Dell’Ospedale di Larino. Una lettura in breve

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ANFIONE e ZETO

collana di architettura diretta da Margherita Petranzan

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dell’ospedale di larino una lettura in breve

ILPOLIGRAFO


Ricerca d’archivio e cura iconografica Michelina Michelotto e Barbara Pastor Pastor Architetti Associati, Venezia

progetto grafico e redazione Il Poligrafo casa editrice grafica Laura Rigon redazione Sara Pierobon copyright Š marzo 2017 Il Poligrafo casa editrice 35121 Padova piazza Eremitani - via Cassan 34 tel. 049 8360887 - fax 049 8360864 e-mail casaeditrice@poligrafo.it www.poligrafo.it ISBN 978-88-9387-003-0


indice

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Dell’Ospedale di Larino Una lettura in breve

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Prima parte

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Seconda parte

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Note

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Crediti fotografici



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dell’ospedale di larino una lettura in breve

L’annuncio della brevità avverte che l’argomento del saggio è già stato oggetto di pubblicazione e altre forme di presentazione pubblica. Lo è stato nel libro Una casa per guarire. Nuovo Ospedale Civile Giuseppe Vietri a Larino, a cura di Michelina Michelotto Pastor 1. Il saggio è composto di due parti. La prima, scritta nel 2009 – in un momento di libertà da impegni gravi –, conserva memoria della forma sintetica nel presentare (in breve) il progetto dell’ospedale e la vicenda storica della sua genesi, discussa in un laborioso seminario, svolto nell’autunno 2006 allo IUAV con la partecipazione di vari docenti nel corso di Progettazione tenuto dal prof. Renato Bocchi, a presentazione del libro appena pubblicato. Vi ho apportato brevi aggiornamenti riguardanti i caratteri disciplinari del gruppo incaricato del progetto e della direzione dei lavori dell’ospedale; e in più una nota riguardante un recente programma di riassetto della grande viabilità che congiunge il Molise al Tirreno, che potrà portare nuove attività, forse benessere, ma con il rischio di confondere l’assetto abitativo degli altopiani. La seconda parte, scritta nell’estate del 2015, ne riprende i commenti, discutendo il processo progettuale; e infine presenta la costruzione del cosiddetto padiglione al guinzaglio, la sede del nuovo Centro iperbarico, edificio di misura equivalente a uno dei reparti specialistici della piattaforma operativa; ma costruito in

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addizione al grande corpo ospedaliero che avrebbe dovuto contenerlo – e, di fatto, l’avrebbe accolto con vantaggio d’efficienza e costo, com’è stato dimostrato dal progetto esecutivo già compiutamente elaborato, ma reso inoperante dai nuovi requisiti di sicurezza al rischio sismico, promulgati in seguito al grave terremoto del 2002, causa del crollo della scuola di San Giuliano di Puglia, poco distante da Larino, e di altri gravi effetti su tutto il Molise. Nella prima parte del saggio, l’illustrazione dei fatti architettonici è ridotta a pochi essenziali disegni e poche foto: implicito invito a consultare l’apparato del citato libro. Più generosamente sono date le illustrazioni della seconda parte, essendo inedita. Il modo succinto di presentare le opere architettoniche, la grande fabbrica che presenta un tipo d’organizzazione singolare (la piattaforma, che porta al perimetro la degenza per servirla dal centro, sistema integrato dell’apparato diagnostico e terapeutico intensivo), consente di fermare lo sguardo su ciò che non è descritto nel citato Una casa per guarire: il nuovo assetto infrastrutturale del territorio, base per una strategia della crescita economica-sociale della regione. Si vede l’organizzazione sanitaria ordinata gerarchicamente su tre nodi a grandezza e carico scalare graduati nelle funzioni terapeutiche: Campobasso il primo, con le più alte funzioni e quantità servite, Termoli il secondo, Larino il terzo, nell’ottica sanitaria e numerica (territoriale); un quarto polo è venuto con la nuova (anni Ottanta) Provincia di Isernia. Un’infrastruttura d’eccellenza nelle comunicazioni rende possibile non solo tale quadro, ma la logica di un nuovo sistema produttivo e abitativo della regione. Tale infrastruttura d’eccellenza è l’assetto del fondovalle de fiume Biferno, tra Campobasso, al centro del territorio, e il porto di Termoli – esso pure centrale nella configurazione geografica della regione. Il fondovalle – originariamente franoso e incerto – è reso sicuro e soprattutto dotato di un grande lago artificiale, con grande suggestione attraversato dalla superstrada. La grande riserva d’acqua doveva alimentare le vaste piane agricole e un polo industriale presso Termoli. La grande e complessa infrastruttura diga-lagoviadotto (giusto ai piedi di Larino) completa e oltrepassa l’intrapresa (anni Sessanta-Settanta) di dotare d’acquedotti, impianti elettrici e sistemi fognari gli agglomerati d’abitazione, dignitose piccole città sugli altopiani. Appare fatale che la regione viva a due velocità: quella dei grandi poli urbani, e quella delle piccole città degli altopiani. Si vede pure che lungo la via tra Isernia e Benevento – una linea quasi semplice (è difficile dire retta una strada naturale, vale a dire costituita da qualche millennio di percorrenze) a quota quasi costante – vi è (ho visto) movimento d’iniziative per la produzione.

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Larino, nell’intermezzo del raccordo tra Campobasso e Termoli, ma sull’altopiano, ha vissuto una trasformazione; nella brevità del saggio emerge un senso complesso nella singolare contraddizione, tra la dotazione dell’infrastruttura ospedaliera integrata al grande sistema e l’assurda durata della sua esecuzione: i trent’anni impiegati per finanziarla sono un calibrato paradosso? Nella brevità del saggio emerge tanto l’apparenza di un disegno finanziario coordinato alla crescita urbana, quanto il convergere casuale di volontà del tutto indipendenti: da una parte il sentimento di nuove intraprese speedy style, dall’altra l’attaccamento al modo di vita slow. La geometria della nuova moderna Larino – la terza – sta sulla traccia della prima geometria romana, in parte popolandosi (almeno nel ricominciamento) del notevole svuotamento della magnifica medievale seconda Larino. La crescita successiva sembra nutrita da nuove aziende sorte nelle “piane di Larino”. La seconda parte del saggio vede nuove interessanti iniziative del presidio, il Centro iperbarico in particolare, che doveva sciogliere la rigidità gerarchica territoriale d’origine; ma che si è rallentata nella crisi maturata con crescente rapidità alla fine della prima decade del 2000 e tuttora in corso. Nella forma in maiuscoletto di alcuni capoversi è sottesa una marca critica rispetto alla gestione amministrativa regionale che ha impegnato trent’anni a far crescere l’ospedale e altri dieci a lasciare quasi finito il Centro iperbarico, opera di sicuro prestigio sanitario, con possibile effetto economico positivo su una gestione che ora pare in languore. Siamo in attesa dell’approvazione dell’ultimo lotto a completamento di modeste finiture interne – necessarie all’attività del centro quale apparato di ricerca, mentre già può essere luogo di cura – ma anche delle opere di sistemazione esterne, riguardanti il parcheggio e la dignità del sito. Di più: nell’ultimo sopralluogo (seconda settimana del marzo 2016) ho constatato che alcuni reparti dell’ospedale sono stati chiusi, mentre un altro è stato affidato a un ente di riabilitazione per anziani. Tuttavia i reparti attivi dimostrano l’orgoglio dei resistenti: la piena efficienza. È pensabile che il grande impianto, già bene servito da percorsi orizzontali e verticali, accolga attività sociali per la cura della salute e del benessere differenti da quelle ordinative tipiche del presidio ospedaliero; e che la grande infrastruttura regionale, costruita a far tempo dagli anni Sessanta, sia contornata da minori organismi infrastrutturali a risolvere l’effetto delle grandi concentrazioni urbane che svuotano i magnifici territori sub-regionali. La formazione originaria del gruppo di progettazione e direzione dei lavori – Valeriano Pastor, Raffaele Vitiello, Giovanni Berchicci, Luciano Ferrauto, Michele Ferri – ha sofferto l’improvvisa scomparsa di Michele Ferri nel 1995. I colleghi hanno chiesto la nomina della figlia, ing. Immacolata Ferri, che si è applicata al progetto e direzione dei lavori dell’ospedale per breve tempo, essendo

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scomparsa per improvvisa malattia nel 1998. Le è succeduto, sempre su nostra richiesta, il marito Giuseppe Guglielmi, anch’egli ingegnere. Nel 2011 è scomparso anche Luciano Ferrauto, uno dei primi forti collaboratori. Era per noi, progettisti e collegio direzionale, il direttore dei lavori del Centro iperbarico. Lo ha sostituito nell’incarico il figlio, Francesco Ferrauto, ingegnere idraulico, con molteplici esperienze nell’edificazione. Non so comunicare nella scrittura il mio dolore per la scomparsa recentissima di due componenti il gruppo progettista dell’ospedale, Raffaele Vitiello e Giovanni Berchicci, a breve distanza di tempo, nel luglio 2016 e nel gennaio 2017. Il primo, Raffaele Vitiello, conosciuto all’Istituto Universitario di Architettura, è stato assistente al mio corso universitario, condividendo idee sulle linee della modernità in architettura; quindi con naturalezza ha svolto compiti di condirettore nel corso della progettazione architettonica e nel processo della costruzione – compiti sempre discussi fra tutti i componenti del gruppo. Giovanni Berchicci, germinato ingegnere dalla passione matematica, aveva l’originalità di saper lanciare, nel corso delle più difficili questioni e dibattiti tra noi o con le varie amministrazioni, una parola che rasserenava l’esito dei confronti. Se in tempi ragionevolmente brevi riprenderà il lavoro di completamento, o adeguamento funzionale, della grande opera iniziata quarant’anni or sono con Raffaele Vitiello, Giovanni Berchicci, Luciano Ferrauto e Michele Ferri, il mio ruolo direttivo d’invenzione avrà seguito con i loro successori, figli o congiunti, perfetti professionisti; e sarà resa gloria agli scomparsi.

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Prima parte eppur si muove: considerando la vita del Molise, lavoro e opere pubbliche, la nota sottende il paradosso che si accompagna al progetto e costruzione dell’ospedale, poiché sta nel Molise. Lo scherzo con l’accento causale indizia un carattere di questa regione: sta nel centro fisico dello Stato, e degli eventi della vita civica, ma è remoto dal mondo delle notizie, nominato per lo più nelle catastrofi e, anche in queste, per tempi brevi. La costruzione dell’ospedale è durata trent’anni solo perché sta nel Molise, nell’ultima delle regioni. Nel 1967, inizio del progetto, un Piano d’assetto territoriale e sviluppo economico prometteva rinnovamenti del modello di vita risalente da una tradizione millenaria fondata sul valore e amore della terra. Effetto del “miracolo economico” degli anni Cinquanta, che pur giungendo con relativo ritardo e modeste dotazioni si dispiegava in un quadro integrato d’indirizzi nell’investimento finanziario e nella strategia delle attuazioni. Riguardavano le comunicazioni, la mobilità territoriale, la salute pubblica e con più ampio impegno il welfare, le primarie dotazioni urbane e territoriali – acqua, energia, rifiuti –, l’educazione e la gestione della giustizia. La strategia delle attuazioni sembrava articolata tra processi di scala, per soddisfare con priorità bisogni primari dei comuni – piccoli acquedotti, fognature, illuminazione, le scuole di ogni grado – e darne quindi ragione di misura organica nel disegno territoriale e nell’intrapresa delle grandi infrastrutture: la viabilità regionale, il sistema ospedaliero, il lago artificiale per fornire un acquedotto a servizio del sistema agricolo e di un polo industriale. Tali infrastrutture dovevano essere i fattori attivi nella rigenerazione del modello di vita per la costituenda Regione Amministrativa. L’immagine stessa del sistema appariva di per sé quale messaggio d’innovazione: un lago artificiale prometteva sicuro riscatto dal timore della siccità che teneva da sempre sotto scacco la produttività di un suolo ferace; la strada veloce di fondovalle, fatta sicura dai movimenti di frana, consentendo rapidi collegamenti, ravvicinava di fatto gli abitati antichi ai centri di relazione, amministrativi e commerciali, alle scuole di specializzazione, ai centri di cura e a quelli di svago; la prospettiva di uno sviluppo industriale relativamente diffuso pareva un effetto molto probabile derivato dall’attività di un polo industriale. Nel 1967 le torri piezometriche dei nuovi acquedotti comunali, monumenti moderni in cemento armato, svettavano accanto ai campanili, monumenti storici delle piccole, nobili città antiche, luoghi sicuri sugli alti crinali dei monti e dei promontori. Era in corso la costruzione della diga e del lungo viadotto, che con decisi rettifili e ampie eleganti curve avrebbe attraversato il lago. Era già decisa la costruzione di tre ospedali: a Campobasso il presidio regionale, a Termoli uno di scala provinciale, a Larino uno di zona (scala mandamentale) – un quarto presidio di grande misura fu in seguito programmato con l’istituzione della Provincia valeriano pastor

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Il Molise: la sua centralità nel corpo geografico d’Italia Mappa dall’Adriatico al Tirreno

Il Molise è compreso tra i paralleli geodetici a nord di Roma e a sud di Napoli. La ferrovia costiera, l’autostrada adriatica e il porto di Termoli sono le infrastrutture fondamentali nella vita della regione. La configurazione orografica e il sistema stradale appenninico favoriscono il rapporto delle attività sociali e produttive con Napoli. La prossimità del confine regionale alla costa campana del Tirreno suggerisce il rafforzamento delle comunicazioni con l’autostrada Roma-Napoli e con i piccoli porti tirrenici, che porterebbe al Molise la proprietà singolare di poter trarre vantaggio relazionale da due mari: Adriatico e Tirreno.

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d’Isernia. Erano dislocati secondo una configurazione territoriale semplice che costituiva la nuova armatura strutturale della regione, dal corpo montano centrale al mare: l’asse di collegamento rapido di fondovalle, da Campobasso a Termoli, con Larino sulle prime pendici montane – stazione prestigiosa quale hub ospedaliero di un largo cerchio di comuni collinari. nuove forme architettoniche avrebbero dovuto rendere performativo il mutamento del sistema di servizi e relazioni civiche così configurato. Le torri piezometriche costituivano un modello primordiale di tale ragione performativa; la loro tecnicità manifestava un senso nuovo dell’abitare luoghi nei quali la raccolta dell’acqua, benché studiata nel corso di secoli, non aveva tecniche di sicuro esito, che consentissero il servizio per ogni casa: lo manifestava in modo forte, quanto gli edifici della fede, cattedrali e campanili delle piccole città; ma fermandosi alla soglia degli esiti formali che quella stessa ricerca delle condizioni di benessere avrebbe potuto offrire: c’è modo e modo di impegnare le pratiche vecchie per nuovi usi – nel caso delle torri una stanca trasposizione di tipi ripetuti da luoghi qualunque fa mancare un accordo tanto con l’immagine contestuale, con il sistema simbolico sotteso, quanto con una prospettiva più penetrante su nuovi usi di pratiche vecchie. Tale prospettiva si proponeva per il progetto dell’ospedale. Con accento più complesso se lo sguardo puntava alla diga e al grande viadotto, cioè a opere incomparabili all’ambiente, paesaggio storico, Stimmung derivata dalle tecniche tradizionali dell’abitare. Un particolare senso delle differenze di valore fra tali opere, torri da una parte e diga-lago-viadotto dall’altra, va rilevato nella numerosità delle torri che, pur nella banalità della forma di ognuna, tende a costituire un’icona della nuova condizione dell’abitare; ma il grande numero, positiva omogeneità, indizia un certo disequilibrio quando è posto al cospetto dell’unicità assoluta del sistema dei tre elementi infrastrutturali, unicità irripetibile nel corpo territoriale, evento decontestualizzato che obbliga a rimeditare su quella Stimmung proveniente dai secoli per disegnare una prospettiva che ne abbia cura generando innovazioni. Il disequilibrio tra modi e valori sollecitava tentativi progettuali tesi a nuovi significati, prestazioni e immagini, nell’operatività delle pratiche tecniche più avanzate, in una prova del loro spirito decontestualizzante a essere coinvolto positivamente nella cura di quelle pratiche risalenti dalle tradizioni. La prospettiva dell’innovazione nel coinvolgimento delle tradizioni esige però una disamina sull’effetto dell’uso e sulle strategie impegnate a guidare gli sviluppi desiderati, le ragioni e i modi della necessaria gradualità delle trasformazioni riguardanti il modello storico dell’abitare. Nel corso del tempo un dubbio iniziale si è fatto convincimento fermo: che tale attenzione sull’effetto delle strategie impegnate sia stato debole proprio nella governance dell’attuazione. valeriano pastor

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L’origine trapassa i secoli. Il modo di scegliere il sito, per abitare e costruire, segue variazioni di scelta costanti: sulla sommità delle formazioni montuose o su promontori che si articolano a mezza costa è data preferenza ai complessi di rilevanza rituale, religiosa o sociale. La quota altimetrica degli agglomerati collinari urbani varia dai 400 agli 800 m. La loro forma dimostra dignità dell’abitare e sapienza costruttiva. Il titolo “agglomerato urbano” (formazione cresciuta per addizioni di forma incerta) non è sempre appropriato; Larino medievale è chiusa in un circolo compatto di case: una cinta muraria abitata. Larino “la terza” oggi sta crescendo per parti, come un agglomerato; ma il centro fa capo dai resti archeologici romani (la prima) e dai luoghi rituali quale base della vita civica, superandoli con insiemi lottizzati, sui promontori o nelle valli di facile accesso. Il tema di uno sviluppo che nasce con rispetto delle strutture storico-arcaiche ha per contrapposto la forma diffusa ormai in tutto il Molise: la produzione di energia con sistema a pale eoliche che sconvolge l’immagine nota e amata del paesaggio territoriale. I due sistemi hanno un fondo comune: una rivoluzione sistematica e progressiva – a poco a poco, ma anche in modo inaspettatamente rapido e diffuso – quella dovuta al sistema digitale, che tutti ormai pratichiamo e che sta sommovendo ogni forma della nostra organizzazione.

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Le pale eoliche di oggi Le torri piezometriche degli anni Sessanta Agglomerati urbani, borghi e cittĂ nel paesaggio

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Tutti i collegamenti stradali fino agli anni Sessanta hanno conservato, con modeste modifiche, i caratteri primordiali di un sicuro adattamento alle configurazioni solide del suolo, scegliendo tanto i percorsi di crinale, da cui è spettacolare la visione del territorio montano, tanto quelli a mezza costa che evitano configurazioni impervie. Il programma di sviluppo del benessere regionale sembra pensato per due fasi d’attuazione, variando la misura del rapporto slow/fast: dapprima a favore della misura fast, di seguito, riequilibrando le differenze, con attenzione alla misura slow. In definitiva, operando sulle due misure a tempi intrecciati. La misura slow doveva assicurare da principio in tempi moderatamente lunghi la dotazione delle mancanti infrastrutture primarie – gli acquedotti, le fognature e lo smaltimento rifiuti, l’illuminazione stradale – portando benessere a un modello di vita tradizionale dei borghi e agglomerati urbani.

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La misura fast doveva assicurare in tempi stretti un forte sistema infrastrutturale coordinando la contemporaneità di grandi opere. Stradali anzitutto, per rendere rapidi i collegamenti tra capoluoghi – Campobasso-Termoli in primis, e Isernia (istituendone la provincia) – con la ristrutturazione della strada fondovalle del Biferno, generando in contemporanea una grande riserva d’acqua proprio su questo fiume: un lago da attraversare – suggestione costruttiva – con un lungo e alto viadotto che giunge alla diga di contenimento. La strada prosegue poi affiancata dall’acquedotto – una grossa condotta tubolare a giorno – giungendo al polo industriale presso Termoli, mentre l’acquedotto serve nel percorso l’irrorazione di terre feconde. Questo è il sistema infrastrutturale che ha modificato in modo sensibile il processo vitale del Molise nel corso di trent’anni, accentuando le differenze tra gli insediamenti a differente struttura, a due misure dapprincipio compatibili: ora, per contro, in tendenza disequilibrante. La realizzazione di questa prima fase strategica è durata quanto la costruzione e sistemazione degli ospedali, infrastrutture della Sanità, che hanno goduto i benefici dello spirito fast, soltanto a Termoli e Campobasso. Si è intanto aperto un nuovo programma (per quanto ho potuto rilevare); la cui sostanza sembra diretta a diminuire lo scarto slow/fast: ho visto opere di facilitazione dei percorsi collinari, la cui opportunità forse è stata sollecitata dal terremoto del 2002 che ha colpito varie zone del sud-est molisano, rendendo palese la necessità di semplificare e rendere efficiente la rete infrastrutturale nel settore sud-est verso la Puglia (Regione in crescita) – così confermando la volontà di abitare gli altopiani, sfuggendo le concentrazioni urbane e facilitando le relazioni civiche tra il complesso dei borghi, delle piccole città collinari e dei capoluoghi. La proposta, sostenuta e finanziata da enti e società private, per la costruzione di un’autostrada tra Adriatico e Tirreno, seguendo da Termoli il Biferno, conferma il modello della concentrazione d’interessi e sviluppo sui due poli urbani e sul settore nord-ovest mettendo in dormiveglia il settore sud-est, che si manifesta invece quale nuovo modello di vita produttiva che ha rispetto delle origini.

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Larino e il nodo della grande infrastruttura. Diga, lago e viadotto, acquedotto Il viadotto della superstrada Fondo Valle del Biferno attraversa il lago di Guardialfiera


quale architettura per la terza larino? Quando cominciammo il nostro progetto, la terza Larino si stava formando: la marca formale urbana era data da un gruppo di case popolari, otto blocchi di buone case d’abitazione, la cui posizione e il cui andamento su due file erano ordinati dal tracciato regolatore nel sottosuolo: nel corpo archeologico di un brano della città romana, nella sua matrice geometrica. La prima fila assegnava un certo valore urbano al percorso che saliva il promontorio per raggiungere l’antico santuario-cappella-mercato, luogo da secoli frequentato, e confluire nel primo brano di città nuova edificato tra la stazione ferroviaria e San Leonardo, nel quale già da tempo era edificato e attivo l’Ospedale Giuseppe Vietri, ed era altresì attivo, in ragione del servizio ferroviario, un importante nucleo di produzione agro-industriale, che nel primo Novecento pareva favorire nuova prospettiva di innovazione nel mondo impreditoriale e in quello della struttura sociale del lavoro. La coincidenza di tale percorso con la direzione del corpo archeologico romano consentirebbe denominazioni italo-latine alla geometria dei tracciati in ragione dell’orientamento; però mancando(mi) conoscenze sufficienti a caratterizzare la compiutezza della forma della città romana, ne faccio uso con sentimento più che per coscienza disciplinare; anzi per riscontrare nell’uso cittadino un corrispondente valore vitale dell’orientamento e quindi della denominazione e senso delle geometrie dei tracciati urbani. Tutto ciò perché il percorso longitudinale sul promontorio sede della terza Larino ha un orientamento prossimo all’est-ovest, al decorso quotidiano del sole, decumano-corso, sede di molte attività cittadine. Tale nuovo decumano-corso, lungo il suo lato nord, fin dall’origine, nella prima metà del Novecento, è stato marcato da due caposaldi architettonici, nei quali la volontà di modernismo – fatto destinale per la terza Larino – si volgeva in chiara modernità (ignoti a me gli autori). Al lato opposto, segnato da piccole costruzioni, allora tutte da rifare, iniziava il declivio del promontorio, la cui estremità ovest era fortemente segnata dai resti dell’anfiteatro – magnifica ellisse di ruderi, nel volgere degli anni restaurata con una sapienza che ne esalta la suggestione. All’apice del lungo tratto iniziale, base della salita a San Leonardo, il decumano-corso è intersecato da una antica traversa: un cardo – se mai lo è stato in età romana – breve rispetto alla misura del corso, nel limite d’ampiezza del promontorio, tuttavia prolungato nel senso abitativo e nella frequentazione lungo le due rampe d’accesso. Quella a nord porta a un nodo che risolve l’accesso all’ospedale e collegamenti dell’arco sud-est dell’abitato e della campagna. Quella a ovest scende ondeggiando al grande percorso, quel singolare tratto di strada che conduce a Larino medievale e va a mezza costa, lungo il pendio collinare che racchiude la città medievale, generando una condizione scenografica da teatro paesaggistico, la cui scena è la città che al suo interno si eleva rappresentando la storicità dell’a-

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bitare. Tale percorso era un tempo un viale di lecci, una galleria arborea che accentuava il senso di continuità vitale, raccordando serie di avvenimenti, lontani e recenti: la città archeologica e quella medievale, e tra esse gli avvenimenti nuovi, quali la ferrovia, l’impianto agro-industriale, il sorgere di un nuovo abitato sulle pendici di San Leonardo con il primo ospedale. Tale percorso – poco più di 1 km – è ora strada statale, la cui gestione per curare la sicurezza e comodità del traffico (un benzinaio, buoni marciapiedi) ha eliminato i fattori di suggestione paesaggistica, degradando un brano di storia di alta intensità e l’emozione di abitarvi. Il breve cardo, che sale dall’apice nord di tale percorso, con ampie curve bene abitate, nell’intersezione pianeggiante con il lungo decumano-corso, è stata occasione per dare corpo di nuova vitalità alla geometria del tracciato urbano, generando oltre l’incrocio un vuoto, aperto invito alle relazioni cittadine: un piazzale con giardino pubblico, luogo di giochi, di incontri e chiacchierate; perciò perimetrato da case alte e forti, con varietà di colorazione e spazialità confortevole di porticati e negozi, per essere luogo di intensa vita cittadina. connotazioni architettoniche per la terza Larino sono state presto dispiegate dai collaboratori al progetto del Nuovo Ospedale, proprio a far capo dal piazzale e dal corso. Il primo edificio costruito sulla piazza è la Sede mandamentale degli uffici giudiziari, edificio connotato con l’impronta della modernità dall’ing. Michele Ferri (il più anziano nel nostro gruppo di progettisti dell’ospedale). Edificio alto, anzi altissimo nell’immagine allora prevalente del vuoto, inizio della formazione della piazza e dell’urbanizzazione contestuale; tuttora dominante a edificazione compiuta, ove la facciata, un chiaro reticolo strutturale, tende ad assumere un valore di segno magistrale nell’impronta della misura necessaria e sufficiente, segno primo della concezione formale della modernità. Altri edifici dell’ing. Ferri hanno contribuito a dare equilibrio alla forma della grande e complessa Larino; in particolare, sul citato significativo percorso, una cappella poligonale, caratterizzata da un’alta guglia, snella ed elegante – giusto inizio scenografico di quella strada che congiunge le diverse età di Larino. Altri interessi hanno allargato l’attività alla cura del territorio, in particolare la direzione del Consorzio agrario tenuta dall’ing. Ferri. L’ing. Giovanni Berchicci dimostrava una spiccata fisionomia di matematico, indifferente ai problemi architettonici se non per la loro calcolabilità; avendo studio in comune con l’arch. Vitiello, curava l’assetto e il calcolo delle strutture dei vari progetti. L’altra metà del suo interesse era la cura ambientale, quindi la progettazione delle opere di servizio necessarie alla vita urbana e territoriale: acquedotti locali, fognature e smaltimento rifiuti, illuminazione stradale, regolazione delle acque di superficie e altri provvedimenti d’assetto territoriale, proveniendo da famiglia

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(Venezia), aprendo il suo principio formante a nuove possibilità – anzi offrendo al mondo l’occasione di riflettere sulla vita di una forma coniugabile all’ambiente. l’inizio era chiaro nel concetto spaziale: l’ultimo livello, la piattaforma (o piastra) – che a monte s’innalzava dal suolo poco più di 2 m (2,20 nella definizione finale), ma dodici a valle, all’intradosso della struttura di calpestio – doveva contenere l’essenziale corpo dell’apparato diagnosi-terapia-degenza, avendo nello spazio sottostante, d’altezza varia secondo il pendio, la restante parte dell’apparato dell’organizzazione. Molti erano i problemi, e con essi i dubbi sulla loro stessa costituzione. Due di forza primaria: l’orientamento e la possibilità di crescita oltre che flessibilità interna. Il concetto spaziale disponeva i reparti della degenza lungo il perimetro della piattaforma, un quadrangolo, circondando i reparti della diagnostica e della Terapia intensiva; ma doveva farsi compatibile con le condizioni ambientali. Perciò bisognava evitare di porre la degenza e qualsiasi attività medica sul lato ovest, quel lato sul quale batte inesorabile il favonio, periodicamente, per non brevi snervanti giornate. D’altra parte pareva opportuno evitare l’esposizione a nord per i reparti di degenza, per una ragione canonica. Per un certo tempo lavorammo collocando reparti di degenza soltanto su due lati, ma raddoppiando l’altezza del corpo di fabbrica: era un mio puntiglio soddisfare una prescrizione riguardante il benessere dei degenti, benché avessi chiara la risoluzione proposta da Le Corbusier per l’Ospedale di Venezia: tutta la residenza nella piattaforma, senza altra veduta che il cielo, da lucernai orientati secondo la geometria della piattaforma, indifferente ai punti cardinali. L’arch. Vitiello, con perfetta aderenza al fascino concettuale di Le Corbusier, insisteva a rendersi indifferenti alle schematiche vecchie prescrizioni. Giungemmo alla determinazione di considerare il tetto dell’unica piattaforma quale fattore costruttivo-formale per generare condizioni di benessere in tutti i reparti dell’unica piattaforma, fossero essi destinati alla degenza, alla diagnosi-terapia o all’attesa per cure ambulatoriali. Il concetto spaziale piattaforma offrì la risoluzione: il tetto era la sorgente di luce e il fattore della ventilazione, era la quinta facciata del prisma quadrangolare. Così era destinato a diventare una costellazione di aperture, di cui si sarebbe definita la tipologia secondo le esigenze d’illuminazione dei reparti, per favorire il soleggiamento o evitarlo. Così garantendo ai pazienti e agli operatori tre condizioni essenziali: la ventilazione graduata nel gioco di riscontro delle aperture; la veduta che unisce il paziente agli avvenimenti del contesto vitale, città e campagna; la luminosità, le cui variazioni nel decorso della giornata fanno viva nel sentimento la memoria dei ritmi della sua vita, nella quotidianità e nelle stagioni: la condizione esistenziale.

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Con tali criteri era data conferma alla configurazione a piattaforma con un solo piano – benché dovesse ancora essere definita nella misura e nella posizione sul sito. La possibilità di lasciar crescere l’edificio secondo imponderabili, future esigenze doveva essere discussa nella sua stessa fondazione, che di fatto si presentava come aporia. L’assillo gestionale veniva allora condizionato dal rapporto tra popolazione e posti letto, secondo criterio statistico desunto dal quadro storico di un cinquantennio e con una proiezione dalla base già bene equilibrata con la legge Mariotti. Dalla stessa base l’impegno scientifico della medicina tendeva, come tuttora tende, a ridurre la durata della degenza: un impegno etico del compito medico. Il quale viene accolto dal compito della gestione economica del sistema sociale sanitario. Se qualche misura doveva poter crescere, non riguardava la degenza nel numero dei posti letto, ma la precisione della diagnostica e l’efficacia della terapia, vale a dire procedimenti risolvibili nelle dotazioni tecniche e spaziali a ciò relative; il cui esito era per noi implicito nello stesso concetto spaziale di cui stavamo esplorando la capacità prestazionale: il luogo poteva essere il corpo spaziale tra la piattaforma e il suolo. Tutto ciò costituiva una verifica positiva dell’abbozzo, il consenso a procedere. Trent’anni dopo abbiamo visto che tutto era giusto, ma anche constatato l’originalità della vita, che rinnova continuamente le questioni e obbliga a ripensare ciò che si riteneva acquisito per certo, facendo appello alla creatività (ne riparleremo tra breve). dimensione e ruolo territoriale erano definiti nel quadro piramidale della regione: Ospedale di Zona. Il titolo stabiliva la grandezza e i compiti: 240 posti letto – di cui 40 riservati per malati infettivi – ordinati in reparti di degenza, sostenuti da apparati diagnostici e terapeutici, con servizi fondamentali. Anche per un piccolo Ospedale di Zona l’elenco è complesso; specificarlo stanca. Conviene invece far capo al compito primario che stabiliva allora la marca caratterizzante, che oggi ancora sussiste, ma in parte, accanto a compiti specializzati altrimenti caratterizzanti: tale primario compito è il dépistage congiunto al principio della sussidiarietà. Il Dépistage comincia dal medico di base che identifica le affezioni, i tipi e gli ambiti della cura, che risolve nei limiti del suo apparato, o che rinvia agli apparati di livello superiore, nella fattispecie all’Ospedale di Zona; il quale, con procedura analoga, caratterizza il caso e in alternativa rinvia a ulteriori approfondimenti di conoscenza e cura, presso apparati di livello superiore; oppure fa da sé. A questo punto deve risolvere compiutamente il problema, con perfetto impegno dei suoi apparati, evitando sovraccarico o sottoutilizzo del servizio. Il principio di sussidiarietà modifica il concetto originario del sistema d’organizzazione piramidale,

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Il progetto di Le Corbusier redatto nel 1963-1964 per il Nuovo Ospedale di Venezia. Assetto composto a strati di piattaforme. All’ultimo livello sta la degenza, illuminata e ventilata (sussidio dell’impianto di condizionamento) soltanto da serie di lunghi lucernai orientati come le schiere di stanze: a pinwheel pattern, secondo i punti cardinali. Ai livelli sottostanti, le piattaforme portano la complessa organizzazione diagnosticoterapeutica, infine tutte le attrezzature sussidiarie e gli impianti tecnici. Il principio strutturante la forma dell’organizzazione ha avuto influenza decisiva sul nostro progetto di Larino. Nel progetto di concorso (che ha aperto l’incarico al maestro) appaiono sistemazioni che anticipano aspetti del suo progetto, in particolare il pattern delle piattaforme, e fanno pensare a una particolare attenzione per tali forme da parte del maestro. Emilio Mattioni ha dimostrato che gli interessi di Le Corbusier erano già da tempo orientati nello studio del sistema a piattaforma, di cui il progetto per l’Ospedale di Venezia ne è il perfezionamento di marca assoluta. In una recente conferenza, il 23 settembre del 2015, Franco Purini ha sostenuto che il grande maestro ha avuto vivo interesse per il progetto dei cinque giovani architetti dell’Università IUAV di Venezia, e che l’Ospedale di Larino è l’ultima derivazione da quella formatività, dove l’indirizzo, conseguente all’incontro dialogico tra autori, diviene franca architettura paesaggistica, che esalta con valori poetici l’orografia del sito, traendo un racconto spaziale poetico.

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Planimetria del sito previsto nel PRG del 1962 Planimetria al suolo e primo livello Planimetria dell’ultimo livello. Contiene tutti i reparti di degenza Prospetti e varie sezioni

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Progetto di Concorso per il Nuovo Ospedale Civile di Venezia, 1963. Secondo ex aequo (primo non assegnato) del gruppo R. Chirivi, C. Dardi, E. Mattioni, V. Pastor, L. Semerani Il complesso si estende oltre l’area assegnata, avanzando sulla laguna, con il sistema a piattaforme, per ospitare 1200 pazienti, come richiesto dal bando di concorso Planimetria del complesso di piattaforme Fotomontaggio prospettico Sezione nord-sud Prospetto nord-sud da ovest Prospetto nord-sud da est

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Le grandi aperture sul tetto: la piramide della chiesa

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le attività dell’organizzazione in atto nell’ospedale – così come accade lungo le strade urbane, ove le attività si manifestano e sono essenziali alla conoscenza del modo di vivere. Vale la pena rilevare che lungo il percorso si godono vedute su tutta l’architettura sotto la piattaforma: a sud i giardini interni (corti) a livello e a monte (sulle cui sistemazioni ci intratteremo tra poco), mentre sugli altri lati lo sguardo s’intrattiene sulla mediazione tra l’architettura dell’ospedale e lo svolgersi del paesaggio, dai colli al mare. Questo percorso si snoda con una varietà di caratteri formali: sale dal nodo complesso dell’entrata (quota intermedia, che offre uffici, Accettazione, Auditorium e grande porticato per mostre e manifestazioni informative – che attende ancora, non si sa fino a quando, il bar, quale ristoro e focus di socializzazione), raggiunge i giardini della degenza e si volge al paesaggio. Apre tre fattori di qualità emotiva: il tratto sociale (luoghi attrezzati), quello di senso domestico (i giardini) e lo sgomento o la gioia dell’immensità della veduta sulla propria terra. Nei giorni successivi al tremendo terremoto del 2002, l’ospedale è stato il centro dell’organizzazione sanitaria, e altresì centro del dibattito pubblico, nel frequentatissimo Auditorium. Le due sottostanti gallerie, segnate da basse finestre a nastro, svolgono i servizi fondamentali. Quella inferiore, a livello della Farmacia, della cucina, della lavanderia oltre che dell’Accettazione ha il ruolo esclusivo della fornitura di strumenti, medicinali, vivande, beni sterili di ogni tipo; è perciò definita galleria del pulito. Quella a livello intermedio ha in esclusiva il compito della raccolta e trasporto dell’usato, strumenti e materiali, dei rifiuti ma anche dei materiali e strumenti per la pulizia; è perciò definita galleria dello sporco, titolo duro ed efficace nel rapporto duale delle funzioni, ma da perdonare nel fatto che è anche la via che conduce all’obitorio, alla cappella mortuaria, situate all’estremità – per cui meriterebbe, almeno nell’ultimo tratto, il titolo di galleria della pietà o dell’addio – dalla cui soglia un ponte coperto conduce alla piazzola dei funerali entro il terrapieno a cono, ammantato di verde. Tali gallerie percorrono tre lati del quadrato della piattaforma, ma a quattro o cinque moduli dal filo esterno; perciò volta a volta separano e racchiudono sistemi differenti di attività, connettendosi con stringente necessità funzionale e toccando una serie di ascensori e montacarichi, pure essi distinti nel carattere di servizio: pulito e sporco. Nel presidio di Larino non accadrà mai che un paziente, un medico, una persona in visita viaggino in ascensore insieme al carrello degli arnesi per la pulizia – come per esperienza, diretta e plurima, altrove posso affermare che accade. E non accadrà che un esterno viaggi insieme al carrello delle vivande o del materiale sterile. Il principio dell’organizzazione specializzata delle comunicazioni e dei trasporti è sviluppabile con tutta evidenza in sistemi meccanici e probabilmente anche elettronici. Vale il principio; il resto verrà, altrove, con buone dotazioni e bilanci favorevoli.

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Interessa dare rilievo – ricordando le descrizioni del criterio performativo (cfr. p. 27), le differenti interpretazioni tipologiche di Le Corbusier e de Carlo – al fatto che la concentrazione e il carattere dei servizi sotto la piastra ha corrispondenza diretta e semplice con i servizi centrali della diagnostica e terapia, tanto intensiva che ambulatoriale; seguendo le funzioni centrali e intermedie-integranti, poiché da queste al piano piastra prendono vita le organizzazioni perimetrali – che al suolo sono ovviamente dimezzate dall’andamento acclive. un modello organizzativo deriva da tale impianto di corrispondenza tra reparti. Diretta e semplice dal livello intermedio alla piastra, con stretta correlazione funzionale data dal binomio dei percorsi orizzontali e verticali. Articolata e speciale dal livello intermedio in giù, seguendo per gradi la discesa naturale del suolo. Nella zona centrale, a scavo, sono situati i locali dei vari impianti meccanici ed elettrici, nonché servizi e magazzini – riserve funzionali – comunque collegati al sistema dei percorsi, tramite montacarichi per il trasporto di strumenti, beni e rifiuti (effettuate le opportune separazioni), e con i collegamenti delle linee tecnologiche specializzate: idriche e idrico sanitarie, termomeccaniche, elettriche e gas medicali; che secondo necessità si diramano capillarmente ai molti punti di utenza. Nei settori perimetrici del lato a valle trovano sede, e connessioni facili con l’intero sistema, organizzazioni mediche e sanitarie di tipo ambulatoriale che possono godere di un certo grado d’autonomia operativa, che anzi è bene separare dal grande flusso di attività: segnatamente la banca del sangue, il day hospital e l’ambulatorio di Emodialisi, con servizio d’ingresso e parcheggio proprio (così nell’intenzione, mentre l’indolenza nel controllo del funzionamento esterno lascia che l’ordine del servizio sia un fatto opinabile). Tale forma di parziale autonomia è stata assunta di recente quale principio organizzativo, nel momento in cui l’amministrazione ha deciso di adottare quelle nuove regole che consentono a ogni presidio ospedaliero di sviluppare specialità terapeutiche: il programma riguarda la costituzione di un Centro iperbarico – uno dei pochi in Italia. Il progetto in origine ne prevedeva l’installazione tra le maglie strutturali esistenti (secondo i tipi già realizzati). Essendo tale forma impedita dalle nuove norme sulla costruzione in zona sismica, il centro viene edificato al perimetro del grande impianto, ma collegato a tutti i suoi servizi tecnici e sanitari, come un satellite al guinzaglio. Il principio è istituito nell’origine del progetto, secondo il concetto spaziale che dispone la corte dei funerali e quella della grande centrale termica ai lati del grande quadrato (identificati nella forma a cono): può avere sviluppo per necessità straordinarie con forme di forte connotazione. Questo è in sostanza il modello: nuove unità di terapia specializzata, piccole e ben equipaggiate, si collegano (con il guinzaglio) a un centro di sistema, goden-

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L’accesso al rifornimento dei servizi specializzati è riservato, perciò collocato sul piazzale nord-est. L’ingresso all’Accettazione sta nella zona sud-ovest. Il Pronto Soccorso è nell’area centrale. Gli accessi sono derivati dal nodo della viabilità, eccettuato il percorso funebre. Il disegno prospettico per parti dà immagine all’accurata descrizione data nel testo.

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Dépistage interno all’ospedale Percorsi differenziati dall’ingresso ai reparti di cura e ai tipi di servizio, dalla base alla piattaforma

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Il tipo piattaforma staccata dal suolo, nei casi del già citato n. 10 di «Zodiac» (1962), appare ancora quale oggetto di sperimentazione. Si fa complesso nel progetto per il nuovo Ospedale Civile di Venezia, presentato al concorso del 1963 dai citati cinque architetti docenti dell’Università IUAV, e soprattutto nel 1964 con Le Corbusier che dà sanzione ai tentativi. Nel progetto di Larino la piattaforma è una schietto prisma a base quadrata, ma con spigoli articolati a sbalzo, alto meno di 5 m, lungo quanto largo, 151,60 m sugli assi. Lo spazio sottostante è illuminato da nove fori (pseudo-corti), di forma e ragione differente. La struttura portante è segnata da differenze, seguendo la logica della necessità. Il solaio è caratterizzato da nervature forti, il tetto ha intradosso piatto (salvo alcuni punti). Il bordo del solaio, lato per lato e in alcune corti, è una trave alta e snella che insieme ai pilastri larghi e snelli – nervati verso l’interno con un gambo a T – forma dei portali a 19 campate (con dovuti giunti); sì che il lato nord e i due laterali in salita, visti di scorcio, rammemorano le vedute del viadotto sul vallone destinato a esser lago. All’interno della piattaforma le nervature del solaio sono portate da una selva di pilastri a base quadrata, che incontrano e portano le parti strutturali dei corpi di servizio. Si può obiettare che la forma a T dei pilastri perimetrali va oltre la stretta necessità. Rispondo che il progetto del 1967 all’ufficiale assenza del grado di rischio sismico rispondeva con prudenza, fattasi vera necessità nei due terremoti che nel frattempo sono accaduti. Dal tetto emerge la complessa sovrastruttura che dà varia illuminazione agli spazi operativi e di servizio. Il tetto è la quinta facciata, la più ricca. Il tema della veduta, quale essenziale congiunzione con la vita abituale, è reso pregnante dal tema della luminosità, quale avvenimento o effetto indipendente dal vedere qualcosa se non la luce, nelle mutazioni che avvengono lungo lo svolgimento della giornata. Sono pur queste che ricongiungono nel paziente il sentimento-valore delle sue attività abituali, differenti nelle parti della giornata con il differente timbro, colore e intensità della luce negli avvenimenti sociali: come andare al lavoro, o come sul finire del giorno prendere un bicchiere sulla soglia del bar. Valori esistenziali dell’esserci. Abbiamo dato corpo a tale sentimento della luminosità accompagnando l’apertura di lucernai sul tetto con orientamenti che consentono di arricchire la luminosità strettamente indispensabile al lavoro.

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Il corpo tettonico Vista prospettica L’ospedale nel paesaggio

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do dei suoi servizi. È questa la risoluzione dell’originaria endiade problematica: conferire all’impianto il modo di mutare l’organizzazione degli spazi, e la facoltà di crescere. La soddisfazione della prima esigenza è stata provata e resta sempre possibile; la seconda, contenuta nel principio genetico, è pure realizzata (lavori in corso), ma a uno stato limite (invero ancora producibile a costi oltrepassanti le misure correnti). Ma il modello è sviluppabile in altre costituzioni di presidi ospedalieri. albergheria è la parola che corre oggi per definire l’indirizzo della ristrutturazione d’aggiornamento degli ospedali in presidi sanitari. Risponde alla ben fondata esigenza di associare all’idea di cura l’idea di benessere (ma è quasi un ossimoro, che anticipa fin dall’inizio le condizioni attese dalla cura), sì che la preoccupazione congiunta alla cura sia confortata da un modo di vita temperato da servizi, ambienti e arredi la cui immagine non sia alienata rispetto alle abitudini domestiche, o meglio ancora sia analogo a quelle esperienze di viaggio e soggiorno breve, scelte e decise per ritemprarsi da quotidiani impegni di lavoro. L’idea di presidio sanitario non è solo questo; come abbiamo visto consiste nell’apertura, per ogni ordine di grandezza e di ruolo, delle unità ospedaliere, nell’originaria funzione sanitaria territoriale, ad assumere funzioni specializzate senza limiti d’ampiezza; per cui l’albergheria è un modo d’abitare sanitario più che una nuova specializzazione terapeutica. Tuttavia è concreta linea migliorativa dei processi curativi; perciò è un principio da seguire (ma non siamo indotti necessariamente a condividere priorità d’iniziativa all’albergheria, in forma decisamente prevalente su altre urgenze di ristrutturazione, come di recente è stato fatto dal presidio di Campobasso). Nel corso dei trent’anni della costruzione abbiamo dato ascolto e sguardo attento a ogni lancio d’iniziative risonanti, constatando che il nostro campo era stato fertilizzato a dovere fin dal getto del seme, avendo seguito nella radice i principi del moderno, che assume la ricerca dei modi d’abitare perfettamente conformi alle condizioni date, quale compito che lega etica ed estetica; come i maestri hanno dimostrato. La buona condizione abitativa in tutti i reparti del sistema di Larino è derivata dall’aver fatto capo progettuale ai momenti essenziali, ovvero ai fattori ambientali e operativi, con particolare attenzione alle unità della degenza: il sole e il vento, la veduta sul circostante, la misura modulata degli spazi e degli strumenti protesici. Sole e vento a Larino devono essere controllati nella loro generosità: tanto il gaudio della luce quanto il tormento del favonio. Le unità di degenza sono collocate su tre lati del quadrato, girato in modo da opporre il fronte ovest al vento; talché un terzo delle stanze si espone al nord. La quinta facciata offre la possibilità dell’esposizione equivalente. Sul tetto sono aperti, anzi elevati, dei lucernai a cuffia

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con vetrata verticale, che sono orientati nella direzione più favorevole a generare condizioni di benessere per le attività nei locali sottostanti. Più precisamente: le stanze di degenza orientate a nord sono dotate di lucernai che guardano verso sud, accogliendo il sole e modulandone l’intensità con appositi schermi elettrocomandati. I bagni delle degenze sono orientati a nord, ovviamente tutti. In genere le sale di terapia e gli ambulatori ricevono luce tranquilla da lucernai con vetrate anche ampie, in ragione delle attività, rivolte a nord. Tuttavia è parso opportuno che le attività a permanenza continua degli operatori potessero godere di una quota controllata di luce solare: luce da est, nei grandi servizi di produzione o di fornitura organizzata di beni – cucina e Farmacia – e ai margini del reparto di Chirurgia, dove il tetto di ogni sala operatoria, sostenuto in sospensione da una carpenteria metallica, accoglie nel suo perimetro i condotti di condizionamento e un nastro vetrato che dà ai locali di contorno (preparazione dei medici e risveglio dei pazienti) una luce temperata. La veduta sul circostante appartiene alla terapia. Nella fase acuta, solo nella sua stanza, il paziente guarda un lembo di cielo e uno squarcio dell’edificio che lo accoglie: riceve un invito alla concentrazione su di sé, nella coscienza d’appartenere al mondo. Le stanze della fase acuta sono collocate nella regione intermedia, tra le funzioni centrali e la serie perimetrica dei reparti di degenza. Qui la terapia, obbligata a tempi moderatamente lunghi, si avvale del rapporto sociale, espresso direttamente nel dialogo, o soltanto nello scambio di uno sguardo con gli altri pazienti, e con il timbro metonimico della veduta su una parte del paesaggio o su una parte della città, che rappresentano il fervore della vita che richiama a sé ogni paziente (liberazione dalla terapia). L’edificio offre occasioni diverse nel far sentire il fascino delle vedute: da una parte la grande misura della piana e del semicircolo dei colli distesi come un teatro, la cui scena è quella della tradizione secolare dell’abitare, dai monti fino al mare; dall’altra le figure domestiche delle case d’intorno e dei loro giardini, immagini di soglia dei borghi e dei siti urbani; e ancora i giardini dell’ospedale, offerta prettamente domestica nelle corti a sud, cioè a monte, dove il piano di degenza è prossimo al suolo (ma l’argomento suscita una mia lamentazione, che merita ancora qualche riga, tra poco). La misura modulata degli spazi è questione progettuale senza tempo che si accompagna ai mutamenti epocali dello stile, della maniera e del modo di fare dei gruppi culturali delle società, nell’identità degli autori. Nell’ospedale specifica rilevanza ha il timbro protesico degli elementi costitutivi dell’edificio e dell’arredo. Il timbro protesico è strutturale: ogni forma, e prima ogni misura, e prima il seme di ogni misura, la modularità, fanno capo al corpo: in principio è il corpo, genesi della persona. Nel processo progettuale tale assunto, idea e pratica, ha portato a determinare la forma delle stanze di degenza, condizione del rapporto ponderato

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La copertura come quinta facciata

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Lo spazio aperto sotto la piattaforma, nella selva di pilastri, strade, scale e corpi di servizio

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nio dell’intero corpo era complesso, e non potemmo obbedire sistematicamente al principio del processo disordinato (flagrante paradosso), che esplora dettagli sistematicamente in modo vario, per valutare tanto la marca d’eseguibilità più adatta, o più felice, quanto per l’organizzazione del sistema che per la sua connotazione architettonica. In particolare sapevamo che la chiusura di tamponamento a nastro sporgente con sensibile sbalzo, che incorporava le finestre ed era estesa al perimetro della piattaforma e alle nove corti, non era la giusta misura architettonica, adatta all’uso e alla condizione di tutti gli ambienti. Abbiamo recuperato, credo, nei lotti successivi il principio d’invenzione ed esecutivo: componendo per parti e distinguendo per forma, seguendo le occasioni e interrogando la cultura. nella vita delle forme, un tratto merita ancora d’essere ripetuto: la forma del tetto. Abbandonato l’eroico tentativo dell’inizio, in obbedienza alle raccomandazioni sull’orientamento delle degenze tra est e sud, una volta adottato il tipo piattaforma, il tetto è diventato la sorgente della distribuzione della luce più adatta per ogni attività, giusta nel tono e nella quantità, seguendo le occasioni – a differenza del progetto di Le Corbusier che mantiene fisso lo schema pinwheel nella disposizione delle stanze di degenza, senza far conto dell’orientamento, del fatto che le variazioni luministiche nel decorso delle giornate contribuiscono a mantenere il nodo che ci lega all’essere nelle cose comuni (mi piace ricordare la declinazione esistenzialista nell’Albert Camus de Lo straniero). Di più, il tetto è diventato macchina per regolare il clima dei luoghi destinati a varie attività cruciali: primo fra tutti il reparto di Chirurgia; poi altri luoghi di cure importanti. Il tetto, in quanto strumento dell’abitare e sua chiusura mediatrice di rapporti vari con l’esterno, è la quinta facciata, visibile quanto le altre percorrendo i luoghi, l’altura a monte anch’essa parte urbana. Il tetto è parte del paesaggio urbano, dell’urbanità fascinosa delle alture e dei forti legami storici: il più fatale con l’ellisse plastica dell’anfiteatro romano. conformità o dissonanza dialettica tra il corpo architettonico dell’ospedale, il grande solitario – ma già immerso come tale nel paesaggio urbano coniugato in forma complessa al sistema collinare – e il piccolo padiglione del Centro iperbarico? Francamente devo dire, per quanto mi concerne, che non ho portato ai colleghi alcuna ipotesi della forma che potesse apparire dissonante – benché abbia voluto indicare, e infine portare all’interno di una intrinseca conformità un timbro che potrebbe essere visto e inteso quale fatto dissonante: quegli spigoli molto sporgenti dai piani di facciata e dal tetto, con angolate di 30 e 60°. Quanto alla conformità, a cose fatte, penso che avremmo potuto proporre (senza ottenere entusiasmi per la forma e costi relativi) di rivestire il fabbricato, alto

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soltanto un piano (anche se di generosa misura per contenere le grandi macchine di cura), con piante rampicanti su rete, e un tetto coperto da terra coltivata da edera nana: una specie di giardino verticale semplificato, e tetto verde. Oppure avremmo potuto ridossare all’edificio scarpate di terra, e così coprire il tetto, lasciando crescere la biodiversità del selvatico – tutto con specialissimi serramenti per porte e finestre – ottenendo infine un corpo terrapieno d’impianto quadrato: un’appendice geometrica alla discesa del colle, posta in dialogo con il grande cono di terra che contiene la centrale termica. Confondere il padiglione con l’informale figura del colle per mantenere intatto il grande prisma edificato: poteva essere la soluzione purista, se avessimo dato crediblità alla purezza della forma. daccapo: quali corrispondenze intercorrono tra il grande edificio e il suo padiglione, espunto dalla sua naturale maglia strutturale in forza di una nuova norma sulle costruzioni in zona sismica? La prima correlazione d’appartenenza sta nel tracciato regolatore, il reticolo a maglia quadrata di 7,2 m con multipli e sottomultipli di 1,2 m, o meglio con partizioni di 1/2, 1/3, 1/4. Ventuno maglie misura la grande piattaforma, quattro ne misura il padiglione, quattro e mezzo la distanza tra i due: i grandi numeri restano senza significato, rinviano alla conformazione del tutto in quanto composto di parti generate con il principio della necessità dell’opera: la correlazione che porta a una valutazione di pertinenza sensibile va ricercata nelle parti componenti la piattaforma, sia tra i corpi che tra i vuoti, per ritrovare un senso. La corrispondenza e il senso si ritrovano subito nelle dimensioni dei reparti di terapia: nella misura complessiva della larghezza dei corpi – per esempio il Laboratorio d’analisi, tuttavia mantenendo a fattore di giudizio la memoria dell’esperienza percettiva dell’abitarvi. Elemento primo del confronto e segno di co-appartenenza differenziata è la costruzione del limite esterno, la frontiera. Nella piattaforma e in altre parti del complesso, tale frontiera è un rivestimento in doghe di alluminio che scorre tra il parapetto strutturale e la trave limite del tetto, coprendo la struttura in calcestruzzo armato e il muro di coibentazione, sistema che costituisce un nastro continuo – nel quale i serramenti sono una sua variazione. Nel padiglione il rivestimento in doghe (d’egual colore) è totale: un nastro che perimetra tutto, includendo finestre ad ante strette, portoni vetrati e grandi portoni a doghe (per trasporto degli apparati iperbarici e vie di fuga in caso di loro disfunzione): dalla base a quota costante, qualunque sia l’andamento del suolo, alla scossalina del canale di gronda non visibile. Sul lato nord la strada d’ingresso all’interrato, con larghe scarpate, porta in evidenza il muro del basamento in calcestruzzo, che dovrà essere coperto da rete

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Note 1

Una casa per guarire. Nuovo Ospedale Civile Giuseppe Vietri a Larino, a cura di Michelina Michelotto Pastor, Skira, Milano 2006; copyright condiviso con ASL n. 4 Basso Molise, Termoli (CB) per i testi e le immagini. Al libro hanno variamente partecipato i progettisti Valeriano Pastor, Raffaele Vitiello, Giovanni Berchicci, Luciano Ferrauto e Giuseppe Guglielmi. Nella cura redazionale Michelina Michelotto Pastor ha avuto la collaborazione di Francesca Ferrauto e di Barbara Pastor. Gli autori dei saggi sono Margherita Petranzan, Michelina Michelotto Pastor, Raffaele Vitiello, Silvio Paolini, Valeriano Pastor, Francesco Tentori, Roberto Masiero, Franco Purini. L’iniziativa per la pubblicazione, il sostegno redazionale e l’interesse degli sponsor è dovuto a Michelina Michelotto Pastor, architetto che ha visto la nascita dell’opera e ne ha seguito la crescita esprimendo generosamente pareri ben meditati. 2 I ricoverati ebbero la visita del Presidente della Repubblica e del Presidente del Consiglio dei Ministri, che espressero piena approvazione per le prestazioni di soccorso e per l’efficienza dell’ospedale. 3 Conclusa nella primavera del 2009. 4 Attribuisco a Carlo Scarpa esemplificazioni straordinarie, per eccellenza ed eccedenza, nel progettare performativo. Si vedano i casi: Richard Murphy, Carlo Scarpa & Castelvecchio, con saggi di Alba Di Lieto e Arrigo Rudi, Arsenale, Venezia 1991; Giuseppe Tommasi, I Disegni di Carlo Scarpa per Casa Ottolenghi, a cura di Alba Di Lieto, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo (MI) 2012.

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Crediti fotografici

Le mappe alle pp. 16, 19, 30, 34, 35 sono state elaborate per la pubblicazione da Alberto Zotti La fotografia a p. 40 è stata gentilmente concessa da Vincenzo Assente e Carmine Barone La fotografia a p. 44 è tratta da http://pietrabbondanteblog.blogspot.it/2012/09/pietrabbondante-entra-pieno-titolo.html La fotografia grande, in alto, a p. 45 è stata gentilmente concessa da Franco Cappellari Le fotografie piccole, in basso, a p. 45 sono tratte, nell’ordine, da: http://www.panoramio.com/photo/29067616, gentilmente concessa da Tommaso Valentino http://miomolise.altervista.org/siti-archeologici-pietrabbondante/ http://pietrabbondanteblog.blogspot.it/2011_12_01_archive.html Le immagini alle pp. 50-55 sono state fornite dall’Archivio Progetti, Università Iuav di Venezia, con il consenso della Scuola Grande di San Marco, Ulss 12 di Venezia, che conserva gli originali I disegni cad alle pp. 76-78 sono stati elaborati per la pubblicazione da Alberto Zotti La fotografia a p. 93 in alto a sinistra è stata gentilmente concessa da Paolo Frizzarin I disegni cad alle pp. 98-99 sono stati elaborati per la pubblicazione da Francesca Gasperuzzo e Alberto Zotti Dove non altrimenti specificato le immagini sono di Valeriano Pastor e Michelina Michelotto Pastor

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Finito di stampare nel mese di marzo 2017 per conto della casa editrice Il Poligrafo presso la Papergraf di Piazzola sul Brenta (Padova)



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