soggetti rivelati
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la cura come relazione con il mondo sapienza delle donne, costruzione o costrizione? a cura di Saveria Chemotti
ILPOLIGRAFO
soggetti rivelati ritratti, storie, scritture di donne collana di studi coordinata da Saveria Chemotti
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la cura come relazione con il mondo sapienza delle donne, costruzione o costrizione? a cura di Saveria Chemotti
ilpoligrafo
Atti del Convegno “La cura come relazione con il mondo. Sapienza delle donne. Costruzione o costrizione?” Padova, 28-30 maggio 2014
Il volume viene realizzato con un contributo dell’Università degli Studi di Padova nell’ambito delle iniziative promosse dal Forum d’Ateneo per le politiche e gli studi di genere Copyright © giugno 2015 Il Poligrafo casa editrice srl 35121 Padova piazza Eremitani - via Cassan, 34 tel. 049 8360887 - fax 049 8360864 e-mail: casaeditrice@poligrafo.it www.poligrafo.it ISBN 978-88-7115-907-2
INDICE
9 Introduzione
Saveria Chemotti
17
Traiettorie della cura: preoccuparsi per sé per potersi preoccupare per gli altri Bruna Giacomini
33
Il presunto “genio femminile”. Riscontri nel pensiero cristiano antico Maria Grazia Crepaldi
43
La città come casa: la sapienza femminile di Aristofane Davide Susanetti
55 La cura corporis femminile: un modello ovidiano provocatorio nel dibattito romano sulla natura versus cultus Jaqueline Fabre-Serris
Muliebri fraude. Le donne e l’utilizzo dei venena in età romana Francesca Cenerini
79
Alcune ricette di Caterina Sforza “a fare luxuriare inestimabile” Paolo Aldo Rossi
71
93
La scrittura che scrive te. Esperienze di ri-scrittura in carcere Adriana Lorenzi
107
Il sapere e i saperi: Trocta, ovvero l’arte medica declinata al femminile Sonia Maura Barillari
125
La signora della vita: dal parto naturale al parto medicalizzato Ida Li Vigni
133
Cura della poesia, poesia della cura. Nel mondo anteriore di John Keats Roberto Deidier
145
Cura dell’altro e ritualità sadomasochistica Andrea Nicolini
157
«Doversi dare, sapersi dare: le trappole della naturalità» Mara Mabilia
167
Madri sole di figli (in)attesi: pratiche e rappresentazioni della cura tra la morale familiare e l’interesse del minore Morena Tartari
175
Figli di cuore. Alchimie e costruzione di nuove relazioni nella scelta adottiva Raffaella Failla
205
Antonietta Giacomelli: l’impegno etico sociale come progetto di giustizia evangelica Saveria Chemotti
233
Progettare con cura: competenza femminile del mondo e trasformazione dello spazio fisico Claudia Mattogno
251
Il lavoro di cura: badare non basta Raffaella Maioni
263
Prendiamoci cura di chi ci cura Francesca Alice Vianello
273
Ossicini e briciole nel bosco: il concetto di cura fraterna nella letteratura per l’infanzia Donatella Lombello
287
Il gioiello della cura Marzia Banci
293
Donne della migrazione: riconoscimento e simbolico materno Daniela Finocchi
315
Tra costrizione e costruzione: ri-vedere l’immaginario relazionale Farah Polato
327
Note sugli autori
introduzione
Saveria Chemotti
Dal vocabolario: cura s. f. [lat. cu¯ra] significa letteralmente: interessamento solerte e premuroso, pensiero attento e costante, vivo interessamento che impegna sia il nostro animo sia la nostra attività: famiglia, figli, interessi; prendersi cura di qualcuno o di qualche cosa significa quindi occuparsene attivamente, provvedere alle sue necessità, alla sua conservazione. I sinonimi sono attenzione, premura, sollecitudine, accuratezza, diligenza, precisione, riguardo, meticolosità, zelo, affanno, preoccupazione. E allora: prendersi (o darsi) cura (di qualcosa o qualcuno) [prestare la propria assistenza a qualcuno], accudire, assistere, badare, darsi premura. La parola cura richiama semanticamente e istituzionalmente, però, altrettanti significati che derivano implicitamente ed esplicitamente dalle radici culturali e sociali, richiama soprattutto la concezione storica del patriarcato che, dietro la divisione sessuale tra dominio e obbedienza, ha perseguitato e selezionato le donne per secoli, giustificando la loro lunga opposizione e la battaglia per il riconoscimento di altre qualità e di altre funzioni di genere, che oltrepassassero l’idea innata della fragilità e della debolezza femminili dinanzi alla complessità dei ruoli e delle responsabilità maschili, investendo sulla soggettività come relazione e pratica politica. Con il presente convegno noi vogliamo guardare a questo concetto come a una parola polisemica, con un binocolo rovesciato che metta in primo piano le molteplici forme in cui le donne l’hanno applicata, riconsiderando in prospettiva originale il corpo, l’ambiente, le relazioni affettive, la città, e anche l’interiorità, la cura di sé come
saveria chemotti
un punto di partenza, come un punto di forza delle donne e della loro capacità e possibilità di intervento per cambiare il modello di sviluppo sociale, economico e culturale, proprio partendo dalla differenza esplicita nel genere per immaginare un ordine simbolico diverso, un’idea di cambiamento come passaggio di civiltà. È un invito forte a fare la rivoluzione tramite la parola cura. O meglio, a partire proprio dalla cura, ovvero quel di più che le femmine della specie sanno offrire e che è il contrario dell’incuria che ci sovrasta. Cura di sé, degli altri, del pianeta, delle relazioni, del futuro. Un viaggio all’interno della cura per dire ciò che è stata e ciò che potrebbe essere se donne e uomini ne facessero una pratica quotidiana di vita, un esercizio di responsabilità, un orizzonte politico per ribaltare le gerarchie vigenti, mettendo al centro di ogni relazione, pubblica e privata, la cura. Niente iconografia del materno, niente obbligo di natura: eliminare dalla cura non solo il suo essere stata fin qui esclusivo destino femminile, ma anche quella forzata oblatività che ne ha fatto una pratica spesso e giustamente rifiutata dalle donne. Se vacilla la legge del padre che fissava le regole, il prendersi cura può diventare una leva per denunciare un’economia che ignora la parte essenziale delle nostre vite. Sappiamo che la cura è rimasta per secoli in mani femminili, come costrizione legata alla biologia del corpo senza identità, senza soggettività, ma oggi non possiamo non verificare che le relazioni tra i sessi sono cambiate e, sia pure attraverso processi lenti e tortuosi, come osserva Bia Sarasini, «il privato non è più la zona d’ombra della scena pubblica e le donne non sono più le custodi di un’intimità e di una riproduzione della vita affidata interamente alla loro cura». Sono in atto assestamenti, ripensamenti, nuove proposte: la maternità da destino biologico può diventare progetto di vita inscritto nella propria storia personale; così come la cura dell’ambiente, l’attenzione alla socialità, l’interesse per l’interdipendenza delle relazioni possono essere progetto di una buona vita basata su una nuova coscienza critica. “Primum vivere anche nella crisi: la rivoluzione necessaria. La sfida femminista nel cuore della politica”, incontro nazionale (Paestum, 5-7 ottobre 2012), http://paestum2012. wordpress.com. B. Sarasini, Di cosa parliamo quando parliamo di cura, «Critica marxista», 1, 2012.
introduzione
Non possiamo tacere, inoltre, che in questa situazione di crisi economica molte donne scoprono di essere stritolate da un paradosso che impone loro di tornare ad accudire i figli e gli anziani e, contemporaneamente, a lavorare più a lungo per poter godere in futuro di una pensione. Si potrebbe mettere in campo una nuova risorsa, visto che la crisi ha sfarinato il confine tra lavoro di produzione e riproduzione, il lavoro si è femminilizzato e precarizzato e la timida, nascente soggettività maschile rivendica per sé il piacere nell’esercizio delle cure paterne e filiali. «La libertà – ha avvertito Hannah Arendt – non equivale alla indipendenza da tutto e tutti. Anzi. Dipendiamo gli uni dagli altri. Eppure, gli uomini faticano ad accettare il nostro (e il loro) essere dipendenti. Da chi ci concepisce, da chi ci dà la mano, ci accudisce, ci ascolta, ci sottrae alla solitudine: insomma non riconoscono l’indispensabilità delle relazioni». La relazione, appunto. Quella tra donne e uomini sta mutando e, anche se permangono i conflitti, la scena sta mutando. Allora l’esperienza della cura delle persone e degli spazi domestici può essere considerata anche un’attività essenziale nella qualità effettiva della vita, come punto di partenza per un futuro in cui la qualità dei legami, delle relazioni, dei vincoli sia un valore, superando cioè la visione intimistica e privatistica deteriore della cura ed evidenziando invece il suo carattere relazionale fondamentale per la convivenza sociale. Ri-mettiamo il mondo al mondo, per utilizzare un’affermazione attorno a cui molte filosofe contemporanee hanno riflettuto elaborando nuovi approcci teorici e pratici. Cura del vivere, quindi: un collante, una garanzia affinché il mondo non si regga solo sulle relazioni di potere, ricchezza, sfruttamento, ma restituisca senso alla fragilità, al limite, alla responsabilità, considerando le doti e i talenti femminili come una risorsa da sfruttare per una nuova economia, una nuova industria, un nuovo assetto sociale. Alla differenza femminile, come valore aggiunto, complemento di un intero che non cambia volto, si possono aprire così territori inaspettati.
L. Paolozzi, Prenditi cura, et al. edizioni, Milano 2013, p. 38.
saveria chemotti
La cura come iconografia del materno che ci portiamo ancora appresso è un’eredità che la soggettività femminile deve imparare a scardinare come modello, cercando anche una nuova ricomposizione del rapporto tra lavoro produttivo e funzione riproduttiva e relazionale, tra tempo di vita e tempo del lavoro, cercando prospettive nuove che scardinino modelli e stereotipi in cui la cura diventi pratica di reciprocità piuttosto che categoria astratta dell’umano e rimandi quindi al tema della comunità in cui ci si prende carico di qualcuno prendendosi carico di se stesse. «Saper amare è la nostra capacità e bisogna saperla tradurre in politica». Questo significa superare il carico di oblatività che la parola ha implicito e mettere in luce il valore della parola “relazione” disegnando nuove forme di convivenza, conservare, sostenere la vita prendendosi cura del suolo, di un fabbricato, di una piazza, di un fiume. Le donne hanno accumulato un grande patrimonio di sapienza e di competenza proprio dando e curando la vita, facendo fronte all’imprevedibile e alle emergenze, aggiustando, inventando, rivedendo piani e progetti, ascoltando e facendosi ascoltare. Sanno che la cura, quella vera, non è pratica solitaria, autoreferenziale, utile solo a mantenere il proprio ruolo e i propri spazi, grandi o piccoli di potere residuale; sanno che può acquistare nuovo senso all’interno di una rete dinamica di relazioni, mai stabili, spesso asimmetriche, che implicano il conflitto che deve essere riconosciuto e agito e superato. La cura in quanto bene si può trasformare in una strategia innovativa dell’esistenza, purché sia inserita in una rete di relazioni culturali e politiche; dobbiamo restituire dignità al concetto di cura non soltanto come attitudine meramente femminile, ma anche come valenza in campo, sociale, politico familiare, in rapporto al nostro corpo, simbolico ma anche intimo e personale. La cura può diventare grimaldello per le trasformazioni, un dispositivo per spostare i confini, una tensione amorosa, una scommessa
Ivi, p. 40. L. Rampello, in Paolozzi, Prenditi cura, cit., p. 41. Ci prendiamo la città, Casa internazionale delle donne, Roma 2013, p. 53.
introduzione
sulle relazioni, un punto di appoggio per rinnovare i comportamenti senza dover tornare a quell’obbligo di natura che è una specie di lettera scarlatta appiccicata alla fronte delle donne, provocando le incursioni nel presente, nominando apertamente quali sono le condizioni da porre, i conflitti da aprire, quale forma di civiltà dei rapporti vogliamo.
La cura del vivere può essere allo stesso tempo condizione di conoscenza, leva di trasformazione e avventura con molti rischi, ma che impedisca di sottomettere al mercato il suo prezioso tesoro che consiste nel mettere al centro le relazioni tra persone realizzando una nuova dimensione dell’esistenza, un nuovo progetto di vita e di azione. Noi con questo convegno accettiamo questa sfida e la rilanciamo.
Paolozzi, Prenditi cura, cit., p. 71. La cura del vivere, «Leggendaria», suppl. al n. 89, 2011.
la cura come relazione con il mondo
La città come casa: la sapienza femminile di Aristofane
Davide Susanetti
Nel teatro aristofaneo le donne – così come gli animali – sono soggetti drammaturgicamente utili a costruire “altri” mondi, o meglio “altre” città-mondo, in cui tutto ciò che appartiene all’esperienza politica quotidiana si sospende e si capovolge. Mondi, appunto, alla rovescia, secondo logiche che sono state considerate affini all’esperienza carnevalesca. Mondi dell’impossibile, che non hanno luogo: utopie irrealizzabili, città da ridere, luoghi ove la fantasia del desiderio mostrerebbe come sia preferibile che i desideri non siano mai davvero esauditi. Si tratterebbe, dunque, come nel carnevale, di sospensioni In questo intervento approfondisco, con ulteriori prospettive e implicazioni, alcune idee formulate nel mio recente Atene post-occidentale. Spettri antichi per la democrazia contemporanea, Carocci, Roma 2014, pp. 189 ss.; i principali lavori e i contributi critici che ho tenuto presenti nell’analisi sono: A. Beltrametti, Le sacerdotesse e le mistiche di Aristofane, in Vicende femminili in Grecia e a Roma, a cura di R. Raffaelli, Commissione per le pari opportunità tra uomo e donna della Regione Marche, Ancona 1995, pp. 111-129; L. Bertelli, L’utopia sulla scena: Aristofane e la parodia della città, «Civiltà Classica e Cristiana», 4, 1983, pp. 215-261; A.M. Bowie, Aristophanes. Myth, Ritual and Comedy, Cambridge University Press, Cambridge 1993; H. Foley, The Female Intruder Reconsidered: Women in Aristophanes’ Lysistrata and Ecclesiazusae, «Classical Philology», 77, 1982, pp. 1-21; N. Loraux, Aristophane, les femmes d’Athènes et le théatre, «Métis», 6, pp. 119-130; G. Mastromarco, P. Totaro, Le commedie di Aristofane, Utet, Torino 2006, vol. 2; S. Said, The Assemblywomen: Women, Economy and Politics, in Aristophanes, ed. E. Segal, Oxford University Press, Oxford, 1996 pp. 282-313; M. Stella La source des femmes: Aristophane et Platon politiciens du genre feminin, «Chora», 11, 2013, pp. 52-74; L. Strauss, Gerusalemme e Atene. Studi sul pensiero politico dell’Occidente, trad. it. Einaudi, Torino 1998; M. Vetta, Aristofane. Le donne all’assemblea, Mondadori - Fondazione Valla, Milano 1989.F.I. Zeitlin, Aristophanes: The Performance of Utopia in the Ecclesiazusae, in Performance Culture and Athenian Democracy, eds S.F. Goldhill, R.G. Osborne, Cambridge University Press, Cambridge 1992, pp. 167-197.
Davide Susanetti
temporanee, al termine delle quali – e per effetto delle stesse – si tornerebbe a ristabilire, con sollievo, la norma e l’ordine della città così come ognuno, quotidianamente la esperisce. Solo questo? Le donne comiche prendono la parola e agiscono nella città e per la città solo in funzione dell’ordine maschile e per confermarlo? Per quanto “irrealizzabili”, l’azione e le proposte femminili – si è osservato – funzionerebbero come specchio rivelatore – attraverso un’immagine, appunto, rovesciata – dei punti di non tenuta, dei nodi irrisolti del discorso maschile. Il mondo femminile, allora, come immagine trasposta e “altra” in cui e da cui guardare alla città degli uomini, in modo per certi versi analogo, all’uso dell’alterità femminile spaventosa e cruenta del tragico. Il che è, sotto molti aspetti, vero e condivisibile e tuttavia ci si può ancora chiedere se le dinamiche dello specchio, di distanziamento e di inversione, dicano sempre e solo di un’esperienza maschile. Ci si può chiedere se vi sia una sapienza femminile che parla e agisce nel gioco comico. Le donne della commedia agiscono in prossimità del sacro e della festa. Le occasioni previste, si potrebbe osservare, cui esse è dato, dalla città, di agire in proprio. Le uniche occasioni – insieme alle nascite e ai funerali – in cui esse possono fare e dire. Dalla ritualità demetriaca alle feste che concludono e inaugurano l’anno, dalle Tesmoforie alle Scire e alle Panatenee, l’azione delle donne si inscrive nell’orizzonte di un ciclo e di un ritmo in cui fine e inizio si toccano e si generano reciprocamente. Da questo ciclo sacro viene, di nuovo, solo la conferma dell’esistente o anche una diversa possibilità e una diversa sapienza? Le donne comiche che decidono di parlare e di agire vogliono prendersi cura della città. Prendersi cura di quello spazio cui appartengono, anche se escluse della politica. Prendersi cura anche di chi le vorrebbe letteralmente «bruciare» – come avviene nella Lisistrata – per il fatto di aver assunto un’autonoma iniziativa e di aver occupato i luoghi simbolici dell’ordine civico. Ma le donne – come quella stessa commedia ricorda – sono l’acqua che spegne il fuoco, acqua che nutre e sostiene la vita. Dalla Lisistrata alle Ecclesiazuse, le donne si configurerebbero come una comunità parallela alla città, una comunità per certi aspetti invisibile, eppure presente e attiva. Una comunità che ha un suo linguaggio, un suo codice, un universo
La città come casa: la sapienza femminile di Aristofane
di pratiche. Le donne si soccorrono a vicenda, si parlano e si assistono nelle necessità quotidiane, si prestano reciprocamente vesti e oggetti senza dover ricorrere a testimoni o a procedure legali, mantengono i segreti, non denunciano il prossimo alla maniera dei sicofanti, non suscitano contenziosi e non cospirano contro la democrazia al modo degli uomini ambiziosi (Ecclesiazuse, vv. 446-453). Uno spazio ove, si direbbe, non vi è necessità di leggi scritte e di tribunali. Uno spazio ove regnerebbero la fiducia e la solidarietà. Le donne avrebbero un altro “modo” di stare insieme e vivrebbero secondo un altro “tempo”, come si afferma ancora nelle Ecclesiazuse su cui qui, più in particolare, ci si soffermerà. I modi delle donne sono migliori [...]. Tutte tingono la lana come si faceva una volta e nessuna si sogna di sperimentare un modo diverso [...] siedono e cucinano come una volta [...] cuociono le torte come una volta, tormentano gli uomini come una volta [...] amano il vino come una volta, godono a farsi fottere come una volta (Ecclesiazuse 215-228).
Se la menzione delle topiche debolezze femminili è indispensabile ingrediente del gioco comico, l’insistenza sul «come anche prima» è giocata in contrapposizione con la discontinuità del maschile. Il discorso politico degli uomini sarebbe contrassegnato dalla dimensione del “nuovo”, del sempre diverso, ove tutto viene sempre rimesso conflittualmente in discussione in una sequenza contraddittoria di provvedimenti e di decisioni. I cittadini maschi, segnati da un’irrimediabile incostanza e irresponsabilità, approverebbero sempre ciò che suona più «nuovo» a dispetto del suo valore e della sua efficacia, a dispetto di ogni più ponderata valutazione (vv. 217-220). La città della democrazia è il luogo ove «si emanano decreti in tutti i momenti», salvo poi abrogarli o lasciarli inapplicati: «Fanno in fretta a votare e in fretta si rimangiano quello che hanno votato» (vv. 797-798). E gli esempi non mancherebbero: dall’adozione di monete di rame, che avrebbero poi perso valore nel momento in cui si decise di tornare a coniare l’argento – alle misure di tassazione, che sembravano promettere grandi e benefiche entrate per lo stato, salvo poi scoprire che la valutazione fatta era scarsamente attendibile e la «tassa non bastava». Se prima «tutti» erano pronti a lodare l’ideatore del provvedimento – a «coprirlo d’oro» per la brillante trovata –, poi, con movimento
Davide Susanetti
esattamente contrario, «tutti» gli avevano «dato addosso», coprendolo di critiche, quando si erano resi conto di aver approvato un decreto inefficace. L’unanimità dei voti e dei giudizi non è segno di una valutazione critica condivisa, ma, all’opposto, clamoroso segnale di sconsideratezza e di inconsulta mutevolezza (vv. 815-829). Si ripeterebbe, come una maledizione, «sempre la solita storia». La «regola» di Atene sarebbe trascurare sistematicamente le «cose antiche» (v. 587). Il «come anche prima» femminile suonerebbe, in tale contesto, come la garanzia salvifica di una “tradizione” stabile contro l’instabilità di una crisi senza soluzione, come antidoto al presente disforico e disorientato della politica maschile, come ciò che non si contraddice e non si nega. Una tradizione legata alla generazione e al nutrimento, un sapere legato alla custodia della vita e della morte. E questa tradizione “antica” le donne comiche delle Ecclesiazuse vorrebbero portare nel cuore della città, guidate dalla «mente filosofica e sapiente» di Prassagora. Travestite da uomini, esse si recano in assemblea e – dinanzi a una controparte maschile stordita e ignara – riescono a realizzare il colpo di stato, facendo approvare il «decreto» che affida a loro il governo della città con una radicale trasformazione del suo ordine. Nessuno più commetterà azioni vergognose [...] non ci saranno né rapine né invidie; nessuno sarà più nudo o povero [...] – proclama Prassagora – È necessario che tutti abbiano tutto in comune e che da ciò traggano di che vivere. E non che uno sia ricco e un altro un miserabile, che uno abbia tanta terra da coltivare e un altro nemmeno quella per farsi seppellire [...]. Io farò in modo che tutti i mezzi di vita siano in comune e uguali per tutti. (vv. 572 ss.)
Per conseguenza ciascun ateniese dovrà «consegnare la terra, il denaro e tutto ciò che gli appartiene». Una volta costituito questo «patrimonio comune», le donne provvederanno ad «amministrarlo con saggezza», dando a ognuno il cibo e i beni necessari per la vita quotidiana (vv. 596-600). Se tutto diviene «comune», la moneta cesserà di avere valore e risulterà inutilizzabile anche per chi non voglia consegnare la «sostanza invisibile» rappresentata dai suoi soldi, poiché non ci sarà più nulla da comprare. Non vi saranno più debitori né creditori. Neppure rubare avrà più alcun senso: chi sottrarrebbe ciò che già è suo in base alle nuove leggi? Così non avranno più luogo né cause né processi e non ci saranno multe da pagare in caso di con-
La città come casa: la sapienza femminile di Aristofane
danna. La sola sanzione prevista da questo ordinamento si appunta sul cibo, che verrà negato a chi commette qualche ingiustizia, come si fa con i bambini che si comportano male. Se il lavoro è indotto da uno stato di necessità e da una diseguale distruzione di risorse, qui non vi sarà alcun obbligo di attendere ad alcuna occupazione. Penseranno i servi all’indispensabile lavoro della terra. Ai cittadini liberi di Atene rimarrà un’unica incombenza: «farsi belli e andare a pranzare», accomodandosi alle tavole che le donne avranno predisposto ordinatamente nei portici e negli spazi pubblici. Il «genere di vita» che Prassagora si dispone ad allestire per Atene comporta l’estinzione del bisogno e insieme la fine del mercato e della politica così come è stata finora intesa dai maschi. «Farò della città – ella dichiara – un’unica casa, abbattendo tutte le pareti in modo da poter andare liberamente l’uno dall’altro» (vv. 672-674). L’economia domestica soppianta il governo della cosa pubblica e l’amministrazione delle finanze, poiché viene meno ogni distinzione tra pubblico e privato. La casa e la famiglia diventano l’unico orizzonte e l’unico modello di esistenza. Se il compito di nutrire è tradizionalmente femminile, il progetto di Prassagora riduce la pólis alla soddisfazione primaria della necessità alimentare, trasformando il cittadino in un bimbo da nutrire amorevolmente. Approssimazione a uno stato di natura che semplifica ogni complessità del vivere associato. All’individualismo dei singoli, che contendono per essere primi e per accaparrarsi vantaggi personali – anche se si tratta solo di «mangiare merda» (v. 595) –, si contrapporrà la beata immagine di un’unica tavola imbandita ove ognuno, senza conflitto, avrà il suo posto assegnato. Ma, oltre al cibo, vi è la necessità naturale rappresentata dal sesso. E qui vi potrebbe essere una difficoltà dettata dalla mancanza di risorse private. «Se uno si innamora di una ragazza e vuole scoparsela» – obbietta il marito stesso di Prassagora – come fare a sedurla con regali se non ha denaro? Dovrà attingere dal patrimonio comune anche per questa personale pulsione? Obiezione prevista e risolta dal fatto che anche le donne saranno «comuni» e «faranno figli con chi vuole» (vv. 613-614). Con una norma accessoria, ma indispensabile per evitare che «tutti vadano dalla più bella»: «Accanto alle belle siederanno le brutte e rincagnate. Chi vuole la bella dovrà prima farsi la brutta»
Cura della poesia, poesia della cura. nel mondo anteriore di John Keats
Roberto Deidier
«Where’s the Poet? Show him! Show him», chiede Keats alle Muse in un breve, ma importante componimento in cui, come ha scritto Antonio Prete, «L’ascolto della voce animale è l’educazione del poeta». Fuori da ogni alfabeto, da ogni sintassi, da ogni grammatica della mente, come un fisiologo presocratico Keats riconosce l’impeto e l’impatto della sua phonè nei suoni che gli sono offerti dal mondo naturale, sia che gli provengano dalla dolcezza del canto di un uccello o dalla violenza di un ruggito di leone o di tigre. Mostratemi, insiste Keats, «dove sta il Poeta» (rigorosamente con la maiuscola), ovvero indicatemi quale gradino occupa nella scala della creazione, quale camaleontico nascondiglio da cui agire quel potere metamorfico che ne fa «la più impoetica delle cose che esistono; perché non ha Identità, è continuamente intento a riempire qualche altro Corpo». Tale capacità, o piuttosto tale «Carattere poetico» segnato dall’inesistenza e dall’inappartenenza, dal non avere un sé ed essere nel contempo «tutto e niente», è in realtà l’intuizione, da parte di Keats, di un preciso mitologema che occupa proprio la “genealogia” e la natura della poesia come esercizio del verso, anche se in chiave paraetimologica.
J. Keats, The Complete Poems, ed. J. Barnard, Penguin, London 20065 [1973], p. 280. D’ora in avanti le citazioni dalle poesie di Keats saranno tratte da questa edizione, in traduzione mia. A. Prete, Keats o della poesia, in J. Keats, Lettere sulla poesia, trad. e cura di N. Fusini, Feltrinelli, Milano 19983 [1984], p. 224. D’ora in avanti le citazioni dalle lettere di Keats saranno tratte da questa edizione. Lettera a R. Woodhouse, 27 ottobre 1818, p. 127.
Roberto Deidier
In una variante significativa del grande archetipo di Persefone, infatti, alla regina dell’Ade è attribuita la maternità o comunque la tutela di Dioniso, il dio delle trasformazioni per antonomasia: il nume della velocità metamorfica, al quale, sul versante italico, corrisponderebbe la più rustica figura di Vertumno, cerniera tra Pomona/Cerere e la giovane Proserpina destinata al rapimento. La dea infera è dunque imparentata con colui che non solo esercita con il travestimento le arti della simulazione, ma che addirittura sovrintende al volgere delle stagioni, alle mutazioni della natura tutta nel ciclo dell’anno. Il verso è ciò che «verte», che torna indietro, al punto di partenza, a ogni rigo. È ciò che decostruisce, trasforma e reinventa la realtà: «in order to recreate», con lo scopo di ricrearla, come ha ben espresso Coleridge – per rimanere in un ambito prossimo a Keats – a proposito dell’immaginazione. E il Poeta «prova lo stesso piacere nel concepire Jago o Imogene», ovvero attua il potere della non-identità (clamorosa occasione a lui solo concessa) al di qua delle categorie dell’estetica e dei loro eventuali presupposti morali. Nell’osservazione del mondo fenomenico, Keats riconosce e avverte «qualcosa d’immutabile» che fonda il discrimine, la netta linea di demarcazione tra la sostanza più intima del creato e la propria in quanto nuovo Dioniso, nuovo Vertumno, annullato dalle identità che di volta in volta lo circondano. Dunque, dov’è il poeta? Sotto quali spoglie si cela, dov’è che riusciamo finalmente a individuarne le possibili tracce? Dove scorgiamo la sua fisionomia, da quale oscuro andito o da quale altrove, lì nello spazio tra i versi, può mostrarsi in tutta la sua aura di demiurgo del verbo, di fabbro della metafora? Furio Jesi ci ha ricordato, con estrema precisione, che una delle raffigurazioni più frequenti e semanticamente rilevanti di Dioniso è quella del fanciullo, del dio infante; ma sotto questa specie, certamente tra le più dense di rappresentatività, il dio si mostra anche nel suo momento di maggior debolezza, esposto alle aggressioni dei Titani e alle vendette di Era. Paradossalmente, come è nella struttura dei miti, l’incarnazione più soggetta alla mutazione, quella del
Ibid. F. Jesi, Orfani e fanciulli divini, in Id., Letteratura e mito, Einaudi, Torino 19814 [1968], pp. 9-13.
nel mondo anteriore di John Keats
fanciullo, è anche quella in cui la divinità può essere sorpresa, catturata, finanche uccisa (sebbene destinata a una veloce resurrezione; anzi, come sosteneva Frazer, Dioniso è proprio ipostasi della «resurrezione del dio ucciso»). In questo stato di apparente ed effimera sospensione dalla propria eternità e dalle sue prerogative, il dio, così intimamente compromesso con l’arte della poesia, può rivelarsi sotto l’aspetto di un’umanità fragile e indifesa; può addirittura assumere le sembianze storiche di un poeta della gioventù e della sua estatica caducità; può farsi immagine netta, quanto rapida e fugace, di un desiderio, di un’ansia di vita rimasta insoddisfatta. «Quando ho paura di morire prima / ch’io scriva tutto ciò che m’urge dentro», scrive Keats in un celebre sonetto dove gli assi della Vita e della Scrittura, piuttosto che intrecciarsi, sono costretti a scorrere in parallelo, fin quando la morte non interviene a separarli per sempre. Quel desiderio e quell’ansia occupano per intero la breve esistenza di questo poeta; ed è proprio così, la sua vita non riesce a contenere e a esprimere in versi quanto pullula in una mente mai ferma, in quel «teeming brain» che in lui ha tutta l’energia di un tarlo dionisiaco, di un dàimon metamorfico. Quando gli dèi prestano orecchio a ciò che manca agli uomini e decidono di venire incontro a qualche supplica, il loro atteggiamento è spesso quello di chi si piega a una volontà inferiore, piuttosto che quello di chi esaudisce una preghiera con generosità. Un veto, un divieto, una piccola mancanza, una limitazione o una differita: qualcosa, come un elemento di sottile perfidia, interviene a ricordare che nel possibile canale tra la terra e l’Olimpo i ruoli non possono mai confondersi. Accade, non a caso, nell’altro mito infero per eccellenza e parimenti coinvolto nella definizione della poesia, quello orfico: il poeta non deve voltarsi, ma nutrire una fiducia assoluta nel proprio esser-ci, nel proprio Dasein, e delegare a un potere più alto ciò che altrove gli sarebbe concesso con le sole armi della propria voce, del canto. Accade a Keats: la sua invocazione non resta inascoltata e le Muse a cui si è rivolto ordiscono una risposta per lui. Ma giunge troppo J. Frazer, The Golden Bough. A Study in Magic and Religion, Macmillan, London 1922; trad. it. di L. De Bosis, Il ramo d’oro, Bollati Boringhieri, Torino, 20125 [1964], p. 468. J. Keats, When I have fears that I may cease to be, p. 221.
Roberto Deidier
tardi, a più di un secolo dopo la sua morte. Consunto dalla malattia, si spegne a Roma a neppure tre anni dalla sua richiesta. Quanto alla risposta, è ovvio che le Muse incarichino un poeta. La loro scelta cade in una geografia e in un contesto culturale profondamente mutati e diversi rispetto all’Inghilterra romantica, ma è altrettanto ovvio che gli dèi sappiano ciò che fanno nel momento in cui agiscono. A mostrare all’ombra di Keats dov’è il Poeta delegano William Butler Yeats, ma stabiliscono che una simile epifania debba svolgersi tutta all’insegna di un rispecchiamento. Ciò che Yeats può mostrare a Keats, infatti, è solo l’immagine dello stesso Keats, all’interno di un testo d’indubbia complessità metapoietica come Ego Dominus tuus, da The Wild Swans at Coole (1919). La poesia è strutturata in forma di contrasto, di dialogo tra due personaggi indefiniti, Hic e Ille, che disputano intorno ai grandi temi dell’ispirazione. Dove deve dirigersi la ricerca del poeta, verso se stesso – e dunque svolgersi in forma endogena – o verso l’altro-da-sé, nella relazione costante e bi-univoca con quanto è esterno all’io? Così declinato, il tema si rapporta direttamente all’icona keatsiana del «Poeta camaleonte», attratto irrimediabilmente dalle identità che lo circondano e che cominciano «a premere su di me e in un attimo ne sono come annullato, e questo non mi accade solo con gli Uomini; sarebbe lo stesso con dei bambini». Ille, proiezione di Yeats, appare intimamente attratto da questa seconda ipotesi, laddove Hic rimane come asserragliato nella ricerca di un sé che non sia proiezione nelle identità altrui, né, conseguentemente, «immagine». La questione non è da poco e coinvolge non solo una precisa direttrice di poetica, ma anche la tradizione che ne consegue. Yeats, per evitare il rischio di confinarla in un ambito prevalentemente teorico, deve necessariamente scendere a patti con la storia. Quella della poesia. Deve, in altri termini, misurarsi con alcuni modelli plausibili, richiamare un possibile canone che torni utile ai due disputanti. Hic e Ille avviano così una fase della loro discussione che, dopo aver coinvolto Dante e Cavalcanti, si apre, quasi ex abrupto, sul presunto nesso tra poesia e felicità, tra scrittura e amor mundi (o amor vitae). È a quest’altezza che s’inserisce, tra i due interlocutori, un rapido ritrat
Lettera a Richard Woodhouse, cit., p. 127.
nel mondo anteriore di John Keats
to di Keats. Struggente e impietoso. Ecco mostrarsi, finalmente, dove sta il Poeta: «l’arte» – sostiene Ille – «non è che una visione della realtà. Quale parte nel mondo può avere l’artista / che si è svegliato dal sogno comune / se non dissipazione e disperazione?». Replica Hic: «Eppure / nessuno nega a Keats l’amore per il mondo: / rammenta la sua felicità deliberata». Keats entra sulla scena del dibattito proprio attraverso una visione di Ille: La sua arte è felice; ma chi conosce la sua mente? Se penso a lui vedo un ragazzino col viso e il naso premuti su una vetrina di dolci; perché è certo che scese nella tomba col cuore e i sensi insoddisfatti e – essendo povero, malato e ignorante, escluso da ogni sfarzo mondano, figlio allevato rudemente d’un guardiano di stalla – creò canti sfarzosi.
Ecco a cosa si è ridotta questa estrema epifania di Dioniso nel cuore di una modernità appena uscita dalla Grande Guerra, e verso cui YeatsIlle nutre ben più che il sospetto di un dimezzamento delle potenzialità dell’arte, ridotta a critica, a metapoesia. Il Poeta-dio è colto nell’istante del desiderio e dell’impotenza, così come Keats, chiamato a rappresentarlo, è tratteggiato nel crudo realismo della sua estrazione sociale. In una prospettiva poietica così delimitata e definita, nella quale realtà e immaginazione, esperienza e visione sono poste sullo stesso piano, veicolate dalla carica analogica del mito, sembrerebbe che non sussista spazio alcuno per la cura, intesa etimologicamente come “attenzione”, “pensiero”, “amore”, “interesse”, “tutela”, o in un’accezione più moderna come “terapia”. Che il fanciullo soccomba non ha rilevanza, poiché il tratto precipuo della sua divinità è proprio il poter risorgere, ovvero, nei termini della poesia, resistere al tempo aere perennius: ciò che si traduce, di fatto, in quella dimensione semantica che si apre tra i concetti di «dominio» (la capacità di accendere
W.B. Yeats, Ego Dominus tuus, in Id., L’opera poetica, trad. di A. Marianni, commento di A.L. Johnson, saggio introduttivo e cronologia di P. Boitani, Mondadori, Milano 2005, vv. 47-61, p. 519. Per un commento più specifico rispetto al testo di Yeats rinvio al saggio introduttivo di Boitani, in part. pp. LVII-LIX.
Una nuova dimensione dell’esistenza: in questo orizzonte si dispiega oggi l’attività di cura, che un luogo comune – tutto da ripensare alla luce dei cambiamenti sociali e relazionali in atto – ha per lungo tempo assegnato alla donna. Civile atto di humanitas, imperativo categorico destinato a guidare l’azione umana nel mondo, essa è chiamata a riscrivere le connessioni familiari, gli assetti della società, le relazioni culturali, i rapporti politici. Emergono nuovi percorsi, non più di costrizione, ma di costruzione, in una molteplicità di ambiti, in un continuo e rinnovato darsi all’altro, ma, al tempo stesso, anche nella cura di sé, punto di partenza essenziale per conoscersi, progettarsi, riprogettarsi. Un viaggio all’interno della cura, esplorata nella sua dimensione storica, filosofica e socio-antropologica, per dire ciò che è stata e che potrebbe essere se donne e uomini ne facessero una pratica quotidiana di vita, un esercizio di responsabilità, un orizzonte politico, ponendola al centro di ogni relazione pubblica e privata. Saveria Chemotti insegna Letteratura italiana di genere e delle donne all’Università di Padova. Ha pubblicato saggi su Foscolo, sul Romanticismo italiano ed europeo, sulla narrativa del primo Novecento, su Antonio Gramsci, Tonino Guerra, Giuseppe Berto, su numerosi altri autori e temi otto-novecenteschi, sulla letteratura delle donne. Tra i suoi numerosi scritti, per le edizioni Il Poligrafo ha pubblicato: La terra in tasca: esperienze di scrittura nel Veneto contemporaneo (2003); L’inchiostro bianco. Madri e figlie nella narrativa italiana contemporanea (2009); Lo specchio infranto. La relazione tra padre e figlia in alcune scrittrici italiane contemporanee (2010); A piè di pagina. Saggi di letteratura italiana (2012); ha inoltre curato la riedizione di Vigilie (1914-1918) di Antonietta Giacomelli (2014). Nel 2014 ha esordito come narratrice con La passione di una figlia ingrata (L’Iguana).
ISBN ---- in copertina John William Waterhouse, La sfera di cristallo, part., 1902, Città del Messico, Collezione Pérez Simón