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voci, storie, narrazioni
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Gisella Pagano
NOI SIAMO COME L’ACQUA DEL FIUME Quegli anni Settanta
ILPOLIGRAFO
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INDICE
NOI SIAMO COME L’ACQUA DEL FIUME I. Mario
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71 III. Vico
II. Elsa
NOI SIAMO COME L’ACQUA DEL FIUME
I. MARIO
1988, Lido di Venezia La Mostra del Cinema di Venezia si è definitivamente chiusa. Anche il conte Mario Ferraro si accalca all’imbarcadero, per riuscire a prendere il vaporetto che è in arrivo, ma preferisce salire sul prossimo. Troppa gente. Si siede su una panchina e attende. Si sente stanco e anche un poco annoiato. Il film che ha visto non gli è piaciuto, troppo triste, violento. Non si accorge che, seduto sulla panchina di fronte, un uomo della sua stessa età, lo sta guardando, cercando di farsi notare. Intanto, arriva un altro vaporetto, sul quale riesce a salire e perfino trovare un posto a sedere. Anche l’uomo che lo guardava ci è riuscito, conquistandosi un posto accanto al conte. Il vaporetto si stacca dalla banchina strapieno e inizia a prendere una moderata velocità. L’uomo, allora, con distinta cautela, si rivolge al nobile: “Mi scusi... Lei è il conte Ferraro?”. Nella sua noia, Mario risponde: “Sì, sono io”. L’uomo, entusiasta, si apre in un brioso sorriso e, porgendogli la mano, passa subito al “tu”: “Ma come stai? Sono Vanin, non ti ricordi? Loredano Vanin... L’Università. Tu eri in terza liceo... Il Cineguf...”. E il conte: “Ah, sì, sì, certo... Ricordo, certo. Come stai? È passato tanto tempo...”. “Hai ragione. L’ultima volta che ci siamo visti, è stato ad una proiezione del Cineguf. Era mattina, me lo ricordo come se fosse ieri. Non ho dimenticato nulla, sai; la guerra... l’Albania, la Russia...
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E poi in Italia... gli Americani in faccia e i banditi alle spalle... Qualcuno ce l’ha fatta a dimenticare, ma io... quando mi hanno messo al muro e per poco non finiva lì... Da allora vivo in Argentina. Con Peron si stava benino, ma poi, i Tupamaro, i banditi, peggio che in Italia. Ma ora mi trasferisco in Bolivia”. Alluvionato da quel fiume di parole, Mario si guarda attorno e trova una soluzione per interromperlo: “Scusami, devo assolutamente scendere qui, ma mi ha fatto piacere vederti”. L’uomo non demorde e lo segue verso l’uscita: “Ma vediamoci, però. Ti telefono domani”. Il conte Mario, scendendo dal vaporetto, quasi ad alta voce, risponde: “Sì, sì, certo. Ciao”. Il vaporetto riparte e il conte si avvia a piedi, pensando: “Mah... I fantasmi del passato... Noiosissimi, soprattutto quando non si sa chi sono. Loredano Vanin... Terza Liceo... Ma perché me lo dovrei ricordare? Intanto mi ha costretto a scendere chissà dove...”. Si guarda intorno e imbocca una calle. Camminando, camminando, passa davanti a un cinema, ancora aperto. Due signore di mezza età stanno lavando il pavimento. Sulle vetrine spalancate sono affissi due grossi striscioni con la scritta: “Spettacoli per soli adulti”. Si spinge nell’atrio, nel quale fanno mostra alcuni manifesti dai titoli erotici e, una di quelle donne lo avverte: “È chiuso signore. È arrivato troppo tardi per il profumo del sesso. A quest’ora, si sente solo la varichina”. Il conte, imbarazzato, risponde subito: “No, no, pensavo a come si chiamava questo Cinema...”. “Harlem”. “Ma no, prima, prima...”. “Al tempo dei Dogi, magari si chiamava Bucintoro!”. “Ora ricordo... Era il cinema Impero!”. “Ma quando?”. “Nel ’40”. “Nel 1940 ci sono nata io, e già facevano questi sessi qui?”. “Ma no, ma no. Era tutta un’altra cosa. Proiettavano film con Marlene Dietrich, con Charlie Chaplin...”. Ecco dove aveva conosciuto Loredano Vanin! Il conte saluta le donne e riprende il cammino. Vanin... Era settembre del 1940. C’era
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PRIMA PARTE. MARIO
la guerra. Erano le dieci del mattino, e c’era una proiezione del Cineguf proprio in quel cinema. Il conte ricorda i manifesti con gli Stemmi Sabaudi, quelli con Mussolini alla cloche di un aereo e la scritta “Non disturbate il pilota”; il Boccasile di “Taci, il nemico ti ascolta”; il Longanesi di “Biserta, e una pistola puntata contro la Sicilia”. Attaccata al muro, vicino al botteghino, c’era una locandina del Cineguf di Venezia, che invitava ad una proiezione antiamericana alle ore 10 del mattino. Gli pare d’essere tornato indietro nel tempo. quando aveva diciott’anni e Loredano Vanin venti.
1940, Venezia Si rivede accanto all’amico, ch’era in divisa da universitario fascista, con un fazzoletto azzurro legato al collo, mentre mostra il tesserino a un sorvegliante, al quale chiede se il film è già iniziato, per sentirsi rispondere che è quasi finito. Allora lui e Vanin si chiedono se sia il caso di entrare e l’amico gli dice: “E se no che facciamo? I gagà in piazza San Marco? Ormai ci siamo alzati presto. Dai, Mario, entriamo. Ci vediamo almeno il finale”. Riescono a vedere solo Charlie Chaplin in bombetta e bastoncino, che si allontana con il suo passo da papero, mentre lo schermo si chiude in un fondù circolare. Si accende la luce in sala, il pubblico è di giovani, alcuni in divisa del GUF. Davanti allo schermo, appare un uomo magro, biondissimo, quasi albino, in borghese, e presenta un Dirigente del GUF: “Ora, il professor Francesco Mario Pasinette vi parlerà di questa pellicola che chiude la rassegna del ciclo I grandi Comici”. Il professore inizia a parlare: “Questa pregnante opera chapliniana, che possiamo datare...”, ma viene subito interrotto da uno del gruppo di giovani in divisa, con fazzoletto al collo, che, alzandosi, continua ad alta voce: “Questa cosiddetta ‘pregnante opera’ è solo un’ignobile buffonata. State dimenticando, Camerati, che questo Charlot è un piccolo, miserabile ebreo anglosassone! Noi rispondiamo gridando: Spàlato!”.
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Anche il resto del gruppo si alza facendogli da coro: “Spàlato, Spàlato, Spàlato!”. Il professor Pasinette, a quel punto, guarda smarrito il dirigente del GUF, Michailovic, che immediatamente prende una decisione e grida: “Camerati: per gli irridenti di Dalmazia: ‘Eia, eia, eia, alalà!’”. E mentre si scatenano le voci Vanin gli dice a bassa voce: “Vedi che succede quando c’è un posto libero alla Segreteria?”. E il conte: “Lo daranno a Michailovic?”. “Ci puoi giurare. Non senti come strilla? Uno che si fa sentire così entra in Federazione di sicuro”. “Dai, andiamocene... è meglio”. Si alzano e lentamente si lasciano alle spalle le invocazioni a “Spàlato”, “Dalmazia italiana”, “Morte all’Inghilterra”, “Morte alla Francia”, “Viva Nizza italiana”, “Tunisi”, “Malta”. Nell’atrio del Cinema, il conte Mario racconta a Vanin: “Lo sai che Renoir prima che l’Italia entrasse in guerra, ha proiettato, agli allievi del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma un suo film, che in Italia non è uscito? Un film pacifista, ‘La grande Illusione’. È successo un casino!”. “Dici davvero? Ma sono matti?”. “No. Gli allievi applaudivano come matti. Renoir piangeva commosso. Invece il Direttore del Centro, era diventato giallo dalla paura di perdere il posto”. “Caro Mario, a me questo Renoir non mi ha mai convinto. Del resto, il cinema francese è così pessimista... per questo che sono crollati subito sconfitti”.
1980, Venezia Il conte continua a camminare... I piedi l’hanno portato a casa, al suo Palazzo, poiché la sua mente, fino a quel momento, era impegnata nei ricordi. Stupito, si chiede: “Dovevo proprio incontrarlo questa sera sul vaporetto, quello lì. Mi ha riportato alla preistoria...quasi mezzo secolo... e si vede. Questa sera ero uno dei pochi con lo smoking al Festival. Sono un dinosauro... Eppure, questi ultimi anni li ho vissuti,
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PRIMA PARTE. MARIO
eccome! Vanin e il cinemino mi hanno riportato agli anni ’40, forse gli unici – almeno per qualche mese – che furono spensierati e sereni”. Albeggia quando si mette nel grande letto con baldacchino, ma non riesce a prendere sonno. Si gira e rigira... forse è il passato che non lo lascia riposare? Allora gli pare di rivedere quegli anni ’40.
1940, Venezia La guerra è a Venezia con sacchetti di sabbia davanti ai portoni, alcuni con la scritta “Rifugio”. Qua e là, qualche manifesto di mobilitazione e di propaganda. Un plotone di militari passa marciando sotto la strada dove abita Mario. Alcuni rintocchi di campane lontane segnano l’ora mattutina. La cameriera, dopo aver posato il vassoio della colazione su un tavolinetto ottocentesco, spalanca le grandi tende delle enormi vetrate che guardano sul Canal Grande. Riprende il vassoio e si avvicina al letto di Mario: “Su, su, si svegli, signorino, è tardi”. “Ma sono sveglio per te... che mi hai dato una pugnalata di luce con quelle finestre... Che ore sono? “Le sette. Ecco la colazione”. Mario, infastidito: “E secondo te è tardi? “Signorino, gli altri sono tutti quasi pronti: il signor conte suo padre, la contessa sua madre, il signor nonno e la contessina sua sorella”. Quasi a volerla prendere in giro: “Caspita, che famigliona che siamo...”. “Sì, una gran bella famiglia. Non se ne lamenti, Signorino. E poi, alla sua età, che cos’è una levataccia alle sette del mattino? È per fare una bella gita nella vostra villa di campagna... mica per andare a San Michele, al cimitero. Pensi che io, il Brenta, non l’ho mai visto e di Padova, ne ho soltanto sentito parlare. Ho 45 anni e...”. Mario la interrompe: “...Ora non lamentarti tu, invece! Vai, e di’ ai miei che sono già vestito”. Al centro del salone, ricchissimo e adorno, c’è il nonno di 70 anni. Una figura di altri tempi, vestito in tenuta da caccia. Porta
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baffi fluenti, come re Umberto e un cappello con la penna. Accanto a lui, un astuccio per il fucile e una valigetta a soffietto. Cammina su e giù nervosamente, protestando a voce alta, perché qualcuno lo possa sentire e, in dialetto veneziano:“La puntualità è la cortesia dei re! Mi no capisso perché non deve esserlo anche dei conti. Io, xè dae quattro che sono in piedi”. Seguito da un maggiordomo con due valigie, che appoggia accanto a quelle del nonno, giunge suo figlio Vittorio – il padre di Mario – vestito normalmente con uno spezzato da viaggio: “Ciao, papà... fra un attimo ci siamo”. E il nonno: “Ancora a 42 anni non hai imparato a ciamarme signor padre?”. “Va bene signor padre... Ma già ti sei vestito da caccia? Potevi almeno metterti gli stivali che ti ho regalato...”. Ma lui lo interrompe: “...con questi sono stato a caccia a San Rossore, nel 1897. E se i xé sta ben per Sua Maestà il re Umberto, mi no capisso perché non dovaria andar ben ancha a ti!” E Vittorio, con imponenza: “Come non detto! Avanti, Savoia!”. Intanto è entrata la contessa Jeanette, moglie di Vittorio, francese, molto bella ed elegante, madre di Mario, scocciata, per il figlio che non arriva: “E il ragazzo? Quello è sempre l’ultimo, sempre in ritardo... Difetto questo, tutto italiano, vero Vittorio?”. Anche Luisa, sorella minore di Mario, arriva nel salone con una valigetta. Corre ad abbracciare il nonno e poi, rivolgendosi ai genitori: “Non mi rimproverate, non sono l’ultima... Manca Mario ancora...”. Vittorio, infastidito, a voce alta, avverte: “Allora andiamo, andiamo! Io non aspetto nessuno. Forza, usciamo!”. Anche Luisa, avverte a voce alta il fratello: “Mario, Mario, noi stiamo andando!”. Questa volta, Mario sopraggiunge: “Eccomi, son qui! La tempestività è la virtù dei forti, cari miei!”. *** La bruma del mattino avvolge il paesaggio, lasciando intravvedere la dolcezza della campagna. Il Brenta scivola tranquillo e silen-
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PRIMA PARTE. MARIO
zioso lungo i margini. La vegetazione e gli alberi del parco, avvolgono la Villa. Nella scuderia, due stallieri stanno facendo muovere i cavalli. Vittorio e Jeanette escono fuori con due ospiti in tenuta da caccia e con i fucili in spalla, muovendosi verso i cavalli. Vittorio, guardandosi attorno, si domanda: “Ma dove sono gli altri?”. Gli risponde uno degli stallieri: “Il signor conte ha detto che non viene, perché, con rispetto, gli fanno male i piedi”. E Vittorio, per tutta risposta: “Grazie tanto. Finché continua a portare gli stivali del 1897. Mi dica, dove sono i ragazzi?”. “Ma loro sono partiti già da un pezzo!”. E Jeanette: “Beh, per mandarli a scuola bisogna buttarli giù dal letto, ma per la caccia... si alzano prima di mio suocero”. Mentre Jeanette e Vittorio con i due ospiti stanno salendo a cavallo, lo stalliere avverte: “Signor conte, mi scusi. La contessina Luisa è alla finestra, forse le vuole dire qualcosa”. Vittorio che già è in sella si gira verso la finestra e la figlia gli grida: “Papà, io non vengo, non mi rimproverare... Proprio non mi va di ammazzare gli uccellini”. Vittorio scocciato: “Ma fa un po’ quello che vuoi!”. Poi, rivolto alla moglie, seccato, conclude: “Però con la polenta, gli uccellini li mangia! Tesoro, andiamo. Ci sono dei fagiani oltre il fiume. Ma mi sai dire che razza di caccia è mai questa, se non si sta tutti insieme?”. E si avviano al galoppo. Nella grande tenuta c’è un capanno. Al suo interno, Mario, Gianni – carissimo suo amico –, Lucina – probabile fidanzatina di Gianni – e Diana, stanno facendo uno spuntino. Il sole è già alto, e ha diradato del tutto la bruma, con i suoi tiepidi raggi. I cavalli sono legati alla staccionata, si godono anche loro quel tiepido calore. Gianni sta dicendo a Mario con estrema chiarezza: “Se un oggetto mobile si sposta da A verso C, attraverso B, io, dal punto D, posso calcolare esattamente l’intersezione B/1 dove lo colpirò”. E Mario, giudicandolo: “Ma dai... Sei proprio il tipico sgobbone da Liceo scientifico. E padovano per di più”. Lucina lo difende: “Mario, no, guarda che Gianni non è mica uno sgobbone!”.
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c’è anche Gianni. Il posto è molto affollato: soldati alleati, soldati di colore, uomini in borghese, ragazze in ghingheri pettinate alla Veronica Lake. Un oste molto indaffarato corre fra un tavolo e l’altro. Gianni in mezzo a quella confusione è con due amici, cercano un tavolo libero. Mentre volge lo sguardo verso il fondo della sala, riconosce Mario, seduto con alcuni amici a un tavolo dalla tovaglia bianca (le altre sono tutte a quadretti). Gianni gesticola verso di lui, mentre cerca di farsi spazio per avvicinarsi. Mario lo riconosce, si alza e lo raggiunge. I due amici si abbracciano in mezzo ai tavoli. Poi vanno a sedersi al tavolo di Mario dove c’è anche Luisa con un’altra ragazza e due giovanotti. Si siedono e dopo brevi presentazioni Mario chiede subito a Gianni: “Allora, come va il mio imboscato?”. “Ma che imboscato! Ci siamo dati da fare con i tedeschi”. Come testimonianza, presenta i suoi amici: “Questi sono due della Resistenza: Luigi Vaniero, detto il Vanto e Alfredo Trevisan, detto il Rialto”. Brevi strette di mano e poi con una punta di ironia, Mario gli chiede: “E tu, com’eri detto?”. Gianni si vergogna un poco: “Non per... Insomma... Ho preso il tuo nome. In clandestinità ero Mario”. “Accidenti che onore! L’avessi saputo quando ero prigioniero, che il mio alter ego combatteva qui, per la libertà”. “Ti trovo cambiato”. “Per forza. La prigionia ti fa crescere... Ma anche tu sembri cresciuto. Ti trovo... come dire... più tosto, più duro. Che fai? Di che ti occupi? Lavori?”. “Mi laureo in ingegneria a Padova. Devo solo discutere la tesi. E tu? Che progetti hai?”. Mario, risponde scettico: “Mi sono iscritto a giurisprudenza. Ormai mio padre sta invecchiando. Mia madre è troppo impegnata a recitare la parte della Francia vittoriosa e a far pesare al nonno la sconfitta... Sto prendendo io in mano gli affari della famiglia. Seguo le orme della casata”. Ridono tutti, chi più, chi meno, sinceramente. Gianni alza il bicchiere e con sussiego, recita: “Alla Ca’ granda dei Ferraro”. E aggiunge: “Ma cerchiamo di vederci spesso, va bene?”.
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PRIMA PARTE. MARIO
Mario annuisce e poi spiega: “Trasferisco la mia attività a Padova. Venezia per me, non ha avvenire. Ci lascio i miei vecchi. Tu, Gianni, appena ti sarai laureato, presentati come a un compagno di tappa e vedrai che non ti mancherà il lavoro. Ricordati che la Società Edilizia Ferraro, sarà quella che ricostruirà mezza Italia. Dovremmo fare un monumento ai tedeschi e agli americani che ci hanno distrutto”. Quasi tutta la tavola si ammutolisce per il cinismo di Mario, il quale, rincara la dose: “E poi Gianni, come faccio a meno di te? Con il nonno monarchico e il padre fascista, mi serve proprio un ingegnere della Resistenza come te!”. Poi chiama l’oste: “Nane, portami il conto”. E di nuovo si rivolge a Gianni: “Ce ne ricorderemo di questa sera e di questo posto... E ora, tutti al cinema, come si faceva prima”. Escono dall’osteria. Mentre camminano verso il Cinema, Gianni dice a Mario: “Ma sai chi ho visto in piazza San Marco, quattro giorni dopo l’arrivo degli alleati?”. “Che ne so!”. “Te la do, tra mille. Non indovineresti mai”. “Allora dai. Chi hai visto, Eisenhower?”. “Meglio. Tu saresti svenuto. Ho visto Marlene Dietrich!”. “Marlene!!! Ah, quelle gambe!”. Ma Gianni subito lo delude: “Era in divisa da ausiliaria: portava i pantaloni”. “Ti invidio lo stesso”.
1988, Venezia Mario, sta leggendo un libro di poesie di Giuseppe Ungaretti nello studio. Sulla scrivania, il telefono con il registratore. Spera molto in una telefonata di Vico, che non sa dove sia. Dopo poco, ecco che trilla. Mario sobbalza e risponde con speranza: “Pronto! Chi parla? Ma è una grande delusione quella che si dipinge sul suo volto... “Oh, Vanin, scusa. Ma che ore sono? Le sette di sera? Santo cielo, come è tardi! Che mi devi dire? No, non ho tempo ora. Sì, aspetto una telefonata... Scusami, Vanin... A presto. Ciao”.
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“Ma perché Vico non mi chiama?”, pensa il conte. “Lo aveva promesso”. Chiude il libro di Ungaretti, si alza, va verso la finestra e guarda le prime luci che si accendono sul Canal Grande. Decide di farsi una doccia e avverte il cameriere di stare attento al telefono, perché non riuscirà a sentirlo sotto l’acqua che scorre. Si avvia verso il bagno e urta un tavolinetto rotondo, sul quale vi è una grande fotografia del nonno che cade a terra, mandando in frantumi il vetro della cornice. Suona al cameriere perché venga a raccogliere i pezzetti che si sono sparsi. Raccoglie la foto del nonno, posandola assieme alla cornice d’argento sul tavolinetto, soffermandosi sulla foto con nostalgia, pensando a quegli anni lontani...
1947, Venezia C’è un grande fermento a Palazzo Ferraro. Vittorio agitato, sta quasi gridando nel chiamare Jeanette che giunge poco dopo: “Ma che hai da gridare così tanto?”. E Vittorio: “E ora... chi glielo dice a papà?”. “Chi gli si dice cosa?”. “Che il re è morto”. Dopo un attimo di sorpresa, lei gli risponde: “Beh, non glelo si dice affatto... tanto”. “Ma brava! E se guarisce e lo viene a sapere? Non mi perdonerebbe mai”. “Allora diglielo”. “Non saprei trovare le parole giuste”. “C’è Mario a Venezia. Quando rientra glielo dice lui. Si sono sempre intesi. Mario gli ha sempre saputo parlare”. “Allora mando il Nane a cercarlo. Meglio che glielo dica subito”. *** Il nonno si trova nella sua enorme camera da letto, smagrito, sostenuto da una montagna di cuscini. Il tavolo da notte è carico di bottigliette e fiale. Sembra addormentato. Accanto a lui c’è Mario
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PRIMA PARTE. MARIO
che lo chiama: “Nonno, nonno... Ti devo dire che... Non è una buona notizia... ma la devi sapere. Posso?”. Il nonno apre un occhio: “Cosa può capitare di peggio?” E Mario: “Il re... Vittorio Emanuele... è morto”. Il nonno sembra acquistare una certa vitalità e con tutti e due gli occhi aperti, annuisce con il capo: “Se fosse capitato prima di Pescara, saria stà mejo par tuti. Requiescat! Aveva un anno più de mi... Bene, xè ’nda via per primo. Ha avuto la precedenza. Giusto cussì”. E poi, lentamente, come se si addormentasse, muore. Mario lo chiama, ma senza disperazione e il nonno non risponde. Silenzio. Mario allora prende la peretta del campanello che pende dalla testiera del letto e la preme a lungo: “Mamma, papà, venite!”. *** Jeanette sta riordinando la corrispondenza ricevuta dopo la morte del nonno: biglietti, telegrammi, lettere, cartoncini. Vittorio, in poltrona, sorseggia due dita di whisky che gli ha versato la cameriera e Mario, sdraiato sul divano, sta sfogliando un giornale. Vittorio commenta: “Sarà dura adesso. Pensavo che potremmo trasferirci nella Villa sul Brenta”. E Mario: “No. Sarebbe sbagliato. Togliereste libertà a voi e a me. Figuriamoci... Poi un giorno o l’altro mi sposerò. Non è più il tempo di famiglie patriarcali tutte riunite. Il mondo è cambiato. Voi restate qui a Venezia, nel Palazzo. È finita la nostra aristocrazia”. Entra la cameriera per annunciare che è arrivato l’ingegner Gianni e Mario le dice di farlo passare. Gianni ha la faccia di circostanza, entra nel salone imbarazzato: “Devo scusarmi... Non vorrei...”. Mario lo interrompe: “Ma dai, di cosa ti scusi. Ti ho telefonato io per andare a fare quattro passi”. Per strada, camminano lentamente, nel silenzio serale di una suggestiva calle. Mario rompe il silenzio: “Spero che non sia così anche per noi. Ci pensi? Restare ancorati a questi giorni, mentre il mondo si muove. Loro sono fermi agli anni Trenta, come il povero nonno lo era alla belle époque. No, no, dobbiamo restare all’erta, capire le cose che via via accadranno”.
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E Gianni: “Sai che al Cinema Forum c’è ‘L’Angelo Azzurro’? “Marlene? Andiamoci subito! È la passione di papà... Deve essere una passione di famiglia. Quando venne a Venezia per la Mostra del Cinema, io dovevo avere undici, dodici anni. Papà mi portò a vederla. Aveva due grandi volpi bianche sulle spalle. Ma a quella età...che potevo capire?”.
1988, Venezia Mario, sotto la doccia, è molto dispiaciuto che il vetro della fotografia del nonno sia caduta a terra frantumandosi Quegli anni, tra il ’47 e il ’57, furono tempi felici e infelici, come quando la sorella Luisa, per vocazione di Dio, aveva preso i voti, facendosi monaca: di sicuro, pregava ancora per lui, nella sua clausura. Poi il battesimo di Vico, suo figlio. E quello di Elsa, figlia di Gianni. Nel ’50 Vico aveva tre anni e ricorda che con Diana si era già separato. Ognuno per proprio conto. Vico veniva accudito da una tata, così come Elsa, che aveva due anni. Gianni lavorava per lui. Mario si ricorda bene le discussioni tra loro due...
1957, Villa sul Brenta L’ottocentesca Villa sul Brenta, dopo la morte del nonno, era stata rinnovata all’esterno. Il Patio, cambiato da una grande tenda spiovente, di colore bianco, come bianche erano le sei poltroncine che elegantemente lo arredavano con un tavolo di vetro rettangolare al centro e, da un lato, un bar a vista, ben fornito, con sei sgabelli alti dello stesso colore e un carrello a ruote, per trasportare vivande in giardino o alla piscina. Anche il campo da tennis era stato risistemato, come quello da golf. Una grande quercia dai rami fluenti si ergeva da un lato della residenza e, ai bordi dell’ingresso, larghi vasi di ceramica dipinta, che accompagnavano l’entrata. Dove una volta vi era la Balilla, ora è parcheggiata una Jaguar. Seduto al bar, con un bicchiere di whisky, Gianni esordisce dicendo: “Ti ho preparato il progetto. Sto facendo tirare i lucidi”.
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PRIMA PARTE. MARIO
E Mario. “E il preventivo? “I preventivi li lascio a te. Tanto i miei, non ti vanno mai bene. “Ma quanto viene a costare?”. “Costa quello che deve costare!”. “Non cominciare con le monate! Una cifra. Di’ una cifra”. “Appena te la dico, tu mi rispondi che è troppo e non ci si guadagna”. “Ma ho ragione”. “Allora non parliamone qui. Per scannarci c’è l’ufficio. Qui, ce li vogliamo fare un paio di set a tennis? “Fa troppo caldo... Si suda. Piuttosto, nove buche a golf”. “Tu ti scegli sempre il gioco che ti viene meglio. Lo sai che a golf, sono scarso”. “Allora, dov’è andata a finire la tua teoria che dato un oggetto mobile che si sposta da A verso C, attraverso B...”. Gianni lo interrombe: “Ah... Tu e questa vecchia storia! È una cosa che dicevo prima della guerra, una monata”. “Lo vedi che dici sempre monate!”. Diana, nel fulgore dei suoi 34 anni, si trova su una sdraio a prendere il sole, con un costume intero. Mario, con un ramo secco, prova a vuoto, senza pallina, alcuni colpi di golf, mentre Gianni, con le mani in tasca, lo sta a guardare, forse criticamente. Anche Lucina, sua moglie sta arrivando dalla Villa, con un copricostume addosso: avvisa che ha telefonato ai Vincenzi e ai Zamarin, e che arriveranno verso sera. Diana, senza volgere lo sguardo, con voce un poco dura, le sottolinea: “Beh, potevi avvertirmi... Dopo tutto, questa è casa mia”. Mario, che dopo aver lasciato il ramo secco si è avvicinato con Gianni alle sdraio, puntualizza: “Se permetti, questa è anche casa mia”. Gianni, per evitare che la coppia possa litigare, si rivolge subito a Mario: “Ah, Mario, mi sono dimenticato di dirti che forse cade il Governo”. “E tu, come lo sai?”. “Ne ha parlato la radio stamattina. Se continua così, il governo di Zolì dovrà rassegnare le dimissioni. Pensa che è durato solo 440 giorni... E a Padova che cosa succederà... Niente?”.
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“Basta che non scioperino i miei, per me, possono cadere tutti i Governi che vogliono”.
1988, Venezia Dopo la confortevole, calda e lunga doccia il conte s’infila un largo accappatoio che lo avvolge comodamente e rientra nello studio, dove il cameriere è sempre alla scrivania, dove vi è il telefono con il registratore. Gli domanda: “Nessuna telefonata?”. E il cameriere: “No, signor conte. Non ha telefonato nessuno!”. “Ma mio figlio ha proprio detto che avrebbe richiamato lui, vero? Ricordo bene?”. “Proprio come le ho detto: “Parto, vado via da qui. Mi faccio vivo io’. Così ha detto... testuali parole!”. “E non ha detto quando...”. “No, signor conte. Posso andare, ora?”. “Sì, grazie. Puoi andare”, gli dice. Mentre cerca qualcosa nei cassetti di un mobile, pensa: “Eh Vico. Non ho avuto troppo tempo per badare a te! L’avessi saputo... Si dice sempre così. Ma avevo troppe cose da fare. Quando la corda è troppo tesa, mi dicevo, lo facevo proprio per lui”.
1957, Padova Intanto, nell’ufficio della Società Edilizia Ferraro, sorta nel ’57 Mario che è appena giunto, sta già parlando al telefono con un assessore: “È la cosa più facile del mondo! Te lo dico io caro assessore e non fare la lagna. Non ti sto chiedendo la luna. Ti chiedessi una variante, una delibera speciale, lo capirei ma tu devi soltanto far ritardare di un anno – ma mi accontento anche di sei mesi – la pubblicazione del piano regolatore. In sei mesi, io ai tetti ci arrivo e tu non ti sei sporcato neppure le mani... Ma sì che ce la fai... Quanti anni sono che ne parlate? Vuol dire che ne parlerete per un altro po’, mi sembra regolare. Ci conto... No, no, no, ci conto! Ciao”. 34
PRIMA PARTE. MARIO
Entra Gianni. Anche per lui gli anni sono trascorsi. Da sotto il braccio prende i progetti puntandoli contro Mario, come se fossero canne di fucili: “Eccoli qua! Sono pronti. La puntualità, è la cortesia degli ingegneri, esatto?”. “Esatto. Ma guardiamoli un po’”. Sono davanti a un ampio tavolo spoglio. Mario prende un rotolo e lo stende, guardandolo attentamente. Poi lo lascia e il rotolo si chiude da sé, come una molla. Ne prende un altro, lo srotola e, puntando un dito al centro del progetto, con tono autoritario gli dice: “Puntuale sì, ma sempre a perdere tempo con le balle del verde e dei marmi. Che cos’è questo? Un parco? Un bosco? Io faccio il costruttore, non il giardiniere. La terra vale oro, Gianni. Devi andare al sodo. Mettitelo in testa: rapidità e grana. La poesia, lasciala stare”. Gianni è abituato alle sfuriate dell’amico e alza le spalle, rispondendo: “Rispetto la tua filosofia, ma non facciamocene una religione. Se ci lasciamo qualche albero e un po’ di prato qua e là, non sarà la fine del mondo”. “Al sodo, Gianni. Bada, al sodo”. Ma Gianni insiste: “Sono terreni pieni di zanzare. Non ti sono costati niente. Con le lottizzazioni li hai trasformati in un pozzo di San Patrizio... La gente ci dà un sacco di soldi. Vendigli almeno delle case, non delle caserme”. Mario con rabbia affettuosa, spinge la fronte contro la sua, come un ariete che fa a cornate: “Testone! Non mi dai mai retta. Ma vediamo chi di noi due ha la testa più dura”. “Vedrai che alla fine... Dimmi, ti ho mai fatto perdere una lira?”. Mario si è quasi addolcito e convinto: “Va beh... Lasciamo i figli dai nonni, e andiamo via. Facciamo una vacanza. Riposo! Campagna! Non vedo l’ora di stare un po’ tranquillo”. *** Nella Villa sul Brenta, Mario e Gianni sono seduti sotto il portico a bere un drink. Fuori il sole batte forte. Lucina e Diana stanno nuotando in piscina. Gianni, tenta di iniziare un discorso: “Sai, Mario, forse dovremmo cambiare un po’ genere...”. “Cambiare come?”. 35
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1976, Padova È giorno di mercato, in città. Su quella strada popolare, un viavài di gente cammina guardando le bancarelle: chi compera, chi getta solo un’occhiata, chi litiga per il prezzo della merce... Per terra, un’abbondante sporcizia... Un vecchio cammina su e giù, tiene dei giornali, grida la notizia del giorno: “Il Gazzettino. In prima pagina. Hanno arrestato di nuovo Renato Curcio! Curcio, delle Brigate rosse!”. Anche una bancarella di verdure, un ortolano sta incartando dell’insalata, dentro a un altro Quotidiano, che riporta a grandi titoli la notizia. In concomitanza, nel salotto di casa Ferraro, Vittorio e Jeanette, siedono davanti a un telegiornale che mostra scene di auto che bruciano, autobus rovesciati, cariche della polizia, fughe di giovani e poi lo speaker che da la notizia dell’arresto di Curcio. Vittorio: “Peggio che nel 1921... Allora mi iscrissi al fascio... Ma stavolta è terribile”. E Jeanette: “Non si sa neppure chi li comanda...”. “Se hanno arrestato Curcio, senz’altro ci sarà chi ha preso il suo posto”. *** Nella sede della Società Edilizia Ferraro, Mario, invece, sta discutendo con tre suoi collaboratori: “No. Anche a costo di farmi gambizzare da questi figli di puttana si dovrà fare intervenire la polizia. Le case le ho costruite io. Non ammetto occupazioni!”. Un collaboratore gli vorrebbe dire qualcosa: “Ma vede, avvocato...”. Ma subito Mario lo zittisce: “Non voglio vedere, voglio ordine!”. Tenta il secondo collaboratore: “Il commissario, mi ha detto...”. Ma anche questo viene interrotto da Mario, che continua: “...telefonerò io al questore!”. Il terzo collaboratore, che fino a quel momento, aveva tenuto una radiolina a transistor all’orecchio, molto bassa, allarmato, la alza di volume per farla ascoltare a tutti: “Il magistrato Francesco Coco,
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SECONDA PARTE. ELSA
è stato assassinato dalle Brigate rosse a Genova, insieme ai due della sua scorta”. L’omicidio, il primo di un magistrato condotto dalle Brigate rosse, ha un grande impatto sull’opinione pubblica che considera la dimostrazione delle capacità dei brigatisti, nell’organizzare attentati contro chi è ritenuto un ostacolo alla loro lotta armata rivoluzionaria per il comunismo. Chi tiene in mano la radiolina dice: “È arrivato il momento della pena di morte. Occhio per occhio, con questi assassini”. Mario ha ascoltato e risponde: “Non lasciamoci impressionare. Mi chiami subito il questore. Voglio gli occupanti fuori, entro oggi!”. *** A Porto Marghera, lontano da Padova, Vico, Elsa con altri studenti, stanno aspettando il cambio degli operai ammassati ai cancelli, in attesa di entrare per il cambio-turno. Alcuni prendono i volantini degli studenti, per dargli un’occhiata, altri più interessati ad entrare, se li mettono in tasca. Altri ancora li appallottolano appena presi, gettandoli a terra. Qualcuno chiede: “Ma che roba è? Di che razza siete?”. E Vico, con orgoglio: “Collettivo studenti-operai”. E un altro operaio, ridendo, chiede: “Non c’è amalgama, signorini”. Un altro, che letto il volantino, domanda: “E gli operai dove li tenete?”. Ed Elsa: “Soltanto con la solidarietà noi...”. Ma viene interrotta subito dallo stesso: “...ma venite dentro, in fonderia... è un divertimento, uno scherzo. Otto ore a rompervi le ossa... Vi diamo una scelta: o in fonderia o alle presse...”. Ma ecco che interviene un altro operaio, della stessa età di Vico: “Ma tu sei figlio di operai o dei padroni? Ma vai, vai! Andatevene a casa. Non restate qui!”. Allontanandosi da loro, Elsa cerca di alzare il morale a Vico: “È un’esperienza dura, ma necessaria. Hanno ragione ad essere diffidenti. Non farti smontare... Se vedono che non molliamo, se capi-
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scono che non è né una moda, né capriccio, prima o poi capiranno che la rivoluzione per noi non è solo un gioco”. Vengono raggiunti da uno studente che si tampona il naso sanguinante con un fazzoletto, e chiede: “Vico, che ci siamo venuti a fare? Guarda... questo è un pugno in faccia”. E Vico: “Anche i pugni, fanno parte del Movimento. Quelli presi, quelli dati. Basta che siano persone giuste quelle che le danno e quelle che le prendono...”. Ma Elsa, borbotta: “Perdona loro, perché non sanno quello che fanno”. “Non scherzare, Elsa. Non scherzare troppo...”. *** All’interno di un vecchio palazzo disabitato, Vico, Elsa e i loro compagni – Werter, Ghiaccio, Odissea, Confucio e Mara – si danno appuntamento a sera. Entrano dal portone senza luce e già odono dei canti, degli slogan, degli urli di altri già arrivati. È li che tutti si riuniscono. Quasi tutti hanno la stessa età. Il loro capo, Spartaco, è il più anziano, dai tratti duri, marcati, dai modi autoritari, bruschi. Ha 35 anni. Subito, dice al gruppo di Vico: “Siete in ritardo, che sia l’ultima volta”. Poi, rivolgendosi a Vico: “Compagno, bisogna rafforzare l’organizzazione con gente selezionata, dura... Hai capito?”. Elsa con la sua tenue ironia, per tutta risposta, ritma: “Lot-ta du-ra. Sen-za pau-ra!”. Mara, compagna di Spartaco, con profonda antipatia la zittisce: “Stronza, smettila. Ascolta, Spartaco”. Spartaco, meravigliato, si rivolge a Vico: “Ma dove l’hai trovata ’sta scimmietta? Te la porti sempre appresso?”. E Vico: “Stai tranquillo. Garantisco io. Scherza... ma è impegnata”. “Ok. La metteremo alla prova. E anche tu, Vico. Non credere di essere promosso”. “Devo fare qualche esame, Spartaco?”. “Eh... ne farai tanti di esami...”. “Allora cominciamo subito”. Il gruppo esce e si avvia a un’osteria che Spartaco conosce molto bene. È un ambiente fumoso, cupo, male illuminato, con poche 52
SECONDA PARTE. ELSA
persone. Entrano e vanno ad occupare un tavolo appartato. Subito giunge l’oste. Spartaco ordina per sé due toast e due birre. Confucio, Odissea, Ghiaccio e Mara chiedono un’aranciata, Elsa una coca cola, Vico e Werther un bicchiere di vino. Spartaco inizia col dire: “Mara e Ghiaccio, sanno già di che si tratta. Ma voialtri, sentitemi bene, senza discussioni: o ci state, o non ci state”. Elsa interrompe: “Ci stiamo a cosa?”. Viene coperta subito da Vico, convinto: “Ci stiamo, ci stiamo, vogliamo fare sul serio”. Mara chiede con ironia: “Anche la stronzetta?”. Vico, seccato, le risponde: “Non è una stronzetta. E ci sta anche lei”. L’oste arriva, distribuisce le ordinazioni e lascia sul tavolo uno straccetto di carta con il conto. Spartaco addenta subito il primo dei suoi toast. Quando è sicuro che l’oste sia a debita distanza, guarda Vico: “Gli esami cominciano subito, ma alla rovescia. A casa del preside di facoltà: benzina sulla porta di casa, fuoco, e poi... gambe. Stessa cosa con l’auto di quel gobbo di assistente di giurisprudenza e poi tutti qui, a rapporto”. Mentre tutti annuiscono, Vico, con una lieve perplessità, chiede: “Subito?”. E Spartaco: “Certo, subito. Tu ed Elsa con me. Gli altri, con Mara”. Vico lancia uno sguardo a Elsa, che annuisce e tutti escono dall’osteria. È una casa borghese, al terzo piano, quella dove abita il preside. Silenziosamente, con le Clarks che non fanno rumore, Spartaco, seguito da Elsa e Vico, arrivano sul pianerottolo. Lontano, ovattato, si sente un acciottolio di piatti, l’audio di un televisione, qualcuno che chiama qualcun’altro. Elsa è nervosissima, tiene una sporta della spesa dalla quale estrae una tanica di benzina. Spartaco, con un gesto, le ordina di spargere il liquido infiammabile contro la porta. Elsa indirizza il getto solo da una parte, ma Spartaco le fa cenno di distribuirlo invece lungo quella porta. Vico vorrebbe molto sostituirsi ad Elsa, ma Spartaco, con rabbia, le prende la tanica dalle mani e finisce il lavoro. Vico accende un fiammifero e lo accosta al 53
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pavimento e subito il fuoco divampa. Vico e Spartaco balzano indietro, mentre Elsa paralizzata, viene presa per un braccio da Vico che la trascina giù per le scale. Spartaco è già per strada e cammina normalmente fra la gente. Alcune macchine parcheggiate dall’altra parte della via iniziano a bruciare. Contemporaneamente qualche clacson dotato di allarme si mette ad ululare, creando un fuggi fuggi dei passanti. Ghiaccio, Odissea e Werther scappano per conto loro. Mara, invece, va a sbattere contro qualcuno che corre spingendolo a terra. Spartaco, con altri passanti, si rifugia in un negozio che ha le serrande aperte, mentre Elsa e Vico corrono nel senso opposto alla scena. Sono ancora lontane le sirene della polizia che avvertono del loro arrivo. Il loro rumore viene coperto dallo scoppio del serbatoio di una macchina, che emette un tremendo boato, il fuoco si propaga anche ad altre macchine. Velocemente, Elsa e Vico raggiungono la casa di lui. Elsa preferisce tornare dai propri genitori. È stanca. Poi... quelle macchine bruciate...non vuole pensarci. Due passi le faranno bene. Bacia Vico e svolta l’angolo. *** Vico raggiunge il portone, lo chiude, attraversa il giardino, apre l’uscio di casa, accende la luce, si dirige in cucina per prendere dal frigorifero una bottiglia di acqua fresca, poi entra nel salone. Trova i genitori in vestaglia, ancora in piedi. E Mario: “Ah... sei tu. Sono mesi che non ti vediamo. Hai preso la casa per un albergo?”. E Vico, seccatamente: “Per una notte che sono qui, ti metti anche a fare la predica?”. “Che tono è questo? Credi di...”. Vico lo interrompe ancora più secco: “Ti ripeto: non fare le prediche... Non ne hai la stoffa”. “Ma come ti permetti? Tu...”. “...io vivo la mia vita”. “Già... Una vita da scioperato”. “Ecco, bravo. Così parlano i padroni. Scioperato è proprio il termine adeguato”.
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SECONDA PARTE. ELSA
Mario alza un poco la voce: “E come ti dovrei chiamare? Non fai niente: un esame, un lavoro, un libro... niente di niente”. “Lascia stare, papà... Tanto il mestiere non me lo insegni...”. “Il mestiere?”. “Sì, papà”, grida Vico. “Il padrone, lo sfruttatore. Come dice lo zio Gianni, il corruttore. Tu non hai da dire niente più a nessuno. Sei fuori! La raffica che ti leverà dal mondo sarà sprecata”. Diana interviene con voce alterata: “Vico! È tuo padre. Questa casa è sua. Ti mantiene”. Vico reagisce con disprezzo, sottolineando: “Sei tu, la mantenuta. Resti sua moglie perché ti dà questa casa, la Villa, il lusso, i soldi... Meglio che stai zitta. Prima gli fai le corna e ora reciti la scena madre”. Mario, con estrema violenza, reagisce urlando: “Basta! Fuori di qui! Bastardo”. “Appunto. L’ho detto io per primo. Se sono un bastardo è perché tu hai le corna. Borghese... ladro...”. Butta la bottiglia d’acqua in aria, come se fosse un sasso, il contenuto vola da tutte le parti. Poi esce di casa, sbattendo la porta. Vico si reca a casa di Elsa. È già tarda notte. Suona con insistenza il campanello per svegliare qualcuno. Elsa si infila svelta una vestaglia e, a passi rapidi, va ad aprire la porta. Non si aspetta di trovarsi Vico di fronte: “Che succede...!”. “Dai... fammi entrare e chiudi la porta. Succede che mi hanno cacciato da casa”. “Cacciato?”. “Sì. Stavolta mi sono proprio rotto. Ho chiuso! Chiuso”. Elsa cammina verso il salotto, seguita da Vico, e annuisce: “Doveva succedere, no? La camera degli ospiti non è pronta. Dormirai qui”, gli indica il divano. Ma Vico, ribatte, con decisione: “No, dormirò con te... vorrai dire”. “Ma non mi pare il...”. Lui la prende per le braccia, scuotendola: “Che cosa non ti pare? Dobbiamo scopare solo in macchina? Perché? Per i tuoi genitori?”. Quasi evocato dal richiamo di Vico, appare Gianni in vestaglia, un po’ assonnato e un po’ preoccupato: “Vico, ma che ci fai qui? Sei ubriaco?”.
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Gianni annuisce. Con voce afona – come se si affidasse alla forza del carattere di Mario – domanda: “Allora, che si fa? “Polizia, da escludere”. “Ma almeno sarebbe protetta”. “Protetta? E lo scandalo? Il lavoro? Tutta la nostra vita? Precipiteremo tutti come un masso nello stagno. La rovina, capisci? La rovina”. Gianni si rende conto che Mario sta pensando solo a se stesso. Ma poi, con un po’ di cuore, Mario continua: “E chi ci dice che Elsa avrebbe la protezione? Intanto dovrebbe farsi il carcere, passare i processi... Nelle carceri, succede di tutto. No, la polizia è da escludere”. Gianni annuisce: “Poi necessariamente dovrebbe coinvolgere Vico”. Mario borbotta: “Già... Vico... Sarebbe il primo ad andarci di mezzo. Ma Dio, che casino hanno combinato ’sti coglioni!”. Gianni riporta la conversazione sul pratico: “Allora: qui non può stare. È il primo posto dove tutti la cercherebbero. La polizia la escludiamo. Da te è lo stesso, anzi peggio”. Mario si alza, deciso: “Ho trovato. Tiriamo fuori quello che occorre e la spediamo a Parigi. Qualcosa Elsa si inventerà... un lavoro... comunque qualcosa”. Gianni annuisce liberato, e tira un sospiro di sollievo: “Giusto”. Prima di andarsene, Mario conclude: “Io, intanto, cerco di recuperare Vico. Dio voglia che mi riesca di tirarlo fuori da questo imbroglio...”.
1978, Padova, casetta di campagna Intanto, nella casetta, Odissea è in piedi, urla con un dito puntato verso qualcuno un po’ più in basso di lui, evidentemente contro qualcuno seduto: “Tu hai portato qui quella puttana!”. Vico siede su un basso sgabello, isolato dagli altri. Ha gli occhi di un animale braccato e uno strano tremore alle labbra. Le mani strette una contro l’altra. Odissea, continua: “Tu, con la tua sicurezza del cazzo! ‘Ci penso, ci penso io. Garantisco io’. E adesso? Che cosa garantisci tu?”.
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TERZA PARTE. VICO
Le accuse di Odissea sono state espresse con violento astio. Con più pacatezza, invece, Ghiaccio lo interrompe: “Odissea, smettila un attimo”. Poi, rivolgendosi a Vico, duro ma pacato: “Invece di stare lì come uno stronzo, hai una soluzione?”. Mara interviene: “E la chiedi a lui, una soluzione? Lui, che quando c’è da agire trova sempre il modo di stare lontano?”. Parla Werther: “Chi sbaglia, paga. Tu ci hai messi nelle mani di quella fottuta”. Vico, quasi balbettando, risponde: “Ma come potevo immaginare? Ideologicamente Elsa...”. Mara, pratica e decisa, lo interrompe, alzando la voce: “Qui si gira in tondo. Se non ci muoviamo subito affoghiamo come topi. Parlare non serve. Spartaco, decidi tu, alla svelta. Ogni minuto è perso. Può farci arrivare gli sbirri”. Spartaco, che è rimasto silenzioso per tutto il tempo, decide: “Compagni, qui non siamo più al sicuro... Si sbaracca subito. All’altra base di riserva nemmeno a pensarci. Se li può portare qui, li porterà anche là. Quindi si cambia tutto e si ritorna ognuno a casa propria. Ghiaccio e Odissea trovano un nascondiglio a parte per le armi, l’archivio e le schede. Vi avvertirò io, facendovi sapere la data e l’ora. Intanto avrò trovato una soluzione di riserva, parlerò con il contatto”. Confucio si alza: “Allora andiamo”. E Spartaco: “Un momento. C’è anche un’altra cosa, altrettanto urgente...”. Mara lo previene: “La spia, la puttanella va liquidata subito, prima che possa distruggerci tutti... se non lo ha già fatto”. Werther accenna a Vico: “Tocca a lui questa volta. Che dimostri di essere ancora con noi”. Spartaco annuisce: “È deciso. Vico, tu hai combinato il casino e tu lo risolvi: nettamente. Chiaro?”. Vico, a capo chino, annuisce. Spartaco fa un passo verso di lui e gli porge la pistola, nel silenzio generale. Vico la prende, la infila nella cintura sotto la giacca e lentamente esce dalla casetta. Gli altri sono già in moto: chi si infila il giubbotto, chi raccoglie le sue cose mettendole in una piccola sacca, chi intasca un’arma, chi va in bagno, chi racimola i suoi abiti e li mette in una piccola valigia, chi mette in una sacca la biancheria 81
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lavata, ma ancora bagnata, chi già esce fuori attraverso la porta di una camera.
1988, Bonn, Germania Vico, nel bagnetto del suo piccolo appartamento, sta vomitando nel lavandino. Quando termina, apre il rubinetto, si lava il viso e si guarda nello specchio: “Avevo questa faccia, allora? Forse peggio. Io dovevo risolvere il casino ‘nettamente’, come ordinava Spartaco... Nettamente... cioè con la pistola che mi aveva dato”. Smette di guardarsi allo specchio, esce dal bagnetto e va a sdraiarsi sul letto, ma il pensiero continua: “Devo averlo letto da qualche parte, che le intermittenze del cuore... i sentimenti che si accendono nel tempo, nei mesi, negli anni... Quel giorno nello spazio di un’ora sola, ho avuto tutte le intermittenze... Correre a obbedire. Io, il giustiziere contro chi avrebbe potuto tradire... Avrei dovuto avvertirla e salvarla? Ma c’era bisogno di avvertirla?, mi dicevo, lei che sapeva già tutto, lei che era fuggita, lei che non mi avrebbe mai tradito? Anche il dovere di “militante”, l’onore di rivoluzionario, la coerenza con le idee e di contro... l’affetto, la stima, l’amore per Elsa. Non ho mai analizzato quei pensieri, quelle decisioni irrevocabili e revocate un attimo dopo. A che sarebbe servito? Anche ora, a che serve analizzare? I ricordi di quei momenti sono come un film dell’orrore, che, rigato e sbiadito, accresce i suoi difetti e i suoi spaventi. Se lo sapessero... non mi avrebbero minacciato. Vivo carico di rimorsi, di dolori, di tormento. Anche adesso, vivo soltanto di paura: un sentimento, in fondo, meno tormentoso. Mi uccideranno... se e quando vorranno... Ma morire è meglio che far morire”.
1978, Padova Vico attraversa la strada per entrare nel portone di casa. Si avvia all’ascensore, vi entra e sale all’ultimo piano. Mario, in soprabito, sta uscendo. L’ascensore si apre e si trova davanti Vico. Si guardano, sorpresi l’uno dell’altro: “Papà”. 82
TERZA PARTE. VICO
“Dio sia benedetto”, dice il padre. “Vieni, entriamo in casa”. Mario lo prende per un braccio e quasi lo trascina dentro: “Ti cerco dappertutto e tu, per fortuna, sei tornato. Dai, entra!”. Mario è nervosissimo. Chiude la porta a chiave e si rivolge al figlio: “Devi nasconderti... Per ora vai in campagna. Fra qualche ora ti vengo a prendere...”. Frattanto giunge anche Diana che, nel vederlo, grida: “Vico, figlio mio!”. Ma Mario le si rivolta con un secco ordine: “Zitta. Non è questo il momento di fare scene”. Diana rimane come paralizzata e in silenzio. Mario riprende a rassicurare il figlio: “Ti vengo a prendere io e ti porterò lontano da queste rogne”. Vico rimane freddissimo e gli chiede duramente: “Quali rogne?”, poi fa un gesto alla madre: “E tu, vai via”. Si trascina il padre verso il salone e chiude la porta. Mario ha ancora il soprabito addosso. Se lo toglie, mentre il figlio, sempre duramente, gli chiede sillabando: “Che-cosa-hai?”. “Nulla”. “E allora? Tutto quel discorso di poco fa?”. Mario non risponde. Vico lo prende per un braccio e lo scuote quasi con violenza: “Dimmi... Hai visto Elsa?”. Mario, turbato, continua a non rispondere. “Papà, ti ho fatto una domanda. Hai visto Elsa?”. Mario si libera dalla stretta di Vico e, volgendogli le spalle, risponde: “Non l’ho vista. Non ho visto nessuno”. Con disprezzo, minaccioso e disperato, Vico ha un attimo di pausa, durante la quale si guarda attorno e conclude: “Va bene”. Esce dal salone, lasciando la porta aperta. Si avvia all’ingresso ed esce sbattendo forte la porta dietro di sé. Mario nel salone si siede su una poltrona, sfinito, abbattuto e con una grande voglia di piangere. Anche Diana è sulla soglia del salone, carica di dolore, ma sta zitta, mentre guarda Mario che sta piangendo. Vico corre a casa di Gianni. Ha le chiavi. Apre la porta e la richiude piano, piano. Nel piccolo corridoio che porta direttamente
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nel salotto non c’è nessuno. Cautamente, entra nella grande stanza guardandosi attorno. Dalla porta dello studio, esce Gianni, sorpreso della sua presenza: “Vico... Come sei entrato? Come mai sei qui? Potevi avvisarmi”. “Sono venuto a prendere Elsa”. Gianni si rasserena: “Molto bene. Sei riuscito a scappare anche tu?”. “A scappare?”, dice Vico, ma subito intuisce tutto e si appresta a rispondere: “Sì, sì, sono scappato. Dov’è Elsa?”. Si dirige verso la camera di lei, mentre Gianni si è accorto dell’equivoco. Cerca di impedire a Vico di avanzare, gli dice: “Non so dov’è. Non la vedo da giorni”. Vico lo prende per la giacca e gli dà uno schiaffo e poi un altro. Lo lascia cadere a terra. Gianni è pieno di paura, cerca di rialzarsi... ci riesce, mettendosi a quattro zampe: “Te lo giuro, Vico. Non è qui. Non so dove sia”. Gianni si è rialzato con fatica, ma Vico di nuovo gli sferra un pugno, poi un altro, con forza, cattiveria e odio. Gianni ricade nei pressi di un mobiletto su cui vi è il telefono, travolgendo tutto. Allora afferra il telefono caduto a terra, cerca di comporre un numero. Nel salone entra Lucina e, vedendo quella scena, grida: “Vico, no! Che fai? Gianni!”. Vico dà un calcio alla mano di Gianni. Gli fa saltare via il telefono. Alle grida di Lucina, Vico perde la testa. Afferra la pistola, ma Lucina gli è addosso. La donna tenta di allontanare Vico da suo marito; Vico con uno strattone la spinge via, estrae la pistola dalla cintura e spara a Gianni, colpendolo al petto. Lucina grida: “Assassino! Disgraziato! Cosa hai fatto?”. Si avvinghia a Vico, urla, piange. Vico la spinge contro un muro per liberarsi di lei, poi corre via. Gianni allunga una mano, verso la moglie... Ha gli occhi già morti. Lucina, dolente, si china sul marito e lo abbraccia, imbrattandosi del sangue che gli esce dal petto. Lo tiene fra le sue braccia, cullandolo, come se fosse un bambino. Lo chiama con voce tenera: “Gianni, amore. Gianni, Gianni...”. Ma Gianni non la sente già più.
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TERZA PARTE. VICO
1988, Bonn, Germania Vico in una grande tipografia spazza il pavimento. È un lavoro umile, ma sufficiente per vivere. Ci sono molti operai all’interno: chi sta alle macchine, chi ai caratteri, chi alla stampa dei giornali e riviste. Vico pensa: “Sono qui, di notte, chiuso nel sottosuolo, tra gente sconosciuta che non sa chi sono. Mi sento protetto? Ma perché sento il bisogno di proteggermi? Dopo la morte di Gianni... devo continuare a ripetermi che ho ucciso Gianni. Non mi sono protetto. Non ho usato cautele. ‘Giocare ai congiurati’, come ironizzava Elsa. Forse era proprio la sua presenza che mi mancava, oppure, come in un romanzo, volevo punirmi, essere punito, essere ammazzato da un poliziotto, piuttosto che dai miei compagni, per coerenza rivoluzionaria”.
1978, Padova Vico esce da una cabina telefonica. Alza lo sguardo verso un orologio stradale che segna le sette di sera. Sempre relativamente cauto, si guarda attorno, si accende una sigaretta e ritorna a camminare. Ogni tanto si ferma davanti a una vetrina illuminata, poi prosegue e svolta per un’altra strada diversa, ed entra in un bar. Ordina una coca cola, la beve sorseggiando fino a quando non la termina. Poi esce e continua a camminare. Attraversa la strada dove c’è un’edicola ancora aperta. Compra un giornale e guarda attentamente la prima pagina, nulla d’interessante. Passa sulle notizie in cronaca, nulla che valga la pena di leggere. Infila il giornale nel giubbotto e si rimette in cammino. Si ritrova davanti all’osteria dove veniva con i compagni. Entra. L’ambiente non è affollato. Qualche persona sola, qualcuno in compagnia, tutti sono seduti ai tavoli a cenare. Quello in fondo, lì, quello era il loro tavolo... è libero, apparecchiato. Vico attraversa l’ambiente, stranamente silenzioso. Nessuno fa caso a lui. Arriva al tavolo, sta per sedersi, ma dal tavolo accanto scattano due poliziotti in borghese, afferrano Vico sbattendolo contro il muro. Lo perquisiscono rapidamente. Altri due clienti si alzano con le armi
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in pugno, anch’essi poliziotti. Vico risulta armato. Il poliziotto che gli ha tolto la pistola la passa a un collega, mentre un altro lo ammanetta e con soddisfazione dice: “Via. Finito. Questo è l’ultimo!”.
1988, Bonn, Germania Alle prime luci dell’alba dalla tipografia escono alcuni operai. È finito il turno. Qualcuno ha in mano un giornale appena stampato. Anche Vico è uscito e si mette in cammino su un marciapiedi lungo il quale sono parcheggiate diverse macchine, fra le quali ve ne una targata Milano. È una Fiat. Vico si spaventa. Si guarda attorno, si sforza di resistere all’emozione. Torna a camminare normalmente, pensando: “Quella macchina, no. Non è per me. Ma sto diventando matto? È soltanto un caso... non devo... Ma neppure se vedessi Spartaco e Mara venirmi incontro assieme con le pistole in mano... neppure in quel caso dovrei pensare che vogliono uccidermi. Soltanto così potrò sopravvivere e non morire per causa mia. Di italiani ne è pieno il mondo. Quella Fiat è un caso. Devo affrontare il caso con la stessa freddezza che mi sono imposto quando ho ucciso Gianni... Allora avevo voglia di gridare, mettermi a parlare, ma l’orgoglio me lo impediva... Avevo un ruolo da interpretare e volevo essere degno della paura che credevo di incutere agli altri”. Vico si volta ancora a guardare dietro di sé, ma la strada è deserta. Gira l’angolo che lo porta verso casa.
1978, Padova, commisariato di polizia La finestra assolata è proprio quella sopra alla testa di un agente in divisa della polizia di Padova. Non lontano da lui, un altro collega in divisa è seduto davanti a una macchina da scrivere. A fianco, il commissario che ha circa l’età di Mario e di Gianni. Accanto a lui, un agente più giovane molto attento, vivace, sveglio, che non dirà una sola parola, ma che prenderà spesso degli appunti. Vico a mascelle serrate, cupo, indurito, teso.
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TERZA PARTE. VICO
Sul tavolo del commissario ci sono delle carte aperte e con voluta calma, domanda a Vico: “Ieri sera ci hai detto, cognome e nome: Ferraro Ludovico. Sei il figlio del conte Ferraro?”. Vico precisa: “Ludovico Ferraro, di Mario!”. Il commissario capisce al volo che Vico prende le distanze dal padre. “Sei maggiorenne. Non abbiamo ancora avvisato tuo padre”. “Bravo. Così gli risparmia un colpo”. “Quindi... il conte non sa niente?”. “Non sa. Se sa, non capisce. E se capisce, si racconta che è un brutto sogno”. Allora il commissario si avvicina al nocciolo della questione: “Ieri sera ti sei dichiarato prigioniero politico”. “Stamattina la situazione non cambia”. “Bene: è una tipica ammissione da terroristi”. “È una epidemia...”. “Si, è proprio un contagio”. “Ma gli appestati, siete voi...”. Il commissario annuisce tranquillo, ma cerca di spiegargli: “Evidentemente non ti rendi conto...”. Vico lo interrompe “... mi rendo conto perfettamente”. “Non ti rendi conto, invece, che per te c’è solo l’ergastolo?”. Si alza. Gira intorno alla scrivania, mentre Vico, ribatte: “E tu non ti rendi conto che sei condannato a vita ad essere schiavo?”. Il commissario gli si avvicina e Vico, alzandosi lentamente, minaccia: “Se ti azzardi a toccarmi, per te è finita”. Ma il commissario ha le mani in tasca. Si limita, con un cenno della testa a indicare a Vico di risedersi, ricordandogli: “Tu, ormai, non fai più niente”. “Ci sono gli altri”. “Anche per gli altri, è finita”. “Noi siamo come l’acqua del fiume...”. E il commissario, continuando la frase: “...Se ne togli un secchio, non hai tolto niente alla sua forza... Sai anch’io leggo il Libretto Rosso, tutte le sere”. Vico chiede, con meno arroganza: “Posso avere una sigaretta?”.
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graphie
testi, modelli, immagini della scrittura femminile
1.
Contessa Lara Novelle toscane a cura di Carlo Caporossi
2.
M’ama? Mamme, madri, matrigne oppure no a cura di Annalisa Bruni, Saveria Chemotti, Antonella Cilento
3.
Neera Teresa a cura di Antonia Arslan
4.
Caterina Percoto Novelle scelte a cura di Elisabetta Feruglio prefazione di Antonia Arslan
5.
Marchesa Colombi Novelle scelte a cura e con prefazione di Carlo Caporossi premessa di Antonia Arslan
6.
Antonietta Giacomelli Vigilie (1914-1918)
poligrafie
voci, storie, narrazioni
1.
Mariuccia Beghetto Passi di donne prefazione di Erminia Macola
2.
Emilio Cannarsi Il cerchio di gesso e altri racconti presentazione di Aldo Comello
3.
Piero Bertoli La grande avventura 1915 - 1918. Tre anni di guerra con i bersaglieri, con gli alpini e negli ospedali da campo
4.
Maria Serena Alborghetti Sulle piste d’Africa
5.
Giovanni Magnano di San Lio Il deserto di Giobbe
6.
Luigi Migliorini La mia lucida follia
7.
Maria Serena Alborghetti Riflessi in uno specchio. Voci di donne da un paese in guerra
8.
Riccarda Pagnozzato Ore immense. L’arte la mia vita
9.
Massimiliano Colucci La mela e altri peccati poco originali
10.
Giovanni Spitale Hestia come sopravvivere alla fine del mondo (o quantomeno del proprio)
11.
Alberto Giordani Soglie
12.
Spomenka Š timec Paesaggio con ombre in un interno
13.
Franco Scarmoncin Racconti di Natale
14.
Franco Scarmoncin Natale con Gesù
15.
Gisella Pagano Noi siamo come l’acqua del fiume. Quegli anni Settanta