent’anni dopo «La storia». Omaggio a Elsa Morante, a cura di C. D’Angeli e G. Magrini, «Studi novecenteschi», 1994, 47-48; G. Rosa, Cattedrali di carta. Elsa Morante romanziera, Milano, Il Saggiatore, 1995; C. Garboli, Il gioco segreto. Nove immagini di Elsa Morante, Milano, Adelphi, 1995; C. D’Angeli, Leggere Elsa Morante. «Aracoeli», «La storia», «Il mondo salvato dai ragazzini», Roma, Carocci, 2003. 2 Cfr. E. Morante, Diario 1938, Torino, Einaudi, 1989 e M. Morante, Maledetta Benedetta, Milano, Garzanti, 1986. 3 Un’altra madre cattiva la incontriamo nel racconto Il gioco segreto del 1937, che poi darà il titolo alla raccolta edita da Garzanti nel 1941. Confesserà: «Adoro le madri,

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Il percorso viene inaugurato con Menzogna e sortilegio (1948), paradigmatico suo primo romanzo4, il racconto di una disperata passione per la madre, dall’intonazione ironica e melodrammatica e dall’architettura ampia e compatta, vero viaggio en enfer in una stregata atmosfera di tempo sospeso, «una cura della fantasticheria che scambia e baratta realmente il reale per l’irreale»5. Elisa, la protagonista, (unica donna morantiana non narrata da un altro personaggio) è una ragazza di venticinque anni, ultima discendente di una famiglia borghese siciliana che, dopo la morte di Rosaria, prostituta di alto bordo, putain au grand cœur e sua madre adottiva, la sua «sola amica e protettrice», prova a ricostruire la storia delle passioni intricate che hanno segnato indelebilmente le persone a lei care, prigioniere d’un mondo artefatto impastato di illusioni; cerca soprattutto di spiegare le ragioni del disamore di Anna, la sua gelida, ottusa e infelice madre naturale, divinità regale, altera e scostante, per scoprire come mai non è stata amata da lei. Elisa è nata in una città anonima del Mezzogiorno (la P. maiuscola è forse Palermo?), uno spazio claustrofobico e metaforico con nessun connotato geografico che possa identificarla: collocata in mezzo a una pianura, con un nucleo storico e quartieri moderni in periferia, la ferrovia e il parco comunale è un cliché sovrapponibile a tutte e nessuna. Con la morte della madre adottiva lo scudo protettivo scompare ed Elisa entra in uno stato di crisi che soltanto il recupero della memoria potrebbe superare o almeno alleggerire. Segregata volontariamente nella sua stanza a Roma, con la compagnia del suo gatto Alvaro, Elisa comincia a scrivere la sua «familiare leggenda», per smascherare ogni menzogna e liberarsi dai sortilegi che sono veleno ereditario e nascono dalla paura della vita: assimila l’impercettibile bisbiglio della sua memoria a quello dei suoi morti le vere madri [...] Ho un grande amore per la donna semplice. Non amo molto le femministe perché ritengo che la donna sia necessaria all’umanità, agli uomini» («L’Espresso», 2 dicembre 1984, p. 125). 4 Gyórgy Lukács lo definì «il più grande romanzo italiano moderno» («Rinascita», 27 ottobre 1967). Il romanzo, incominciato nel 1943, doveva intitolarsi inizialmente Vita di mia nonna. 5 A. Berardinelli, Il sogno della cattedrale. Elsa Morante e il romanzo come archetipo, «Narrativa», 2000, 17, p. 20.

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elsa morante: la maternitÀ naturale e la disillusione dei figli

che nei sogni le raccontano le loro storie, dietro lo schermo di una maschera di lacerante visceralità. La sua inchiesta è senza pace e al di là della cortina delle finzioni scopre solo un immenso e vuoto deserto affettivo, una funebre solitudine che la pervade di «un’angoscia sottile e perfida» intridendo la sua stessa identità: Talora mentre m’aggiro per le stanze, in ozio, il mio riflesso mi si fa incontro a tradimento: io sussulto al vedere una forma muoversi in queste funebri acque solitarie, e poi, quando mi riconosco, resto immobile a fissare me stessa, come se mirassi una medusa. Guardo la gracile, nervosa persona infagottata nel solito abito rossigno [...] le nere trecce torreggianti sul suo capo in una foggia antiquata e negligente, il suo volto patito, dalla pelle alquanto scura, e gli occhi grandi e accesi, che paiono sempre aspettare incanti e apparizioni. E mi domando: «Chi è questa donna? Chi è questa Elisa?» Non di rado come solevo già da bambina, torco la vista dal vetro, nella speranza di vedervi rispecchiata, appena lo riguardi, una tutt’altra me stessa; ché, scomparsa la mia seconda madre, la sola cui piacque di lodarmi, e perfino di giudicarmi bella, rinasce in me e si rafforza ogni giorno l’antica avversione per la mia propria figura.6

Elisa non si riconosce nella sua immagine speculare perché non ha avuto modo di percepirsi, se non attraverso l’immagine proiettata e tramandata dalle sue ave e questo la condanna a una perpetua auto-alienazione. Solitaria, enigmatica, questa donna, bloccata da traumi infantili, è spaventata dalla realtà del mondo, piena di rabbia per se stessa e sublima le sue tentazioni e le sue debolezze. In lei la vocazione della scrittura nasce da un bisogno di consolazione che è anche terapia per scavare nello specchio magico delle sue memoriefantasie e per provare a ricostruire se stessa7. La morte, come abbiamo visto, è il principio dominante della scrittura autobiografica, perché lo scrittore ricostruisce se stesso in relazione al lutto, alla perdita; anche qui la scomparsa della madre appare come l’evento che stimola la figlia a ricercare la sua essenza e ricomporre il suo io diviso. 6 E. Morante, Menzogna e sortilegio, in Opere, vol. I, Milano, Mondadori, 1988, pp. 9-10. Le citazioni delle pagine, tra parentesi, sono tratte da questa edizione. 7 La scrittura come motivo si ritrova anche in Anna, la madre vera, che sconfitta da un amore semi-incestuoso per il cugino Edoardo attraverso la scrittura autoerotica continua a vivere il suo dramma d’amore proibito anche dopo la morte dell’amato, scrivendosi, da svariate località, lettere immaginarie a suo nome.

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Mia madre era stato il mio primo, e il più grave, dei miei amori infelici; e, in virtù di lei, fin dalla mia prima infanzia io conoscevo le più amare prove degli innamorati negletti. Avevo sempre, tuttavia, sostenuto coraggiosamente ogni prova della mia sorte, poiché, pur nelle più crudeli, m’era tuttavia concessa una speranza. La fine di qualsiasi speranza, ecco la prova che non avevo ancor conosciuta, allorché mia madre morì. Incapace di credere alla severa indifferenza dei morti, per gran tempo ancora io m’attendevo di riveder mia madre, e mi ripromettevo la sua fredda compagnia, la sua perfidia. Ma niente, neppure lo strazio dell’amore infelice m’era più concesso; niente, ella mi negava pure il suo disdegno, sfuggiva fino alla mia speranza più esigua, estrema. (pp. 19-20) [...] Dio mi perdoni, io non ho pianto alla morte della mia madre adottiva, perché per me essa era morta da tempo nei miei affetti e in luogo di lei, vera io amavo un suo fantastico doppio, una signora senza corpo che frequentava la mia camera. La quale era identica a lei nell’aspetto, al pari di lei gaia, esuberante e fastosa; ma era, a differenza di lei, fedele. (p. 29)

Per Elisa questo avvenimento è origine di una ricerca che ha lo scopo di ricostruire la propria genealogia femminile di ombre non benevole, attraverso le figure della nonna Cesira, della madre naturale, della madre adottiva: tre donne diverse, per carattere e per estrazione sociale, e sarà Rosaria, la madre non biologica, di origini contadine, a possedere le caratteristiche della buona madre, la spontaneità, la generosità, l’affetto incondizionato, la dedizione, la protezione. Tracciando la storia delle sue antenate, «raccontandole, raccontandosi, Elisa verifica nella menzogna che è la forma della scrittura, l’unica possibilità di dirsi come donne: mettersi in scena come maschere o come fantasmi»8. Nella sua alterazione psichica Elisa, infatti, non conserva alcun ricordo della fusione originaria col corpo materno; la sua infanzia «infelicissima» sfila sotto il segno della carenza d’affetto e d’amore e, per questo, insegue disperatamente, in modo talvolta grottesco, il desiderio di essere riconosciuta dalla madre. Solo nel momento solenne della morte Anna compirà, finalmente, un gesto di agnizione pronunciando il nome della figlia e stringendole la mano con un segno di complicità affettiva che sancisce, però, la definitiva sottomissione di Elisa al mito irraggiungibile dell’amore materno onnipotente e alla sua perenne nostalgia. P. Azzolini, Il cielo vuoto dell’eroina, Roma, Bulzoni, p. 200.

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dacia maraini: il materno ritrovato

Sposare, figliare, far sposare le figlie, farle figliare e fare in modo che le figlie sposate facciano figliare le loro figlie che a loro volta si sposino e figlino.

Tutta l’attività letteraria di Dacia Maraini, scandita tra narrazione, teatro e poesia, si può iscrivere di buon grado entro un paradigma declinato a recuperare l’«io parlante femminile» che da «luogo della produzione dell’enunciato, momento imprescindibile della significazione, si erige a soggetto dell’enunciazione»1. La sottolineatura e la messa in primo piano dello «statuto della parola»2 intende affermare anche la preminenza della semantica e cioè del significato-portato della parola, denunciando così esplicitamente «il condizionamento dell’apparato logico-conoscitivo che soggiace alla metafisica occidentale» e all’assetto socio-economico e culturale costrittivo dell’ordine patriarcale. «La parola pertanto diventa pura esperienza focalizzante che crea uno spazio e un tempo proprio, in cui si trascrive la nascente consapevolezza della donna»3, anche con l’enfasi che è implicita nella variabilità dell’atto, cioè nel divenire dell’io, testimoniato dalla presenza di un occhio che vede e osserva le cose per la prima volta e le celebra con il rituale solenne della rivelazione. Questo deriva dalla consapevolezza dell’emarginazione della donna come «soggetto parlante», resa muta da secoli, e priva di uno spazio in cui espletare la propria soggettività. Oggetto di una realtà non sua, la donna, [...] è stata parlata dall’uomo, è stata rappresentata a sua immagine e, spinta da forze condizionanti, ella si è 1 M.G. Sumeli Weinberg, Invito alla lettura di Dacia Maraini, Pretoria, University of South Africa, 1993, p. 17. 2 Ivi, p. 18. 3 Ivi, p. 24.

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l’inchiostro bianco

ritrovata di fronte a un simulacro della femminilità, riflesso deformante del proprio io.4

I libri della Maraini propongono spesso storie private che diventano storie esemplari con una variazione di giochi prospettici sempre sorprendenti per il lettore, squarci di vita quotidiana di donne, a cui è stata negata la condizione di soggetto e che reificano la loro faticosa e spesso drammatica presa di coscienza, abbandonando il falso io, la pseudoidentità, «l’indeterminato»5 imposto loro dalle norme e dalle convenzioni delle gerarchie autoritarie, dai precetti dell’ordine simbolico maschile, anche evidenziando la natura politica dei rapporti fra uomo e donna, fra donna e istituzioni, fra donna e cultura6. L’esigenza di rappresentare la mimesi della memoria e l’andirivieni della coscienza si disvela nel linguaggio fortemente espressivo della sua produzione letteraria che tradisce l’ansia di frugare nel pensiero e si evince, emblematicamente, nelle sue raccolte poetiche in cui il vissuto si consegna alla pagina scritta, alternando riconciliazione e ripudio. Se il padre, per cui prova un amore appassionato e ossessivo, è all’inizio presenza morbosa e vorace («Era un padre volante, il mio, una specie di sogno irraggiungibile, desideravo sempre la sua presenza, la sua bellezza»7), la madre è «come se non ci fosse» e il suo disorientamento per questa assenza si manifesta, nella prima raccolta poetica Crudeltà all’aria aperta, nella messa a fuoco tangenziale della sua figura in quanto oggetto espulso dalla relazione con il padre e complice del suo tradimento.

4 M.G. Sumeli Weinberg, All’ombra del padre: la poesia di Dacia Maraini in «Crudeltà all’aria aperta», «Italica», 1990, 4, p. 453. 5 J. Kristeva, Materia e senso, Torino, Einaudi, p. 6. 6 «La produzione narrativa di Dacia Maraini potrebbe essere suddivisa in due versanti ben distinti, quello anteriore al Sessantotto e quello immediatamente posteriore. Prima della contestazione studentesca e operaia Maraini ha pubblicato romanzi legati in gran parte alla tematica della perdita della memoria sociale, cioè di quella particolare coscienza che tiene uniti tutti i gesti della vita. [...] Il Sessantotto, in quanto risposta negativa alle ideologie del benessere ha influenzato non poco l’ultima narrativa di Maraini [...]. Le ultimissime scoperte sembrano doversi inserire nell’ordine del didascalico, dell’insegnamento morale» (R. Paris, Donna in guerra, «Il Manifesto», 17 aprile 1981). 7 I. Montini, Parlare con Dacia Maraini, Verona, Bertani, 1977, p. 104.

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dacia maraini: il materno ritrovato

Nella poesia Madre canina, che stupisce per l’ostilità che vi sgorga, la madre è oggettivizzata nei versi introduttivi con immagini animalesche, quasi a marcare la distanza che la relega alla pura funzione biologica, esente da qualsiasi autonomia psicologica o morale («Dita canine, madre, moglie, bue»), ma nei versi successivi l’io poetico accomuna il proprio destino a quello della madre, (appellata ora «madre, figlia, generatrice») dentro il meccanismo di ciclicità che impedisce alla donna ogni forma di identità; il rifiuto della madre nasce dal rispecchiamento in lei della propria sorte: Io ricordo tutto, anche l’odore del tuo mestruo e il sapore delle guance affaticate. [...] mi viene giù un rivolo di pena e non vorrei chiamarti nemica, da quando hai perso la coscienza, da quando l’hai resa calcarea e scintillante come la perla dei tuoi bronchi, da quando la tua inerzia ti ha rammollito i fianchi, da quando in un prato disteso e secco della tua ariosa testa non giochi più e neghi e neghi paurosamente chinandoti sull’orifizio della mortalità e della delusione dei sensi.8

Il tragitto di riconciliazione col materno e il recupero della figura della madre, nella produzione letteraria della Maraini, si realizza per tappe successive di riavvicinamento, a ridosso della sua militanza femminista e del risentimento per il ruolo subalterno interpretato dalle donne nella società e nella cultura che continua a esaltare le cosiddette virtù muliebri tradizionali, la muta disponibilità verso il maschio (padre, marito, figlio o amante che sia), la modestia nei comportamenti, la soggezione morale, la rinuncia al proprio destino soggettivo, la capacità di soffrire tacendo. Già nella raccolta Mangiami pure9 la poesia Demetra ritrovata10, dedicata a

D. Maraini, Crudeltà all’aria aperta, Milano, Feltrinelli, 1966, p. 43. D. Maraini, Mangiami pure, Torino, Einaudi, 1978. Già nell’intervista citata con Ileana Montini, Dacia Maraini preannunciava un nuovo nucleo di poesie intitolato Demetra ritrovata dedicato espressamente al rapporto tra madre e figlia. 10 Ivi, pp. 5-12. 8 9

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l’inchiostro bianco

richiamare la voce materna come presenza che può garantire un recupero dell’autenticità femminile, rielabora esplicitamente il ratto di Proserpina come atto di violenza maschile che vuole cancellare la figura della madre dall’ordine simbolico. Pur non accettando in toto le leggi della madre, la rievocazione della sua voce e della sua figura antagonista a quella paterna, la riscoperta del grembo materno come origine di un’esistenza ancestrale, pre-razionale, entro la quale è ancora possibile il recupero dell’autenticità femminile, si manifesta come sorgente di nuovo equilibrio interiore e garanzia per il progetto di una credibile solidarietà tra le donne a cui aveva già dedicato la raccolta Donne mie11: Tutto è cominciato in quei giorni di lucore infantile fra peschi in fiore e piccoli dolci verdi alla menta. È cominciato con la storia di una figlia campesina e di un padre sportivo che cantava l’internazionale dentro struggenti stanze di una casa borghese fra pareti dipinte e un odore di medicine delicate, l’acqua bolliva su una spiritiera smaltata e la febbre mi incantava la gola fredda è lì che un giorno ho perso mia madre Demetra per correre incontro a uno sposo dai denti di ghiaccio e l’alito di fichi secchi, è lì che ho abbandonato le mie sorelle per nascere dalla testa di mio padre il bello e savio navigante del cielo, nuova Atena priva di mistero conservatrice delle leggi democratiche, è lì che ho amato giocosamente senza gloria con umiltà feroce e ingenua il dio uomo che mi carezzava le guance con dita di latte e mi parlava con voce adulta di verità e di onore, che mi guardava con occhi di vecchio lustri occhi neri di bambino padre dal cuore lento e asfittico e incolore 11

D. Maraini, Donne mie, Torino, Einaudi, 1974.

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ho lasciato che mia madre mi fasciasse la testa malata d’amore stringendomi mummia sepolta sotto i teli della sua tenerezza carnale di genitrice, ho lasciato che mi baciasse i piedi come un carbonaio dalle dita nere, le ho dato un calcio vaporoso nel petto gonfio di minestra calda e l’ho lasciata una volta per tutte nel suo letto di sangue e spezie sconfitta e instupidita, senza terrore, eppure muta da sempre della mutezza cristallina di tutte le donne Demetra mi ha cercata urlando per i monti dell’infanzia straniera, mi ha cercata lungo la costa dell’adolescenza infiammata senza trovarmi, Demetra madre innamorata resa savia e immortale dalle richieste dei padri che da lei vogliono campi dalle spighe ripiene vogliono fiumi carichi di pesci luccicanti piante pesanti di frutti stregati, Demetra correva lupa marina con occhi irosi cercando la mia coda lustra dietro ogni roccia o cespuglio della penuria invernale. [...]

Di seguito, la soluzione del conflitto madre-figlia appare implicita nel personaggio di Elettra, costruito proprio come momento di revisione dei giudizi del passato, in Sogni di Clitemnestra (1981)12, riscrittura «femminista» dell’Orestea di Eschilo, e si esplicita senza dubbi residui in Bagheria, il romanzo del 1993, in cui incontriamo un ritratto materno totalmente opposto a quello di Crudeltà: Finché lei non tornava non riuscivo ad addormentarmi. E pensavo a una rapina, a un sequestro. Era così bella mia madre che chiunque avrebbe potuto rubarla, pensavo girandomi nel letto. L’idea che, crescendo, la facevo invecchiare mi dava degli orribili soprassalti di colpa. Cercavo di non crescere per non farla invecchiare. [...] Mia madre, dalla bellissima bocca di geranio,

12 D. Maraini, I sogni di Clitemnestra e altre commedie, Milano, Bompiani, 1981. Cfr. D. Cavallaro, I sogni di Clitemnestra: The Oresteia according to Dacia Maraini, «Italica», 1995, 72, pp. 340-355.

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