La concretezza sperimentale. L’opera di Nani Valle, a cura di Serena Maffioletti

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materiali iuav collana di ateneo 7



LA CONCRETEZZA SPERIMENTALE L’opera di Nani Valle a cura di Serena Maffioletti

ilpoligrafo


Il volume è stato pubblicato con il contributo dell’Institut Universitaire de France e del Groupe de Recherche d’Histoire dell’Università di Rouen Normandie Quando non diversamente specificato le immagini si intendono provenienti dall’Archivio Progetti dell’Università Iuav di Venezia

progetto grafico Il Poligrafo casa editrice Laura Rigon copyright © dicembre 2016 Università Iuav di Venezia Il Poligrafo casa editrice Il Poligrafo casa editrice 35121 Padova piazza Eremitani - via Cassan, 34 tel. 049 8360887 - fax 049 8360864 e-mail casaeditrice@poligrafo.it www.poligrafo.it ISBN 978-88-7115-928-7


indice

9 Tact and Skill Joseph Rykwert 11 «Il senso del grave» Anna Bellavitis

29 Lo IUAV alla fine degli anni Quaranta del Novecento: lo sguardo attento di una studentessa “speciale” Donatella Calabi 39 Erigere solide case con i materiali: Provino, Gino e Nani Luka Skansi 55 Inizi Valeriano Pastor 79 L’esperienza del fare Serena Maffioletti 101 Fernanda Valle, la “Nani”: una certezza per studenti e laureandi Paolo Morachiello 105 Andare oltre, conservando Nullo Pirazzoli 131 «Io sono un muratore»: Nani Valle e le case d’abitazione Silvia Moretti 147 Interni di Nani Valle Manolo De Giorgi 155 Progettazione di ospedali: l’organizzazione dello spazio tra specializzazione e flessibilità, ovvero la ricerca del tipo neutro Barbara Pastor 179 Due allestimenti e un’installazione Franca Semi 189 Il progetto del vetro nelle realizzazioni di Nani Valle e Giorgio Bellavitis Rosa Chiesa


211 Nani Valle: il completamento della Sala Ajace tra continuitĂ e immaginazione Federico Marconi, Maria Pellarin diario 223 ÂŤBisogna inventare una nuova architetturaÂť Diario di Nani Valle, studentessa iuav 31 marzo - 15 giugno 1950 a cura di Anna Bellavitis apparati 257 Regesto delle opere a cura di Federica Alberti 265 Bibliografia a cura di Federica Alberti

271 Note biografiche degli Autori


LA CONCRETEZZA SPERIMENTALE



tact and skill Joseph Rykwert

The year 1952 seems to have been crucial and formative for many – then incipient, but now seasoned – architects, the year of the CIAM Summer School in Venice. It was certainly so for me. I arrived, a poor student, and had no obvious attachment, but I had the good luck to meet Gino Valle on the registration day; noting my disorientation, he offered me a free bed in that top flat of a house in Campo Santa Margherita which he shared with his two sisters Nani and Lella – and another young architect, Giancarlo Pozzo. Their matter-of-fact but cordial welcome of an indigent colleague was transformed over the month I spent there into a warm and lasting friendship. The family was already extending. The paterfamilias, Provino, was a remote presence and it was Gino who was the effective head of that small venetian family – a task which he took seriously, particularly as Massimo Vignelli had already begun courting the still teen-age Lella (they married a few years later, and their New York studio became one of the most stylish as well as successful in the USA) while Giorgio Bellavitis was also an impending presence in that family milieu. Why or how I was absorbed into that milieu I cannot tell. The fact is that through many vicissitudes, and in spite of any differences of background or direction, we have all – ever since then – remained close friends and occasional collaborators. There must have been some secret chemistry which worked between us. Even when we had only just met, it was obvious to an outsider such as myself that Nani and Gino – four years apart in age, but of a similar physical stature – were in some ways matched. Both were commandingly tall, and both already spoke with a certain authority. Although CIAM was of its nature international and egalitarian, few women as yet had a voice in it and Nani was already seen as exceptional. She had even charmed her notoriously misogynist teacher, Carlo Scarpa, who had noted her gravitas, that striking personal dignity which was so often lightened by her open – though sometimes ironic – smile and which was consonant with her very sober elegance, evident in the perfect cut of her clothes as well as in her fastidious choice of the fabrics she wore. She had, after all, in her youth been a fabric designer and even weaver. Her professional career was marked by a series of important collaborations. While still a student, she had worked on an ambitious plan for a new town at Marghera with a group of her contemporaries under the direction of the Rector of the Venice school, Giuseppe Samonà. But inevitably her most fruitful collaborations were with her husband Giorgio, whose intimate knowledge of the physical fabric of Venice made him the ideal restorer of Venetian historic buildings; but she also managed to work with


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her peremptory brother Gino, as well as the demanding and fastidious fellow-teacher Ignazio Gardella. All were exacting in different ways, but all respected her professional authority and her tact. It was that rare combination of tact and skill which made her such a treasured collaborator, but which was also evident in her independent work, particularly that on hospitals which included the remarkable development of the Trieste psychiatric hospital where Franco Basaglia was carrying out his revolution in the care of the mentally disturbed. Her involvement in both architecture and planning was demanding, near total – but it was her visual acuity that made her such an excellent exhibition designer. Yet there was also a corner left in her life for her first love – sculpture – into which she would occasionally venture, even towards the end of her life. Her last commission – for the completion and furnishing of the Sala Ajace, the main reception hall of the Municipal Palace of Udine that had been designed and built by the town’s first illustrious modern builder, Raimondo D’Aronco – took her back to her origins, and she had also arranged and designed an exhibition of his work. And it was to Udine that she returned in her last illness, when she was assisted by her familiars – who included her youngest sibling, Lella. Her individual achievement was always quite evident, even though it is inevitably contrasted with that of the two very different men who were her lifelong collaborators, critics and even rivals: her husband and her brother.


«il senso del grave» Anna Bellavitis

Un giorno, Carlo Scarpa disse a mia madre che, a differenza delle altre donne, lei aveva «il senso del grave» e per questo poteva fare l’architetto. Al di là della misoginia evidente di questa affermazione, potrei dire che questa strana definizione le si adattava, almeno in parte, piuttosto bene, non saprei dire se in ambito architettonico, che non è il mio campo, ma sicuramente nella vita di tutti i giorni e probabilmente nelle scelte fatte nel corso della sua, purtroppo non lunga, esistenza. Penso che le persone che l’hanno conosciuta, in famiglia o nel lavoro, confermerebbero questa impressione di gravitas, con il corredo di qualità che possono accompagnarla: senso del dovere, severità, serietà, impegno e onestà intellettuale, ma aggiungendovi anche una sorta di giovanile “leggerezza” e una grande capacità di intelligente ironia e calore umano: la nostra casa era sempre piena di amici e parenti, di tutte le età e generazioni! È vissuta in un’epoca storica in cui essere architetto, per una donna, non era cosa frequente né impresa facile, ed esserlo in una famiglia di architetti e più tardi con un marito architetto era un’arma a doppio taglio. Ha accettato la sfida con coscienza del proprio valore ottenendo, credo, una parte almeno dei risultati ai quali aspirava e la gravitas si è forse stemperata con gli anni. Mettendo insieme le brevi note biografiche che seguono, basate sui documenti e sulla mia memoria, è l’impressione di una vita piena, ricca e vissuta sino in fondo che emerge e che vorrei trasmettere, dedicandole a Margherita e Giovanni, i nipoti che non ha mai conosciuto. 1.

«Volevo fare lo scultore...» (1927-1958)

Nani Valle nasce l’8 dicembre 1927, e la data spiega il secondo e terzo nome che le sono imposti: Maria Concetta. Nomi che non userà mai, e anche il primo, Fernanda, di cui non conosco la ragione, è rapidamente trasformato in Nanda, Nandina e, infine, Nani, diminutivo con il quale poi fu sempre chiamata. È la terza figlia, dopo Mariolina1 e Gino, di Provino (1887-1955), architetto friulano, e di Ave Regè (18991981), di famiglia emiliana, ma nata in Friuli, a San Giorgio di Nogaro, in possesso di un diploma di maestra che non credo abbia mai usato. Provino Valle è architetto di talento e di successo e, nei primi anni Trenta, la famiglia è proprietaria di alberghi a Lignano: la foto, a colori, di Nani bambina che sguazza felice nel mare, diviene una cartolina pubblicitaria per la spiaggia di Lignano “sabbiadoro”. Quarta, ed ultima figlia, è Elena, detta Lella2.


anna bellavitis

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La guerra sconvolge i destini di questa generazione e, per Nani, determina in modo imprevedibile il futuro professionale. Nani ha ottimi risultati scolastici ma, arrivata al momento della scelta del liceo allo scoppio della guerra, viene destinata alle magistrali, a differenza dei primi due figli che frequentano il liceo. Questa scelta familiare viene spiegata da lei stessa, più tardi, con le difficoltà del periodo, ma è anche vissuta come una specie di ingiustizia, rispetto al fratello e alle due sorelle. Dopo l’8 settembre 1943, Gino, allievo ufficiale a Pola, è deportato in un campo di smistamento in Germania e, per lungo tempo, la famiglia non ne ha notizie. È allora che Provino, che ha un rapporto privilegiato con questa figlia, che gli assomiglia e che ha evidenti doti artistiche, decide che Nani deve diventare architetto. Deve, insomma, prepararsi a continuare lo studio del padre, nell’eventualità che Gino, erede designato, non faccia ritorno. Nani obbedisce e, poiché il diploma di scuola magistrale non le permetteva di entrare all’Istituto di Architettura, passa l’estate del 1944 a preparare, sotto la guida del padre, il diploma di liceo artistico, che ottiene alla sessione di settembre, con buoni voti (8 in italiano, storia e storia dell’arte, 7 in matematica, fisica, scienze ed educazione fisica e... 6 in composizione architettonica!). Seppur certamente lusingata dalla scelta paterna, molti anni dopo, raccontava questa svolta nella sua vita come una sorta di dovere, un obbligo familiare, che non aveva potuto rifiutare, anche se avrebbe voluto «fare lo scultore». I suoi talenti in questo campo si esplicitano, durante la guerra, nella realizzazione in argilla di un presepio e dei busti del padre e della sorella Lella. La guerra finisce, Gino ritorna e riprende gli studi interrotti. Riprendono anche le gite e le scalate di Provino, con i figli, sui monti della Carnia. A Udine, Nani disegna tessuti per la cooperativa tessile di alcune sue amiche e partecipa persino a delle corse automobilistiche per sole donne. Nani e Gino studiano a Venezia, i genitori la lasciano vivere fuori casa, in una stanza d’affitto in campo Santa Margherita, certamente rassicurati dalla presenza, nei primi anni, del fratello maggiore... Sono evidentemente anni di grande entusiasmo, libertà, creatività, per una generazione che si affaccia alla vita adulta lasciandosi alle spalle guerra e fascismo. La voglia di costruire un mondo nuovo è palpabile in alcune pagine del diario del 1950, che racconta le molte discussioni, «interessanti, ma inconcludenti», intorno a progetti di città, più o meno «rosse», ma sempre fondati sulla volontà di facilitare e migliorare la vita delle persone. Il senso di onnipotenza, le infinite possibilità inerenti alla progettazione urbanistica si accompagnano, nel racconto, a una grande attenzione alla vita reale degli abitanti e ai loro bisogni. Un’attenzione che, allora, si esprime nella raccolta di testimonianze e interviste alle donne, nel corso di sopralluoghi di sapore etnologico, che si concretizzano nella descrizione del funerale di un bambino, a Burano, seguito dai compagni con i grembiulini rosa e azzurri. Un’attenzione che continuerà a caratterizzare il lavoro progettuale di Nani, negli anni successivi. Nel frattempo, lavora nello studio del padre, a Udine, insieme al fratello, come racconta in un passaggio del diario, riferendosi, in modo piuttosto ironico, all’apprezzamento di Samonà che l’aveva portata ad esempio ai compagni, dicendo: «Vedete, lei è una donna e appunto per questo c’è riuscita. Le donne seguono i consigli, sono fatte per la collaborazione, non sono piene di preconcetti come gli uomini». Ma, scrive lei: «Io sogghigno, ma non dico niente. Tanto nessuno sa che è tutta la vita che collaboro in uno studio di architetti. Non so se sia il destino della donna in generale o mio in particolare...».


«il senso del grave»

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A Venezia, Nani conosce Giorgio Bellavitis (1926-2009), iscrittosi ad Architettura dopo la guerra: «Devo a Mario [Deluigi] l’idea di lasciare la Facoltà di Ingegneria, cui mi ero dedicato per un solo anno, per passare alla Facoltà di Architettura; una suggestione cui non era estranea la speranza che il fare architettura a Venezia implicasse la scoperta d’un modo alto e diverso di pensare lo spazio, la città e la natura»3, come scrive molti anni dopo. Nel 1943 Giorgio, studente diciassettenne ai Padri Cavanis, decide, insieme al fratello Michele maggiore di due anni e con l’appoggio della madre, di andare come partigiano in Friuli, arruolandosi nelle brigate di Giustizia e Libertà. Durante un’azione di guerra, nel tentativo, peraltro riuscito, di far saltare un ponte, Michele, rimasto ferito, è deportato a Buchenwald, dove resta internato sino alla fine della guerra4. Negli ultimi mesi del conflitto, dopo la dispersione della loro brigata, Giorgio resta nascosto in casa, uscendo solo durante la notte, travestito da operaio, per incontrare amici antifascisti, come Gian Mario Vianello, Franco Basaglia e Alberto Ongaro, con il quale fonda, subito dopo la guerra, insieme a Ugo (nome d’arte Hugo) Pratt e Mario Faustinelli, il giornalino «Asso di picche», primo esempio italiano di giornale a fumetti all’americana5. Nei primissimi anni del dopoguerra, la situazione familiare è complicata, Michele fatica a reinserirsi dopo l’esperienza drammatica del campo di concentramento e Giorgio e la sorella gemella, Elena, studentessa di lettere a Padova, affiancano studio e lavoro per aiutare la madre. In confronto, e lo si coglie anche dalle lettere che Giorgio le scrive, la situazione di Nani, che concilia in maniera apparentemente armoniosa lo studio a Venezia con il lavoro a Udine insieme al padre e al fratello, è molto più serena. Nani e Giorgio, allora solo compagni di università, discutono, per lettera, di Frank Lloyd Wright e di razionalismo6, preparano qualche esame in gruppo finché, in una lettera del gennaio 1951, Giorgio annuncia che Mario, Alberto e Ugo, «quel mio amico all’americana», sono partiti per l’Argentina7. Giorgio segue il loro esempio qualche anno dopo, ma in direzione di Londra, dove rimane dal 1954 al 1956, lavorando come illustratore e fumettista, con lo pseudonimo di George Summer8. Nel frattempo, in sereno e trionfante movimento nell’area compresa fra il campo dei Tolentini e S. Barnaba, la piazza di Udine e la 9° strada est di Greenwich Village e a volte fino a Madison Avenue e la 42esima: i giovani architetti [...] astuti, aggiornati, aperti, spregiudicati, sorridenti, quasi tutti di alta statura, i capelli lisci, l’eleganza trasandata, la battuta pronta, lo sdegno facile,9

si laureano e alcuni proseguono appunto gli studi negli Stati Uniti. È il caso di Gino Valle, laureatosi nel 1948, che, nel 1951, è a Harvard. Nani si laurea il 7 aprile 1951: nella sua sessione sono solo in sei a laurearsi ed è l’unica donna. Anche lei è tentata dall’esperienza americana, e prepara la documentazione necessaria per la domanda di borsa di studio per gli Stati Uniti, ma sembra aver rinunciato prima ancora di presentarla. Da Harvard, Gino continua a seguire i lavori dello studio, in una corrispondenza serrata con la sorella, attraverso la quale si possono seguire le fasi di realizzazione di alcuni progetti. Il primo è quello dell’istituto tecnico per geometri a Udine, che è anche il primo che compare nel curriculum di Nani, poiché, nel 1950, partecipa come “studente-architetto”, insieme a Provino e Gino, al concorso nazionale per il quale vincono il primo premio.


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1. Cartolina postale con caricatura di Provino Valle, anni Trenta 2. Nani che nuota, cartolina pubblicitaria per il Grande Albergo Bagni, agosto 1930 (Archivio Anna Bellavitis [AB])

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«il senso del grave»

3-4. Busti di Provino e di Lella Valle, realizzati da Nani Valle durante la guerra (Archivio AB)

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10. Nani Valle e Giorgio Bellavitis alla laurea di Marisa Moro, luglio 1952 11. Giorgio Bellavitis e Hugo Pratt sul tetto di palazzo Da Mosto, primi anni Cinquanta (Archivio AB)

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«il senso del grave»

12. Nani Valle, anni Cinquanta 13. Nani Valle e Giorgio Bellavitis davanti al municipio di Treppo Carnico, fine anni Cinquanta 14. Nani Valle e Giorgio Bellavitis in studio, primi anni Sessanta (Archivio AB)

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donatella calabi

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22 In realtà Bruno Zevi tiene a Venezia la sua prima lezione come professore di Storia dell’arte e storia e stili dell’architettura il 14 gennaio 1949, ma i contatti con Samonà per la sua chiamata, dopo che aveva preso la libera docenza e dopo un tentativo di andare a insegnare a Firenze, sono del 1948: cfr.: R. Dulio, Samonà, Zevi e le “chiamate” eccellenti, in Officina IUAV, 1925-1980, cit., pp. 92-93. 23 Giorgio Labò, studente di Architettura e partigiano, arrestato dalle SS e torturato, fu ucciso nel 1944. 24 Samonà è menzionato così nel passaggio del Diario in cui si parla di lui come “capo-studio”: pp. 246. 25 Allusione ironica alla sua esperienza nello studio di famiglia. Nani sottolinea qui quella che sarà anche negli anni futuri la sua condizione operativa permanente, sicuramente fertile, ma che in un certo senso ne ha offuscato le qualità specifiche, il suo lavoro con “gli uomini della sua vita” (prima il padre Provino e il fratello Gino, poi il marito Giorgio Bellavitis). Cfr. P.A. Croset, L. Skansi, Gino Valle, Electa, Milano 2010; cfr. inoltre il saggio di L. Skansi in questo stesso volume, alle pp. 39-54. 26 N. Valle, Diario, p. 237. 27 N. Valle, Ignazio Gardella, Ignazio Gardella, professore, in 10 maestri dell’architettura italiana, a cura di M. Montuori, Electa, Milano 1988, pp. 69, 71. 28 N. Valle, Diario, p. 246. 29 Ivi, p. 253. 30 R. Carullo, IUAV: didattica dell’architettura, cit., p. 38. 31 N. Valle, Ignazio Gardella, cit., p. 69.


erigere solide case con i materiali: provino, gino e nani Luka Skansi

M’insegnava [Provino] che l’architettura non era quella dei libri, delle riviste e dei giornali, ma quella che volevano i borghesi, i preti, gli amministratori delle banche e degli enti pubblici. L’architettura cominciava ad essere tale, non quando s’erano fatti i disegni, ma quando si facevano i capitolati d’appalto, quando si procedeva all’appalto o alla commissione, all’impresa edile, quando i segni delle eliografie diventavano strutture solide e costavano denaro. All’architetto toccava dare un ordine alle idee confuse dei committenti, cavare una cosa civile, educata, grammaticale, colta, dal canovaccio di desideri che gli veniva presentato, badare a non massacrare il paesaggio esistente, a risolvere i problemi funzionali del fabbricato, a far spendere nella maniera migliore i soldi del pubblico e del privato. [...] [Provino] ha sempre soltanto badato a costruire, a ciò guidato dalla propria ben definita natura, dal senso dell’inevitabile rapporto fra l’idea astratta di arte e la concretezza della società che dispone di alcuni e non di altri gusti, abitudini, mezzi finanziari e che vuol raggiungere alcuni e non altri scopi. Mettersi contro questi fatti può portare alla polemica – sia pure geniale come quella di Sant’Elia – ma non alla costruzione: e per Valle un architetto doveva costruire e non polemizzare, erigere solide case con i materiali e non elaborare aeree teorie con le parole [...].1

Con queste parole, sulle pagine del «Messaggero Veneto» di martedì 6 settembre 1955, il giornalista e critico d’arte Arturo Manzano ricordava la figura dell’amico Provino Valle, da poco scomparso. Un articolo appassionato e una rara testimonianza della personalità di Provino, della sua etica del mestiere, delle sue attenzioni verso la costruzione, i committenti e il paesaggio. Caratteristiche queste, che verranno assimilate e fatte proprie dai suoi figli, Gino e Fernanda “Nani”, che iniziano il loro praticantato presso lo studio del padre già dai primi anni dopo la guerra, parallelamente agli studi presso l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia. Il modo di lavorare del padre rappresenta per entrambi un fondamentale punto di riferimento, pari alla formazione universitaria. Per misurare le affinità con il pensiero del padre è sufficiente accostare all’appena citato ricordo di Manzano alcune parole di Gino Valle, tratte da un suo colloquio con Giorgio Ciucci del 1989: «L’architetto è colui che trasforma in pietra i bisogni, i sogni, i soldi del prete, del banchiere, del borghese, e quindi ha una grande responsabilità, perché quei bisogni e quei sogni diventano pietre, che restano lì nel tempo»2. La vera eredità dell’insegnamento di Provino è rappresentata dalla convinzione della centralità dell’esperienza nel mestiere, dall’affinità per un’architettura artigianale ed empirica, che trova la pienezza proprio nel sempre diverso problema da risolvere e, allo stesso tempo, dalla forte avversione per i formalismi, per le concettualizzazioni forzate e per le posizioni ideologiche 3. Sarebbe tuttavia errato, come per molto tempo si è creduto


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1-2. Provino Valle, Colonia Elioterapica Principi di Piemonte, Udine, 1930 (Archivio Studio Valle Udine)

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erigere solide case con i materiali: provino, gino e nani

3. Provino e Gino Valle, progetto per albergo a Forni Avoltri, 1949 (Archivio Studio Valle Udine)

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Id., La scuola estiva dei CIAM, in Lo Iuav di Giuseppe Samonà e l’insegnamento dell’architettura, a cura di F. Mancuso, Fondazione Bruno Zevi, Roma 2007, pp. 81-85; P.-A. Croset, L. Skansi, Gino Valle, cit. 22 Sulla centralità di questo testo per l’esperienza formativa americana di Gino Valle e sul progetto editoriale portato avanti con De Carlo si veda il capitolo “Tra Stati Uniti e Friuli”, in P.-A. Croset, L. Skansi, Gino Valle, cit. 23 L’idea della citta giardino di Ebenezer Howard, tradotto e annotato da G. Bellavitis, Calderini, Bologna 1962. 24 La querelle di Gino Valle nei confronti di Rogers si manifesta in più occasioni: la Torre Velasca è da lui vista come «un falso culturale, un travestire i dati della speculazione con Filarete», Intervista a Gino Valle, «Zodiac», 20, 1970, p. 115; frutto dell’idea «di condurre elefanti in città, anche se in costume, perché restano comunque elefanti», L’architettura come pratica progettuale. Intervista a Gino Valle, «Casabella», 450, settembre 1979, pp. 12-13. 25 R. Banham, Tornare ai tempi felici, «The Architectural Review», 742, 1958, p. 281. 26 Su questo tema si veda anche G. Corbellini, Astratto e concettuale. Gino Valle in Carnia, in Architetture in montagna. Gino Valle in Carnia, a cura di E. Carlini, Navado Press, Trieste 2005. 27 Su questo si veda il capitolo “Tra Stati Uniti e Friuli”, in P.-A. Croset, L. Skansi, Gino Valle, cit. 28 G. Valle, lezione allo Iuav del 09 aprile 1994, prima lezione “l’iniziazione”, Archivio Valle, Udine.


inizi Valeriano Pastor

Joseph Rykwert nel saggio L’opera dello Studio Valle, pubblicato in «Architecture and Building» nell’aprile del 19581, considera un quinquennio di attività dello Studio di Provino Valle rinnovato con l’apporto dei figli Gino e Nani (Fernanda), laureati allo IUAV a Venezia, e della seconda figlia Lella, praticante ma non ancora laureata all’inizio della nuova vita dello Studio. Scrive con ammirazione sulla qualità e senso delle opere, numerose e di alto tono, tutte rilevanti in un campo di confronto senza frontiere; altresì con meraviglia, e rimovendo luoghi comuni legati alla considerazione che tale rapporto di produzione tra qualità e quantità sia dato da un piccolo gruppo di una città di provincia, e sia tale da elevarsi e reggere comparazioni di livello internazionale. Fa intendere che il rinnovamento ha relazione tanto con la sede universitaria dei tre giovani, lo IUAV – che allora stava acquistando notorietà se non ancora fama di luogo d’innovazione –, quanto con la partecipazione di Gino all’insegnamento di Town Planning, tenuto da Gropius a Harvard, e principalmente al “grande viaggio” negli States per conoscere le grandi architetture e le personalità insigni, F.L. Wright a Taliesin West in particolare – analogo al Grand Tour en Italie, doveroso per gli intellettuali europei nel XVIII e XIX secolo – (grande viaggio interrotto nel 1953, causa l’incidente fatale all’amico, compagno di studi e di viaggio, Angelo Masieri). Il giudizio positivo sulla produttività del piccolo Studio dei Valle è convalidato da considerazioni sul modo italiano della produzione architettonica, anche negative ed ironiche sul ritirarsi (retreting – vera ritirata), specie dei giovani italiani, entro l’ambito dall’apparenza ascetica, ma intrinsecamente banale dell’immersione nello storicismo, che anzi per taluni anziani appare come un vero “metter la testa sotto la sabbia” (cita il caso Cesate – mettendo insieme con troppa indifferenza autori come Franco Albini e Ignazio Gardella, che facevano ricerca sui modi di costruire tradizioni ambientali localizzate, per trarre proiezioni nell’attualità più avanzata della progettazione). Nel 1955, su «Casabella-Continuità» n. 2052, in un saggio a giro d’orizzonte sull’orientamento della produzione dei giovani architetti italiani, intitolato per l’appunto Architetture di giovani, Giuseppe Samonà inizia in modo del tutto inaspettato (almeno per chi non conosce la sua strategia d’introdursi con una sospensione di giudizio, attesa della parola pregnante, nel disegno dei fatti e nella prospettiva di una meta o di una tesi, rovesciando il punto di vista): si toglie l’abito professorale, dichiara di non esser pronto a valutare eventi che portano segni d’innovazione entro campi di solida tradizione produttiva, e perciò si mette a fianco dei giovani architetti e francamente li considera nuovi maestri dell’arte, che studiano “come una cosa è fatta” – il corpo


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ambientale e l’immaginario con cui è costruito e vissuto – e “come tale cosa si fa”, coniugando il corpo e l’immaginario, come si innesca il processo performativo, il corpo immaginabile dei modi tanto dell’edificare che dell’abitare. Identifica gruppi culturali operanti in formazioni associate, anche occasionalmente, o in autonomia di produzione; tutti eccellenti con chiare identità e tendenze. La traccia dell’ambito culturale legato al sistema regionale appare fatalmente scontata, e tuttavia coglie i caratteri di più spiccata identità del nodo tra architettura e cultura locale: Roma e Napoli, con opere sia nell’area urbana che territoriale, i contesti dell’area piemontese e lombarda, il Veneto infine; e proprio qui puntando sullo Studio Valle coglie prove di identità distinta nell’incontro con la formatività delle tradizioni che caratterizzano il contesto. Al fianco di ciascuno, sia esso gruppo operativo o isolato architetto, Samonà intraprende una disamina accurata delle opere nella loro referenza critica ai contesti, alle strutture operanti nelle tradizioni, con la ragione della forma e dei costruttivismi che contengono saperi pertinenti al corpo immaginabile dell’abitare, individuale e associato. Non ricorrono più referenze ai temi del Moderno, se non accidentalmente, con distacco. La nuova formatività è congiunta a un criticismo che riflette sia sulla cultura delle tradizioni che su quella del moderno; ma fa apparire che l’attualità del problema consiste nel raccordo a una rete di relazioni, poiché nella rete ha corpo il territorio, e in esso il paesaggio contestuale alle opere. Nella nuova formatività appare un costruttivismo che non riposa sulle tradizioni, ma con esse discute – tira “la testa fuori dalla sabbia” si può dire per fare eco allo spunto di Rykwert. Il caso dello Studio Valle appare con carattere emblematico nella sua stessa costituzione: i giovani fratelli (laureati a Venezia) portano criticismi tanto di continuità che di innovazione sulla maestria di Provino, da lui appresa dapprima nell’operare secondo la lezione di D’Aronco, sviluppata poi sotto l’influenza del Novecentismo e dell’esperienza del Razionalismo italiano, forse con un certo distacco dal tumulto delle mutazioni nella prima metà del Secolo breve; nella cui seconda metà proprio loro, i giovani vanno oltre i modi rituali e gli “ismi” del Moderno volgendo uno sguardo interessato alle tradizioni nutrite da quel sapere costruttivo dotato di un suo “immaginario corporale” (che costruisce e abita), mirando a nuove forme della cultura abitante. Rykwert fa iniziare il rinnovamento dello Studio dal 1953, l’anno del ritorno di Gino dal suo Grand Tour; Samonà vede già nel 1951 prove interessanti del rinnovamento, in particolare nella piccola Casa Ghetti a Codroipo, attribuendo a Gino il merito e l’equilibrio interiore nella direzione dello Studio, nell’indirizzo del “modo di fare”, critico e operativo, cioè “performativo” nella struttura operante. La caratterizzazione che Samonà fa su questa piccola opera, la prima realizzazione dopo una serie di concorsi di grande impegno, è perfetta nei caratteri critici che si è imposto nel saggio per «Casabella» del 1955: anzitutto rileva un certo «atteggiamento problematico che apre la progettualità a dar valore anche a quelle forme che ci sono familiari [possiamo intenderle tali in quanto vissute nel contesto abitativo e già praticate nel corso dell’apprendimento sia operativo che didattico], e quindi intime abbastanza da poterle assimilare come fatti figurativi»... necessariamente sapendo «limitarle e controllarle perché si integrino ad altre espressioni preminenti, evitando le contraddizioni». Rileva ancora Samonà che nelle opere dello Studio l’idea di una sintesi-forma involucrale è troppo predominante; ma si giustifica in qualche modo con l’adesione a valori figurativi esplicitamente denunciati nelle strutture. In generale


inizi

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si ritrova nelle opere di Valle una ricerca figurativa molto accentuata che spesso si risolve in impegni espressionistici. Caratteri espressionistici ha infatti la casa Ghetti a Codroipo: casa su due piani in volume chiuso, che da un lato ostenta l’accettazione di un linguaggio di cose già viste e familiari, e dall’altro si fonda sulla opposizione dinamica di un volume unitario e grave, con un elemento verticale allungato e la canna del camino che vi si incastra su una delle facce. Elementi figurativi comuni e ricerche più raffinate, come questa della contrapposizione, quella del balcone d’angolo, o l’altra dei vani distribuiti secondo una ricerca quasi neoplastica sulla facciata, in contrasto con l’altra completamente chiusa, si fondono abbastanza bene tra loro proprio per questa nota espressionistica di tutto l’assieme, che trova nella struttura giustificati riscontri funzionali, e nella organizzazione delle piante rispondenza sufficiente a quelle aggettivazioni plastiche che le diverse facciate assumono su di sé.3

La caratterizzazione di Samonà è scritta a flusso di penna continuo, come detta d’un fiato: essenziale; può essere parafrasata per allargare i margini d’intendimento dell’immaginario. Introduco perciò la mia esperienza personale su questa casa. Durante la costruzione, tra il 1949 e il 1951 ho avuto occasione di stare a Codroipo più volte, di vedere il cantiere e la crescita della casa – scambiavo pareri con la mia compagna di studi, di lavoro e di vita (nel 1950 eravamo al secondo anno di Architettura allo IUAV). L’interesse andava al trasfigurarsi progressivo della struttura, per sé corpo straordinario d’esperienza che in ogni sua fase suscita immagini dell’accordo col corpo abitante, ai passi, alle posture possibili, alle vedute sul circostante, all’essere soggetto partecipante e solidale con la cultura del territorio. Abbiamo visto la trasfigurazione delle potenzialità del corpo edile in evento architettonico. Trasfigurazione, perché si vedeva un modo nuovo di consistere di fatti essenziali, tipici dello stare nel territorio e rappresentarsi nella sua immagine, donando novità. Ma, devo dire, in modo tentativo. L’immagine del volume, netto ma non semplice, sembra appartenere al modo tipico delle case isolate, ma anche le schiere di case a corte (complessi d’abitazioni di gruppi contadini, con le barchesse di deposito attrezzi, prodotti e fienili) si presentano come chiari volumi; ciò che è proprietà specifica della casa Ghetti è la “politezza”: non vi sono falde di tetto e canali di gronda sporgenti, la sagoma del volume è netta, segnata da un semplice e minimo profilo metallico. Il volume non è semplice: presenta uno smusso che lo riduce, a far capo dall’asse del fronte verso strada. La ragione è chiara: nasce dalla volontà di configurare un tracciato regolatore delle sistemazioni del giardino che in primis conferisce all’ingresso la marca formale dell’accoglienza piegando la metà del fronte strada sulla sua direzione; e poi introduce, ma tenuamente, un orientamento obliquo nell’immagine d’uso degli spazi interni. Per comprendere tale immagine corporale dello spazio, immagine che l’abitante si fa nella regia dei movimenti: per esempio essenziale, come stare nell’angolo sotto la terrazza e pensare, in linea prettamente mentale, la posizione della cucina nell’angolo opposto. Tutto ciò detto per segnalare che i tracciati regolatori della costruzione possono sottendere la complessità “dell’immaginario abitante”. Samonà attribuisce alla zona dell’ingresso, anzi all’angolo verso strada, un carattere espressionistico (appare chiaro che usa le terminologie che hanno caratterizzato il lungo dibattito del Moderno, ma con un timbro di convenzionalità indifferente). Rileva una precisa convergenza dei temi: la linea d’ombra della lunga piega del volume, il corpo forte di cotto a faccia vista elaborata, la grande e forte terrazza a giro d’angolo in béton brut, tutto ben motivato in stretta coerenza con la logica dell’impianto complessivo. Sanziona così per casa Ghetti un risultato positivo con molte promesse.


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Casa Ghetti a Codroipo (UD), 1951 1. Opera quasi finita, con i primi segni dell’uso. La “politezza” del carattere costruttivo riduce la marca della tradizione a misura essenziale, conservandone l’essenza: appare così interpretata la lezione del “moderno” 2-3. Opera finita e vissuta: appare con chiarezza che la piegatura del fronte d’ingresso è un forte tema compositivo che ordina il volume in ragione dell’abitare tra l’interno e l’esterno. La leggera pensilina d’ingresso, obliqua nei due versi, in salita e di traverso, s’introduce nello spacco verticale del corpo di fabbrica: da un lato esalta il momento pubblico dell’abitare, l’aderenza alla strada, al paesaggio urbano-territoriale; dall’altro preserva l’intimità 4-5. I due disegni rendono schematicamente chiaro il programma architettonico-urbano nella ragione abitativa. Ha spicco l’angolata prominente dal corpo quale luogo privilegiato di stare e presentarsi al mondo


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14-16. Casa Quaglia a Sutrio (UD), 1953-1954. Il tema costruttivista combina e lega in un intreccio le tipicità storiche: costruzione solo a pilastri e carpenteria per il ricovero degli attrezzi agricoli, costruzione compatta per le abitazioni. L’innovazione è qui esaltata dall’incrocio di quattro travi di calcestruzzo di cemento armato, che reggono l’abitazione compatta, e dalla carpenteria tutta aperta del tetto (negli anni Cinquanta non era cogente il problema energetico)


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Case pre-cinquecentesche in calle Lanza, Venezia, 1965-1967 23. Veduta del prospetto restaurato: sono apprezzabili le parti ritessute della muratura – per lo più al pianoterra – il riassetto degli archi e i serramenti rinnovati 24. Schema della crescita del fabbricato: nel XV, XVII e XX secolo 25-26. Prospetti: disegni dello stato di fatto e del progetto. La maggiore intensità cromatica nel disegno di progetto annuncia il programma di sostituire le parti degradate e ritessere con fedeltà la muratura usando mattoni ricavati dalla demolizione del corpo interno

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concorso di diverse discipline e riflessioni teoriche relative ai temi della residenza, lavoro, tempo libero e mobilità: le esperienze e i problemi della costruzione urbana, colta soprattutto nella dimensione sociale, evidenziano i limiti delle soluzioni attuali e propongono l’accentramento e la casa collettiva come alternativi all’isolamento e alla privatezza. Sviluppo e verifica progettuale delle premesse poste l’anno precedente da Samonà, Gardella conduce il corso di composizione architettonica, precisando: «Momento urbanistico (inteso come town design) e momento architettonico – sono forse due momenti progettuali distinti –­ anche se non è ben chiaro ciò che li distingue – ma certamente fanno parte di uno stesso processo compositivo, capace quindi di una sua circolarità aperta nell’ambito didattico come in quello operativo»35. Le unità residenziali approntate dagli allievi sono risolte non come quartieri, ma come parti urbane: la loro complessità si addensa in aggregazioni verticali o orizzontali di grande dimensione, in unità insediative interpretate da sezioni complesse, che integrano la nuova articolazione funzionale nella scala territoriale della compagine urbana, nella dimensione urbanistica dell’architettura. La seconda sperimentazione, condotta nell’a.a. 1970-1971 nel Corso di Composizione architettonica 5 tenuto da Gardella, è dedicata alla progettazione della sede della Regione Veneto a Padova. Pur basato su approfonditi aggiornamenti di queste funzioni condotti da Nani Valle, pur implicando la grande dimensione e l’unità dell’architettura e dell’urbanistica, l’approccio di Gardella si concentra sulla formazione del manufatto architettonico: La sintesi di “sostanzialità” e di “essenzialità”, mentre nega la neutralità dell’oggetto architettonico, lo distingue da un agnostico manufatto edilizio in quanto implica, con la sua poetica, la funzione a cui è destinato e nello stesso tempo la trascende. Ogni oggetto in sé infatti risponde sì a una domanda, ma con una risposta che noi dobbiamo costruire ogni volta e che non possiamo scoprire già pronta e formata al di fuori di noi, con una risposta cioè personale (personale anche se di gruppo, poiché in tal caso è la risposta “personale” del gruppo). E quanto più la risposta è personale (personale anche se corale), tanto meno essa è grettamente individualista, poiché una persona si definisce autenticamente solo in un pieno rapporto gnoseologico con il contesto sociale in cui si colloca. Tanto più essa (s’intende nella misura del suo valore) è utile, tanto più essa è ideologicamente attiva poiché riesce ad avviare quel processo di fruizione dialettica che una risposta stereotipa annullerebbe in partenza.36

La consapevolezza della disciplina In questo contesto si esprime la complessa personalità di Nani Valle come docente di progettazione, così che nel 1963 la commissione giudicatrice, costituita da Gardella, Belgiojoso e Scarpa, per il concorso di assistente ordinario alla cattedra di Elementi di Composizione ne evidenzia «ottime qualità didattiche e notevolissimo impegno [...] ottimo livello di capacità compositiva, che si basa su una solida preparazione culturale e critica»37. Dopo essere stata dal 1959 al 1961 assistente volontario alla cattedra di Composizione e dal 1961 al 1963 assistente incaricato alla medesima cattedra, quindi dal 1963 al 1971 assistente ordinario alla cattedra di Elementi di composizione e dal 1971 di Composizione architettonica V tenute da Ignazio Gardella, Nani Valle conse-


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gue nel 1972 la libera docenza in Elementi di composizione. è professore incaricato dal 1971, e dal 1973 al 1981 professore stabilizzato in Composizione architettonica quando, dopo avere nel 1979 concorso a professore universitario di ruolo in Composizione architettonica, ne viene nominata ordinario nel 1981. A testimoniare la costante attenzione che Nani Valle palesa durante tutta la sua docenza verso gli aspetti costruttivi è l’incarico che assume, nei primi due anni dopo la libera docenza, del corso di Unificazione edilizia e prefabbricazione, in cui affronta temi tecnologici innovativi quali i componenti modulari prefabbricati. Quest’attenzione resterà un dato centrale nel suo insegnamento, in cui si propone sì come continuatrice della lezione di Ignazio Gardella, portatrice così di una didattica pragmatica, civile e culturale, ed al contempo come interlocutrice di una scuola che in quegli anni va mutando verso nuovi contenuti e nuove relazioni disciplinari. L’architettura – scrive – è un’operazione culturale a livello generale superiore. A livello universitario ciò che interessa non è la soluzione di problemi locali particolari, bensì l’esame, al più alto livello possibile e al più alto livello metodologico possibile, del problema inteso come generalizzabile. [...] Assunto che, da qualsiasi dato si parta e con qualsiasi intenzionalità o scelta, l’oggetto progettato come tale è la sede di un sistema spazio-funzionale posto in essere dal progetto stesso, un’analisi riferita all’insieme sistematico così posto in essere costituisce terreno sufficiente e valido per il corso stesso. [...] Affermare che l’esame dell’insieme sistematico ipotizzato dal progetto costituisce un obiettivo sufficiente e valido per il corso significa anche riconoscere all’architettura uno spazio culturale proprio e una specifica ragione d’essere. Naturalmente per Architettura qui s’intende una coscienza storica di ciò che il livello architettonico significa e non tanto una qualsiasi fantasiosa definizione astorica dell’architettura. [...] Noi non possiamo difatti assolutamente ignorare che solo se un progetto, oltre a risolvere i problemi specifici che hanno costituito il tema della progettazione stessa, trascende i dati fino a giustificare non solo la ragione causale implicita nei dati stessi, ma altresì l’esistenza dell’oggetto-edificio che li risolve, noi avremo elevato la nostra azione a quel punto che va oltre la sua strumentalità meccanica. In altre parole, penso che oggi la sola idea che possa ancora rendere lecito un discorso sull’architettura rispetto a qualsiasi altro discorso sul prodotto industriale o sull’edilizia corrente sta ancora nella capacità dell’architettura di farsi fruire con indifferenza, vale a dire di risolvere la presenza del “bisogno” senza che l’oggetto che assolve il bisogno stesso rimanga ingombrante sulla scena ponendo il problema, per altri versi più angoscioso, della sua presenza oggettuale. Questa può apparire una definizione negativa dell’architettura, ma è invece una constatazione empirica sulle fastidiose caratteristiche della non-architettura, la quale è appunto quella che produce oggetti-edifici.38

Attenta all’individualità del processo formativo dell’oggetto architettonico nella sua strutturazione formale e tecnica, Nani Valle propone agli studenti l’opera dei Maestri, Frank L. Wright e Le Corbusier, ma soprattutto dei contemporanei: la torre a tetraedri di Kahn, le composizioni iterative di Van Eyck, l’Habitat ’67 di Moshe Safdie, Marina City di Goldberg, Roche a New Haven e New York, Johnson a Houston, Pei a Washington e il piano di Tokyo di Tange... L’oggetto architettonico – scrive –­ non viene solo esaminato in rapporto al suo particolare contesto fisico, in funzione della sua possibilità di essere fruito per il suo specifico modo d’uso e in relazione alle sue specifiche componenti tecnologiche, ma ogni volta ne vengono verificate il grado d’indifferenza rispetto al sito, il grado di deformabilità rispetto al cambiamento d’uso, il grado di adeguamento o meno rispetto ad altre componenti.39


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Il progetto è dunque uno specifico processo di sintesi tra tecniche della composizione e tecniche della costruzione, ancorato a una metodologia, la cui validità consiste nella «verifica dell’efficacia del progetto stesso a risolvere all’interno della sua concreta presenza i bisogni che pretende di iscrivere nel progetto stesso»40. Tuttavia ascrive all’arretratezza strutturale italiana l’impossibilità che l’orizzonte funzionale della progettazione nasca dall’indagine dei bisogni, poiché solo «dallo studio dell’architettura come tale e dallo studio del suo tessuto semantico può nascere un’amplificazione sperimentale della progettazione, cioè un corso impostato come metodologia della progettazione al suo più alto livello teoretico»41. Molti sono i rivoli che alimentano una didattica che misurandosi con la realtà, come l’impegnativa professione che essa conduce, ne coglie e ne riporta la complessità: tra i temi di riflessione didattica ne annota alcuni tra quelli programmatici della «Casabella» rogersiana, quasi echi degli editoriali del direttore –­ tradizione e architettura moderna, tradizione e attualità, responsabilità verso la tradizione, problema del costruire nelle preesistenze ambientali, utilità e bellezza, metodologia della progettazione architettonica... – che s’intrecciano, nella ricerca di una propria sintesi, con argomenti del Gruppo Architettura: il piano come contenuto preminente del progetto di architettura, indispensabilità del progetto come qualità del piano... Esterna al Gruppo Architettura, ne segue e ne condivide il ruolo fondativo dell’analisi urbana e degli strumenti di piano, delle relazioni tra tipo edilizio e morfologia insediativa, tra progetto e contesto, come riportano i suoi appunti – probabili tracce o brani di lezioni – che assumono da Carlo Aymonino e dal più generale contesto del Gruppo anche la ricerca di nuovi outils quali prototipi per le contemporanee architetture civili. Se il contesto di molti corsi e di molte tesi di laurea è la città veneta e i suoi centri principali e minori, le riflessioni sulla struttura urbana attingono alle capitali del XIX secolo, in particolare Parigi, agli illuministi e agli utopisti dell’Ottocento: Comprendiamo benissimo come questi modelli utopistici siano la punta trascinante persino nei discorsi tecnologici. Comprendiamo come Le Corbusier abbia potuto parafrasare i modelli di Fourier e come nella carica utopistica ottocentesca sia contenuta, come sempre l’ideale contiene, la tecnica e la capacità di immaginare concretamente strutture che in quanto strutture tecniche sono polivalenti, ambigue, usabili anche al di là del messaggio da cui sono partite.42

Partecipe delle molte trasformazioni che le città venete vivono e che indaga attraverso analisi tanto sociologiche quanto tipo-morfologiche, propone come temi d’intervento problemi reali in contesti problematici, come Venezia, Murano, Portogruaro... dove sono ridisegnati brani della morfologia insediativa e delle attività produttive. Già nel corso tenuto nel 1974-1975 indaga le trasformazioni delle aree urbane centrali del XX secolo, proponendo luoghi, soprattutto veneti, per i progetti in cui convergono gli strumenti operativi del restauro, della ristrutturazione e della sostituzione: «Il risanamento – scrive – ha senso solo se conduce al recupero di una funzione strutturale urbanisticamente integrata, che rafforzi la validità dell’episodio storico nel suo contesto attuale»43. Focalizza l’attenzione sul progetto degli insediamenti residenziali, soprattutto pubblici, come occasione di trasformazione, affrontando anche a livello di strumenti operativi urbanistici tanto la scala tipologico-edilizia, quanto quella morfologicoinsediativa:


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20. Diego Birelli, Manifesto della mostra “Primi contributi sui problemi di Venezia, Murano e Chioggia”, allestita da Nani Valle (Venezia, Magazzini del Sale, maggio-giugno 1976). La mostra presenta la ricerca condotta dallo IUAV

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21. Nani Valle Bellavitis, Gianugo Polesello, Thomas Mankowsky, Seminario a Cracovia, anni Ottanta (Archivio Francesco Polesello Udine) 22. Giuseppe Samonà, Egle Renata Trincanato, Paolo Torsello, Nani Valle, Oswald Zoegler alla mostra “Primi contributi sui problemi di Venezia, Murano e Chioggia” (Venezia, Magazzini del Sale, maggio-giugno 1975)

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Intesa come elemento determinante della struttura urbana, l’architettura risulta più importante per i rapporti che stabilisce tra un edificio e gli altri edifici, tra l’edificio e la strada, tra l’edificio e la cultura del gruppo sociale residente, piuttosto che le qualità formali dell’edificio inteso come “oggetto architettonico” avulso dal contesto. In prima approssimazione, pertanto, e con riferimento alle tematiche del corso, possiamo dire che l’architettura è intesa come un processo di individuazione e di formalizzazione dei rapporti che ogni nuovo intervento viene a stabilire entro un insieme urbano.44

Il metodo sistematico del suo approccio progettuale si palesa nei programmi dei corsi, nelle ampie bibliografie per questi elaborate, nel processo didattico, così come nelle parallele attività di ricerca che in ambito universitario conduce e che s’intrecciano con importanti prove progettuali professionali. Entro la costante elaborazione tipologico-funzionale indirizzata alle nuove strutturazioni degli edifici pubblici, per il CNR appronta indagini e proposte sugli organismi ospedalieri, indagando aspetti quantitativi, dimensionali, distributivi, modi di flessibilità e di accrescimento, aspetti delle tecniche costruttive, relazioni territoriali, offrendo «contributi per una progettazione di organismi ospedalieri riferiti alla situazione nazionale»45. Relatrice di molte tesi di laurea46, esse rivelano il forte impegno didattico attraverso la varietà dei luoghi e dei temi affrontati, con evidenza scelti dal singolo laureando, spaziando dal progetto di nuove architetture al restauro di comparti della città storica, di edifici e di complessi antichi, in generale trasformati in nuove destinazioni culturali entro un più vasto disegno di riqualificazione dei centri urbani del Triveneto. Alcune tesi, mirate ad affrontare problematiche urgenti per la città quali il futuro residenziale e universitario di Venezia, sono presentate come contributi al dibattito cittadino in occasione di mostre organizzate dallo IUAV in partnership con La Biennale e con il Comune. L’intervento nel e sul costruito è il tema delle tesi di laurea, molte delle quali di restauro, che sovente vedono la presenza di Gianfranco Geron, professore di Tecnologia, al fine di rafforzare l’esperienza della costruibilità dell’opera. Segno di una dialettica culturale vivamente interpretata da Nani Valle sono le non poche tesi che la vedono relatrice con docenti di diversi ambiti disciplinari: Franco Basaglia, Massimo Cacciari, Luciano Semerani... Valle conserva poche – ma evidentemente significative – tesi di laurea, che segnalano ambiti disciplinari verso i quali rivolge la propria attenzione, imprimendovi il segno del più vasto impegno culturale per la valorizzazione del territorio e del patrimonio architettonico e culturale attraverso strategie convergenti di conservazione e di progettazione. Una di queste tesi, condotta nel Corso di laurea in Architettura con Costantino Dardi, propone un parco archeologico ad Aquileia dove, filtrate dall’elaborazione dei laureandi, il razionalismo misurato della friulana s’incontra con la “ragione esaltata” del friulano47. Un’altra, sviluppata nel Dipartimento di Scienza e tecnica del restauro, struttura un’accurata schedatura delle colonie marine realizzate in Romagna tra le due guerre, indagate con gli strumenti dell’analisi storica e formale: l’espressione della loro qualità architettonica ne fissa il ruolo essenziale nel disegno paesaggistico e strategico delle future trasformazioni, attraverso il concorso disciplinare dell’indagine storica e del progetto urbanistico, architettonico e conservativo48. Professionista riconosciuta per l’ampiezza delle competenze che abbracciano – così come i migliori esponenti della generazione di cui è figlia e di quella di cui è interprete – il design industriale nel contatto con la realtà produttiva veneziana,


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Contarini in Fondamenta delle Terese a Dorsoduro, di proprietà comunale. Semplice e limpida, già allora, la breve descrizione storica e illustrativa del progetto; per quanto riguarda la facciata verso il rio, scrive: «Si tratta più che altro di un felice accostamento di pezzi, probabilmente usati, finestre e trifore di un buon gotico fiorito contornanti i fori, messi senza alcun ordine prestabilito né misura. Si tratta di una superficie che ha acquistato col tempo un suo particolare tono pittoresco». Accertato il “valore dell’antico” (Riegl), il progetto si rivolge principalmente alla distribuzione interna, che con pochi e netti segni gialli e rossi indica la via breve di una “fresca” razionalizzazione dell’ambito planimetrico, sui due piani, che ne conferma e chiarisce la destinazione («Che tale fosse l’uso cui era destinato può dimostrarlo anche la configurazione planimetrica dell’edificio pure come si presenta ora: forma allungata, non proporzionata ad una cellula abitativa unifamiliare, ma di più ad una comunità o insieme di persone»). Quella freschezza – e secchezza – del tratto che pare anche matrice della soluzione architettonica dell’ingresso al piano terra, a cavallo del muro di facciata ridotto ad una porzione centrale, ove progetta un ambito racchiuso tra una vetrata trasversale continua, all’interno, ed una estroflessione, sempre vetrata, verso l’esterno: Per un restauro odierno dell’edificio, deciso l’uso a cui deve essere adibito, non resta altro che curare la funzionalità e distribuzione interna e, restando inalterata la parte del primo e secondo piano della facciata verso Fondamenta delle Terese; risolvere in qualche modo le aperture del piano terreno, dando ad esso una fisionomia che pur essendo del tutto contemporanea, non rompa l’equilibrio della parte superiore dell’edificio. [...] La chiusura del piano terreno verso il cortile è data da una doppia vetrata che chiude uno spazio adibito ad atrio e serra. Al centro si è conservata una parte del muro di mattoni originario.

Certamente non sarebbe, oggi, un progetto del tutto corrispondente alla norma ed alla cultura del restauro; ne va tuttavia evidenziata la nobile semplicità e la convincente traduzione di un’idea di continuità tra antico e nuovo che, per essere affermata, non ha bisogno evidentemente di ricorrere, o rincorrere, alcun virtuosismo formale: e così «Il cortile rimane chiuso dal muro alto» – l’ultimo verso della breve relazione, quasi un riverbero lirico tra Pavese e Montale. Ma è interessante anche cogliere la continuità di avvicinamento e di risoluzione del progetto di restauro, tra il precoce esercizio universitario appena descritto ed alcuni dei successivi veri impegni professionali dei primi anni Sessanta: nel progetto di conservazione, ammodernamento e “restauro di tipo formale” di villa Papafava Ronchi a Manzano, Udine (1962-1964), nella sistemazione dell’appartamento Mazzorin in Fondamenta Procuratie a Venezia (ove però prevale il tema degli interni, progettati fin nel dettaglio, con sorprendenti schizzi prospettici “esecutivi”, di significativa chiarezza) e, soprattutto, nei due restauri dei castelli di Prampero e di Colloredo, nel Friuli. Nel secondo, in particolare, ove i forti caratteri tipologici non avrebbero consentito metamorfiche intrusioni distributive, Valle inserisce elementi di suddivisione e riconfigurazione degli spazi ancor più alieni di quelli che aveva prefigurato per l’Ospizio Contarini: setti divisori esili dalle linee curve o spezzate, che definiscono con chiarezza e rigore, forse eccessivamente espressi e connotati, il ruolo della nuova architettura come “ospite” nell’antica. Un intervento che esce da schemi monoculturali è indubbiamente quello degli ex magazzini del grano alla Giudecca (o ex cantieri, dall’ultima destinazione d’uso). Sono gli anni di una sperimentazione, sull’isola, che inizia nel 1975 e continua


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ancora, per un trentennio: Alvaro Siza vinceva il concorso per il Campo di Marte – la vasta area libera proprio dietro gli ex magazzini del grano – con Aldo Rossi, Carlo Aymonino e Rafael Moneo come co-progettisti per la fase esecutiva – mentre, nel frattempo, Gino Valle realizzava i suoi enigmatici 94 alloggi dietro lo Stucky, Vittorio Gregotti redigeva il progetto per la sede dei cantieri ACTV e Giuseppe Gambirasio portava a termine la ristrutturazione della fabbrica Dreher. Difficile cogliere la valenza prevalente dell’intervento di Nani Valle e Giorgio Bellavitis, altrettanto arduo sciogliere l’identità del progettista a favore dell’una o dell’altro ai quali, congiuntamente, venne affidato l’incarico dall’amministrazione comunale di Venezia, nel 1984. Quel luogo, perché di luogo (urbano?) si tratta, contiene oggi – letteralmente – funzioni diverse strettamente legate, volumi e figure variegate, presenze di abitanti e di persone in transito, voci e colori, sole, vento e nebbia. Quella grande massa quadrilatera che tanto pesa nel profilo tipologico della Giudecca, quasi quanto lo Stucky e il Redentore, aveva assunto, per la verità, la sua stereotipata e netta conformazione “vagamente anseatica” soltanto negli anni Sessanta dell’Ottocento, ed era il risultato di una successione di interventi di accorpamento di mappali edificati e liberi, di corpi di fabbrica disomogenei per estensione, per altezze, per destinazione d’uso (magazzini, casette, una stretta calle o, meglio, un angusto passaggio intercluso, che dalla fondamenta usciva negli orti retrostanti). Il progetto è definito, fin dall’inizio, di “recupero”, non di restauro. Si trattava di rispondere innanzitutto all’esigenza di alloggi popolari (circa ottanta appartamenti di varie dimensioni) possibilmente integrati con esercizi commerciali e spazi artigianali. Le premesse analitiche, le aspettative del progetto e, appunto, il risultato finale (il quale, peraltro, è significativamente anticipato in alcune prospettive delle corti interne, “ritoccate a mano”) non tradiscono gli scopi: quello sociale, innanzitutto, e quello del recupero, appunto, di un complesso edilizio difficile da destinare ad abitazioni, considerate le tre abnormi dimensioni della massa edificata. Ma è proprio la scrupolosa analisi storica delle fasi di formazione, dal Settecento in poi, a venire in soccorso dei progettisti, a rivelarsi cioè concretamente “operativa”: non nei termini algidi ed anacronistici del ripristino filologico, ma in quelli di una partecipata progettazione architettonica. La quale assume i temi dell’attraversamento longitudinale (la calle soppressa) e della compresenza di funzioni (anch’esse perdute) per l’esplicitazione di esiti diretti (gli interni privati) ed indiretti (gli esterni comuni e pubblici). Se gli alloggi necessitavano di affacci, la calle e la corte a loro volta avevano bisogno di alte pareti per essere definite come tali. Viene così incisa, quasi in mezzeria, in corrispondenza di una “campata” minore, la grande massa compatta, lasciando però integri i quattro lati del perimetro esterno: seppur quelli di facciata, sul canale, e quello posteriore, vengano penetrati da sottoportici pilastrati che introducono alla corte-calle principale ed alla sua diramazione ortogonale. Il risultato – reale e di atmosfera – è, soprattutto d’estate, la manifestazione di un luogo dai caratteri “levantini” (nell’accezione lessicale quattrocentesca di Marin Sanudo); il che – se così fosse – rivelerebbe una “debolezza” dell’intenzionalità progettuale di Valle e di Bellavitis che vi prefigurava invece, per assonanze tipologiche, la metafora, se non la citazione, di luoghi “classici” della città storica che sta sull’altra sponda del canale. Si evocavano, in relazione – forse per dovere culturale o per consuetudine metodologica – la fondamenta del Vin a Rialto, la calle del Paradiso, la calle Gaspare Gozzi ai Frari: valenze di luoghi urbani che non po-


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tevano trasferirsi da Venezia alla Giudecca, ma che in quegli anni costituivano risposte indirette ad istanze ambientaliste e ad uno storicismo conformista, utili a giustificare a priori anche una imponente iniziativa “immobiliare” come quella. Ad avvalorare la quale venivano addotte dagli autori ulteriori motivazioni e valenze progettuali: L’operazione – scrivevano – ha tutti i caratteri ed i rischi del bricolage, ma essa pare motivata culturalmente per il suggestivo filo di memoria che lega le arcate bizantine alle casefondaco ed a Rialto; con le sue corti accessibili da sottoportico [...]. La finestra termale, tanto cara all’architettura palladiana, corona anche le sequenze di finestre ripartite in tre campate dai pilastri del sottoportico verso il Canale; con voluto riferimento agli ambigui stilemi del post-moderno.

Ma fortunatamente, verrebbe da dire, il significato finale era in parte uscito fuori dagli ambiti tematici descritti, a parole, dai due progettisti; come spesso succede nelle opere meglio riuscite. È in una relazione presentata al primo Corso di perfezionamento in Restauro architettonico organizzato allo IUAV, nell’ottobre 1983, da Romeo Ballardini direttore del Dipartimento di Scienza e tecnica del restauro, che Fernanda Nani Valle (che a quel dipartimento, all’atto della sua costituzione, due anni prima, significativamente aveva aderito, lasciando quello di progettazione) esprime con formidabile intensità una densissima sintesi del proprio pensiero “restaurativo”. Il tema assegnatole – che risultava ristretto ad un marginale aspetto di pratiche metodologiche – viene dichiaratamente allargato fin dall’incipit, con la consueta lapidarietà: «Per quanto dirò poi, il titolo, come tale, risulta incompleto». È l’occasione, quella, anche per esporre criticamente tre dei suoi ultimi lavori: l’intervento su un palazzetto gotico lungo rio di San Barnaba, che con franchezza e freschezza lessicale è definito “recupero figurativo e funzionale”; il progetto per il museo di palazzo Fortuny e il restauro, allora in corso, a palazzo Badoer. «[...]l’obiettivo primo [a San Barnaba] è stato quello del recupero dell’immagine architettonica nella sua integrità ancora disponibile [...] considerando piuttosto la disponibilità spaziale dell’edificio che l’accettazione pura e semplice di tutti gli spazi e tutte le manomissioni realizzatisi nel tempo» da perseguire con i mezzi propri di una prassi progettuale rispondente ai principi del “restauro critico”; ai «lavori di assaggio, preliminari al rilievo [...] accompagnati alla ricerca di documenti di archivio» conseguono le valutazioni – critiche, appunto, – che determinano una serie di scelte consequenziali che svolgono il tema, dall’interno verso l’esterno: [...] riqualificare e riutilizzare le facciate dell’antica “corte Tron” e mettere in luce la loro continuità con la facciata sulla fondamenta, riscrivendo il muro [...] con un intervento di diradazione verticale e caratterizzandolo come una recinzione come fosse un giardino [mentre] la riapertura del portico dilata la dimensione del cortile in sequenze di spazi aperti-scoperti e aperti-coperti che arricchiscono e qualificano il piano terra.

Nel palazzo Fortuny, invece – per quanto si evince dall’estesa relazione e dalle tavole grafiche ivi riprodotte – l’indirizzo progettuale (seppure implicitamente “critico” nei suoi presupposti teorici) appare come l’esito di una ripetuta dialettica tra istanze conservative e ripristinative che partono, estendendosi all’insieme, da un nodo architettonico centrale individuato nella scala esterna entro il cortile. Semplificando, le possibilità di intervento risultano drasticamente contrapposte (dalla rimozione, alla riprogettazione, al ripristino filologico); lo stesso travaglio interpretativo coinvolge riaperture e chiusure di finestre, portici e arcate, fino alle problematiche più periferiche,


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come gli intonaci, nei quali s’intersecano questioni tecnologiche con considerazioni figurative. Infatti «Il rischio è di sostituire alla città reale un suo analogo, dal punto di vista formale, che conserva sì facciate ed elementi decorativi, ma si ripropone con rapporti e vibrazioni di luce e di colore diversi»; e la scelta «di segno opposto riguarda invece sentimenti di sedimentazione di immagine o, per dirla alla Ruskin, “del rispetto del tempo che passa” e quindi dell’accettazione del monumento così come ci è pervenuto». E così diviene inevitabile l’artificiosa mediazione che si condensa in una contraddittoria sintesi ove, ai valori della cosiddetta “reintegrazione dell’immagine” (dal titolo di un fortunato libro di Giovanni Carbonara) si correlano – nonostante le premesse di un restauro “critico” – le finalità storicistiche del ripristino tipologico «da effettuare sempre ove ci siano resti sufficienti e documentati per riportare un edificio alle sue condizioni originarie». Ma è nell’introduzione al tema della relazione al Corso di perfezionamento che, come detto, viene espressa una strutturata sintesi teorico-metodologica, che traduce in linguaggio la meditazione e la sperimentazione progettuale di Valle sulle questioni del restauro, intorno alle quali s’interroga ormai da un quarantennio. Vi viene espressa e riaffermata – con significativa originalità – la componente etica di un operare professionale che, secondo Valle, deve costituire la peculiarità dell’architetto “restauratore”: Non ritengo possibile – scrive – fermare l’edificio registrando, conservando, tutti gli interventi succedutisi fino a una certa data, praticamente quella relativa al momento in cui viene richiesta un’azione di intervento, ma ritengo sia invece necessario e corretto operare scelte con tutta la responsabilità relativa del progettista [per] una conservazione, con invenzione, per la trasformazione, o meglio la ricerca della ricomposizione architettonica [...] e quindi scegliere, o meglio decidere, i limiti o i confini entro i quali produrre nuove qualità architettoniche e spaziali, prefigurando e traducendo situazioni viste in termini di conoscenza [...].

Molto bella risulta anche la prolungata riflessione sulla “caratteristica puntuale del disegno”, in particolare sulle differenze tra quello “per il restauro” e quello per la progettazione del nuovo: Questa differenza è rappresentata dalla linea disegnata. Infatti, a mio parere, la linea di un nuovo intervento progettuale è l’idea di un limite che viene posto a una materia e quindi la rappresentazione, qualsiasi sia la tecnica, registra la scelta personale del progettista rispetto al limite [...]. Nel caso di un disegno per un intervento sul già costruito, la linea, anche se sembra una osservazione banale, registra un limite già esistente [...].

Ed il restauro («il termine è ancora ambiguo», scrive più oltre) deve confermare la “perseverante continuità” di un organismo architettonico o urbano, quello di Venezia in particolare «rinnovando però sempre l’esistente in un quadro di mantenimento della memoria [...] con una azione umana incessante caratterizzata da un disegno continuo o meglio di riscrizione continua». Risale con ogni probabilità a quegli anni il corposo dattiloscritto – forse il testo per una conferenza, peraltro non datato né firmato, ma attribuibile e databile per via indiretta – ove, inaspettatamente, Valle si cimenta nella redazione di una breve “storia del restauro”, sviluppata per episodi emergenti, come prolusione ad una riflessione finale sul rapporto tra la progettazione e l’edilizia storica urbana: «A questo punto – scrive – vediamo tecnicamente come si interviene nei centri storici per la loro conservazione, cioè per la conservazione e riuso di un patrimonio esistente». Ciò che più ca-


nullo pirazzoli

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Palazzo Badoer, salone (ora aula Tafuri) 1. Disegni e dettagli 2. Sezione trasversale


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Palazzo Badoer 3. Scala tra il primo e il secondo piano 4. Salone 5. Antico cimitero di San Giovanni Evangelista (sotto il salone)

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6-7. Casa in campo San Vidal, fianco su calle di Ca’ Giustinian, prima e dopo l’intervento di restauro

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Casa in campo San Vidal 8. Vista del fianco (parte superiore, dalla riva del Canal Grande) 9. Fronte principale

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«io sono un muratore»: nani valle e le case d’abitazione Silvia Moretti

«Io sono un muratore» soleva dire Nani Valle ai suoi studenti all’università, quasi a sottolineare la sua distanza da quella che è l’ambizione propria di ogni architetto di lasciare un “segno” sul tessuto urbano e dalle facili teorizzazioni sull’architettura e, in un secondo tempo, sul restauro. Mai affermazione fu più lontana dal vero, anche se rispondeva alla necessità di affrontare con umiltà, rigore e attenzione il singolo intervento con la sua storia, che si trattasse di un progetto nuovo o della ristrutturazione di un edificio antico. Che tutta l’attività professionale di Nani Valle sia stata progettazione lo dimostra anche la serie di progetti per abitazioni raccolta nel 1969 come documentazione, in occasione dell’esame di abilitazione alla libera docenza in Elementi di composizione1. A quest’epoca Nani aveva già una storia professionale e didattica di tutto rispetto: aiuto nello studio familiare dal 1946, l’anno successivo al suo ingresso allo IUAV segue il padre e il fratello nei cantieri e contribuisce alla stesura di progetti e realizzazioni. Dopo la laurea ottenuta nel 1951 inizia la piena collaborazione con il padre Provino e il fratello Gino. Da quel momento la sua attività professionale non conosce sosta né limiti tematici: passa, sempre ai più alti livelli, dal design (Compasso d’Oro per l’orologio elettrico Cifra 5 della ditta Solari, 1956) all’urbanistica (Relazione sul significato della parola e della disciplina al Circolo di cultura di Udine, 1956; stesura del PRG dei comuni di Sutrio e di Treppo Carnico, 1967; collaborazione alla variante del PRG di Venezia con la proposta della creazione di un nuovo canale, 1960), dal restauro filologico (intervento sull’edilizia minore, calle Lanza, Venezia 1965-1968) alla composizione con elementi prefabbricati (casa Basaglia, 1964, con Giorgio Bellavitis), dalla realizzazione di case singole (casa Ghetti2, 1951; casa unifamiliare a San Giorgio di Nogaro, 1952, con Gino Valle; casa Quaglia e casa Migotto, 1953-1954, con Provino e Gino Valle) e di condomini (a Udine con Gino Valle, 1956; edificio per abitazioni ed uffici, Trieste, 1955-1957, con Provino e Gino Valle), di banche (Cassa di Risparmio di Udine, di Latisana e progetto per quella di Gorizia, con Provino e Gino Valle, tra il 1953 e il 1956) sia privati che pubblici (municipio di Treppo Carnico, 1956-1958, con Gino Valle) a quella di alloggi popolari (48 abitazioni INA-Casa a Udine, 1957-1959)3, dalla progettazione di mobili (2° premio per il Concorso Nazionale del mobile, 1959) a quella di oggetti in plastica (3° premio per il Concorso Internazionale del Plastirivmel a Torino, 1959). Dal 1961 in avanti inizia l’attività di restauro, quindi di confronto con palazzi storici e vincolati, dalle sistemazioni dei castelli di Prampero e Colloredo di Montalbano in Friuli al restauro di edifici veneziani come palazzo Pesaro-Fortuny,


silvia moretti

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Badoer, Zorzi, ma anche episodi di edilizia minore. Senza contare la didattica e l’organizzazione dei primi corsi estivi del CIAM – il primo risale al 1952– tramite i quali entra in contatto diretto con i “padri fondatori” dell’architettura contemporanea4. Pur essendosi occupata di progettazione a tutte le scale, Nani, prima con lo studio Valle5, poi con l’amatissimo Giorgio Bellavitis, si concentra in particolare sui temi della scuola, degli organismi ospedalieri6 e residenziali, dell’urbanistica e del restauro. Il fratello Gino, nel 1951, le scrive dagli Stati Uniti – dove studia per un periodo – che ormai (appena laureata) è “un grande capo”7, una definizione che si conferma negli anni a venire, sia nella professione che all’università e nel campo della ricerca socio-architettonica. Un traguardo importante per una donna giovane e colta in una professione nella quale le donne protagoniste erano rare, al massimo raggiungevano ruoli da comprimarie. Eppure il suo pensiero era forte e chiaro, sin da studentessa, ed emergeva come una nota di concretezza, di saggezza, ma anche di grande entusiasmo, come si arguisce dal suo Diario, di recente ritrovamento8. Si tratta di un documento eccezionale: durante gli studi universitari Nani annota impressioni, giudizi, riflessioni e fa trapelare sia il lato concreto sia l’aspetto ironico del suo carattere, dando al lettore la possibilità di vivere assieme a lei il fervore intellettuale degli anni Cinquanta in città, anni in cui si discuteva e si programmava lo sviluppo urbanistico e sociale di Venezia9. Si pensi al dibattito attorno alla scelta di come strutturare il nuovo quartiere per operai e impiegati delle industrie a Marghera, alle discussioni politiche che in questo periodo erano molto accese e vertevano su ogni aspetto della vita e del modo di pensare all’architettura come soluzione di tutte le storture economiche e sociali. Entrambi questi aspetti emergono allo stesso modo anche quando, poco più di vent’anni dopo, allo Studio Bellavitis-Valle viene affidato il Piano particolareggiato di risanamento e sistemazione urbanistica del comprensorio dell’Ospedale psichiatrico di Trieste, sul quale si apre una vera e propria discussione accanto a Giorgio, a Franca Ongaro e Franco Basaglia10. In quel periodo storico di grande impegno sociale e politico, gli anni Settanta, l’intera discussione avrebbe dovuto essere pubblicata su «Casabella» in quegli anni diretta da Tomàs Maldonado11, intellettuale di spicco nell'ambiente politico dell’epoca. Il filone di riflessione registrato nel Diario permeava anche la didattica; come insegnante di Composizione architettonica molti anni dopo12, ribadiva quanto fosse prioritario far ragionare gli studenti sulla metodologia della progettazione: perché un edificio è fatto in un determinato modo, attraverso quale progetto è possibile giungere alla trasformazione desiderata e quali motivazioni spingano alla scelta di un’operazione piuttosto di un’altra. Il tutto nel rispetto del contesto e delle preesistenze, con la piena conoscenza dei materiali e del linguaggio più consoni da utilizzare. Un esercizio di “ascolto” dell’edificio di partenza per giungere ad una modifica rispettosa dell’antico ma nuova allo stesso tempo. Scaturisce da questa considerazione e da questo atteggiamento, rigoroso e mai soggetto a derive modaiole anche se costantemente nutrito dalla conoscenza dei Moderni, l’interesse verso un sapere costruttivo aderente al territorio, alle singole situazioni, mai superficiale – come sostiene Rykwert: «In its variety, again, the detail witnesses to the adaptability of their [Studio Valle] approach and rejection of cliché»13. Di conseguenza le idee sempre nuove presentate dall’architettura internazionale, e soprattutto americana, vengono assimilate e digerite e vanno ad aggiungersi


«io sono un muratore»: nani valle e le case d’abitazione

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al proprio bagaglio di conoscenze, costituendo uno spunto per trovare soluzioni o risolvere aspetti particolarmente problematici. 1.

Casa Mainardis

È il caso anche del restauro di casa Mainardis a San Vito al Tagliamento (Pordenone, 1967), dove all’estremo rigore conservativo sul fronte esterno e pubblico si contrappone la massima libertà inventiva sulla facciata privata, rivolta al giardino. L’edificio, settecentesco, è prospiciente la piazza principale del piccolo centro friulano e si affianca ad un precedente intervento (1937) di Provino Valle per lo stesso committente. Provino aveva unito dei preesistenti lotti gotici per ottenere la citazione di un palazzo veneziano con tanto di struttura a portego al piano nobile (nonostante manchi la relativa profondità per essere tale). Nani si comporta con altrettanta disinvoltura, ma si concentra esclusivamente sulla porzione posteriore del complesso edificato. Un’occhiata dal giardino consente di affermare che lo scopo dell’operazione è stato duplice: da un lato dichiarare la propria acquisita indipendenza dallo Studio paterno, dall’altro riequilibrare l’insieme dei prospetti retrostanti che appariva abbastanza frammentario, creando un nucleo focale avanzato con il suo progetto. Forse oggi non sarebbe un’operazione del tutto corrispondente alla norma e alla cultura del restauro, ma ha una sua motivazione – e si pensi allo scalone del secondo piano di palazzo Badoer a Venezia (1979) che, pur essendo stato spezzato per ricavarvi uno spazio di servizio, non ha creato alcuna dissonanza palese14. Qui, di fronte a edifici non vincolati ma con le caratteristiche proprie di un’edilizia storica minuta e coerente con il contesto, Nani Valle mantiene intatta, poco disegnata, la facciata sulla piazza e contemporaneamente trasforma il palazzo all’interno e sul retro in un’abitazione borghese. Tiene conto della pianta poco profonda e del fatto che l’abitazione vera e propria si sviluppa a partire dal primo piano, dato che al pianterreno sono previsti due garage. Si riserva la totale libertà di ricostruire e ingrandire la porzione sul retro, facendola avanzare verso il giardino attraverso un esercizio compositivo di grande impatto. Il progetto realizzato ha comportato una variazione dei piani interni, collegati tra loro sia dalla scala di servizio che dalle rampe tra soggiorno e pranzo, pranzo e ballatoio-biblioteca, ballatoio e zona camere. La scala assume un’importanza centrale proprio in virtù del suo ruolo di cerniera tra le due porzioni di abitazione. Come spiegare queste scelte? La necessità di ricavare una doppia altezza è nata probabilmente dal bisogno di dare respiro all’edificio e certamente l’idea di spezzare la divisione tradizionale dei piani, corrispondente alla facciata su piazza, è legata alla volontà di creare una nuova struttura, più moderna e confortevole, nella zona interna, che non sarebbe stata comunque visibile dall’esterno. Naturalmente fa ricorso ai salti di quota tra gli ambienti della casa, che sin da Loos erano stati utilizzati per movimentare ruoli e funzioni delle diverse stanze. Il disassamento è chiaramente visibile nel bel plastico ligneo che accompagna i disegni e le vedute della casa. Lo spazio che comprende il soggiorno, il pranzo e la biblioteca risulta quindi a tre livelli e l’illuminazione è ottenuta sia dalle finestre sulla piazza che dalle ampie vetrate che si aprono verso il retro. La facciata verso il giardino e le terrazze è completamente ricostruita in cemento armato a vista, così come la zona più arretrata della lavanderia, cucina e guardaroba:


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«io sono un muratore»: nani valle e le case d’abitazione

Case Mainardis, San Vito al Tagliamento 1-2. Provino Valle (destra, 1937) e Nani Valle (sinistra, 1967), prospetti sulla piazza e sul giardino. 3. Nani Valle (Studio Bellavitis-Valle, 1967), disegno del prospetto verso il giardino 4. Nani Valle (Studio Bellavitis-Valle, 1967), foto dal giardino 5. Nani Valle (Studio Bellavitis-Valle, 1967), plastico 6. Nani Valle (Studio Bellavitis-Valle, 1967), fotografia del volume di giunzione tra la preesistenza e il nuovo manufatto

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silvia moretti

Casa Mainardis, San Vito al Tagliamento 7-10. Nani Valle (Studio Bellavitis-Valle, 1967), spazi interni

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Casa Mainardis, San Vito al Tagliamento 11. Nani Valle (Studio Bellavitis-Valle, 1967), disegno di studio della doppia altezza interna 12. Nani Valle (Studio Bellavitis-Valle, 1967), dettaglio dei serramenti (foto Umberto Ferro, 2014)

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barbara pastor

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33 M. Zanetti, La Provincia di Trieste e la riforma, in L’ospedale psichiatrico di San Giovanni a Trieste, cit., pp. 70-73. 34 Grazie all’art. 4 della legge 431/68 sul ricovero volontario e grazie al riconoscimento giuridico dell’ex internato come “ospite” e come lavoratore remunerato viene superata la condizione da lungodegenza all’OPP di chi continuava a rimanervi in quanto incapace a mantenersi. 35 In alcune lettere Nani Valle manifesta interesse per interventi di nuovi parchi residenziali, come Milano 2. Si veda il materiale conservato nell’Archivio Progetti Iuav, fondo Valle-Bellavitis. 36 Operando degli spostamenti: l’edificio della ex lavanderia dovrebbe ospitare le cucine, mentre nell’edifico della cucina – in posizione mediana dell’asse centrale – dovrebbe essere collocato il self service accanto al teatro. Questi spostamenti sono funzionali ad un uso aperto e libero delle strutture. 37 Si vedano i vari contributi nella seconda parte del volume del libro L’ospedale psichiatrico di San Giovanni a Trieste, cit., pp. 184-231. All’interno dei vecchi reparti si sono insediate numerose istituzioni quali: due scuole superiori con lingua d’insegnamento slovena; la Facoltà di Scienze della terra dell’Università degli Studi di Trieste, in sei palazzine; l’ex Sanatorio tubercolare dell’OPP diventato Centro per l’età evolutiva; il Centro diurno per persone disabili del Comune di Trieste; la casa di riposo del Comune di Trieste; il Dipartimento delle Dipendenze, il Dipartimento di Prevenzione ed il Distretto 4. Recentemente si sono trasferiti nel comprensorio di San Giovanni la Direzione generale e l’Amministrazione dell’Azienda sanitaria. Il Dipartimento di salute mentale occupa dieci edifici. Nei prossimi anni il Comprensorio accoglierà la Facoltà di Psicologia e la Casa dello studente. Il parco è oggetto di ripristino e riqualificazione del verde (in particolare gli storici roseti) e aperto alla cittadinanza. Una convivenza molto complessa. 38 Nel ponderoso volume sul centenario dell’OPP lo Studio Bellavitis-Valle viene citato solo a p. 60 a proposito della presentazione pubblica del Piano di risanamento e riforma del Comprensorio. E Michele Zanetti ricorda l’acquisto dei mobili colorati a p. 73. 39 L’architetto Luciano Celli, che a vario titolo e a più riprese interviene nel recupero degli edifici nel Parco, non fa menzione degli studi e progetti precedenti nel suo contributo al volume sul centenario. Perché il lavoro di Bellavitis-Valle è stato disperso, o è stato volutamente ignorato? 40 È stato interessante ascoltare due cassette audio, presenti nell’archivio privato di Anna Bellavitis, che restituiscono discorsi – ma anche aspettative e “clima” – tra i due progettisti, Basaglia, il Presidente della Provincia di Trieste e altri funzionari. La prima è stata registrata all’inizio dell’incarico e l’altra alla fine. Dall’entusiasmo di fronte all’orizzonte aperto delle possibilità, all’amarezza che deriva dalla constatazione di un’occasione perduta. In particolare Nani Valle rileva, nella seconda registrazione, le difficoltà del recupero e della valorizzazione di un complesso architettonico così peculiare; almeno rispetto ai programmi iniziali, anche finanziari, dell’Amministrazione. L’ipotesi del riuso si misura con i limiti dei caratteri tipologici.


due allestimenti e un’installazione Franca Semi

1.

Due mostre: una testimonianza partecipata

Ho partecipato con Nani Valle a quello “strano” Comitato per gli allestimenti del Comune di Venezia, che collaborò con l’amministrazione per quasi un biennio: essendo coinvolta nelle scelte progettuali, la mia non può che essere una testimonianza. Non fu “strano” il Comitato, quanto piuttosto l’idea di far collaborare, a pari titolo, architetti di diversa formazione ed esperienza per occasioni, come le mostre, che richiedono una forma dell’insieme che consenta un’immediata riconoscibilità del tema proposto. Del Comitato facevano parte Vittorio Gregotti, Daniela Ferretti, Nani Valle ed io. Vittorio Gregotti, con esperienze espositive a La Biennale di Venezia e professore IUAV; Nani Valle, professionista affermata e professore IUAV; Daniela Ferretti all’inizio dell’attività professionale; io, laureata da più di dieci anni, con collaborazioni professionali e accademiche con Carlo Scarpa ed esperienze impegnative di collaborazione per alcune mostre a Verona1. Vittorio Gregotti e Nani Valle assunsero un ruolo rilevante all’interno del gruppo. Di lei ricordo la grande disponibilità e l’offerta dello studio per gli incontri: la discussione grazie a lei era “circolare”, così che non posso dire a chi un allestimento fosse più dovuto. Con Nani Valle e l’intero comitato2 svolgemmo due mostre. La prima, “Venezia ’79. La Fotografia” (giugno-settembre 1979), fu l’occasione per guardarci, un po’ sbalorditi. Non avremmo avuto la possibilità di conoscere l’oggetto da esporre quasi fino all’inaugurazione, cioè avremmo potuto solo “far mettere i chiodi” per esporre le fotografie, che sarebbero arrivate prevalentemente incorniciate, seguite dai gelosi collezionisti, e avrebbero dovuto essere esposte, più o meno, con questa sola suddivisione: fotografo, collezionista, Paese. Le fotografie erano bellissime, ma con quasi un unico oggetto ripetuto in innumerevoli versioni: esattamente tremilaseicento. Poiché a una prima valutazione considerammo la necessità che la mostra disponesse di superfici con uno sviluppo lineare minimo di 2.000 m, apparve indispensabile utilizzare ogni spazio veneziano idoneo ad esposizioni temporanee. La mostra fu quindi realizzata in diverse sedi: Museo Correr e Ala Napoleonica (piazza San Marco), Palazzo Fortuny (sestiere San Marco), Museo d’Arte Moderna a Ca’ Pesaro (sestiere Santa Croce), Padiglione Italia a La Biennale, Fondazione Querini Stampalia (sestiere Castello) e Magazzini del Sale (sestiere Dorsoduro). Poiché le fotografie erano organizzate in gruppi o collezioni, fu possibile suddividere con ragionevolezza la mostra nelle diverse sedi: tuttavia altri problemi si posero


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al comitato, per la diversa natura degli spazi architettonici disponibili. Se il tipo di oggetti e il loro tardo arrivo, le cornici e la predisposizione delle sequenze ci sollevarono da un lavoro pressoché irrealizzabile in un tempo minimo, fummo invece posti davanti a una situazione nella quale era impossibile compiere valutazioni qualitative sia sull’oggetto singolo, sia sulle collezioni: condizione imbarazzante per un architetto, al quale si affidavano opere che in molte raccolte emergevano come oggetti d’arte. Così le opere da esporre furono considerate come un unico oggetto, ripetuto tremilaseicento volte. Quanto agli spazi disponibili si sottolineò la loro notevole diversità, poiché appartenenti ad edifici architettonicamente assai distinti. Il Museo Correr, sito nelle Procuratie Nuove in piazza San Marco, è composto da spazi semplici in sequenza continua: una serie di sale leggibili come parte di un antico edificio, fruibili per esposizioni (di oggetti con dimensioni limitate), perché trasformabili o utilizzabili nella loro essenza non presentando caratteri architettonici forti (se non la sequenza continua delle sale) e tali da porre problemi di dominanza, di scelta cioè tra la forza dello spazio e la collezione da esporre. Al contrario, l’Ala Napoleonica, contigua e collegata internamente al Museo Correr, dispone di spazi da accettare o escludere, perché fortemente caratterizzati e quindi dissonanti per la massima parte delle mostre: un interno neoclassico, forte per gli elementi architettonici, le decorazioni, la pavimentazione e l’illuminazione; inoltre, la sala maggiore non dispone quasi di pareti o superfici piane. La sala di Ca’ Pesaro, allora fruibile per le esposizioni, è assimilabile quanto a forza all’Ala Napoleonica: ma mentre quest’ultima vincola, imponendo limiti e scelte nell’allestimento a causa dei caratteri delle superfici, la prima è invece costituita da uno spazio complessivo significativo per i suoi rapporti dimensionali e luminosi. Il Padiglione Italia, ai giardini napoleonici de La Biennale, dispone di spazi per mostre temporanee, con ampliamenti progettati da Carlo Scarpa: possedendo molte superfici verticali, articolate in spazi diversi e conseguenti, e una luce prevalentemente diffusa, è ampiamente idoneo ad ospitare mostre di varia natura. Nella sede della Fondazione Querini Stampalia utilizzammo la sala Luzzatto, ricavata nell’androne del palazzo con la ristrutturazione operata da Carlo Scarpa: una sala progettata con cura e attenzione per un facile uso temporaneo. In questo spazio limitato sono predisposte tutte le facilitazioni perché la temporaneità di qualsiasi avvenimento sia effettivamente realizzabile. La sala dispone di pareti attrezzate con un binario per appendere quadri e di luci disposte per illuminare quasi con continuità le pareti: ed esse sono tali, per materiali, disegno e colori, da accettare confronti solo con oggetti di qualità, perché costituiscono parti di un interno definito in se stesso e non ulteriormente trasformabile. Gli altri spazi veneziani disponibili erano l’androne di Palazzo Fortuny, spoglio e da restaurare (essendo fino a poco prima un magazzino privato), e i Magazzini del Sale sulla fondamenta delle Zattere. Questi ultimi costituiscono un singolare caso edilizio, il cui possibile riuso, difficile per una fruizione contemporanea, aveva variamente impegnato il dibattito cittadino: si tratta di sei elementi paralleli di eccezionali dimensioni (mediamente ognuno misura 7 × 60 m), ciascuno con un unico ingresso, senza aperture per l’arieggiamento e l’illuminazione diretta. Se la loro forza spaziale è rafforzata dalla semplicità e crudezza dei materiali costruttivi (mattoni e capriate in vista, pavimento selciato in trachite come le calli di Venezia), tanta schiettezza


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essenziale ha sempre posto agli allestitori dei problemi, quali l’umidità ambientale, ma anche offerto l’occasione per interessanti esperimenti formali nella trasformazione dello spazio. Tendenzialmente le mostre temporanee hanno un programma strutturato in un sistema chiuso di oggetti da esibire3, cioè tendono ad essere riconosciute come un tutto iconico che prefigura una tesi precisa e delimitata: per questo ho maggiormente rivolto il mio interesse alle forme astratte, individuabili nelle relazioni degli oggetti da esporre, perché a quelle forme – degli oggetti e delle loro relazioni – è demandata l’immagine della mostra. Quali potevano essere quindi i problemi più importanti nel caso della mostra “Venezia ’79. la Fotografia”? La necessità, che si rilevò immediatamente, di ricercare un’immagine unificante, disponibile per gli eterogenei spazi espositivi veneziani. Da queste osservazioni emerse l’idea della linea, sulla quale tutto fu programmato: gli architetti assunsero quindi la ripetizione e la continuità dell’oggetto proposto dagli ordinatori per mostrare le possibilità dell’opera fotografica. Ripetizione e continuità furono gli elementi determinanti nell’esposizione, che dimostrava e confermava le possibilità – complessive, generali e particolari – del mezzo fotografico: furono così predisposti elementi che consentissero l’allestimento degli oggetti a parete, cioè di fasce che, poste alla stessa altezza, formassero una linea continua, sulla quale con uniforme stacco posare l’oggetto. Tuttavia la mostra non fu tutta risolta con la sola introduzione della fascia: il grande numero degli oggetti da esporre dimostrò che le superfici utilizzabili erano poche, sicché per avere un oggetto utile come piano verticale d’esposizione, unico per tutti gli ambienti, facile da realizzare, di agile manovrabilità ed allineabile – per mantenere l’esposizione sull’immagine della linea – nacque la cosiddetta “cavalletta”, indubbiamente un’idea di Nani Valle. Si trattava di due piani inclinati in panforte, incernierati tra loro superiormente e controventati da due tiranti in basso, poi dipinti a spruzzo in colore grigio scuro, con lo stesso tipo di materiale usato per le pareti del Correr: la scelta del colore fu dovuta anche alla necessità di non confondere quest’oggetto, che vive in mezzo allo spazio ma è ad esso estraneo, con le pareti al contorno. Di tutto ciò indubbiamente fu protagonista la professionalità di Nani Valle. Molto spesso le riunioni si svolsero in assenza di Gregotti che, stabiliti i principi generali dell’esposizione, volle assumersi il compito di allestire i Magazzini del Sale. Ma, a distanza di molti anni, credo di poter dire a chi si possono riferire le diverse soluzioni. A Nani Valle, indiscutibilmente, si deve in quell’occasione la capacità di reperire le ditte per un’operazione che ebbe un solo mese a disposizione, tenere saldi i contatti fra di noi, mettendo a loro agio anche le due “giovanette” del gruppo con le quali instaurò un rapporto paritario, e soprattutto la velocità di saper trovare la soluzione unica, valida per tutti gli spazi espositivi e tale da ampliarli. Insomma la “terribile” cavalletta ebbe un particolare successo al Correr e al Padiglione Italia, “trionfò” in uno spazio che sembrerebbe azzardato: l’Ala Napoleonica. Quell’elemento così dissonante consentì infatti di far convergere su di esso, e quindi sugli oggetti che ostentava, l’attenzione del visitatore: con il merito aggiuntivo di favorire la lettura dell’ambiente. Cosicché, in una mostra successiva ma ad essa collegata, “Fotografia pittorica 18891911”, usammo, con il solo cambiamento compositivo, la cavalletta nello stesso luogo. In sostanza (può sembrare un paradosso) il soggetto della mostra fu quasi esaltato da un’esposizione minimalista, dovuta al fatto che non ci fu concesso di conoscere


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5-9. Mostra “Friuli: memoria, partecipazione, ricostruzione”, Piazza San Marco, Venezia 1976

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come El Lissitzky che ritengo più riferibile l’installazione di Nani, sia per il dinamismo dell’opera – con le due ali regolari, ma dinamiche nella loro diversità – sia per l’uso di un materiale povero, utilizzato con le regole proprie di quel materiale. Inoltre come nella Tribuna Lenin per la volontà di misurarsi con gli spazi reali della città, Nani, come El Lissitzky, si avvalgono, oltre che dell’uso dei materiali e di un dinamismo dell’impianto, anche dell’assenza del colore. Ma un riferimento non può non essere fatto ad un altro maestro costruttivista, Vladimir E. Tatlin. I riferimenti ai due maestri del costruttivismo6 non mi sembrano casuali, soprattutto il Monumento alla III Internazionale di Tatlin, che nella cultura di Nani fu certamente presente. Questa “torre”, che non ebbe mai una definizione conclusiva, «non può che consistere nella ricostruzione del processo ideativo, analizzato nelle sue varie fasi, [...], è soprattutto un monumento, un monumento di propaganda attivo, dinamico, un dispositivo urbano che riproduce ed esalta la funzione comunicativoinformativa»7. La “torre” evoca un ricordo, suggestiona per la novità della fase storica, comunica e informa con un messaggio propagandistico: ciò che si ripropose Nani con la sua installazione. Essa comunica un’emozione che vuol trasmettere – con l’attraversamento dell’opera stessa e l’uso di quei materiali come supporti – un difficile messaggio: la necessità di una volontà collettiva per la ricostruzione. Per comprendere il processo ideativo dell’opera sono interessanti le fotografie dei molti modelli eseguiti nella ricerca delle migliori proporzioni8, così come considerare le misure dell’opera che dialogano con il fruitore, al quale le dimensioni delle fotografie e delle scarne ma forti descrizioni della catastrofe sembrano ben meditate per trasmettere emozioni. I rapporti con piazza San Marco manifestano quasi una corretta timidezza e sembra che l’insieme della piazza abbracci idealmente il Friuli e la catastrofe, e che il campanile, paterno, conforti. Appare chiaro che il suo intento e di chi le commissionò l’opera, fu quello di rendere partecipe e informato il fruitore, dal quale si sollecitava un’evidente partecipazione per la ricostruzione: per una tragedia che era allora appena alla prima fase.

1 Le mostre, il cui incarico fu attribuito ad Arrigo Rudi, furono tenute al Palazzo della Gran Guardia di Verona: “Cinquant’anni di Pittura Veronese 1580-1630” (1974) e “La Pittura a Verona tra Sei e Settecento” (1978). 2 Le due mostre più importanti si svolsero con l’intero comitato, mentre le successive furono assegnate alle due giovani del gruppo: “L’Avanguardia Polacca”, inaugurata nel maggio 1979 e “Luciano Vistosi - Livio Seguso”, inaugurata nel marzo 1980, entrambe tenute a Ca’ Pesaro. 3 Cfr. F. Semi, Mostre: immagini, verifiche, CLUVA, Venezia 1984. 4 Dalle parole di un esperto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e dal Capo del Servizio della Peste all’Istituto Pasteur di Parigi. 5 Il progetto e la realizzazione della mostra sono documentati nel fondo Bellavitis-Valle solo da fotografie della realizzazione e di vari modelli. Il ricordo di quest’opera si deve alla figlia Anna, allora sedicenne, che scattò molte fotografie ora nell’Archivio Progetti. 6 Sebbene El Lissitzky sia più facilmente riferibile al Suprematismo. 7 V. Quilici, Il Costruttivismo, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 92, 98. 8 Purtroppo non sembra proponibile una cronologia di quei modelli per ricostruire quel processo ideativo.


il progetto del vetro nelle realizzazioni di nani valle e giorgio bellavitis Rosa Chiesa

Fernanda Nani Valle si forma come designer, unendosi nel 1952 allo Studio – fondato dal padre Provino e collaborando con il fratello Gino – nel quale resterà fino al 1958. È qui da ricordare che, oltre all’attività di architetto, Gino Valle è consulente per il product design delle aziende Solari di Udine e Zanussi di Pordenone: l’orologio elettrico Cifra 5, Premio Compasso d’Oro del 1956, è firmato da Nani e Gino Valle con Michele Provinciali. Dal 1958, la collaborazione di Nani Valle con il marito Giorgio Bellavitis coincide con una stagione d’intensa attività professionale che, dal 1964, porterà ad alcuni progetti comuni. Se i primi lavori accertati1 nell’ambito del disegno industriale risalgono ai primi anni Sessanta2, l’oggetto di questa trattazione è una serie di progetti la cui datazione è successiva: sia il disegno di lampade in vetro per l’azienda V-linea - Venini (1966, con G. Bellavitis), sia gli allestimenti luminosi e realizzazioni di apparecchi legati a interventi architettonici, firmati in proprio o con Giorgio Bellavitis, s’inseriscono in un arco temporale che dagli anni Settanta giunge al 1984. Dopo gli anni di formazione, oltre all’impegno professionale Nani Valle è attiva nello IUAV come assistente di Ignazio Gardella: la presenza, nello stesso periodo, di Ludovico Diaz de Santillana3 non può che alimentare l’ipotesi di un legame stretto tra colleghi, nutrito altresì da un forte legame personale tra la famiglia Venini e Nani Valle con Giorgio Bellavitis4. Nella produzione progettuale considerata, opera dei due architetti il cui contributo è spesso difficile distinguere, possiamo riconoscere due filoni separati: l’uno rivolto a elementi da illuminazione (apparecchi, sistemi e pannelli) e l’altro a realizzazioni luminose integrate a progetti d’interni, soprattutto per edifici di rappresentanza e sedi istituzionali. 1.

Il contesto muranese nel settore illuminotecnico

Dalla metà degli anni Sessanta e per l’intero svolgersi dei Settanta si affermano in Italia, con il crescente interesse per il design, nuovi materiali come la plastica che rispondono in modo funzionale e moderno a rinnovate esigenze di mercato, conseguenti anche al mutato clima sociale e culturale: [...] il ruolo dell’esportazione divenne decisivo, rispetto alla capacità del mercato interno. [...] La media e piccola industria al contrario, specie quella operante nell’area dei beni di consumo e domestici di media durata, motore non secondario del “miracolo economico”, solidifica quindi in questi anni, nei confronti della cultura del design, i suoi già avviati collegamenti.5


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

degli edifici, per esempio, l’insolazione, l’ombra portata sul terreno, il distacco tra gli edifici, la fisionomia delle facciate fronteggianti la strada – che per ovvie ragioni di orientamento sono opposte –, l’ambiente che non si forma per niente, la larghezza delle strade che appare eccessivamente ridotta, poi il vento, l’asse eliotermico che non appare per niente rispondente ai requisiti tante volte detti. Tutti problemi che ci fermavano nella continuazione del lavoro. Così, ancora discussioni, e ancora ricerca di principi generali. Nello stesso periodo il prof. Samonà in occasione di una commemorazione di Giorgio Labò deve fare una conferenza a Roma alla facoltà di Architettura. Parla di questi nuovi concetti, dell’indagine fatta, di quello che spera di attuare di più concreto, illustra anche fotografie del gruppo Capuzzo, Vianello, Padoan e i nostri quattro cartelli del gruppo “Al Macina”. Marisa è presente a Roma alla conferenza. I cartelli per quanto non finiti cominciano a girare, si inizia da Valle Giulia. Noi, invece, continuiamo a discutere, tentiamo soluzioni, ma c’è sempre qualcosa che non va, le difficoltà sono considerevoli. O è sbagliato tutto o, se è giusto, è stato fatto troppo in fretta e noi, in un certo senso, pretendevamo di trovare una soluzione valevole; oppure bisognava proprio inventare qualcosa. Ma inventare è difficile. Intanto, si comincia a vedere che bisogna arrivare non più solo allo smembramento dell’unità-casa, ma addirittura dell’unità-stanza e compenetrare le une alle altre per rispondere a tutte le esigenze proposteci. Ma non va neanche così. Ci scontriamo sempre contro muri chiusi e in un certo senso non procediamo per niente. Personalmente, avevo come schema un nucleo costituito da un’unica strada e lateralmente, all’inizio e a metà, le due piazze richieste. Mi andava la questione della fenditura-strada-ambiente in mezzo alla zona verde che contorna ogni nucleo. C’era una difficoltà di percorso, perché si era deciso che nessuno doveva entrare motorizzato nel nucleo: chi ci arrivava con qualche mezzo doveva percorrerlo a piedi per circa 120 m, e non era molto. Pensavo alle case stesse: smembrate per elemento e disposte in modo da ricevere la migliore insolazione possibile: quindi luce obliqua, poligoni ecc. Altri proseguivano egualmente, ma non c’era nessun risultato anche perché le esigenze richieste erano molte e non si combinavano per niente con gli elementi e i dati che avevamo: quindi, tutti si fermavano a discutere e nessuno cercò in qualche modo di andare avanti. O non ne avevamo i mezzi, o non ne avevamo la costanza. Non l’ho mai capito. Certo che in quel momento mi sembrava così mentalmente di poterlo risolvere, ma: «tra l’impulso e la realtà tra... cade l’ombra», come dice Eliot, per non citare un vecchio proverbio italiano. Ma bisogna ben fare qualcosa. Si arriva all’ultima settimana di lezioni prima delle vacanze pasquali. C’erano ancora gli schemi vecchi in giro e si discutono quelli; poi si decide che non si possono discutere perché non vogliono dire niente e che quindi bisogna cominciare a badare alle cose: come si mettono, come si dispongono, come si orientano, insomma proseguire. L’arch. Franco Albini per arredamento propone lo stesso tema ma, non avendo seguito da vicino tutta questa faccenda dagli inizi, la considera da un altro punto di vista, più funzionale o razionale che sia. Noi allievi ci mettiamo a lavorare e vengono fuori le prime proposte di soluzioni, da cui discussioni e da cui... niente... tirar linee... Per primo Bonoldi e poi Gudvenigh propongono un modo di risolvere la sistemazione delle case a 1 piano: cioè strada con le case a schiera disposte ortogonalmente alla direzione


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

stradale e gli orti, tra fila di case e fila di case, sono chiusi dalla parte della strada principale da muri alti 2,80-3,00 metri, come le testate delle case a 1 piano che vi si affacciano.

Il fatto dei muri è una trovata per ovviare al fatto che solo le testate si affaccino sulla strada e per conservare quindi quello che ci piaceva tanto, cioè il senso della strada come canale con le pareti sentite molto ai lati. Naturalmente una trovata del genere è stata molto discussa. Il prof. Samonà invece accetta l’idea e la propone come una prima soluzione del problema – accettabile o meno – e ci invita a considerare la disposizione delle case a 2 piani. Il fatto dei muri alti non può aver attuazione, perché non si può parlare di muri alti 6 m, falsi e messi lì per dare il senso di strada. Fa ridere un’idea simile, da cui si comincia a parlare di non-strada per arrivare quindi alle estreme conseguenze, affermando che bisogna abolire il senso della strada. Brutto colpo. Io ci rimango male sul serio. Mi piaceva tanto la strada. Forse da quel lato non si arriva a niente, ma ora è tutto da rifare. Si discute molto sulla faccenda, ma il prof. Samonà forza la nostra non-collaborazione e ci invita a seguire un suo schema ed a esaminare in profondità una parte di esso. Così si stabilisce: una strada essenzialmente di traffico AB, traffico che viene man mano diluito con le traverse che portano agli agglomerati residenziali. La strada di traffico [ha orientamento] nord-sud, le strade pedonali est-ovest.

Accettato in via di massima questo schema, ora il problema deve polarizzarsi su un gruppo di case a 2 piani che faccia capo a una delle penetrazioni. In un primo tempo lo schema proposto per disporre le case a 2 piani lungo queste penetrazioni era


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L’ambiente da considerarsi con tutti gli aggettivi – umano, psicologico, sensoriale, interno ecc. – si limitava allo spazio tra i due duplex che si fronteggiavano. Tra gruppo e gruppo di case: orti, muretti alti e bassi, ecc. Si ritornava alla città-giardino o altro. Si discute la questione e uno schema del genere non viene accettato. Va ben che, come dice Albini, non è male tornare a idee parse discutibili in un primo tempo. Si parte sempre per spunto polemico quando si propugna una nuova idea, quindi si esagera arrivando alle estreme conseguenze, rinnegando quello che si diceva prima. Anche questo è giusto. Non siamo né futuristi né fanatici, cerchiamo solo di ragionare e appunto è ragionando che si ritorna indietro. Ma così è polemico lo stesso. Non si può riprendere uno schema già considerato tanto tempo fa, città-giardino, e metterci vicino: misura umana. Per quanto bello, non significa niente o meglio bisogna dimostrare che l’uso di questo parametro è stato realmente accettato. Dopo altre discussioni, recriminazioni ed altro, il 1° aprile ’50 si arriva a questo: tenuto conto di un orientamento e di uno schema generale comune, le condizioni particolari per la creazione di un “ambiente” con circa dieci case a 2 piani sono: orientamento favorevole delle facciate prospicienti sud-est ed est, possibilità di comporre gli ambienti tenendo conto di questo orientamento, combinazioni di spigoli e linee disposti ortogonalmente.

Gli elementi a disposizione sono: possibilità di disporre camere da letto a est e soggiorno a sud, più forte sviluppo della facciata a est; nella parte a nord e a ovest sistemazione dei servizi; non corpo triplo, ma semplice o doppio. Parte costruttiva: uso di pannelli prefabbricati.


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

Evitare: tagli di solai, forme non con i lati paralleli e ortogonali, lati obliqui. Massima economia del costo di produzione, modulo consigliato cm 50 × 50. Questo è tutto. Può essere bene limitare il problema a un numero ristretto di case: da qualcosa bisogna cominciare. Ma lo schema generale in quante posizioni del tracciato del nucleo può venir adottato? E il funzionamento del tutto risponderà alle esigenze proposteci? È questa la via migliore per arrivare a quello cui si aspira? Son tutti interrogativi che fin che non ci sono prove, o meglio tentativi – disegni insomma – che affermino o neghino qualcosa, rimangono senza risposta. E appunto per questo il prof. Samonà ci esorta a proporre di nuovo il problema così come più chiaramente lo ha proposto lui stesso ora. E questo invito si trasforma in un ordine – non obbligatorio naturalmente – ma consigliabile. Consideriamo il prof. Samonà come “capo studio” e noi suoi discepoli con un problema da risolvere per conto suo. Si arriverà a qualcosa?

Aprile 1950 Il 14 aprile mi rimetto al lavoro sul nucleo. Marisa è molto scettica e non vuol fare niente, ma a me interessa la questione e desidero affrontarla, così, quando lei è partita mi sono rimessa a lavorare pensando ora solo alle dieci case. Le dieci, o quindici case che siano, sono messe vicine e rivolte una con l’altra. Tanti schizzi per chiarire le idee, poi schema 1:500, 1:200 e infine 1:100 con le piante e i prospetti delle case. Per ora non viene male, ma la sensazione si mantiene su un piano molto di massima.

20 aprile 1950 Stamattina sono andata a scuola con i disegni. Anche Aldo aveva fatto qualcosa sul nucleo. In giro vedo che non ci sono lavori portati più avanti e quindi decido di mostrare il mio al prof. Samonà. Vorrei tanto essere nella stanza che crolla e con poca gente attorno, ma a me succede sempre il contrario. In conclusione, dopo aver aspettato un po’, il prof. Samonà si avvicina al mio tavolo e subito dice: «Ma tu hai sviluppato la mia idea. Molto bene, sei riuscita a trovare una tua verità che ha il suo valore». Io spiego e va tutto bene – niente da dire – ma bisogna precisare la verità non interessandosi dei prospetti. Dice: «Non ti offendi se ti dico che non farei le casette così. Bisogna inventare una nuova architettura. Quelle sono casette isolate. È il nuovo organismo che deve formarsi, così in pianta, così in prospetto». Mi dice di non interessarmi dei prospetti. [Di] mantenermi ancora sul piano astratto per precisare questa verità di forma e di proporzioni. Modelli con cartoni colorati; disegni di combinazioni planimetriche. In complesso va bene quello che dice. Io però non capisco bene come devo continuare il lavoro, ma ci arriverò. Poi dice a P.M. Gaffarini: «Vedi se non c’è riuscita – lei – a fare quello che dicevo». E quello mi interroga per sapere da dove sono partita. Oh dio, è difficile stabilire esattamente i vari passaggi ma, più o meno, considerazioni ambientali, di prospetto, di vicinato mi hanno portato a questo. Va ben: non è ancora finito. Mostra il suo, Aldo – ma non va – si mantiene su un piano di seminare un po’ di casette isolate a disegno geometrico. Pare che non abbia trovato “una sua verità”.


Nani Valle nel 1985 (foto Luca Vignelli, Archivio AB)


regesto delle opere a cura di Federica Alberti

1949-1950 Asilo infantile, Fielis di Zuglio (Udine) con Provino e Gino Valle 1950-1952 Progetto per l’Istituto tecnico governativo commerciale e per geometri, Udine concorso nazionale, primo premio con Provino e Gino Valle 1950-1957 Condominio per abitazioni e uffici Vriz, Trieste con Provino e Gino Valle 1951 Casa Ghetti, Codroipo (Udine) con Gino Valle Progetto per INA-Casa, Rigolato (Udine) con Gino Valle 1952 Casa unifamiliare, San Giorgio di Nogaro (Udine) con Gino Valle Allestimento di uno stand di articoli sportivi alla 30a Fiera Campionaria di Milano, Milano 1952-1953 Veranda di Casa Romanelli, Udine con Gino Valle e John R. Myer 1953-1954 Ampliamento della clinica Nicoletti, Udine con Provino e Gino Valle Casa Migotto (ora Pozzi), Udine con Provino e Gino Valle Casa Quaglia, Sutrio (Udine) con Provino e Gino Valle 1953-1955 Cassa di Risparmio di Udine, Udine con Provino e Gino Valle




Finito di stampare nel mese di dicembre 2016 per conto della casa editrice Il Poligrafo presso la Grafica & Stampa di Vicenza



materiali iuav collana di ateneo

1. Ship & Yacht Design Forme e Architetture a cura di Carlo Magnani e Caterina Frisone 2. Aldo Rossi, la storia di un libro “L’architettura della città”, dal 1966 ad oggi a cura di Fernanda De Maio, Alberto Ferlenga, Patrizia Montini Zimolo 3. Il corpo umano sulla scena del design a cura di Massimiliano Ciammaichella 4. Architettura, paesaggio, fotografia Studi sull’archivio di Edoardo Gellner a cura di Martina Carraro, Riccardo Domenichini 5. Gundula Rakowitz Gianugo Polesello. Dai Quaderni 6. Giovanni Astengo urbanista Piani progetti opere a cura di Bruno Dolcetta, Michela Maguolo, Alessandra Marin 7. La concretezza sperimentale L’opera di Nani Valle a cura di Serena Maffioletti




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