ANFIONE e ZETO
collana di architettura diretta da Margherita Petranzan
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de querini stampalia nel segno di carlo scarpa
ILPOLIGRAFO
Ricerca d’archivio e cura iconografica Michelina Michelotto e Barbara Pastor Pastor Architetti Associati, Venezia
progetto grafico e redazione Il Poligrafo casa editrice grafica Laura Rigon redazione Sara Pierobon copyright Š marzo 2017 Il Poligrafo casa editrice 35121 Padova piazza Eremitani - via Cassan 34 tel. 049 8360887 - fax 049 8360864 e-mail casaeditrice@poligrafo.it www.poligrafo.it ISBN 978-88-9387-001-6
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De Querini Stampalia. Nel segno di Carlo Scarpa
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Note
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Nel segno di Carlo Scarpa? L’interrogativo ha due direzioni: da una parte si domanda se è univocamente definibile il segno di Carlo Scarpa e dubita che lo sia oggi, allo stato della conoscenza e della complessità della sua poetica; dall’altra si chiede se ognuno degli autori che si sono succeduti nelle opere di riorganizzazione della grande sede della Fondazione Querini Stampalia ha inteso e a suo modo sviluppato l’intendimento di quel segno, e se nel corso della loro produzione progettuale hanno inteso interpretarlo. Il dubbio, che appena espresso si articola in una serie d’interrogativi, porta con evidenza i limiti di campo del proprio senso: quello della formatività architettonica, interazione performativa del progettare e costruire, nella quale si esperisce l’abitare il mondo. La parola campo, dapprima tranquillizzante poiché sembra dislocare il dubbio, con gli interrogativi che ne derivano, su un piano sicuro, deve essere presa con l’ambiguità di una metafora. Il contenuto della generazione delle forme, la formatività2, è certamente costituito da cose tangibili, città o cucchiai, insieme ai disegni che hanno guidato le abilità manuali e impegnato gli strumenti meccanici o elettronici per produrle; ma non solo questo. La formatività è processo che scambia idee formanti e fatti formati. Le idee formanti sono alimentate dalle vicende della produzione delle forme e dalle interrogazioni e dai contributi di
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ciascun produttore: vengono dalla storia, nel presente stanno sopra le nostre teste, sono aperte al futuro. Le idee formanti nella loro genesi sono forme formanti, a gradi di complessità differenti, irrappresentabili. Di esse, sostanziate nella storia e in atto nel procedere tentativo che dà corpo alla loro concretezza operante, abbiamo costruito categorie: i tipi, le tipologie. Proprio queste, irrappresentabili per se stesse, ma portando in sé tradizioni e aperture futuribili, classicismi e modernismi, agevolano le intenzioni soggettive, o quelle sociali. La tipologia è una riduzione interessante dell’immensità dell’idea forma formante; può giungere a costituire una norma: come accade in musicologia nel caso del tipo forma-sonata, sì che godiamo sonate quali identità soggettive rigorosamente coerenti alla forma-sonata, e sonate, ancora eventi soggettivi, che in tutto o in parte se ne evincono. Nell’opera di Carlo Scarpa la referenza ideativa alle marche tipologiche è molto rarefatta, ma quando c’è risuona con efficacia, e quando con irriverente apertura se ne distacca, vedremo che lo fa per risvegliare l’attenzione su autentici valori racchiusi nei tipi – è forse vero che la ripetizione dei tipi addormenta la spiritualità ricercatrice delle forme formanti, così come la consuetudine alle forme tipiche distrae l’attenzione dall’identità specifica dei casi, sviando dal fatto, il caso Querini incluso, che la città è un concerto d’identità soggettive nelle serie storiche di casi tipici. Mi consento un’osservazione sulla lectio magistralis che Mario Botta ha tenuto nel seminario alla Querini: esaltando con chiaro spirito critico d’ammirazione l’opera di Carlo Scarpa, Botta è stato spinto a rendere tipiche, nei suoi interventi alla Querini, le forme formate dal maestro, inoltrandosi nell’interpretazione personale con propria originalità, anche affrontando con sciolta semplificazione il dilemma scarpiano del rapporto progettuale con il caso, di cui darò nota più avanti. L’intenzione originaria del mio lavoro alla Querini voleva mantener fede alla linea critica di Carlo Scarpa, scavando di volta in volta nel mondo difficile delle idee-forme formanti, avendo nei riguardi del suo operare lo stesso atteggiamento che lui ha assunto – come già ho rilevato – rispetto alle configurazioni tipiche. Inizio interpretando i momenti fondamentali dell’opera di Carlo Scarpa alla Querini negli anni Sessanta – momenti di certo dialogati e discussi con Giuseppe Mazzariol, allora magistrale direttore della Fondazione. – L’accesso dal campo con un nuovo ponte attraverso una finestra, e quello dal rio con i grandi portoni, nella fattualità della funzione manifestano quella struttura tipica della forma vitale urbana che sussisteva sepolta nell’indifferenza e incuria: ingressi associati dal rio e dal ponte. Il riscatto all’evidenza e al piacere di tale tipicità della forma e dell’abitare urbano è praticato da Scarpa con un paradosso: entrare da una finestra, senza modificare il disegno 12 de querini stampalia valeriano pastor
proprio del palazzo. La compiutezza di senso della forma è altresì esaltata dalla sequenza in continuità visiva tra il rio, il portego e il giardino (corte grande), con splendida luminosità che rende palese il tipo d’impianto spaziale urbano quale tratto essenziale del modello di vita3. – Dalla finestra divenuta portoncino – metallo con cristalli forti – si scende all’ingresso, ma con un attimo d’arresto su un gradino obliquo che invita a porre l’attenzione sulla zona basale della sala, caratterizzata da canali perimetrali – costruzione che non ha precedenti – e sul grande disegno astratto del pavimento, opus sectile costruito con rigore geometrico e arcana complessità. I canali consentono l’ingresso della marea quando supera i livelli ordinari, con garanzia dell’uso quotidiano del palazzo, come volontà di un patto d’alleanza con lo spirito lagunare. Il disegno dell’intarsio pavimentale introduce a un modo di intendere l’idea di complessità: taxis ataktos, da interpretare oltre l’ossimoro delle due parole, assumendo un indirizzo critico verso ogni procedura retorica. – La forma del portego (sala Luzzatto) è semplice e chiara nel corpo spaziale, a livello intermedio tra il rio e il giardino. Sviluppa una costituzione delle superfici, pavimento pareti e soffitto, che dispone un’offerta d’uso variabile (dialoghi, incontri, mostre, installazioni, silenzi meditativi), traendo profitto da quel suo essere intermedia tra gli eventi costitutivi del suo impianto nel sito urbano: ricevere luminosità solare dal giardino a sud – una luce alta per la posizione e il tono – e una luce dal rio a nord che porta tonalità marine commiste ai rimandi di colore del costruito circostante. Il timbro materico, valore tattile delle superfici, è fattore fondamentale nell’invito all’abitare il portego; il disegno ne è la marca formale dell’armonia che si trae dall’esserci, manifestata nell’estro della composizione costitutiva. La scelta del travertino a rivestimento delle pareti è singolare, rara presenza di tale roccia calcarea a Venezia – ma già impegnata nella Sala dedicata a Antonello da Messina al Museo Correr –; è iscritta tuttavia nel segno della città lagunare che tutto deve importare e tutto rigenerare. Il pavimento è in materiale povero (calcestruzzo lavato), ma elaborato nelle partizioni in liste di pietra d’Istria; così come elaborate sono le partizioni delle lampade inserite nel travertino a formare un tutto organico con le guide portanti che filano sull’orizzonte dello sguardo. È ricco il soffitto in stucco lucido (invenzione veneziana) che accoglie le luminosità calde del giardino e quelle marine del rio (da nord), tenuamente rispecchiando le cose e le persone della sala. Il tratto fondamentale è la dislocazione degli inserti: gli elementi pavimentali, le lampade e i giunti delle lastre del travertino, le liste di pietra a pavimento; tutti dislocati secondo sequenze sincopate, formano infine un sistema ritmico complesso che richiede frequentazione fino a valeriano pastor de querini stampalia
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A complemento del testo, richiamo l’attenzione sulle alzate in pietra al perimetro degli spazi: sono le canalette che accolgono l’acqua del rio nel corso dei fenomeni di marea denominati acqua alta. La risposta scarpiana all’ingiunzione di impedirne l’ingresso, data dal direttore Mazzariol, volge l’evento della natura in effetto positivo: non un dominio ma un accordo. Le partizioni del pavimento sono episodi sincopali, che si stemperano nelle partizioni del rivestimento delle pareti, per giungere alla stesura uniforme dello stucco su pareti e soffitto; la cui leggera lucentezza le accoglie in variazione cromatica e luminosità: avvenimento-valore del disegno nella natura dei materiali. Domina il fenomeno della mutazione luministica: dal timbro marino del rio alla solarità del giardino.
Il nuovo ponte La saletta d’ingresso con il pavimento in opus sectile L’ingresso dal rio La sala Luzzatto
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Credo che il tema compositivo dell’opus sectile, apparente ricerca d’incontro con il caso, abbia una risonanza compositiva tanto nell’edicola che nella vasca: nell’edicola in particolare, dove il gioco planimetrico sul quadrato si volge in volumetria spaziale. Il tema d’origine è planimetrico, ma traforando la pietra: intreccio di due quadrati con sovrapposizione di un loro quarto su una diagonale. Tale enunciato viene sviluppato in forma opposta, e differente misura, con la figura a L privata dal quarto e accordata con la sua consimile sul diedro di spigolo dell’edicola. Il tema d’origine è stato assunto da un musico giapponese e sviluppato in composizione complessa che evoca l’effetto spaziale, come si può dire sia avvenuto negli spazi della Querini. Si può vedere che il tema della luminosità – quella trasfigurazione della luce marina, che giunge dal rio, dal basso, già intrisa del colorismo urbano, in quella solare e alta del giardino – si anima in una geometria di figure primarie complessificate nella spazialità, risonanti nel semplice corpo tettonico del palazzo. Negli anni Cinquanta ho sentito Scarpa citare Debussy a commento degli appiombi dei blocchi modellati in certe case californiane di Wright, anni Venti – vedi La Miniatura – come in altri casi ho sentito citare Ravel. Un musico analista potrebbe forse trovare nell’architettura di Scarpa, e in questo caso specifico, corrispondenze nell’ambito della grande cultura veneta con Maderna e, in anticipazione, con il Nono che prende spunti da Caminantes no hay camino hay que caminar. Entrambi avrebbero sempre continuato a caminar, e anticipare formatività. Nel giardino si sente la musica che viene dalle fontanine e dallo scorrere dell’acqua nel lungo canaletto: concretezza al sentimento che giunge da dentro.
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L’edicola a schermo dei termosifoni segna la zona dell’ingresso dal rio e alla sala Luzzatto Il giardino con canaletto d’acqua scorrente, pozzo e fontana La vasca con mosaico a grandi tessere e aspetti della solarità del giardino
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doppio riguardava le scale – in effetti era un obbligo in ragione della legge sulla sicurezza e prevenzione incendi. La scala aulica (ottocentesca, ma probabilmente sulla traccia dell’originaria), migliorata nella pendenza con l’addizione di alcuni gradini e balaustri – per mano della Sovrintendenza! – è affiancata da un buon ascensore. Entrambi, scala e ascensore, con approdo nei saloni (porteghi) di ogni piano, nelle previsioni della riorganizzazione dovevano servire il museo al secondo piano e le sale per mostre, conferenze e convegni al terzo piano, quale complemento della sala Luzzatto (zona Scarpa). La seconda scala, la nuova, poteva approfittare di una costruita nei primi anni dell’Ottocento, a servizio dell’appartamento di uno dei fratelli Querini, sul lato est della prima corte – scala non più usata, anzi dimenticata; ma da rinnovare completamente. Con tale occasione si poteva anche conferire ordine e dignità a tutto l’impianto dei servizi; i quali nel corso degli anni erano stati costruiti a sbalzo entro la corte, nel perfetto “stile abusivo dell’ingegnere Putrella” – ed erano molto frequentati, per interrompere la lettura e fumare, chiacchierando tra amici. Il nuovo impianto di risalita (e fuga di massa), affiancato da un nuovo ascensore, ha rampe brevi, in modo da costituire nuovi piani intermedi e consentire così la costruzione di due colonne di servizi, sia in corrispondenza ai piani sia in posizioni intermedie, con locali della minima altezza consentita dal Regolamento. Le colonne, o meglio i corpi incolonnati, sono frazionati da spazi vuoti, terrazze per distrazione e riposo momentaneo, la cui ragione precipua è, quasi per tautologia, il frazionamento stesso che consente di riconquistare la veduta per parti di tutta l’ampiezza della corte. In tale veduta emerge il senso di questo metodo progettuale: distinguere le parti nuove dal testo originario, facendo intendere che il corpo strutturale aggiunto – profili di acciaio imbullonati – è rimovibile senza intaccare il corpo antico. Tali segmenti hanno forma curva che rende sfuggente il loro volume, e sono rivestiti da doghe di legno, a rimarcarne l’identità; tuttavia ponendo accenti formativi che rilevano il ricercare tentativo di un’affinità, nella marca formante, tra le forme formate nuove e quelle antiche. (Sulla ragione della curvatura e del rivestimento si ragionerà ancora, più avanti). La posizione della nuova scala rendeva possibile l’idea di far funzionare la sequenza delle tre stanze lungo il rio – prima, la testata del portego, aperta sugli ingressi dal rio, avvenimento straordinario della vita delle forme; seconda, la sala con il varco orbato tra le colonne (forma d’incognito senso nel disegno scarpiano, secondo Tafuri) e terza la successiva, gemella nel tratto formale originario con varco tra colonne – le tre sale insieme intese quale unità funzionale di percorso con servizi d’accoglienza e collegamento tra le funzioni obiettivo, fondamentali per la Fondazione: la biblioteca, il museo e le nuove varie attività integrate tra loro.
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L’afflusso scarso di finanziamenti non consentì la realizzazione immediata della nuova scala; ma in via sperimentale e per ampliare gli spazi della biblioteca, anche nella forma scaffale aperto, furono ripulite e riattivate le prime rampe della scala vecchia “dimenticata”. Almeno due sale furono ristrutturate per rinnovare sia il sistema della distribuzione sia la disposizione di lettura; anche con interventi sul controsoffitto per favorire l’illuminazione con una forma a volta poligonale atta a raccogliere la luce dalle piccole finestre per concentrarla di riflesso nell’area centrale. La quota più rilevante dell’afflusso finanziario venne impegnata in restauri urgenti delle strutture murarie al pianterreno, eseguiti con la direzione degli ingegneri Geron e Gobbetto: principalmente con il sistema delle iniezioni, sulle murature a sacco, avendo constatato con vari sondaggi la saldezza delle fondazioni (dove abbiamo rilevato costruzioni in opus reticolato diagonale in pietra grigia), molto profonde ma non palificate quelle ortogonali al rio, e invece molto profonda e robustamente palificata quella sul rio. La prima opera realizzata seguendo il Piano di ristrutturazione è stata l’uscita di sicurezza. Il suo percorso iniziava dalla base della futura nuova scala – intanto dalla base della vecchia “ripristinata” – e attraversando la corte retro-giardino di Carlo Scarpa (separato da un muro molto articolato, con distacchi che aprivano vedute sulla vasca con fontana e squarci visuali sul mosaico di Mario De Luigi) giungeva al vecchio (storico) muro di cinta. Muro difensivo all’origine, forse merlato, ridotto all’insolita altezza di ben sette metri e mezzo, per intero coperto da rampicanti, magnificamente; era però debole nella giunzione al palazzo, presentando segni di degrado e certe fessure che ne indicavano sofferenza, per effetto del carico di punta, in ragione dell’altezza e dello scarso spessore. L’apertura di un varco richiedeva l’esecuzione previa di un opportuno irrobustimento. Abbiamo rifiutato innesti con opera scuci-cuci, e decisamente costruito un corpo distinto, ma con numerose cuciture all’esistente, mantenendo così fede a un principio generale d’identità progettuale, quale interpretazione personale derivata da un carattere del modo di fare scarpiano di fronte a un opera esistente, o un nuovo problema: analizzare il fatto-problema, rilevando le parti costitutive e le questioni in gioco, quindi comporre distinguendo; quanto dire mettere in stringente corrispondenza e correlazione costruttivo-poetica l’identità delle parti nell’unità dell’esito. Il muro e il varco hanno identità e sono coniugati in un sistema proporzionale. Il varco ha spalle e architrave in pietra d’Istria, modellate con sagome confacenti a un’uscita di molte persone agitate, ma anche per dignità della Fondazione menzionata da sigle in bronzo sistemate tra l’architrave e il remenato (definizione veneziana del tipico arco ribassato di scarico del corpo murario sovrastante l’architrave). Nicchie sommitali sul muro danno evidenza al sistema costruttivo e
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L’obbligo di aprire un foro su un muro alto 7 m, non ancorato all’edificio, mi ha indotto a irrobustirne il corpo e consolidare il doppio sistema, pietra e mattoni, legandoli con elementi d’acciaio in parte visibili: opere di semplice meccanica, che manifestano il ruolo delle parti. Il remenato (tradizionale arco ribassato che salva l’architrave di pietra scaricando il gravame del muro sui piedritti), solitamente sotto-intonaco per salvarsi da una certa goffaggine nel riempimento del vuoto, è qui chiaramente distinto e va a scaricare le tensioni sul corpo murario. La catena, presente in alcuni disegni, non è stata eseguita perché inutile. L’insegna «QS» è in bronzo. Il portone in verghe di legno è portato da piccoli profili a doppia T di acciaio. Il corpo murario nuovo, irrobustimento di quello antico, è stato eseguito con mattoni di una comune infornata, stupidamente eguali dapprincipio, ma in breve mutati dall’azione atmosferica in gradevole varietà cromatica (variazione degli armonici di un tono base).
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Studio dei rapporti tra le parti: apertura e irrobustimento murario L’insegna QS è in bronzo, come tutto il portone “lavoraâ€? sul tema della trasparenza Le forme interna ed esterna Uscita di sicurezza, primo intervento per obbligo di legge Opera finita
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spicco ai congegni di acciaio, che mettono in forza la giunzione tra il portale e il corpo murario. Il portone è costruito con verghe di legno, in parte libere, in parte chiuse con similitudine al portone del giardino, ma con senso differente (tuttavia nel segno...), in ragione della visibilità del dislivello del suolo oltre il varco, per dare preparazione al salto di chi lo oltrepassa di corsa nell’ansia della fuga. La descrizione di questa piccola opera, varco di fuga, caratterizzata nel modo progettuale come comporre distinguendo, mi obbliga a una digressione. Tale modo deriva dalla mia esperienza di lavoro nello studio di Carlo Scarpa: dalla regola di affrontare il progetto riconoscendo il corpo del tema progettuale, disaggregando, o meglio decostruendo il blocco problema. Il progetto diveniva processo di atti decostruttivi che conducevano a soluzioni d’abbozzo, a loro volta decostruite in riconoscimenti più affinati, fino a che la tecnicità processuale giungeva a processualità poetica: alla forma; quasi mai a perfetta soddisfazione. Mi sono dato la definizione comporre distinguendo quale assunto di lavoro e d’insegnamento fin dagli anni Sessanta, affinandola in rigore processuale, con brani teorizzanti, in alcuni saggi su questioni progettuali e commenti a progetti, miei in particolare, e nelle lezioni, verso una teorizzazione che non ho mai sistematizzato in opera scritta, ma diffusamente operante nei progetti, realizzati e no. Anche perché sopraffatta da un potente ismo figurativo, derivato e sostenuto da Jaques Derrida: il decostruttivismo – non importa se ciò che veniva composto distinguendo era costituito da pezzi di costruzione rotti o sgangherati, per far valere o mettere in guardia sull’andamento dell’essere del mondo; condizione critica nel tempo mutata, con grande sapienza, e declinazione letteraria, in una visione perturbante dell’architettura e del mondo. Nel fondo del mio comporre distinguendo, e nelle opere che ho costruito, o nelle quali ho partecipato, vi ho messo, o tentato di far evidente un residuo dionisiaco – quello per cui in Grecia un’opera artistica scultorea veniva fatta per la gioia, per esempio, di Apollo o Diana – che per noi traduco in un’architettura fatta per la gioia di esserci, là nel comporre distinguendo. La seconda opera di attuazione del Piano di ristrutturazione ha riguardato l’irrobustimento del sistema strutturale dei solai del terzo piano e dell’area centrale del secondo, per corrispondere alle nuove condizioni legali di sicurezza in ragione dell’uso pubblico, più severe di quelle originarie. Non solo l’obbligo di legge, ma la constatazione che la presenza di più persone in movimento induceva sensibili inflessioni sui solai, ha obbligato a effettuare analisi accurate sulla disposizione e misura delle travi. La cura sapiente degli ingegneri Franco Geron e Walter Gobbetto ha indotto un progetto complesso a due ordini di opere. Il primo, all’interno del controsoffitto, è costituito da un certo numero di travi di
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acciaio, una ogni due o tre di quelle esistenti, nel loro stesso ordito, ma a livello più basso, per non alterare la continuità del tessuto murario e consentire l’introduzione di traverse rompi-tratta delle originarie. Il secondo riduce la luce di portata per tale sistema (per contenerlo nella misura preordinata, rispettando il livello del controsoffitto e le decorazioni a muro), ancorando le travi del secondo piano e appoggiando quelle del terzo alla costruzione di una trave-parete alta quanto il piano, posta a ridosso di quelle fragili (a scorzoni) sul lato del corridoio. Tale struttura trave-parete è costruita con incollaggio in opera di tavolette, costituendo una trave lamellare, lunga circa 18 m, alta 4,5, dello spessore di 0,12, vale a dire sottilissima; che perciò è irrigidita in due punti: il primo in modo semplice – sei nodi su un corpo preesistente –, l’altro da speciale asta verticale di acciaio a doppio pettine atto a ricevere, a piccole serie, tutte le tavolette; ed è altresì raddoppiata ai tre quarti della lunghezza con forte ed evidentissima bullonatura, in modo da scansare una parete decorata, e per sé ancora acquisire rigidezza. Là, nel museo di opere raffinate di pittura – preziose su tutte la Presentazione di Gesù al Tempio di Giovanni Bellini, e la Madonna con bambino benedicente di un maestro belliniano – altresì ricco di collezioni dalla mirabile fragilità, vetri e ceramiche, medaglieri e monete e strumenti musicali antichi, improvvisa si eleva la grande struttura trave parete mostrata senza veli; esibendo però un lavoro artigiano preciso, che dà sicurezza nei modi esatti di una tecnologia avanzata, sotto il dettato di una sapienza tecnica che misura il necessario e sufficiente, ma osa un ordine estetico positivo (non so dire se è avvicinabile all’inaspettato, spesso sapientemente offerto da Carlo Scarpa) che in rapporto a quelle preziosità museali forse sta in un certo intendimento del sublime. Se questa definizione suona ambigua, rispetto a quella fondata dallo Pseudo-Longino (I sec. d.C.), in ragione delle interpretazioni successive date nei secoli dopo Kant, si volga il pensiero al fatto che tale intervento sulla struttura fisica dell’edificio consegue al giudizio del mondo contemporaneo sulla fragilità della costruzione veneziana – mentre chi vi abita e l’ama, reagisce al rischio con cura attenta, e gode il divertimento di Carlo Scarpa che lascia entrare l’acqua alta, guidandola. Il museo delle collezioni preziose, eleganti e fragili, espone se stesso dimostrando che il mondo attuale sottopone a nuove regole la condizione originaria. Concordi Pastor, Geron e Gobbetto, abbiamo voluto rilevare il quadro chiaro di tale condizione, con un intervento che in sé non altera un tratto essenziale della condizione originaria: la capacità di accogliere, entro limiti meditati, e adattarsi al sopraggiungente. Nel tempo d’esecuzione dei due interventi rilevanti, il portone di sicurezza e la trave parete, abbiamo sviluppato progetti per altri interventi, alcuni per sistemazioni provvisorie – come l’ingresso alla biblioteca dalla vecchia scala riabilitata – altri per realizzazioni definitive. Importante era il percorso lungo il rio, benché
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La grande trave parete: realizzazione e schizzi esecutivi
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Secondo intervento urgente: la grande e sottile trave parete, a bionde tavolette, destinata a irrobustire e portare il solaio del museo (che copre la biblioteca) insieme al solaio del terzo piano, ancora luogo pubblico per mostre e varie attivitĂ .
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costituito da poche opere: gradini principalmente, per accedere al percorso di fuga, e un ingresso secondario dal rio suggerito dall’originario portone, di tono minore rispetto alla grande coppia di portali e la magnifica salita disegnata da Carlo Scarpa – invero opera rappresentativa che invita a essere usata per esporre altre opere importanti, sculture o vetri d’arte, più che al passaggio (fatalmente teatrale) soltanto di personalità di grande fama. I gradini alla via di sicurezza, ora rimossi, erano caratterizzati plasticamente da un gioco di vuoti angolari affini e consonanti, ma non simili, ai vuoti angolari disegnati dal professore nell’edicola dei termosifoni nel portego, erano l’accenno tematico alla plasticità volumetrica, a scavo profondo, che sarebbe conseguita, come di fatto lo è, nella costruzione della nuova scala e dei corpi di servizio. L’ingresso dal rio, non realizzato, si presentava con un’ampia soglia, seguita da una scaletta, entro un vuoto delimitato da una vetrata che riprendeva la sagoma dell’inferriata disegnata da Scarpa nei portali grandi, formando una breve galleria – era un penetrare secondario nel palazzo, e un modo facile di stare nell’ambito del segno e distinguersi nel timbro volumetrico-plastico, a galleria scalare. Voglio ancora rimpiangere, ma in breve, la mancata realizzazione di una serie di studi, già avanzati in forma d’esecutivo, relativi al rinnovo dei serramenti delle finestre del primo piano lungo il canale, in prosecuzione della quadrifora cinquecentesca. Il progetto si apriva sviluppando un disegno non più conforme alla corrente figurativa che fa proseguire nel serramento le partiture, e spesso anche le modanature del disegno architettonico, ma quella che distingue il ruolo delle parti, con differenze che fanno capo alla polifora. I casi più frequenti di tali vetrate dispongono il sistema ligneo verticale in asse alle colonne, mentre il corrispondente orizzontale corre all’altezza dei capitelli, coprendoli; modo che ottunde l’intendimento della forma dal lato interno e ne tradisce il senso spaziale. Il modo alternativo distingue la costruzione della vetrata dai passi del disegno del corpo architettonico, che si può intendere come un contrappunto alla partitura fondamentale (ricordando i disegni del Serlio, nei quali finestre e serliane sono colmate da colore nero o fitto tratteggio: un silenzio che attende, forse, un contrappunto). Trovo opportuno chiamare a mente il correlarsi di vetrate reticolate da palazzo a palazzo, in sordina, con semplice partitura dei legni, dove in particolare gli orizzontali sono distesi con relativa fedeltà alle partizioni modanate in pietra: canto e controcanto, ma a bassa voce, nel coro architettonico della città. Tale contrappunto, ma a piena voce, è il tema disegnato alla Querini nella quadrifora, dove le partizioni lignee si ritmano sui vuoti dell’architettura, e il legno orizzontale è inviato alle finestre correndo dall’una all’altra per tutta la lunghezza del corpo architettonico, indifferente alle modanature. Il progetto era giunto al dettaglio e introduceva un perfezionamento tecnico con una cassa-morta metalli-
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ca che avrebbe ovviato alle difficoltà dovute alle piccole differenze di misura delle finestre, che causano irregolarità nel disegno decorativo del contorno e ne inducono rovina nelle opere di manutenzione dei legni; ma la Sovrintendenza ha ordinato il rifacimento tal quale: esito prevedibile per un progetto molto sofisticato. Penso opportuno, per caratterizzare il lavoro del nostro Studio nella lunga vicenda delle opere provvisorie alla Querini, ricordare per cenni l’allestimento di due mostre: la prima, dedicata alle scuole muranesi contemporanee – perciò denominata “Cento Vetri” – collocata a pianterreno (pé-pian); la seconda dedicata alla famiglia Querini, a celebrarne il collezionismo raffinato nel modo d’abitare il palazzo, perciò collocata al terzo piano appena riacquisito alle attività culturali della Fondazione. La “Cento Vetri”, ordinata ed eseguita in dieci giorni, era soggetta all’impegno di allestirla con l’impiego esclusivo di pannelli grigliati di acciaio (una mostra di acciai condizionante finanziaria della “Cento Vetri”). Ne uscì una costruzione elegante, elaborata a ritmi antisimmetrici sui giochi sincopali in sala Luzzatto, e con il suggerimento a una soluzione per l’uso delle sale lungo il rio anche in condizione d’acqua-alta. La mostra I Querini, nella totale sequenza di sale prospettanti sul rio, su Santa Maria Formosa, è stata corona del palazzo nel rapporto con la città; oltre alla preziosità degli arredi e delle collezioni esposte, l’esito si deve certo al fatto che Michelina, curatrice della mostra, ha saputo conferire una sequenza timbrica all’infilata delle stanze, facendo tingere i teli di rivestimento delle sale secondo cromie di memoria settecentesca – quali abbiamo trovato sotto intonaco in alcuni saggi d’indagine. L’aria pareva avesse colore, conferendo realtà d’esperienza alla metafora atmosfera settecentesca. Terzo e per noi ultimo lavoro, è la seconda scala con la ricomposizione dei servizi, nella corte del palazzo. Un’idea si è imposta fin dapprincipio: la costruzione, non piccola per esigenze inderogabili dell’uso, non doveva apparire invasiva nella vecchia corte, le cui dimensioni d’ampiezza erano sopraffatte dall’altezza. La strategia dell’ubicazione doveva accompagnarsi a tale secco carattere formale. Solo una forma elaborata con tratti referenziali del modo di costruire e di abitare la città poteva soddisfarla. La scala doveva essere il centro distributore dei percorsi, tanto della biblioteca in rapporto con il nodo tra il depositorio e la distribuzione dei libri, tanto del museo nel percorso tra le collezioni, e tanto ancora al terzo piano nella dislocazione degli uffici e delle sale per conferenze, lezioni e convegni. In coppia con la scala aulica all’estremità ovest del palazzo (cfr. p. 28) – rinnovata nell’Ottocento, dotata di ascensore e infine resa agevole con qualche gradino in più, opere a cura della Sovrintendenza –, doveva conferire ordine alle funzioni quotidiane e speditezza nell’emergenza dello sfollamento.
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La sagoma dei gradini è usata per formare i pianerottoli; tutto in graniglia verde chiaro. La struttura è in acciaio a profili HE, tanto per le scale che per il corpo dei servizi e terrazze. Soltanto il corrimano è in legno, frassino sbiancato. L’intercapedine tra i servizi è luogo d’organizzazione strutturale, idraulica e ventilazione. La struttura in acciaio corrisponde al principio conservativo di una facile reversibilità delle costruzioni aggiunte all’originale storico, così come al principio dell’adattabilità a sopravvenienti bisogni.
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Vedute della scala: gradini e pianerottoli in graniglia verde, struttura in acciaio, parapetti autoportanti La scala alla maniera militare (tratto finale escluso al pubblico) ha due rampe, una per la destra, l’altra per la sinistra; sale al tetto per ispezione
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La struttura delle scale corre in doppio corpo, a ridurre gli sbalzi sia dei gradini che dei pianerottoli. Il doppio corpo è connesso a traverse HE, necessarie anche per accogliere gli ancoraggi dei parapetti autoportanti. Tutti i nodi di giunzione delle strutture hanno un certo spicco, quelli dei parapetti in particolare.
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Studio della struttura delle scale Vedute dei nodi d’ancoraggio dei parapetti autoportanti
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La forma a due curve convergenti comprime il volume complessivo, a vantaggio del vuoto. Il taglio a segmenti colonnari, e la cavità delle terrazze che possono accogliere qualche ricca pianta, convergono al fine di una buona godibilità dell’attraversamento della corte: anziché misera via di fuga potrebbe venire inclusa nel percorso di certe mostre, attrezzando la porta per i casi di allarme. Il rivestimento in doghe di larice appare, oltre ogni attesa, quale fasciame navale e assegna alle curve un senso marittimo, anche grazie agli oblò: è un modo di fare qui presente e stare nel segno delle origini, con un gruppo di servizi quale unica ragione che ha consentito l’aumento di volume dell’edificio.
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Forma dei corpi di servizio a segmenti colonnari, con rivestimento in doghe di legno verso la corte
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Per la costruzione della villa a Reggio Emilia (casa unifamiliare con giardino), il progetto esecutivo ha sviluppato dettagli costruttivi, perfezionati o variati in corso d’opera – avevo un disegno base molto preciso, incollato su tavola, per studiare soluzioni dei nodi della forma. La direzione dei lavori – condotta con visite frequenti, discutendo con Salvarani e con il capocantiere oltre che con gli specialisti lattonieri e falegnami dei serramenti e dei rivestimenti – mi ha dimostrato l’inevitabile e sostanziale duplicità del progetto: è necessario dimostrare come la cosa deve essere costituita, ma anche come può o deve essere eseguita. Due forme del pensare il sistema sono messe in atto, secondo studi ed esperienze differenti, nella forma sostanziale del dialogo conflittuale per giungere al compimento. Tali forme, anzi, tale duplicità nel processo del progetto si presenta distinta nel momento in cui si comincia a tracciare l’opera sul suolo, quando altre figure del processo – persone e contratti – entrano in gioco: in verità è attiva (dovrebbe esserlo) in quanto dialettica fin dapprincipio. Nei fatti la sua processualità dialettica ha figura viva essenziale nel capocantiere.
A sinistra, pianta della copertura come è stata realizzata; a destra, il progetto iniziale della copertura, con piccolo giardino pensile attorno alla loggia Pianta del piano a livello stradale con i locali di servizio seminterrati; pianta del piano terra con ingresso, studio, soggiorno, servizi e cucina; pianta del piano delle stanze e soggiorno Sezione W-E con livelli del soggiorno; sezione S-W con soggiorno e N-W con scala circolare, servizi, cucina e stanza da letto
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Schizzi di studio Vedute della forma complessiva dal viale e da una casa alta lontana (foto d’epoca)
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Ingresso e scorcio della vetrata con schermi a carabottino Tetto e gusci di raccolta dell’acqua piovana
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La casa appare come sfrangiamento del colle sulla piana del vigneto: il suo interno ne è la mediazione spazializzata. Dal Co, Tommasi e Pietropoli ricercano nei loro testi il senso di tale mediazione, aprendo con suggestioni al possibile, senza fine.
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Planimetria di casa Ottolenghi a Bardolino Due vedute corrispondenti al lato base della planimetria (ovvero dal vigneto) e veduta del tetto piano Le colonne Ă˜ 88 cm, variamente stratificate in conci di calcestruzzo e pietra, rosso Verona e Prun
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piace dire, che manifesta la viva complessità della forma urbana, e si libera dal senso perturbante – tema diffuso nella letteratura sulla città, suscitato dall’immagine del corpo chiuso di un palazzo come di una cinta urbana. Altra componente – forma e concetto – rilevo nel passaggio dal nuovo ponte alla sala d’ingresso: l’apparire nella complessità del disegno pavimentale l’ascendenza a un’arte storica ma viva nel divenire, quale esplicita citazione dell’opus sectile di San Marco, ma in espressione astratta nella composizione del timbro cromatico. E ancora, con riferimento ai citati rivestimenti delle varie sale (l’involucro interno), curati nella qualità materica e nel disegno ritmato a serie sincopali, rilevo ancora una volta che inducono a pensare la marca strutturale non visibile, rendendo chiaro il concetto del costruire e abitare adattabili alla natura ambientale, in modo flessibile. Tali suggestioni non esauriscono l’interrogativo sulla natura del fatidico segno, pur nel campo ristretto alla co-generazione dello spazio vitale e della vita dell’edificare: tento perciò altri casi. Kurt Forster14 afferma di riscontrare in ogni meditato evento figurativo il ricorrere di una riflessione cosmica inerente al senso dell’esserci. Mi sorprende che la sua analisi critica, quella singolare lexie, stringente ricerca dell’unità funzionale nel complesso corpo compositivo della casa Ottolenghi, renda lui stesso sorpreso, a far capo dal particolare modo di arrivare e accedervi: giungere al livello di un tetto pianeggiante, erboso in parte, e con maggiore misura composto da piani triangolari e quadrangolari pavimentati a mattoni, disposti variamente inclinati, a misura sub-orizzontale accogliente che appare continua con l’andamento del colle; dal quale sono separati per uno spacco di varia geometria, una calle in effetti. Si manifesta così che l’immagine di una casa interrata, dapprima fantasticata, è solo apparente; tuttavia facendo valere il senso di co-appartenenza al colle. Tale modo di costituire una concreta trasformazione geologica – non importa la misura dell’evento – appare frutto concreto di una riflessione cosmica, che guida ormai, o da sempre, la tensione progettuale di Carlo Scarpa. Mi colpisce tale riflessione critica nel fatto che l’analisi abbia per oggetto il concorso motivato dell’osservazione sul corpo tettonico, sulla costruzione del corpo strutturale – di solito sfuggente nelle analisi – e sia esaltata quale componente essenziale nello svolgimento del progetto, in quanto tesa a esaltare la poeticità dell’abitare, per l’abitante mentre abita. Vale il commento sulle colonne che appaiono massicce (definizione di Foster) in rapporto al compito di reggere quel tetto, complesso nella forma, ma non tanto vasto da motivare il numero e la dimensione dei supporti. La loro presenza e il loro carattere rendono ambigua l’idea di necessità; devono essere estratte dal dominio delle valutazioni economiche che in genere prevale nel progetto delle strutture, quindi sciolte dalla razionalità di un lessico ridotto, per essere introdotte in un mondo complesso di ragioni: quello sotteso dal
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Crediti fotografici
Le fotografie alle pp. 14-17, 21 sono di Š Alessandra Chemollo I disegni alle pp. 21-23 e la riproduzione dell’opera di Joseph Albers a p. 22 sono tratti da Carlo Scarpa alla Querini Stampalia. Disegni inediti, a cura di Marta Mazza, il Cardo, Venezia 1996, pp. 36, 48-49, 65, 72 Le fotografie alle pp. 60, 61, a destra, sono di Riccardo Grassetti Le fotografie alle pp. 85, 88, 89, 91-93 e la foto a p. 107 in alto sono di Sergio Cancellieri e Paolo Frizzarin Il disegno e le foto alle pp. 98, 99 sono tratti da Francesco Dal Co, Villa Ottolenghi Carlo Scarpa, The Monacelli Press, New York 1998, pp. 44, 45, 83, 88, 89 Dove non altrimenti specificato le immagini sono di Valeriano Pastor e Michelina Michelotto Pastor
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Finito di stampare nel mese di marzo 2017 per conto della casa editrice Il Poligrafo presso la Papergraf di Piazzola sul Brenta (Padova)
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