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Direttori Franco Bernabei, Antonio Lovato Comitato scientifico e di redazione Lucia Boscolo Folegana, Franco Colussi, Giuseppina Dal Canton Paola Dessì, Cristina Guarnieri, Marta Nezzo Dilva Princivalli, Vittoria Romani, Diego Toigo, Giuliana Tomasella Andrea Tomezzoli, Anna Valentini, Giovanna Valenzano Consulenti Xavier Barral-i-Altet, Giulio Cattin (†), Iain Fenlon Matthias Schneider, Gianni Carlo Sciolla, Catherine Whistler I contributi pubblicati sulla rivista sono soggetti a peer review La rivista viene pubblicata con il contributo di Università degli Studi di Padova - Dipartimento dei Beni Culturali: archeologia, storia dell’arte, del cinema e della musica Fondazione Ugo e Olga Levi - Venezia
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periodicità: annuale sede della redazione c/o Dipartimento dei Beni Culturali: archeologia, storia dell’arte, del cinema e della musica 35139 Padova | Piazza Capitaniato, 7 tel. +39 049 8274673 | fax +39 049 8274670 www.beniculturali.unipd.it abbonamento Italia: e 25,00 (con aggiunta delle spese di spedizione) estero: e 35,00 (con aggiunta delle spese di spedizione) le richieste di abbonamento possono essere inoltrate all’indirizzo casaeditrice@poligrafo.it amministrazione Il Poligrafo casa editrice 35121 Padova | via Cassan, 34 tel. 049 8360887 | fax 049 8360864 e-mail amministrazione@poligrafo.it direttore responsabile Andrea Tomezzoli in attesa di autorizzazione presso il Tribunale di Padova
in copertina elaborazione da un disegno di Paul Klee, Pädagogisches Skizzenbuch, 1924 progetto grafico Il Poligrafo casa editrice Laura Rigon copyright © luglio 2016 Il Poligrafo casa editrice Fondazione Ugo e Olga Levi Università degli Studi di Padova Il Poligrafo casa editrice 35121 Padova - via Cassan, 34 (piazza Eremitani) tel. 049 8360887 - fax 049 8360864 e-mail casaeditrice@poligrafo.it www.poligrafo.it isbn 978-88-7115-927-0 issn 2284-032x
INDICE
9 «Diverse voci fanno dolci note». Le origini della polifonia tra leggenda e realtà Luigi Lera 47 Giulio Campagnola «in domo» di Bartolomeo Montagna Laura De Zuani 55 Teorie musicali e Kabbalah. Il De harmonia mundi totius (1525) di Francesco Zorzi Veneto Ruggero Lorenzin 91
Scenografie bibienesche per l’attività mantovana di Antonio Vivaldi (1718-1720). Qualche nuovo documento Stefano L’Occaso
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Il pittore “veronese” Giorgio Telliè nell’abbazia di Santa Giustina a Padova. «Furono i popoli penetrati da una santa divozione»: ipotesi su Pio VI e il vescovo Nicolò Antonio Giustiniani Lorenzo Giffi
Intonazioni della Passione di Gesù Cristo in fonti toscane tardive Diego Toigo
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133
«Entre deux strophes». La suggestione dell’invisibile nei disegni visionari di Victor Hugo Giuliana Calzavara
155 Raphaël Fumet: le improvvisazioni al pianoforte registrate Nildo Sanvido
181
Il genere della vanitas nella pittura del ventennio fascista Chiara Costa
199 Ruolo e compito del compositore di musica liturgica dopo il Concilio Vaticano II Monica Marighetto
217 Illustrazioni
241 Recensioni
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«DIVERSE VOCI FANNO DOLCI NOTE». LE ORIGINI DELLA POLIFONIA TRA LEGGENDA E REALTÀ Luigi Lera
Diverse voci fanno dolci note; così diversi scanni in nostra vita rendon dolce armonia tra queste rote. (Paradiso, VI, 124-126)
Con queste parole l’imperatore Giustiniano risponde al quesito di Dante che riguarda la varietà dei carismi dei beati e i loro conseguenti gradi di felicità; il paragone, come sembra essere ovvio, rimanda ai differenti movimenti melodici di un tessuto polifonico. Non sembrano esistere argomenti in grado di far apparire inadeguata questa interpretazione, ma a un esame più attento la lettura del passo potrebbe presentare più di un risvolto problematico: la relazione di questi versi con la polifonia, che in Dante è sempre un collegamento insidioso, dovrebbe poter essere sostenuta e dimostrata con argomenti più solidi e circostanziati di una semplice assonanza con i nostri modi di dire. Tanto più che il linguaggio della teoria musicale medievale ci potrebbe offrire un’altra interpretazione: quella che Dante non avesse inteso scrivere «diverse vóci», plurale dell’italiano «voce», ma «diverse vòci», plurale del latino voces musicales. La parafrasi di questo verso suonerebbe dunque «diverse note fanno dolci melodie»: sarebbero i diversi singoli suoni, ciascuno con le sue proprietà e con le sue tendenze, a costituire la bellezza di un unico canto. A quanto mi risulta, la difficoltà di questo passo non è mai stata segnalata: neppure Pirrotta o Monterosso sembrano essere stati sfiorati dal dubbio circa il reale significato di questa metafora. L’immagine che fa da cornice a tutta la scena del cielo di Mercurio è quella di un coro possente che canta la gloria di Dio: se Dante avesse voluto davvero restringerla a quella che era la pratica polifonica dei suoi tempi, vale a dire Un commosso ringraziamento a Giulio Cattin per avermi sostenuto e incoraggiato nei lunghi anni di questa ricerca. R. Drusi, Musica polifonica nella Commedia: indizi storici e miti storiografici, «L’Alighieri», 42, luglio-dicembre 2013, pp. 5-58.
luigi lera
allo striminzito organico di due singoli cantori solisti, questa sua scelta ci apparirebbe assai debole sul piano dell’efficacia poetica. Il riferimento alla polifonia sembra dunque assai discutibile; ma in qualche misura, è l’idea stessa che ci siamo costruiti riguardo ai primi secoli del canto a più voci a imporci di accettare un certo grado di inverosimiglianza. La polifonia occidentale avrebbe la sua origine in una pratica di canto parallelo che si sarebbe diffusa in Europa a partire dal IX secolo o, forse, anche prima; tutto sarebbe partito da un raddoppio all’ottava del canto gregoriano e si sarebbe poi sviluppato in un primitivo organum per quinte, per sfociare infine in una prassi esecutiva per quarte parallele. Una ricostruzione di questo tipo, assieme alle tante altre che in varia misura ne rispecchiano la sostanza, si fonda sulla lettura di alcune fonti teoriche medievali: prima fra tutte il trattato Musica enchiriadis che, stando a quanto sembra inoppugnabile, conterrebbe le più antiche testimonianze di una prassi esecutiva fondata sul canto a più voci. In realtà una certa inverosimiglianza è già contenuta in questo ipotetico processo di sviluppo: si tratta dell’idea che le moderne leggi del contrappunto siano state formulate per così dire ex contrario, facendole derivare da una serie di premesse a loro opposte. La didattica della composizione proibisce senza eccezioni degne di nota le successioni consecutive sia di ottave che di quinte parallele; per quanto riguarda l’intervallo di quarta sarebbe sufficiente richiamare le poche nozioni di contrappunto doppio che regolano la costruzione dei controsoggetti della fuga per avere la misura della sua incompatibilità con il nostro senso armonico. La nostra idea della polifonia delle origini chiama dunque in causa l’ipotesi che i fondamenti della sensibilità musicale medievale abbiano potuto subire una radicale inversione: questo cambio di sentire si sarebbe verificato in un tempo imprecisato a cavallo del IX o del X secolo e si sarebbe imposto, in maniera altrettanto improbabile, in tempi brevissimi e senza strascichi polemici negli scritti degli autori coevi. Un resoconto bibliografico di tutte le scuole di pensiero che hanno affrontato la questione delle origini riguarda ormai più la storia della Musicologia che la sostanza del dibattito. La rassegna più recente e più completa, estesa fino alle linee di ricerca che chiamano in causa la dimensione dell’oralità e la prospettiva etnomusicologica, occupa oltre quaranta pagine in Musica Enchiriadis: introduzione, traduzione e commento, a cura di M. Casadei Turroni Monti, Udine, Forum, 2009, pp. 9-53. Dal nostro punto di vista tutte le diverse opinioni che sono state avanzate nel corso dei decenni condividono almeno questo elemento comune, la convinzione che la Musica enchiriadis offra un qualsiasi tipo di testimonianza relativa alla pratica polifonica arcaica: a tutti coloro che ritengono ancora fondata, oppure verosimile, oppure soltanto non irragionevole questa tesi è indirizzato, e dedicato, il presente studio.
le origini della polifonia tra leggenda e realt
Nei primi decenni del secolo scorso la necessità di fornire una risposta alla questione delle origini della polifonia doveva apparire assai impellente, al punto che anche un personaggio estraneo all’ambito musicologico come Arnold Schönberg si era inserito nel dibattito caldeggiando la plausibilità di un simile cambiamento di prospettiva; è probabilmente in questo quadro assai pressante, e di fronte alla frustrante situazione di un testo che non riusciva in alcun modo a fornire una risposta adeguata, che l’idea di immaginare una sorta di rovesciamento di tutti i parametri deve essersi fatta definitivamente strada. Ma possiamo anche chiederci se a quei tempi la storiografia medievale fosse davvero in grado di collocare la testimonianza della Musica enchiriadis nel suo esatto contesto teorico e didattico. 1. la riflessione sullo spazio sonoro Per provare a dare una risposta è necessario calarsi nei panni, scomodi e poco funzionali, di un cantore del profondo Medioevo. Le linee generali del quadro sono note: a partire dall’VIII secolo, con la nascita del cosiddetto «canto gregoriano», chi vuole prestare la sua voce alle liturgie dell’Impero carolingio ha l’obbligo di uniformarsi a un repertorio che è stato imposto dall’alto e che ha ben pochi punti di contatto con le consuetudini precedenti, quella franco-gallicana e quella vetero-romana. Le grandi scuole di canto impongono un tirocinio decennale basato esclusivamente sulla ripetizione. Forniscono una competenza formidabile ma decisamente fragile: l’allievo padroneggia una fitta serie di brani, ma non saprebbe leggerli né scriverli né tantomeno suonarli perché li ha appresi direttamente dalla voce dei maestri e non ha fatto altro che ripeterli fino a mandarli tutti a memoria. Per quanto ne sappiamo, il corso degli studi si riduce a questo; non prevede alcuna dimestichezza né con qualsiasi tipo di scrittura musicale né con un qualunque tipo di strumento. Nessuna testimonianza ci induce a credere che i cantori gregoriani delle primissime generazioni sapessero stabilire connessioni tra i diversi ambiti modali: se anche avessero intonato in Re una antifona in Re, non è detto che la successiva antifona in Sol l’avrebbero intonata una quarta sopra piuttosto che in Mi, La bemolle oppure Do diesis.
A. Schönberg, Harmonielehre, trad. it. Manuale di Armonia, Milano, il Saggiatore, 1963, pp. 74-82. Cfr. L. Lera, Le sorgenti della polifonia: una ricerca avventurosa, «Diastema», 11, 1995, pp. 49-55.
luigi lera
Fra tutti gli sforzi imposti dallo studio della teoria medievale, forse il più oneroso è quello di spogliarci delle tante certezze che lunghi secoli di pratica musicale ci hanno insegnato ad acquisire. Gli antichi trattati sembrano dirci che quello che per noi è stato evidente fin dalla nostra prima lezione di musica, la disposizione della tastiera del pianoforte e l’alternanza dei toni e dei semitoni nello spazio sonoro, in quei primi secoli era per tutti un assoluto mistero: anche quando diveniva a sua volta un maestro, il cantore rimaneva del tutto incapace di descrivere efficacemente un concetto apparentemente semplice come la natura del sistema diatonico. Col tempo, tuttavia, le caratteristiche stesse di un repertorio così vasto e diversificato devono aver imposto alla didattica nuovi ritmi e nuove esigenze: i maestri di canto avranno sentito sempre più consapevolmente il bisogno di affiancare alla pratica un corrispondente pensiero teorico. In ultima analisi, i compilatori dei primi tonari svolsero proprio il compito di cominciare a capire la natura dello spazio sonoro; di rendersi conto che i brani del repertorio appartengono a un numero relativamente ristretto di famiglie modali e quindi di comprendere che il secondo grado di un protus, e non il terzo o il quarto, può essere assunto come finalis di un deuterus. Questa serie di consapevolezze maturò lentamente nella definizione dell’ordine dei quattro modi e nella descrizione della loro relazione reciproca: nella scoperta che protus, deuterus, tritus e tetrardus stanno bene in quell’ordine perché è così che possono trovare la loro posizione su una stessa scala. Come si compì questo lungo processo? Attraverso quali intuizioni, prove, errori e sintesi provvisorie? La distanza da quei secoli costringe a osservare lunghi decenni da una prospettiva parziale e ingannevole, quella che mostra soltanto il loro risultato finale. Ciascuno dei passaggi successivi rischia ogni volta di apparire come una facile estensione delle premesse precedenti, ma sarebbe meglio considerarlo come il risultato di un’elaborazione lunga e faticosa condotta da singoli maestri e, col tempo, anche da numerose scuole di canto. Nella maggior parte dei casi lo studioso moderno deve ricostruire interi e complessi procedimenti teorici e didattici sulla base di pochi accenni di testo, scritti per di più da chi non nutriva un interesse preminente per gli esatti termini di ciascun problema dal momento che ne aveva già trovato le soluzioni. La definizione degli otto modi costituì il presupposto indispensabile per un altro importante passo in avanti, un’estensione concettuale che si riferiva a una serie di soggetti ben più astratti e sfuggenti: soltanto quando ebbe chiare le quattro categorie di protus, deuterus, tritus e tetrardus la
le origini della polifonia tra leggenda e realt
didattica del IX secolo si trovò finalmente nella condizione di poter dare un nome alle singole note musicali. La fonte teorica che ebbe l’indiscutibile merito di portare a termine questo delicato compito è proprio la Musica enchiriadis. I suoi primi otto capitoli sono espressamente dedicati a questo argomento: prendono le quattro finales modali, che forse la pratica scolastica incominciava già a indicare con i quattro segni dasiani, e le promuovono allo stato di entità in sé significative.
Questo esempio non indica più i modi, ma le prime quattro note che ricevono il nome di protus, deuterus, tritus e tetrardus. L’intento dell’autore è quello di definire la posizione dei singoli suoni all’interno dello spazio sonoro: la soluzione delle quattro finales prese come note riuscirà in tempi relativamente brevi a sovvertire secoli di consuetudini didattiche, consentendo la nascita di un percorso teorico inedito che avrà il suo fondamento nei suoni e non più nei modi. Il cammino si presenta compiuto e completo fin dal primo capitolo della Musica enchiriadis, ma non deve essere stato facile effettuare il primo passo al di fuori della fortunata intuizione iniziale. Come si possono definire le caratteristiche inafferrabili delle altre note, quelle che non sono titolari di nessuna categoria modale? Solo continuando a sondare gli andamenti melodici deve essere emersa la constatazione che le quattro finales sono replicabili: lentamente ci si rese conto che, al di sopra della serie originaria, i toni e i semitoni si rispondono esattamente nel medesimo ordine delle quattro finales. Per rendere adeguatamente conto di questa scoperta fu sufficiente rovesciare la serie dei segni dasiani relativi ai quattro suoni di partenza.
Musica et scholica enchiriadis una cum aliquibus tractatulis adiunctis, ed. H. Schmid, München, Verlag der Bayerische Akademie der Wissenschaften, 1981 (Veröffentlichungen der Musikhistorischen Kommission, 3), pp. 60-156. Ivi, cap. I, p. 4. Quando non è riuscita a dare il dovuto rilievo a questa considerazione fondamentale, la musicologia ha sempre finito per approdare a conclusioni sostanzialmente estranee ai reali contenuti del trattato.
luigi lera
La redazione della Musica enchiriadis a noi pervenuta omette questo primo passaggio, forse perché ritenuto superato non appena fu completato il passo successivo: quando si provò ad estendere l’indagine verso l’acuto e verso il grave per allargare la serie dei suoni, ci si rese conto che era possibile replicare il meccanismo ottenendo un risultato a prima vista soddisfacente. La serie delle quattro finales fu dunque ripetuta una volta e mezzo verso l’acuto e una volta verso il grave, fino a riempire tutta l’estensione utile della musica vocale.
La successione così definita comprende quattordici suoni; costituirà per oltre un secolo il fondamento di tutta la didattica musicale, ma per la nostra ricerca ha una rilevanza ancor più vitale perché costituisce il presupposto di tutte le riflessioni che stiamo per sviluppare. 2. l’ottava La soluzione per tetracordi accostati può vantare alcuni importanti meriti: per la prima volta mostra che lo spazio musicale procede secondo un ordine determinato e che alterna con una qualche regolarità un certo numero di toni e di semitoni. La sua formulazione, tuttavia, è ancora concettualmente errata perché organizza i suoni del sistema diatonico collocando le simmetrie e i ritorni melodici a distanza di quinta anziché di ottava: mano a mano che i tetracordi vengono replicati questa successione, che si ripete di cinque in cinque, sfugge al controllo dei suoi creatori e comincia a generare spazi musicali del tutto incoerenti. Ancora prima di uscire dal secondo tetracordo la scala presenta una vistosa anomalia: Ivi, ancora dal cap. I, p. 5; diamo soltanto una trascrizione. La grafica originale resta invariata e incolonna i segni dasiani in senso ascendente dal grave verso l’acuto; le distanze tra i suoni sono sempre indicate dalle lettere “t” e “s”.
le origini della polifonia tra leggenda e realt
la nota che al grave è protus diventa tetrardus all’ottava superiore e così via. Questa discordanza sarà forse passata inosservata quando si prendevano in considerazione solo due serie di quattro suoni, ma avrà cominciato a mostrare tutta la sua criticità al momento di dover fare i conti con due e più ottave. I successivi capitoli della Musica enchiriadis, quelli che vanno dal II all’VIII, si prendono il compito di illustrare il sistema in tutte le sue valenze teoriche e pratiche; non hanno rilevanza ai fini del nostro discorso, ma la loro lettura può essere istruttiva per comprendere a fondo gli stretti limiti in cui operavano maestri e allievi di quei tempi. In ogni caso, sia le dimostrazioni sia gli esercizi di lettura evitano di soffermarsi su quella residua discrepanza di protus e tetrardus che sfuggiva a ogni tentativo di sistematizzazione. I tempi non erano ancora maturi per considerare uno spazio sonoro più moderno e funzionale come quello fondato sull’ottava: la questione del mancato ritorno dei suoni avrebbe dovuto stimolare una riflessione sulla problematicità del tetracordo, ma evidentemente le argomentazioni a favore del sistema delle finales dovevano apparire ancora ben solide. Quando tuttavia le dimostrazioni e le esercitazioni pratiche relative ai tetracordi sono esaurite l’autore, che fino a questo punto possiamo ancora figurarci come una singola persona, decide finalmente di affrontare tale spinoso argomento. Con il capitolo X la Musica enchiriadis giunge così ad affermare esplicitamente, per la prima volta nel panorama della teoria medievale, che a distanza di ottava gli intervalli si ripetono con una sorta di ritorno melodico. CAPUT X
Diapason, quod “ex omnibus” interpretatur, octavi ad octavum fit consonantia. In hac ergo non tam consonae voces quam equisonae dici possunt, & in ea vox denuo innovatur.
Capitolo decimo L’ottava, che prende il suo nome dal greco “dopo tutte le altre”, è una concordanza che si realizza di otto note in otto. In essa, dunque, le note non si dovrebbero dire tanto concordanti quanto equisonanti, e in essa la voce ricomincia da capo.
Con questi termini ancora incerti l’autore sta provando a mettere in chiaro un concetto importante: il nostro sistema musicale fornisce un punto di ritrovo ai suoni proprio nell’intervallo di ottava. Quello stesso intervallo che nella lettura risulta essere protus-tetrardus, oppure deuterusprotus e così via, rende un effetto particolare nel canto per cui tutto lo spazio sonoro sembra rigenerarsi e ricominciare da capo. Al musicista
Ivi, cap. X, p. 26.
GIULIO CAMPAGNOLA «IN DOMO» DI BARTOLOMEO MONTAGNA Laura De Zuani
Negli atti del notaio vicentino Francesco Scolari compare un documento di massimo interesse relativo alla soluzione del debito contratto da Bartolomeo Squarzi per la commissione a Bartolomeo Montagna della grande ancona ora a Brera, raffigurante Madonna con Bambino in trono tra i santi Andrea, Monica, Orsola e Sigismondo e tre Angeli musici, destinata in origine alla cappella di Santa Monica nella chiesa vicentina di San Michele. Alla volontà celebrativa del nobiluomo, appartenente all’élite notarile di Vicenza, si deve una delle opere più affascinanti del catalogo di Bartolomeo Montagna. In essa le figure si collocano al di sotto di una grandiosa imbotte secondo un preciso ordine geometrico che, accostandosi all’attenta orchestrazione luministica, costruisce il dialogo tra lo spazio della sacra conversazione e quello dell’osservatore. La storiografia ha ormai concordemente individuato nell’opera il culmine di un processo di avvicinamento alla cultura figurativa lombarda e all’insegnamento ad essa apportato dalle ricerche prospettico-illusionistiche di Donato Bramante, iniziato e conclusosi per il pittore nel corso dell’ultimo decennio del Quattrocento. Questo contributo nasce dalle ricerche condotte nell’ambito del progetto dal titolo Bartolomeo Montagna (1450 c. - 1523) per la scuola di Dottorato in Storia e critica dei beni artistici, musicali e dello spettacolo, XXVII ciclo, Università degli Studi di Padova, a.a. 2012-2014. Contestualmente e indipendentemente si registra la pubblicazione del volume Bartolomeo Cincani detto Montagna, Dipinti a cura di M. Lucco, con testi di M.E. Avagnina, G.C.F. Villa, M. Barausse, Treviso, Zel, 2014. All’interno del volume il documento oggetto del presente intervento è pubblicato come inedito da M. Lucco (a p. 73) e ripreso nel regesto a cura di M. Barausse alle pp. 136-137. L’argomento, ora confluito nella mia tesi di dottorato, era già stato oggetto della mia tesi magistrale: Bartolomeo Montagna. Un profilo dell’artista dal 1490 al 1523, tesi di laurea
laura de zuani
Grazie ad un documento ricordato da padre Antonio Magrini, oggi purtroppo perduto, si apprende che i pagamenti al pittore erano regolarmente registrati «nell’archivio di casa Squarzo» dal 1496 al 1499. Il compenso pattuito era liquidato il 26 settembre 1499 tramite una cessione, registrata dal notaio Francesco Scolari, da parte del nobiluomo Bartolomeo Squarzi, impossibilitato a pagare in denaro, di alcuni terreni in località Longara. magistrale in Storia dell’arte, Università degli Studi di Padova, facoltà di Lettere e filosofia, a.a. 2010-2011, relatore A. Ballarin, alle pp. 93-96. Nel medesimo elaborato (pp. 38 ss) si affrontava inoltre il cambio di prospettiva fornito da Mauro Lucco agli studi sul pittore all’interno dell’articolo Riflessi lombardi nel Veneto (un abbozzo di ricerca sui precedenti culturali del Lotto), in Lorenzo Lotto a Treviso: ricerche e restauri, catalogo della mostra (Treviso, San Nicolò; Quinto, Santa Cristina; Asolo, Duomo, settembre-novembre 1980) a cura di G. Dillon, Treviso, Edizioni Canova, 1980, pp. 33-66. «In nomine Jesu 1496, Conto de denari spesi per la cappella, ovvero per farla adornare de’ Squarci a San Michele per mi Zorzo Corbetto. [...] Tr. S. d. Item 1.10. 0. Contadi a Nad. Depentor per nome di M° Bart: Montagna adì 20 Zen:° 1497 Item 7. 10. 0. Contadi ut supra a Bart: Montagna adi d° Item 6. 0. 0. Have M° Nad. Depentor in Bottega de M° Bart: Montagna adì 14 Marzo 1497. [...] Item 4.13. 0. Have Filippo presente Pier Ant: da Orgian adi 1 Xbre 1498 [...] Item 4.13. 0. Contadi a Filippo fiolo del med.mo adi 3 Agosto 1499 in tre volte. Item 9. 6. 0. Contadi a M° Bart. Montagna in casa sua adì 12 Agosto 1499 Item 4.13. 0. Contadi a Filippo del Montagna adi 3 Ottobre 1499 [...] Item 3.13.0. Contadi a Bart: Montagna adi 4 Xbre 1400 in camera sua Item 283.13. 0. Duc: 61 per una fitto assegnato a M° Bartlo: Montagna, assegnato per la sua Ancona adi 27 Settembre 1499, Jo Zorzo Corbetto me farò malevadore, e debitore del tutto. [...] Tratte le sud.te Partite da un conto lungo con altre molte non appartenenti al Montagna, qual conto autografo del Corbetto trovasi nell’archivio di casa Squarzo in Vicenza. Questa copia fu tratta nel 1826; dopo quest’epoca l’archivio Squarzo passò nei suoi eredi. [...]». Il documento completo è riportato in A. Magrini, Elogio di Bartolomeo Montagna, Vicenza, Antonelli, 1863, pp. 44-47. «Anno ab ipsius nativitate millesimo quadringentesimo nonagesimo nono, indictione secunda, die iovis vigesimosexto mensis septembris, Vincentie, in claustro conventus Sancte Marie Servorum [...] Cum sit quod providus vir Bartholomeus Montagna pictor q: Antonii civis Vincentiae sit creditor nobilis viri Bartholomei quondam Zampetri de Squartiis civis Vincentiae de ducatis sexagintanovem auri pro resto unius anconae pictae ipsi Bartholomeo de Squartiis per ipsum Bartholomeum Montagna, ponendae in Ecclesia Sancti Michaelis de Vincentia super altari praefati Bartholomaei de Squartiis titulato Santae Monicae, et non habens idem Bartholomaeus de Squartiis alium modum ad praesens satisfaciendi eidem Bartholomaeo Montagna
giulio campagnola «in domo» di bartolomeo montagna
Nato circa alla metà del secolo da una famiglia originaria di Orzinuovi (Brescia), Bartolomeo Montagna era già pictor autonomo e richiesto negli anni Settanta del Quattrocento e, sebbene richiami documentari alle sue opere si rincorrano per tutti gli anni Ottanta, il dipinto di Brera si costituisce come una tra le prime opere sicuramente datate, culmine di un processo di maturazione artistica destinato a condurre Bartolomeo Montagna dalle più evidenti radici culturali veneziane allo sperimentalismo prospettico d’ascendente lombardo. In questo cammino egli si trovò spesso a fianco di grandi committenti, membri delle famiglie vicentine più illustri, ma anche di personaggi ecclesiastici e grandi protagonisti della scena pittorica veneta. Se gli atti d’archivio sono avari e assai di rado concedono qualche notizia utile alla delineazione del catalogo giovanile, sono tuttavia minuziosi nel registrare, per l’ultimo quarto del secolo, la presenza del pittore a più titoli interpellato quale testimone per un atto o una compravendita. È così che lo si riscopre spesso in contatto con artisti di un certo calibro come Pierantonio degli Abati con il quale, come noto, egli si ritrova nel 1484 e nel 1488 tra Padova e Vicenza, Girolamo di Stefano d’Alemagna, suo allievo, ma c’è da immaginare che egli fosse anche in contantis, quapropter idem Bartholomeus de Squartiis per se et heredes suos faciens dedit in solutum pro ducatis sexagintauno pro parte dictorum sexagintanovem ducatorum occasione predicta et vendidit ac tradidit dicto Bartholomeo Montagna, ibi presenti, ementi et recipienti per se et heredes suos proprietatem et directum dominium bonorum infrascriptorum [...] primo de una petia terre prative camporum septem posite in pertinentibus de Longare [...]», documento originale in Archivio di Stato di Vicenza (d’ora in poi ASVi), Notarile, Francesco Scolari, b. 177, alla data. Si vedano inoltre Magrini, Elogio, cit., p. 49; G. Zorzi, Contributo alla storia dell’arte vicentina dei secoli XV e XVI, «Miscellanea di Storia Veneta», edita per cura della Regia Deputazione Veneta di Storia Patria, III, X, Venezia, 1916, in part. pp. 97, 110. Per quel che concerne l’opera commissionata da Bartolomeo Squarzi, ora presso la Pinacoteca di Brera, si veda L. Puppi, Bartolomeo Montagna, Vicenza, Neri Pozza, 1962, pp. 53-54, 108-109. Il 4 ottobre 1484 Bartolomeo è presente al contratto, steso nella sacrestia del santuario di Monte Berico a Vicenza davanti al notaio Nicolò Ascoli, che il priore del convento Antonio da Orgiano e Gian Cristoforo di Luliverio, sindaco del convento, stipulano con Pierantonio da Lendinara intagliatore per l’esecuzione degli stalli del coro del santuario, da condursi su disegni forniti da Bartolomeo Montagna «egregium artis pictorie». Zorzi, Contributo, cit., pp. 105, 165-166; documento originale in ASVi, Notarile, Nicolò Ascoli, b. 5117. I due artisti si ritrovano in data 14 giugno 1488 a Padova nella «sacristia magna nova non completa» del convento di San Giovanni di Verdara. Si vedano G. Fiocco, Le tarsie di Pietro Antonio degli Abati, in Scritti di storia dell’arte in onore di Lionello Venturi, 2 voll., Roma, De Luca, 1956, pp. 239-254, in part. p. 252, e P. Sambin, La formazione quattrocentesca della Biblioteca di S. Giovanni di Verdara in Padova, «Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti», CXIV, 1955-1956, pp. 264-280. Documento originale in Archivio di Stato di Padova (d’ora in poi ASPd), Corporazioni Religiose soppresse, San Giovanni da Verdara, filza 152, perg. 249. Si veda L. Casellato, s.v. in Dizionario Biografico degli Italiani, LVI, 2001.
laura de zuani
in stretto contatto con Lorenzo da Bologna e la compagine di muratores e lapicidi lombardi, a più riprese attivi nei cantieri vicentini e padovani. Il fervore artistico ed edilizio di quel tempo doveva inoltre trascinare l’indaffaratissimo Montagna dai Colli Berici agli Euganei, impegnandolo nelle nascenti fabbriche di San Bartolomeo a Vicenza e, forse, San Giovanni da Verdara a Padova. Si deve alle fatiche archivistiche di Giangiorgio Zorzi la pubblicazione completa del documento relativo al saldo per l’opera braidense da parte di Bartolomeo Squarzi nel settembre 1499, già in parte reso noto da Antonio Magrini. Riprendendo gli studi dell’abate, infatti, Zorzi accusava l’omissione da parte dello studioso di una postilla al documento, datata 15 febbraio 1503, nella quale si registrava il versamento da parte del pittore di 5 ducati e 4 denari ad Alberto Godi, per ottenere piena proprietà degli appezzamenti di terra cedutigli da Bartolomeo Squarzi. Il controllo recente del documento relativo alla cessione al pittore dei campi siti a Longara, in data 15 febbraio 1503, ha costituito ulteriore conferma di quanto Bartolomeo Montagna abbia agito da protagonista nella vita economica e culturale di Vicenza. Dal documento si apprende infatti che la compravendita ebbe luogo in casa di Bartolomeo Montagna, posta in sindacaria di San Marcello, alla presenza non solo dell’«egregio viro Bartholomeo de Squartijs q. Zampetri cive Vincentie», ma anche del «Nobili Juveni Julio Campagnola patavo filio domini Hieronimi: familiarj Reverendissimi domini episcopi Vincentie». In casa del pittore Bartolomeo Montagna, dunque, a fare da testimone all’atto di cessione di Bartolomeo Squarzi compariva il giovane Giulio Campagnola. A fugare ogni dubbio di omonimia con il celebre incisore vengono in aiuto le successive precisazioni: egli è identificato nel documento come padovano – «patavo» – e come figlio di Girolamo, a sua volta definito «familiaris» del reverendo vescovo di Vicenza, Pietro Dandolo. La giovinezza di Per Lorenzo da Bologna si veda G. Lorenzoni, Lorenzo da Bologna, Vicenza, Neri Pozza, 1963. Pietro Dandolo diveniva vescovo nel 1501, secondo quanto affermato nella vicentina Cronica che comenza, riportata in Vicenza Illustrata, a cura di N. Pozza, Vicenza, Neri Pozza, 1976, pp. 67-78, alla data, entrando in vescovado il 13 marzo dell’anno seguente, come ricordato anche dalla Cronaca ad memoriam praeteriti temporis praesentis atque futuri, Vicenza, tipografia Paroni, 1884, alla data 1501. Marin Sanuto fa più volte menzione di Pietro Dandolo, ricordando il giorno in cui fece il proprio ingresso nel vescovado di Padova. Si veda M. Sanuto, Diarii, 58 voll., Bologna, edizione Forni, 1879-1903, VII, 1882, a cura di R. Fulin, p. 236: (dicembre 1507): «in questo zorno, a Padoa, con grandissima pioza, intrò nel vescoado domino Piero Dandolo, era episcopo di Vicenza, col qual vene a compagnarlo quasi tutta Vicenza di citadini. Et di
IL PITTORE “VERONESE” GIORGIO TELLIÈ NELL’ABBAZIA DI SANTA GIUSTINA A PADOVA. «FURONO I POPOLI PENETRATI DA UNA SANTA DIVOZIONE»: IPOTESI SU PIO VI E IL VESCOVO NICOLÒ ANTONIO GIUSTINIANI Lorenzo Giffi
Il complesso di origine paleocristiana costituito dal sacello di San Prosdocimo con l’adiacente Pozzo dei Martiri, nell’abbazia di Santa Giustina a Padova, ha conservato e in parte ancora conserva le più importanti reliquie cristiane della città: quelle del primo vescovo Prosdocimo, della santa eponima Giustina e di innumerevoli santi martiri. Il loro culto ha determinato nel tempo una successione di interventi architettonici e decorativi che è leggibile ancora oggi, malgrado l’invadenza dei restauri eseguiti a partire dal 1956 e fino agli anni Settanta del secolo scorso; perseguendo l’intenzione di restituire al complesso l’assetto che si riteneva avesse nel secolo V, si è intervenuti tanto sulle strutture murarie quanto sui cicli pittorici che su di esse si erano affiancati e sovrapposti e che in larga parte furono asportati. L’aspetto austero che oggi connota questi spazi è dovuto a quegli interventi. Le tracce dell’assetto precedente, pur frammentarie, restano però significative, e consistono di quanto resta di cicli affrescati sulle volte dello stesso sacello e dell’atrio che lo precede, sulle volte e sulle pareti del vano del Pozzo dei Martiri e del corridoio che connette il vano al transetto della chiesa. Mentre gli affreschi della volta del sacello e la maggior parte di quelli dell’adiacente atrio sono riferibili al secolo XVI, quelli del vano del Pozzo e del corridoio tra questo e la chiesa costituiscono un sorprendente palinsesto dove, oltre a limitate porzioni riferibili forse ancora al secolo XVI, spiccano i chiaroscuri delle pareti del corridoio con Santi martiri ri Per questi affreschi esistono i pagamenti del 1564 ai fratelli Camillo e Tommaso, figli di Pellegrino da Chioggia, in P.L. Zovatto, L’Oratorio Paleocristiano di S. Giustina a Padova, in La basilica di Santa Giustina. Arte e storia, a cura di P.L. Zovatto, N. Ivanoff, G. Bresciani Alvarez, R. Pepi, A. Sartori, Castelfranco Veneto, Edizioni del Grifone, 1970, pp. 35, 37, 39, nota 23.
lorenzo giffi
salenti al secolo XVII, inseriti in partiture architettoniche di carattere classicheggiante alcune, coeve ai santi da esse inquadrati, altre di chiaro gusto tardobarocco e perciò riferibili al secolo XVIII; disseminate in questo apparato scenico sono numerose iscrizioni veterotestamentarie. Infine, ad un altro e più importante pittore del secolo XVIII si devono le pitture della volta della stanza del Pozzo dei Martiri, dove è ambientata illusionisticamente una Gloria di santi (figg. 1, 2) con, nei peducci, quattro Virtù cardinali, e quelle della volta dell’atrio del sacello con la Fortezza (fig. 5). A quest’ultimo pittore si devono ulteriori affreschi ora non più esistenti: si tratta di figure di Santi martiri a chiaroscuro – assimilabili sul piano compositivo ai Santi martiri del secolo XVII ancora presenti sulle pareti del corridoio –, che si trovavano nel corridoio tra sacello e pozzo ma che, staccate dopo il 1970, non sono attualmente reperibili; della Madonna assunta e angeli, con il sepolcro illusivamente sporgente da una cornice di linee barocchette, che occupava l’intera parete occidentale del sacello – già a lei titolato – (fig. 3) ma che, malamente staccata nel 1957 nella sola porzione centrale, è posta ora in condizioni larvali sulla parete del corridoio tra pozzo e sacello; infine delle figure di Angeli musicanti e cherubini (fig. 4) che attorniavano l’antica icona posta sull’altare del sacello, di cui resta solo la documentazione fotografica. La fortuna critica di questo ciclo figurato settecentesco è minima: sovrastato dai numerosi capolavori conservati nel complesso benedettino, è ignorato dalle antiche guide cittadine. Analogamente lo spoglio dell’archivio abbaziale non ha restituito alcun documento riferibile ad esso, che viene preso in considerazione solo a partire dal 1966, quando Pepi attribuisce l’affresco con Santi Martiri a Giacomo Ceruti con una datazione al 1750. Fiocco dapprima accetta l’attribuzione di Pepi a Ceruti per rifiutarla subito dopo, avanzando una cauta proposta in direzione di Girolamo Brusaferro per via di rilevati influssi tiepoleschi, grazie an L’immagine di uno di questi affreschi, con la figura intera di un Santo Martire, è pubblicata in G. Fiocco, Giacomo Antonio Ceruti a Padova, «Saggi e Memorie di storia dell’arte», 6, 1968, fig. 37, e in La basilica di Santa Giustina, cit., p. 426, fig. 96. Così R. Bassi-Rathgeb descrive l’insieme, in Contributi al problematico Ceruti, «Arte Veneta», XXI, 1967, p. 237: «la cupoletta trovasi al centro di un ampio corridoio con figure a chiaroscuri di Martiri, con scenette e decorazioni varie». Di queste scenette non rimane oggi alcuna traccia. D.R. Pepi, L’abbazia di Santa Giustina, in Padova. Storia e arte, Padova, Edizioni Monaci Benedettini, 1966, p. 96. G. Fiocco, Antonio Ceruti a Padova, «Memorie dell’Accademia Patavina di Scienze Lettere e Arti. Classe di Scienze Morali, Lettere e Arti», LXXIX, I, 1966-1967, pp. 225-226. Fiocco, Giacomo Antonio Ceruti, cit., p. 122.
il pittore giorgio telli nell’abbazia di santa giustina a padova
che all’intervento di Bassi Ratgheb, che vi aveva riscontrato un carattere veneto descrivendo la «loro vaghezza, la loro fluidità d’impasto ed il sensuale trasporto nell’esecuzione». Infine nel 1970 Ivanoff li definisce «mediocri affreschi d’ignoto autore» del secolo XVIII. Considerazioni di ordine stilistico permettono di riconoscerne l’autore in Giorgio Telliè, pittore bavarese documentato a Verona nel 1760-1761, «Accademico d’onore» in quella città nel 1769 e attivo in Trentino e nel mantovano, oltre che nel territorio veronese, almeno fino al 1778. L’identificazione dell’autore può considerarsi certa grazie al confronto probante, tra i numerosi possibili, con il ciclo firmato e datato al 1772 nella chiesa di San Vigilio a Molina di Ledro; le rispondenze sono innumerevoli e in particolare nel gruppo della Madonna assunta e angeli (figg. 3, 6), desunto dallo stesso cartone, la ricorrenza dei medesimi stilemi denuncia l’identità di mano. Questa restituzione conferma quanto emerso solo nel corso degli ultimi anni sulla figura ancora in parte misteriosa di Telliè. Si tratta di un pittore dalla cultura vivacemente tardobarocca, caratterizzato da composizioni impostate su profonde linee diagonali, da figure accentuatamente scorciate e da un’espressività declamatoria e marcata in senso popolaresco, come nel ciclo padovano appare in particolar modo dall’Assunta nella sua condizione originaria (fig. 3). Gli affreschi di Santa Giustina esemplificano anche una qualità meno felice del pittore, la ripetitività che lo porta a riutilizzare sistematicamente le proprie composizioni. Caratteristica è anche una materia pittorica grezza, che appare felicemente sfatta e brillante di vivacissimi rialzi luminosi nelle opere comprese tra il settimo e l’inizio dell’ottavo decennio, le più antiche finora identificate, come la pala del santuario di Santa Maria dei Miracoli di
Bassi-Rathgeb, Contributi, cit., p. 237. N. Ivanoff, Sculture e Pitture dal Quattrocento al Settecento, in La basilica, cit., pp. 325,
414-415. G.P. Marchini, Le origini dell’Accademia di pittura di Verona, «Atti e memorie dell’Accademia di Agricoltura Scienze e Lettere di Verona», CLII, 1977, pp. 243-275. Su Telliè, L. Giffi, Giorgio Telliè, in I pittori dell’Accademia di Verona (1764-1813), a cura di L. Caburlotto, F. Magani, S. Marinelli, C. Rigoni, Crocetta del Montello, Antiga edizioni, 2011, pp. 378-383; S. L’Occaso, I pittori dell’Accademia veronese nel mantovano, in I pittori, cit., pp. 70-74. Tra i tanti esempi possibili in tal senso è il disinvolto riutilizzo di un’identica composizione per la Consegna delle chiavi di Molina di Ledro e l’Incredulità di san Tommaso affrescata sulla facciata laterale della chiesa di San Tommaso Apostolo a Verona, unica sopravvissuta delle tre opere del pittore ricordate a Verona da Saverio Dalla Rosa, in S. Dalla Rosa, Catastico delle pitture e scolture esistenti nelle chiese e luoghi pubblici situati in Verona [ms., 1803-1804], Verona, Istituto Salesiano «San Zeno» Scuola Grafica, 1996, p. 144.
diego toigo
vento di personaggi singoli o di gruppi “plurali” (le “Turbe” propriamente dette). Nell’esempio che segue si legge, dopo il metrum, la cadenza finale dell’Evangelista, ossia il punctum che conclude una frase:
2.
La formula ante vocem Christi si ferma invece sulla nota di La:
3.
Quanto alla cadenza che precede le Turbe, la melodia presenta un andamento lievemente ornato davanti alle voci plurali, e una formulazione più sobria e sillabica quando introduce l’intervento di attori singoli:
4.
Come si evince da questi esempi, la voce dell’Evangelista ritrova sempre il Do, prima di scivolare verso una qualsiasi soluzione cadenzale; e tuttavia, per tutto il corso della recitazione la corda di Do rimane come sospesa, quasi solo suggerita da un Si ribattuto che non risolve se non nel metrum. Un solo tratto, in queste Passioni fiorentine, presenta l’andamento comune alle intonazioni di modalità lidia, con il metrum ad esse più congeniale: si tratta dell’exordium, che di seguito trascrivo:
5.
fonti toscane tardive della passione di ges cristo
In particolare, il punctum dell’Evangelista ricorre identico nell’intonazione romano-francescana di certi Cantorini manoscritti tardo medievali, la cui tradizione, poi confluita nell’edizione giuntina del 1513, era forse la più diffusa in area italiana fra Medioevo e Rinascimento. Una stretta somiglianza con l’intonazione romano-francescana, del resto, emerge anche nella parte del Cristo: se ne riconosce l’impronta nel breve melisma che apre ciascuna sezione e che sale di una sesta con l’inconfondibile salto di terza La-Do:
6.
Anche il punctum della parte del Cristo, come quello dell’Evangelista, richiama l’omologa cadenza dei Cantorini romano-francescani. Ecco, ad esempio, la conclusione del tratto «Ite in civitatem»:
7.
Le sezioni del Cristo recano sempre un bemolle in chiave, puntualmente annullato per mezzo di un bequadro, lì dove l’Evangelista riprende la recitazione. Il bequadro, anzi, è segnato con una certa precisione anche all’interno della parte dell’Evangelista, dopo ogni occorrenza del punctum (es. 2). Molto significativa, infine, è la sezione della Passione che riporta le ultime parole di Cristo sulla croce, dove si impone la cosiddetta “melodia-Eli”. Come nella tradizione dei Cantorini, anche in questo caso l’Evangelista prepara la solenne declamazione del Cristo con una cadenza espressiva, che sale fino al registro delle Turbe:
Il più antico di questi Cantorini è conservato presso la Biblioteca Universitaria di Bologna (ms. 2893, sec. XIV), mentre la prima edizione a stampa del Cantorino romano-francescano uscì dalle officine veneziane di Lucantonio Giunta nel 1513. Per tutto questo, in attesa del mio volume di prossima uscita, si veda Toigo, Dalla “contemplatio” alla “compassio”, cit., pp. 771-775. Cfr. Toigo, Intonazioni della Passione, cit., pp. 253-254.
ILLUSTRAZIONI
lorenzo giffi
1. Giorgio Telliè, Gloria di santi, Padova, abbazia di Santa Giustina, pozzo dei martiri 2. Giorgio Telliè, Gloria di santi (part.), Padova, abbazia di Santa Giustina, pozzo dei martiri
il pittore giorgio telli nell’abbazia di santa giustina a padova
3. Giorgio Telliè, Assunzione della Vergine, Padova, abbazia di Santa Giustina, sacello di San Prosdocimo (già) 4. Giorgio Telliè, Angeli musicanti, Padova, abbazia di Santa Giustina, sacello di San Prosdocimo (già) (Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio per le province di Venezia, Belluno, Padova e Treviso)
giuliana calzavara
4. Victor Hugo, La jolie cauchoise était à sa fenêtre. Il passa. Le gracieux profil regardait un peu de côté, Villequier, Maison Vacquerie - Musée Victor Hugo
la suggestione dell’invisibile nei disegni visionari di victor hugo
5. Victor Hugo, Planète-oeil, Parigi, Bibliothèque nationale de France 6. Victor Hugo, Carnet oblong, 15 mars - 18 avril 1856, Parigi, Bibliothèque nationale de France
giuliana calzavara
7. Victor Hugo, Taches avec empreintes de doigts, 1864-1865, Parigi, Bibliothèque nationale de France 8. Victor Hugo, Tache d’encre, Parigi, Musée national d’Art moderne, Centre Georges Pompidou
la suggestione dell’invisibile nei disegni visionari di victor hugo
9. Victor Hugo, Taches, 1870-1871, Parigi, Bibliothèque nationale de France
il genere della vanitas nella pittura del ventennio fascista
4. Mario Mafai, Natura morta con vaso blu, 1937, olio su tela, cm 70 × 100, firmato e datato in basso a sinistra: «Mafai 32», Roma, collezione privata
chiara costa
5. Armando Pizzinato, Natura morta, 1941, olio su tela, cm 54 × 69, Milano, Galleria d’Arte Moderna, collezione Boschi
RECENSIONI
Etica, creatività, città. Giuseppe Mazzariol e l’idea di Venezia, a cura di G. Busetto, Venezia - Cinisello Balsamo (MI), Fondazione Querini Stampalia - Silvana Editoriale, 2014, pp. 288, ill., euro 20,00. Un nuovo libro su Giuseppe Mazzariol, che questa volta non si presenta come Festschrift di saggi, più o meno convergenti su temi cari al commemorato, e nemmeno come semplice raccolta di testimonianze, il che invece è accaduto in altre occasioni, che per brevità non staremo ad elencare, ma ben spiegabili per un soggetto così poliedrico, nate da iniziative del Dipartimento storico-artistico veneziano al quale egli era appartenuto nell’ultimo tratto della sua esistenza, o di altre istituzioni, che via via avevano sentito la spinta della sua dinamica capacità animatrice. Questa volta il curatore Giorgio Busetto, per conto della Biblioteca Querini Stampalia (appunto uno dei centri veneziani che debbono tanto a Mazzariol e dal quale egli mosse per condurre alcune delle sue più significative imprese culturali), ha voluto organizzare un testo critico, che mettesse a fuoco le diverse facce dell’attività dello studioso, nell’intento di una ricostruzione storica, per la realizzazione della quale vien posta in campo esplicitamente una distanza, che ormai consentirebbe una veduta obbiettiva sull’uomo e sul tempo nel quale si svolse la sua operosità. Ricostruzione particolarmente utile, parlando di un protagonista così vivacemente attivo, così capace di tessere relazioni con interlocutori del più vario spessore, ma sempre in un ambito di alta temperatura ideale, così impegnato in una prolungata attività di promozione culturale (ed artistica specialmente), che veniva a toccare inevitabilmente differenti ma qualificati livelli della società civile e politica, oltre che, ovviamente, accademica. E ciò spiega in parte anche il carattere di una relazione come la mia, per la quale mi prendo licenza di confessare qualcosa che di solito il riserbo di recensore vieta: il desiderio di chiarire, anche un po’ per mio conto, il senso di quella distanza, che ho indicato come dichiarazione di metodo dei curatori
recensioni
del volume, e che, se da sempre è stata decantato motivo di qualificazione storica a difesa da un deformante anacronismo, ha trovato tuttavia correttivi nell’opposto principio della contemporaneità del passato. Distanza consapevole, che divide e unisce, mettendo a confronto le ragioni dell’identità e quelle della differenza: insomma, luogo in cui si costituisce il significato. E qui infatti, se prendiamo il gruppo di saggi propriamente “storici”, sullo sviluppo economico e civile e urbanistico della Venezia dagli anni Cinquanta agli Ottanta (tagliati sui vari momenti e ruoli assunti da Mazzariol), il passato si carica di presente, nell’arco di un destino della città, del quale, in quella stagione ancora animata dall’ansia di rinnovamento postbellico, si ebbe a discutere con una passione, una progettualità, un empito utopistico, che rende ancor più amaro il lento sprofondare di tanta parte di quel mondo nella stagnante palude attuale (per tacere dell’impaludamento linguistico, cinico e sgrammaticato, dei rappresentanti civici). Anche chi scrive – cittadino d’adozione ma affetto dal mal di Venezia, divenuto cronico a causa della successiva separazione – rivive o riscopre, nelle vicende che accompagnano la vita di Mazzariol e ne vedono in molti casi la funzione di protagonista, i sogni e le passioni di quanti, per età destino o temperamento, protagonisti non furono, ma partecipi combattuti e spesso inconsapevoli. E la Biblioteca Querini, la Facoltà di Architettura negli anni d’oro, i convegni della Fondazione Cini, la Biennale, l’UIA, perdono leggendo il carattere oggettivo che i narratori vogliono loro conferire – con tutto il ricco apparato documentario esibito – per riprendere un sapore conosciuto, resuscitato da lampi improvvisi e scorci della memoria. Apparato documentario, che è merito degli autori (Luca Pes, Giuseppe Saccà, Omar Salani Favaro, Maria Luciana Granzotto, Laura Cerasi) aver allestito, e che permette di spiegare avvenimenti, scoprire relazioni e collegamenti, offrendo il retroscena di vicende che erano state vissute con la monodimensionale adesione del presente. In quell’intrico di eventi: sviluppo della città, modelli intellettuali di organismo urbano emergenti dalla situazione economica e industriale, beghe di partito e compromessi “preistorici”, centri intellettuali e istituzioni variamente impegnate in merito (come il CoSES), svolte significative nella politica nazionale – non staremo a discutere, rimandando a una lettura diretta, le differenti versioni della generosa ma equilibrata presentazione degli autori dei saggi, relativamente agli atteggiamenti assunti da Mazzariol; interessa di più mettere in luce la coraggiosa disposizione del nostro a farsi carico in prima persona di tale responsabilità culturale, che investiva la funzione di storico dell’arte di un peso non usuale. Certamente, era un portato dei tempi, a far tempo almeno dalle sollecitazioni provenienti dall’Istituto Universitario di Architettura; e va ricordata qui in parallelo l’attività di programmazione urbana di Wladimiro Dorigo, che con Mazzariol condivise il finale impegno nel Dipartimento di Ca’ Foscari, discendendo dalla stessa scuola padovana di Sergio Bettini. Che questo impegno sia comunque da vedere nella sede propria del mondo figurativo, emerge dai saggi di Ivan Bianchi, Giuliana Tomasella, Alessia Ca-
recensioni
stellani, Stefano Franzo e Martina Massaro, sui quali posso dire qualcosa di più preciso. Di fatto, è proprio questa la cifra più connotativa dell’attività del personaggio, la cui figura di storico dell’arte per certi aspetti è abbastanza sfuggente, o sfugge almeno a quelle definizioni nette che derivano dalla scelta di un ambito circoscritto. Dire che si tratta di uno storico, o meglio critico, dell’arte contemporanea è troppo o troppo poco, perché finirebbe con il ribadire, in un modo o nell’altro, una vocazione specialistica. E non tanto per la curiosa partenza con la tesi su San Vitale di Ravenna. Il rapporto con Bettini (ricostruito da Giuliana Tomasella) ci ha preparato a questo: gli allievi medievisti del professore padovano sono sì maggioranza, ma relativa, in mezzo a cultori di altri campi, fra cui appunto il contemporaneo è tra i favoriti, per una sorta di affinità che si alimenta dei frutti di una seppur diversamente nata e vissuta “distruzione dello spazio plastico”. Del resto, accanto al maestro bizantinologo e tardoantichista, il vivo contatto del giovanissimo Mazzariol con Arturo Martini (in figura di travagliato amanuense dei suoi pensieri scultorei, come ricorda Bianchi) mostra subito un rapporto diretto con le fonti della produzione formale, che sarà caratteristico della sua cifra di studioso. Interrogare l’arte, interrogare gli artisti, nella convinzione, forse alle volte anche troppo fiduciosa, del nesso ineludibile fra i due aspetti, nell’illusione di superare l’alterità segnica della critica verbale in una critica attiva parallela alla produzione formale: la connessione di eidos e logos, se vogliamo, termini che tornano – con sfumatura un po’ diversa – nell’interpretazione qui elaborata da Armando Cattaneo e Maria Manzin. Ho detto illusione, ma senza pregiudizi morali. Forse, possiamo dire che si tratta di uno degli ultimi momenti di una generosa ideologia del moderno, mentre già incalzano le aggressioni del post-moderno. Ecco dunque l’introduzione del dialogo con gli artisti fin nel cuore della didattica, in questo modo animata da dirette testimonianze, i rapporti con le gallerie veneziane e quelli – non sempre felici per le ulteriori difficoltà derivanti da veti incrociati della politica – con la Biennale, che trovano a lor volta illustrazione nei vari contributi della sezione. E converrà solo un rapido richiamo in questa sede a un altro elemento, che spunta qua e là nei vari saggi del volume e pure costituisce un motivo degno di ulteriore riflessione per quegli anni, al confine appunto di moderno e postmoderno: il vento della contestazione, che riguarda la qualità dell’insegnamento, la politica culturale – e l’arte, per sua vocazione, in modo particolare. Quanto e come abbia influito sui diversi aspetti dell’elaborazione teorica di un’intera classe intellettuale, per quel che ci riguarda storicoartistica, è valutazione meritevole di studio: e non solo per il nostro personaggio. È stato ricordato in molti degli interventi qui pubblicati – e c’è altrove uno specifico articolo di Toniato in proposito – che Mazzariol fu un grande fabulatore, direi perfino un seduttore verbale di notevole fascino; seduzione che usava consapevolmente, specialmente con i nuovi, possibili, amici, favorito da una dizione agile e modulata alla perfezione, anche nelle più accese impennate polemiche – quando non sciolta nella delizia del dialetto: “dialettalità” che qui viene
finito di stampare nel mese di luglio ďœ˛ďœ°16 per conto della casa editrice Il Poligrafo srl presso la Grafica & Stampa di Vicenza