OSPITI AL MUSEO MAESTRI VENETI DAL XV AL XVIII SECOLO TRA CONSERVAZIONE PUBBLICA E PRIVATA
OSPITI AL MUSEO MAESTRI VENETI DAL XV AL XVIII SECOLO TRA CONSERVAZIONE PUBBLICA E PRIVATA
a cura di Davide Banzato Elisabetta Gastaldi
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progetto grafico Il Poligrafo casa editrice Laura Rigon © copyright marzo 2012 Comune di Padova, Assessorato alla Cultura, Musei Civici Il Poligrafo casa editrice Il Poligrafo casa editrice 35121 Padova piazza Eremitani – via Cassan, 34 tel. 049 8360887 – fax 049 8360864 e-mail casaeditrice@poligrafo.it ISBN 978-88-7115-777-1
INDICE
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Beni culturali fra pubblico e privato. Due mondi a confronto Davide Banzato
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CATALOGO DELLE OPERE
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Bibliografia generale a cura di Irene Salce
Le raccolte d’arte dei Musei Civici si sono formate, oltre che con opere che appartengono alla storia civile e religiosa della città, grazie al determinante apporto del collezionismo privato. Accanto ai beni giunti direttamente alle nostre istituzioni dagli scavi, dagli edifici pubblici e dalle chiese, da secoli il collezionismo ha avuto il merito di intercettare sul mercato oggetti di pregio artistico, di conservarli, di valorizzarli e, molto spesso, alla conclusione di percorsi umani o familiari, di assicurarli alla pubblica fruizione tramite il lascito ai Musei. Si tratta di un processo che ha concorso in modo determinante alla formazione della fisionomia, anche espositiva, delle nostre raccolte, una fisionomia che è tuttora in divenire grazie al continuo apporto di singoli e di istituzioni. Se l’accesso alla proprietà pubblica è per l’opera d’arte un fenomeno di accreditamento, non va trascurato il valore che il mercato attribuisce a quanto è in circolazione, una parte importante del nostro patrimonio artistico la cui visione sarebbe parziale prendendo in considerazione solo quanto si trova nelle sedi museali. Accostare capolavori presenti nel Museo ad altri, degli stessi autori, in circolazione sul mercato è un’operazione che consente al vasto pubblico l’accesso a materiali che, diversamente, sarebbero destinati solo alla fruizione di pochi. Ospitarli nelle nostre sale permette di istituire interessanti confronti qualitativi e di comprendere meglio quanto era apprezzato una volta e viene ricercato ancora oggi, anche se si è perduta la funzione iniziale per la quale le opere erano nate. Nel confronto si può concentrare l’attenzione su pitture o sculture in nostro possesso che, pur di rilevantissima qualità, possono talora sfuggire al visitatore, perse nella quantità e nell’eccellenza di quanto conserviamo. Il nostro ringraziamento va a quanti hanno messo generosamente a disposizione opere straordinarie rendendo possibile questa esposizione e a quanti, a vario titolo, hanno offerto il loro sostegno per la realizzazione dell’iniziativa. FLAVIO ZANONATO
ANDREA COLASIO
Sindaco di Padova
Assessore alla Cultura
La mostra “Ospiti al Museo. Maestri veneti dal XV al XVIII secolo tra conservazione pubblica e privata”, promossa e organizzata dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Padova e dai Musei Civici, mette a confronto pregevoli opere d’arte di proprietà civica con quelle di proprietà dei maggiori antiquari e galleristi italiani ospitate, per l’occasione, nelle sale del complesso museale degli Eremitani. L’esposizione, realizzata con il rinnovato sostegno di Fondazione Antonveneta, non è una mostra mercato, ma una rigorosa e interessante selezione di pitture e sculture di artisti veneti. La rassegna, nata dalla collaborazione tra un’istituzione pubblica e il mercato privato, offre l’opportunità di presentare nuove idee e raccogliere preziosi stimoli nell’ambito culturale e artistico. In particolare, apre un dialogo – a coppie – tra opere degli stessi autori e dello stesso periodo storico, le une provenienti dalla sfera privata, le altre, alcune delle quali meritevoli di restauro, dalle collezioni civiche museali padovane. Tra gli obiettivi perseguiti dalla Direzione dei Musei Civici e dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Padova, condivisi dalla Fondazione Antonveneta, c’è quello di far scoprire e valorizzare dei capolavori che rimarrebbero sostanzialmente invisibili agli occhi del grande pubblico una volta acquistati dai privati, provando, nello stesso tempo, che da un’esperienza come questa si possono trarre spunti originali e costruttivi per riflettere sulle modalità di trasmissione, fruizione e conservazione dei beni artistici. La collaborazione stretta tra Fondazione Antonveneta e Musei Civici di Padova continua a muovere i suoi passi proprio in questa direzione, confermando la volontà di valorizzare il patrimonio culturale locale e di promuovere lo sviluppo sociale ed economico del Nordest e contribuendo a mantenere ben vivo e “creativo” uno dei poli espositivi più prestigiosi del Triveneto. FONDAZIONE ANTONVENETA
Beni culturali fra pubblico e privato. Due mondi a confronto Davide Banzato
Le opere d’arte vengono concepite nella stragrande maggioranza dei casi sulla base di precise esigenze di una committenza. Nascono per essere destinate, secondo diverse modalità, a una pubblica fruizione o per rimanere a disposizione di pochi. Nella nostra area culturale quanto si produce per finalità religiose o civili, perduta la funzione originaria, confluisce in genere nelle raccolte dei musei. In alcuni casi invece questi beni vanno a costituire o incrementare collezioni private. Capolavori nati per il piacere personale di chi li ha voluti continuano la loro storia passando ad altri privati o, nel caso di proprietari particolarmente illuminati e desiderosi di perpetuare la fisionomia delle collezioni che hanno costituito, possono arrivare ai musei seguendo i più svariati percorsi, divenendo disponibili alla fruizione di molti. Porre a confronto opere che si trovano nell’Istituto Museo con altre dovute agli stessi autori e presenti in antiquariato, come avviene in questa occasione, non si può certo ritenere un’operazione di mercato. È piuttosto occasione per aprire una riflessione sul valore della cospicua parte del nostro patrimonio artistico tuttora in mani private e sulla funzione culturale del collezionismo. Non va dimenticato quanto, dopo essere stato oggetto di attenta raccolta da parte dei singoli, è passato alla proprietà pubblica, evitando altre forme di dispersione. Nell’atto del tramandare, sia il mercato che i musei attuano una selezione di valori. Solo una ridotta parte di quanto ogni età elabora passa integralmente a chi viene dopo. Le diverse epoche rappresentano alla posterità la propria immagine attraverso un vaglio operato secondo criteri estetici, storici e
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simbolici. A tali valori il mercato aggiunge una quantificazione venale variabile in rapporto alle epoche, all’avvicendarsi delle mode e all’imporsi dei diversi tipi di gusto. I processi secondo i quali musei e mercato pongono in essere la loro scelta possono correre lungo strade parallele, ma mai esattamente sovrapponibili. Il mercato spesso può agire in modo fortuito, ma lega principalmente l’offerta del piacere del possesso di una determinata opera alla sua valenza economica, frutto della visibilità sociale a essa connessa e all’interesse individuale. I musei, oltre a quanto giunge loro sulla base di specifiche ricerche, raccolgono e ricevono opere appartenenti a un’identità personale che, unendosi ad altri complessi precedentemente acquisiti, con l’accumulo diviene poi collettiva immagine del nostro passato. I singoli talora identificano almeno una parte del loro essere con categorie di oggetti che hanno raccolto o voluto: la nostra percezione di questo fenomeno è bene della collettività. Proprio nel caso dei Musei Civici si crea un legame tra le opere e le istituzioni che le hanno generate, per concorrere alla formazione di quei grandi contenitori della memoria di uno specifico luogo (territoriale, tematico o semplicemente mentale) che sono i nostri istituti. La loro fisionomia è dettata da quanto conservano e si arricchisce, mutando progressivamente, con le nuove accessioni. Il processo di valorizzazione corre principalmente sui binari degli aspetti estetici e dei contenuti storici. Nei musei, in ogni caso, le opere sono presentate in un nuovo contesto, del tutto diverso da quello per cui erano originariamente nate. Aggregate secondo principi tesi a costituire un filo conduttore, divengono tappe di un percorso storico o tipologico. La proprietà pubblica, per sua natura di più facile accesso, favorisce l’interesse degli studi e dei fruitori. Il patrimonio viene ordinato, studiato, sistematizzato per renderlo disponibile e consentirgli di comunicare i valori di cui è portatore. La stessa appartenenza di un oggetto a un museo costituisce dunque un vero e proprio processo di accreditamento. L’importanza dei pezzi presenti sul mercato, oltre che l’interesse dei collezionisti, attira anche quelli del ricercatore e del conoscitore, per valutazioni e confronti. Così anche la proprietà privata può concorrere alla ricostruzione di fisionomie artistiche o alla creazione di complessi tipologici. Si tratta di un processo intimamente legato alla sensibilità di commercianti e di raccoglitori. L’apertura di un dialogo tra mondi separati, che tuttavia si occupano della stessa materia, favorisce l’accostamento di opere affini tra loro e fornisce elementi utili alla loro conoscenza e a quella di chi le ha create e di chi ne ha fruito. Il confronto, sulla scia aperta dall’attenzione dei curiosi, permette di istituire una scala di valori che integri la percezione della qualità delle opere dei musei con quelle che si trovano al di fuori degli istituti in una situazione fluttuante.
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La possibilità di conoscere pezzi tuttora in circolazione si può riflettere positivamente anche su quanto fa parte degli stessi musei. Permette di focalizzare l’interesse su opere particolari, di sicura importanza, la cui incidenza può talora essere offuscata proprio dall’imponente massa e dall’eccellenza dei materiali che gli istituti conservano. Permette di scoprire, ritrovare o evidenziare nessi e percorsi, anche nuovi, nelle collezioni e di completare il quadro della nostra visione del passato. In tal senso si è rivelata fondamentale la collaborazione offerta in questa occasione da specialisti della materia, che hanno messo a disposizione la loro competenza per una rigorosa disamina del materiale presentato. Piacere personale e pubblica fruizione sono modalità talora separate dal sentire quotidiano. Unite fra loro possono avviare una situazione di collaborazione creativa e concorrere alla costruzione della coscienza di un patrimonio di identità che appartiene a tutti noi. Ogni mostra racconta se stessa attraverso un percorso. Questa prende l’avvio da opere legate a una personalità che caratterizza gli ultimi decenni della produzione pittorica del Quattrocento padovano, Jacopo Parisati da Montagnana, diffusore di un linguaggio veneziano e belliniano evolutosi nella memoria dei testi lasciati in città da Andrea Mantegna. La tavola con il Compianto (cat. 2) è strettamente avvicinabile alla Pietà di Budapest, e quindi da datare ai primi anni ottanta del Quattrocento; rimasta in parti estese allo stato di disegno, ci offre interessanti indicazioni sulla tecnica del pittore. Il San Girolamo (cat. 3) è opera dei suoi ultimi anni, di ridotte dimensioni ma di elevata qualità, condotta con una straordinaria resa miniaturistica, destinata a un amatore della pittura e caratterizzata dalla tipica cifra stilistica prodottasi in quel frangente storico. Fra le opere in possesso del Museo si è scelto di accostarvi I Santi Agata, Francesco e Girolamo (cat. 1), probabilmente anta sinistra di un polittico smembrato, connotata da una analoga maniera attentamente disegnativa. Il Parisati, anche grazie al rapporto con il vescovo Barozzi, era punto di riferimento della committenza rappresentata dai più alti livelli della gerarchia ecclesiastica. Lavorava per gli stessi ambienti per i quali, di lì a qualche anno, avrebbe preso avvio una produzione nella quale si esprimevano in chiave ermetica contenuti di sincretismo religioso. È questa una tendenza evidente nei piccoli rilievi detti placchette, immagini preziose, spesso controverse e riprese a lungo attraverso repliche e copie, nella cui realizzazione eccelle, fra Quattro e Cinquecento, il Moderno, nome d’arte sotto il quale si è voluto individuare l’orafo veronese Galeazzo Mondella. Dai pezzi del Museo qui presentati (catt. 6, 9) si può cogliere l’evoluzione dello stile dell’artista da un tardo mantegnismo, venato di altri spunti veneti, verso una visione più ampia raggiunta attraverso la conoscenza dei modelli della grande statuaria classica. Possiamo proporre uno dei più importanti fra gli abbinamenti di soggetti derivanti dalla parallela attività di orefice del Moderno: la Flagellazione (cat. 8) e la splendida Madonna con il Bambino e
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santi (cat. 7), grazie alle quali, nel complesso mondo della placchetta, si può cogliere la differenza qualitativa tra una buona replica, ma successiva, e un originale nato a ridosso dell’invenzione primigenia. Anche il grande Andrea Briosco detto il Riccio, prevalentemente attivo nella bronzistica e per gli stessi ambienti nei quali, tra la fine del Quattrocento e i primi anni del Cinquecento, si tentava di far rinascere l’antico legandolo al messaggio cristiano, era l’espressione di una cultura sviluppatasi a Padova. Sia il Satiro seduto che beve (cat. 11) del Museo che il Caprone (cat. 10), possibile capostipite di una lunga serie di repliche, rientrano tra i tipici oggetti da collezione, caricati di valori simbolici, assai ricercati dalle cerchie di colti studiosi tra Padova e Venezia. Il rilievo marmoreo di Antonio Minelli con il Profilo di figura femminile (cat. 5) venne realizzato in anni non molto lontani. Anche questo è un tipico oggetto da collezione erudita, caratterizzato dalla perfezione formale imposta dai Lombardo per i piccoli busti all’antica, nati seguendo gli spunti forniti dalla glittica classica. Lo scultore, operoso anche al Santo, doveva essere ben noto alla stessa committenza padovana che praticava Andrea Briosco. La statua del Museo con San Bartolomeo (cat. 4), forse di poco precedente, che gli accostiamo, purtroppo assai danneggiata, può indurre il visitatore a riflettere sulla sua originaria classica nobiltà formale, solo in parte recuperata grazie a un attento intervento di restauro generosamente sostenuto proprio da un privato cittadino. La Crocifissione (cat. 16) di Paolo Veronese, oltre a essere a nostro avviso forse l’unica opera su pietra nera dipinta dal Caliari, rientra nel nucleo dei principali capolavori della nostra Pinacoteca; è immagine di controllato patetismo e di raffinata capacità coloristica, caratteristica della pittura del maestro degli anni ottanta. Per il soggetto ambientato in una luce serale, il clima emotivo, le raffinate stesure di colore, ben gli si avvicina l’Ecce Homo (cat. 17), straordinario esempio del periodo estremo. Sulla scia di Veronese si collocano esperienze di primo piano dell’epoca del manierismo. Le due versioni della Giunone (catt. 12-13) del più interessante scultore attivo nel Veneto nel secondo Cinquecento, Alessandro Vittoria, permettono di cogliere la differenza tra la sofisticata eleganza di un bronzo uscito dal suo diretto controllo e la pur alta qualità di una realizzazione sullo stesso modello dovuta alla bottega. Rispetto alle opere del Vittoria, quelle di Francesco Segala, continuatore di una linea autonoma padovana nell’epoca dell’egemonia del manierismo veneziano, si caratterizzano per una più pronunciata immediatezza espressiva, favorita dal mezzo della terracotta da lui utilizzata in monumenti funebri e complessi religiosi. Il Busto di Matteo Forzadura (cat. 14), tradizionalmente assegnatogli, datato verso il 1570, viene ora proposto con una innovativa attribuzione ad Agostino Zoppo, poliedrico plasticatore e bronzista dell’avanzato Cinquecento padovano. Sempre in terracotta, e ritenuta collocabile nel periodo forse più felice dell’attività del Segala, la metà degli anni sessanta, è la Figura allegorica (cat. 15) del Museo. Il con-
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fronto tra le due sculture fittili potrà fornire interessanti spunti di ragionamento sulla loro attribuzione, soprattutto se raffrontate al complesso delle statue per Santa Giustina, condotte su di una linea che accoglie spunti da Bartolomeo Ammannati e da Danese Cataneo. Fra i tardomanieristi veneti non poteva mancare il capofila, Jacopo Negretti detto Palma il Giovane. La sua Adorazione dei pastori (cat. 20) è macchina complessa, dall’elaborata costruzione impostata su diagonali incrociate e moto spiraliforme, tela emotivamente ben più vivace e coinvolgente di altre realizzazioni più correnti praticate intorno al 1620, come la Madonna con il Bambino tra i santi Antonio abate e Marco (cat. 21). Partito da Venezia, Francesco Apollodoro detto il Porcia caratterizzò il ritratto a Padova nel momento di passaggio tra i secoli XVI e XVII con immagini di notevole intensità e introspezione psicologica, debitrici nei confronti delle impostazioni tintorettesche e di un pathos espressivo per il quale il riferimento principale in quegli anni era Leandro Bassano. Riemerge un notevole inedito, il Ritratto di Giacomo Gallo (cat. 19), di fronte al quale il Podestà Federico Renier presentato alla Vergine (cat. 18) permette di approfondire ipotesi sui rapporti con il suo figliolo, aiuto e continuatore, Paolino. Alessandro Varotari detto il Padovanino, così chiamato proprio perché nato nella nostra città dal pittore veronese Dario, è forse la figura più rappresentativa della pittura veneziana nel primo Seicento, per la sua reazione al tardomanierismo condotta attraverso il programmatico recupero dei grandi del Cinquecento. In questo senso il Trionfo di Teti (cat. 23) è notevole replica della tela dell’Accademia Carrara di Bergamo, creata a integrazione dei tre Baccanali di Tiziano da lui copiati a Roma intorno al 1616, quando si trovavano nella collezione Aldobrandini. Ecuba e Priamo (cat. 22) è la migliore redazione a me nota di uno dei soggetti storici e mitologici che il pittore creava numerosi su istanza dei collezionisti, mentre la tela del Museo con la Madonna con il Bambino, san Giuseppe e l’arcangelo Michele (cat. 24) è prova interessante dell’assestamento accademico del suo neocinquecentismo nel periodo maturo. Fra i protagonisti della prima fase del barocco veneto si segnala il padovano Pietro Liberi, celebrato anche per il suo modo sensuoso di trattare la figura femminile. La Salomè (cat. 25) e l’Allegoria della Pittura (cat. 26) sono tipici esempi della fortuna dei suoi modi, opere in bilico nell’attribuzione con il figlio Marco che ne perpetuò a lungo i modelli in una personale visione. La sua versione del barocchetto trascolora ormai nel rococò. Giulio Carpioni, attivo in particolare modo a Vicenza, si impose all’attenzione dei collezionisti in tutto il Veneto per il modo classicheggiante e leggiadro di trattare l’episodio mitologico. Il Bagno di Venere (cat. 27) e il Pan e Siringa (cat. 28) rintracciato sul mercato sono esempi dello standard di grande stabilità di realizzazione raggiunto dal pittore. Non poteva mancare almeno un esempio della ritrattistica di avanzato Seicento; in quel secolo le immagini dei rappresentanti più significativi delle famiglie costituivano il nerbo delle collezioni. Il friulano Sebastiano
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19. Francesco Apollodoro detto il Porcia (Venezia 1531 ca - Padova 1612)
Ritratto di Giacomo Gallo Tela, cm 63 × 51,5 Iscrizioni: “IACOBVS GALLVS / IVR CÕS ET EQ”; “EK 1607 [?]”, in alto a sinistra “[...] huomo stimato in Padoua nel far de’ ritratti, onde ne fece vn gran numero di Signori, e Letterati del tempo suo, trà quali Speron Speroni: il Mercuriale: il Capo di Vacca: l’Acquapendente: Iacopo Zabarella: il Caulier Pellegrini: Iacopo Gallo: l’Ottellio: il Sassonio: il Caualier Seluatico: Francesco Piccolomini: & altri, e molti Signori Oltramontani, che capitauano allo studio di Padoua, e quantità di nobilissime Dame” (Ridolfi, 1648, II, p. 260). Sulla scorta delle parole del critico seicentesco Carlo Ridolfi e sulla base dell’iscrizione autografa “IACOBVS GALLVS IVR CÕS ET EQ” è agevole collocare il presente dipinto nel corpus pittorico dell’abile ritrattista Francesco Apollodoro detto il Porcia, pittore veneziano di nascita, ma padovano d’adozione. Giacomo Gallo (Napoli 1544 - Padova 1619), illustre giureconsulto originario di Napoli, ma a lungo docente di diritto all’Università di Padova (città nella quale morirà nel 1619), è ritratto a mezzobusto, alle sue spalle un fondo marrone sul quale campeggia la scritta in latino identificante il ritrattato. Immediatamente sotto questa il monogramma sovrapposto “EK”, da sciogliersi in via ipotetica, ma con ogni probabilità, in “EQUES [ET(?)] KAVALIER”. Accanto vi è una data che potrebbe essere letta come 1607, anno di investitura di Gallo al cavalierato di San Marco (Priveligio concesso il 20 marzo 1607 more veneto). Se così fosse, poco dopo quest’anno sarebbe verosimile far risalire la commissione del dipinto all’Apollodoro. Secondo la consuetudine dell’epoca, infatti, sovente i ritratti di questo tipo venivano eseguiti in occasione di investiture pubbliche o in seguito al ricevimento di importanti onorificenze. Sguardo severo e allo stesso tempo velato di esile malinconia quello del Gallo, che volutamente tende a incrociare l’occhio del riguardante, reclamandone l’attenzione in un gioco che si rivela essere a tutti gli effetti l’abile artificio pittorico di un consumato ritrattista quale è Apollodoro. Ben consapevole del suo accresciuto status sociale, il dotto giurista indossa compiaciuto la catena d’oro concessagli dal Senato della Serenissima come ricompensa per i servigi resi alla Dominante. Tecnicamente impostata su toni freddi di matrice nordica, e oltremodo debitrice della lezione di Leandro Bassano ritrattista (in quella tornata d’anni riferimento peraltro imprescindibile nel Veneto), la tela in questione dimostra una rara capacità di compenetrazione psicologica del soggetto effigiato, per certi versi ai limiti di un malcelato e soprattutto inconsueto “sentimentalismo”, almeno per un ritratto di tono encomiastico. Se infatti è pur vero che anche in altre occasioni Francesco Apollodoro si rese capace di simili raggiungimenti qualitativi – e comunque mai nella pittura sacra, ma esclusivamente nel campo della ritrattistica (si vedano per esempio i ritratti del compositore Costanzo Porta degli stessi Musei Civici di Padova o il notevole Sperone Speroni del Museo Diocesano di Padova [Pellegrini, in Lo spirito e il corpo..., 2009, pp. 93-94, nn. 19-20]), ciò nondimeno il recupero di que-
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st’affascinante ritratto documentato ab antiquo – significativa aggiunta all’ancora troppo esiguo catalogo di opere certe del misconosciuto Porcia – dimostra una volta di più come l’artista meriti un attento studio monografico che lo risarcisca definitivamente, sulla scia dei fondamentali contributi della Ceschi (1977 [1978]), prima, e dell’Attardi (1989 [1991]; 1990 [1992]), poi. Il dipinto ha goduto di una precoce fortuna critica – anche se poi è caduto in oblio e si è persa memoria della sua stessa autografia –, poiché già nel 1630 viene citato nell’Illustrium Virorum Elogia Iconibus Exornata di Jacopo Filippo Tomasini (pp. 308-309) come fonte dell’incisione in controparte raffigurante Giacomo Gallo che compare nel capitolo dedicato alla vita di quest’ultimo: Imaginem eius Paulus Tomasinus Noster gratissimae memoriae monumentum, raro Francisci Porciae pennicillo expressam, suo in Musaeo feruat, ut qui ab illo Doctoratus insignibus anno CI . I C. IV. Fuerit exornatus. C
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Bibliografia: Tomasini, 1630, pp. 308-309; Ridolfi, 1648, II, p. 260; Fantelli, 1992, pp. 64-65, nota 24; Moscardin, 1998 [2000], pp. 59-60.
Tommaso Ferruda 75
20. Jacopo Negretti detto Palma il Giovane (Venezia 1548 ca - 1628)
Adorazione dei pastori Tela, cm 142 × 102 Iscrizioni: “GLORIA IN ALTISSIMIS DEO ET IN TERRA PAX”, in alto al centro In un’ambientazione rustica i pastori si raccolgono attorno a Maria e a Giuseppe con il Bambino Gesù, secondo un’iconografia tra le più frequenti nelle tele di devozione privata e in grado di trasmettere un senso di intimità e familiarità adatta allo scopo. Al centro della composizione il Bambino Gesù giace su un candido drappo e Maria, colta nell’atto di raccoglierlo per presentarlo a coloro che giungono per adorarlo, è affiancata da Giuseppe chinato sul neonato quasi a proteggerlo con il suo robusto corpo; intorno due pastori attendono agli animali, mentre altri due completano la scena. In alto tra le nuvole rese dorate dalla luce divina due angeli reggono un nastro con la scritta “gloria in altissimis deo et in terra pax”. Ciò che colpisce in quest’opera sono le marcate variazioni chiaroscurali. Il bianco, reso cangiante dal tripudio di luce che scende dall’alto, fa contrasto con la zona d’ombra in alto a destra; il vecchio barbuto, reso con pastose zone di colore, richiama l’attenzione del vigoroso giovane in primo piano, che arditamente dà le spalle allo spettatore, in una torsione innaturale già vista in qualche tela palmesca e in particolare nel Giudizio Universale nella Sala dello Scrutinio a Palazzo Ducale, dove in basso a sinistra una delle tante figure, vestita di una braga rossa, assume la stessa posa (Mason Rinaldi, 1984, fig. 213). Nella sua lunga e prolifica attività a cavallo tra Cinque e Seicento, pur frequentando la bottega di Tiziano, Palma il Giovane si legò più al conformismo tintorettesco, a quella pittura manieristica caratterizzata da un colorismo robusto e vivace dagli esiti più facili e immediati. Un modulo con caratteristiche ben riconoscibili nella torsione delle figure, nei chiaroscuri e negli accentuati effetti di lume artificiale come solo Tintoretto faceva. Tali effetti compaiono in questa tela cronologicamente avvicinabile alla produzione dei primi decenni del Seicento e accostabile, dal punto di vista iconografico e stilistico, alla pala raffigurante la Madonna del parto nella chiesa di San Geremia a Venezia (Mason Rinaldi, 1984, n. 357, fig. 658). Anche in quest’ultima ricorrono il particolare clima intimo e devozionale e l’ambientazione rurale con gli animali in contrasto con la presenza nella parte alta degli angeli immersi tra le nubi inondate di luce dorata che, illuminando il protagonista della composizione, uniscono idealmente l’ambiente terreno allo spazio divino. L’opera è completata da una sontuosa cornice dorata romana dell’inizio del Settecento. Bibliografia: inedito.
Barbara Cesaro
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21. Jacopo Negretti detto Palma il Giovane (Venezia 1548 ca - 1628)
Madonna con il Bambino tra i santi Antonio abate e Marco Tela, cm 135 × 142 Padova, Musei Civici, Museo d’Arte Medioevale e Moderna, inv. 1932 La tela è giunta al Museo Civico nel 1888 tramite il legato del conte Ferdinando Cavalli, che ha lasciato alle civiche collezioni una novantina di dipinti, un tempo collocati nel palazzo padovano al ponte San Giovanni (attuale via del Vescovado), dove furono visti e sommariamente descritti da Alessandro De Marchi nella sua guida del 1855 (pp. 371-374). Gli inventari museali assegnano l’opera a Palma il Giovane, indiscusso protagonista della scena pittorica veneziana dopo la scomparsa dei grandi del Cinquecento, Tiziano, Veronese e Tintoretto, e sotto questo nome essa è stata pubblicata per la prima volta nel catalogo del Museo Da Bellini a Tintoretto... (1991) da Stefania Mason Rinaldi, che non ne aveva tenuto conto nella monografia del 1984. L’iconografia è di facile lettura: accanto alla Madonna con il Bambino stanno i santi Antonio abate e Marco. Il primo, eremita originario dell’alto Egitto, indossa una tonaca e un manto con cappuccio, in quanto è considerato l’iniziatore del monachesimo, e regge un bastone a forma di stampella al quale è legata una campanella, che potrebbe alludere alle sue tentazioni, poiché comunemente utilizzata per scacciare gli spiriti maligni (Hall, 2002, p. 48). Rispetto alla consueta rappresentazione del santo, è assente l’immagine del maiale, animale allevato dai monaci antoniani durante il Medioevo, il cui lardo veniva utilizzato come rimedio contro la malattia chiamata fuoco di sant’Antonio. Marco, santo patrono di Venezia, tiene tra le mani il Vangelo e ha accanto a sé un leone, divenutone il simbolo, in quanto il suo racconto evangelico inizia con la voce di Giovanni Battista che nel deserto si eleva simile a un ruggito, preannunciando agli uomini la venuta di Cristo. Secondo Mason Rinaldi (1991) il dipinto in esame si colloca nella fase tarda della produzione del pittore veneziano. La studiosa ne sottolinea la vicinanza con la Sacra famiglia con santa Teresa conservata presso l’Accademia Carrara di Bergamo (Mason Rinaldi, 1984, p. 74, n. 19, p. 413, fig. 590) per quanto riguarda sia l’impostazione generale, sia l’aspetto stilistico improntato dalla maniera più “corrente” di Palma intorno al 1620. La sua attività durante i primi decenni del Seicento è in gran parte a destinazione religiosa e raggiunge il momento di massima espansione con la presenza di opere non solo nel territorio della Serenissima fino al Bresciano e al Bergamasco, ma anche in Emilia, in Puglia e lungo le coste dell’Istria e della Dalmazia. Come ha sottolineato Mason Rinaldi (Palma il Giovane..., 1990, p. 32), tale produzione “[...] scorre apparentemente senza sorprese e spesso nel più stizzito spirito controriformistico: crocifissi con santi, episodi evangelici e biblici allusivi ai sacramenti, pale, san Gerolami penitenti implacabilmente avviati anno dopo anno verso il rinsecchimento, incapsulati in formule manieristiche ormai cristallizzate”. Bibliografia: Mason Rinaldi, in Da Bellini a Tintoretto..., 1991, p. 242, n. 167.
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22. Alessandro Varotari detto il Padovanino (Padova 1588 - Venezia 1649)
Ecuba e Priamo Tela, cm 102 × 126 Il soggetto dell’opera è stato correttamente individuato in altra versione originale, di dimensioni leggermente diverse, segnalata al castello di Opocˇno nella Repubblica Ceca (Ruggeri, 1988, p. 119). La scena è riferita all’Eneide (II, 506-526). Nei versi di Virgilio si narrano i momenti che precedono la morte di Priamo. Il re vuole vestire le armi per difendersi dai Greci che hanno invaso Troia, ma la regina Ecuba lo dissuade argomentando che neppure Ettore, se fosse stato ancora vivo, avrebbe potuto nulla in quel frangente. Lo esorta a confidare nella protezione dell’altare della reggia o a morire vicino a lei seduto sul sacro seggio. Ruggeri (1988, p. 119) trovava la replica summenzionata “opera autografa di grande fascino [...] accostabile al Sansone e Dalila di Pommersfelden [...] con una datazione verso il 1620-1625”. Ne pubblica altra redazione (Ruggeri, 1993, pp. 74-75, n. 14) alla Staatsgalerie di Stuttgart probabilmente coeva, nella quale il soggetto è elaborato con l’adozione di un formato quadrato e con le figure maggiormente sviluppate in senso verticale. Nella nostra tela e in quella di Stuttgart, rispetto all’esemplare di Opocˇno, si notano varianti nelle posizioni e nelle fisionomie dei personaggi. Manca l’elmo che Priamo porge al fanciullo alle sue spalle, mentre tutti gli elementi decorativi sono accuratamente ripresi. A confronto del fare tizianesco e di certe eleganze di ritmo manieristiche, che nel dipinto ceco suggeriscono una datazione giovanile, ci troviamo di fronte a modi pittorici caratterizzati da stesure più nette e controllate e a superfici più levigate, più accuratamente tornite. Nella tipologia dei personaggi, resi con un naturalismo più piano, emerge addirittura il ricordo di tipi umani che si incontrano nella produzione del padre del Padovanino, Dario Varotari, mentre sono abbandonate cadenze stilistiche che rivelano l’influsso iniziale di Palma il Giovane. È un dipingere che si allontana da diretti riferimenti tizianeschi che caratterizzano opere della prima metà del terzo decennio, come le celebri Nozze di Cana delle Gallerie dell’Accademia di Venezia (1622) o la Cornelia della National Gallery di Londra. Il pittore nella seconda metà degli anni venti avviava, sempre alla luce di un recupero nostalgico dei grandi del Cinquecento veneto, un processo di consolidamento disegnativo delle forme con opere come la Madonna con il Bambino, la Giustizia e san Marco del Museo Civico di Pordenone, datata 1626, e la Circoncisione del Museo di Treviso, pagata nel 1629, per approdare, con tele della prima maturità quali Venere e Adone di Vaduz e gli Evangelisti della chiesa di San Giacomo di Venezia del 1630 circa, a forme di accademismo programmatico. Le realizzazioni dei primi anni trenta, ad esempio le allegorie della Pinacoteca della Fondazione Scientifica Querini Stampalia, sono composizioni molto studiate con figure dalle forme attentamente tornite e bloccate nell’istante in cui è ripresa l’azione. Il pittore si rivolgerà ancora al mondo dei poemi classici in termini eruditi quando la sua tendenza accademizzante entrerà in una fase successiva, carat-
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terizzata da maggiore foga narrativa e pittorica. Si pensi a opere tarde, quali Enea spegne le fiamme sul capo di Ascanio, comparsa sul mercato antiquario, o Ettore, Andromaca, Astianatte della Staatsgalerie di Stuttgart (Ruggeri, 1988, pp. 125, 128). Quanto sopra va detto per argomentare che la tela in esame è con ogni probabilità successiva alle repliche di Opocˇno e di Stuttgart alle quali è compositivamente tanto vicina. La sua realizzazione potrebbe essere ipotizzata nei primi anni del quarto decennio del secolo XVII. Si espone il dipinto a fianco della Madonna con il Bambino, san Giuseppe e l’arcangelo Michele dei Musei Civici, Museo d’Arte (cat. 24), datata dalla Saccomani (in Da Padovanino a Tiepolo..., 1997, p. 130, n. 39) al 1635-1638, da porsi alla conclusione del percorso di evoluzione stilistica sopra descritto. Bibliografia: inedito.
Davide Banzato
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23. Alessandro Varotari detto il Padovanino (Padova 1588 - Venezia 1649)
Trionfo di Teti Tela, cm 78 × 85 Uno squillante corteo di ninfe e di giovani uomini scortano in trionfo la dea, che regge un drappo gonfiato dal vento a mo’ di vela, e intorno al ridondante cocchio una festa di personaggi, una esuberante danza di corpi sinuosi, di colori accesi, di conchiglie e di coralli che identificano la divinità marina. Questa tela è strettamente legata al soggiorno romano di Padovanino. Intorno al 1616 si colloca il suo viaggio a Roma, dove copia i Baccanali di Tiziano, allora nella collezione del cardinale Aldobrandini (Pallucchini, 1981, p. 101); la serie, ora all’Accademia Carrara di Bergamo, è costituita di quattro tele di cui tre copiate da Tiziano e la quarta raffigurante il Trionfo di Teti d’invenzione del Varotari. Padovanino copia, ma in termini personali; con un tratto felice impara dagli originali e s’impossessa dei colori della composizione, complice in questo il fatto di essere a Roma e di aggiornarsi in senso classicista ad opera soprattutto degli emiliani Albani e Domenichino chiamati dai Carracci a recuperare l’ideale classico raffaellesco. Infatti nel Trionfo di Teti Padovanino si rivela particolarmente in debito con varie composizioni carraccesche, come il Trionfo di Bacco e Arianna della Galleria Farnese (Ruggeri, 1988, p. 111). È probabile che ne traesse un’ulteriore serie di differenti dimensioni, come la Festa a Venere in collezione veneziana (Pallucchini, 1962, p. 121) e la tela in esame, versione ancora più piccola che rivela un altro tratto e una creatività più personale e meno legata ai modelli tizianeschi. Un tratto sicuramente maturo rispetto al periodo romano e più vicino a quello che Artemieva considera il capolavoro di Padovanino: Le Grazie e gli Amorini dell’Ermitage, databile all’inizio degli anni trenta (Capolavori nascosti dell’Ermitage..., 1998, p. 74) Bibliografia: Martini, 1992, p. 112, fig. 81; Ruggeri, 1993, p. 50.
Barbara Cesaro
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58. Giuseppe Bernardino Bison (Udine, Palmanova 1762 - Milano 1844)
Paesaggio lacustre con edificio Cartoncino, cm 47,5 × 61,5 Padova, Musei Civici, Museo d’Arte Medioevale e Moderna, inv. 2718 Il Paesaggio, insieme al pendant con cavalieri e lago delle medesime collezioni (Magani, in Da Padovanino a Tiepolo..., 1997, p. 313, n. 268), è stato acquisito dal Museo nel 1964. Si tratta di tipici esemplari di Giuseppe Bernardino Bison, in cui la veloce esecuzione traccia un vasto panorama di vegetazione, montagne, acque e architetture in rovina che rivelano la tematica prediletta dal pittore di Palmanova, nonché la sua originale capacità di concentrarsi su uno schema proponendone di volta in volta una variante. L’abitudine e la formazione di scenografo gli consentivano di illustrare secondo le più diverse “prospettive” la mobilità della natura, dedicandosi al genere del “capriccio” in un elegante equilibrio di elementi che aveva enfatizzato nel campo della decorazione d’interni. L’incastro fantasioso di semplici piani d’orizzonte e l’inserimento della figura realizzata a macchia liquida consentono a Bison di animare la ripresa più tipica e fortunata del Settecento. Lo schema paesaggistico derivato da Marco Ricci e da Francesco Zuccarelli assume nel maestro la purezza del segno e la luce diffusa e discreta degli esemplari del Canaletto, ma rientrando nella tradizione del genere paesaggistico egli riesce a riproporre in pieno Ottocento l’illustrazione cara alla sensibilità borghese, creando un universo sconfinato e vario quasi ad avvalorare, per contrapposto, la modernità di una produzione seriale. Seguendo questa linea, Bison predilige inquadrature assai ordinate, distinguendosi in questo dal cosmorama animato dei prototipi settecenteschi e fornendo quindi un’immagine più “strutturata” della costruzione e piacevolmente popolare. Tale ispirazione si evidenzia più frequentemente durante il primo periodo triestino, all’inizio del secolo XIX, datazione che sembra si possa convenientemente proporre anche per il presente esemplare, legandolo, per costrutto e affinità tipologiche, ai tre Paesaggi di collezione privata (Magani, 1993, pp. 88-89, nn. 20-20b-20c). Bibliografia: Martini, 1982, p. 558; Banzato, in La peinture..., 1991, pp. 128-129; Magani, 1993, p. 21, fig. 8; Pallucchini, 1995, II, p. 598; Magani, in Da Padovanino a Tiepolo..., 1997, p. 313, n. 267.
Fabrizio Magani
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