Riflessi in uno specchio. Voci di donne da un paese in guerra, Il Poligrafo

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Maria Serena Alborghetti

RIFLESSI IN UNO SPECCHIO GRAPHIE POLIGRAFIE

Voci di donne da un paese in guerra

ILPOLIGRAFO



poligrafie

voci, storie, narrazioni

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Maria Serena Alborghetti

Riflessi in uno specchio Voci di donne da un paese in guerra

ilpoligrafo


in copertina Paul Gauguin, Ta Matete (Il mercato), 1892 Basilea, Kunstmuseum Copyright © maggio 2016 Il Poligrafo casa editrice srl 35121 Padova piazza Eremitani – via Cassan, 34 tel. 049 8360887 – fax 049 8360864 e-mail casaeditrice@poligrafo.it ISBN 978-88-7115-930-0


INDICE

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Prefazione

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I. Lo specchio

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II. Noemi

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III. Catherine

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IV. Annemarie

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V. La casa

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VI. Pascaline

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VII. Hervé



Prefazione

Lo stato africano dove si svolgono le storie qui raccontate è immaginario, ma lo si può identificare con uno dei tanti paesi dell’Africa martoriati da anni di guerre, rivoluzioni, contro-rivoluzioni e scontri etnici. I personaggi, pur essendo di fantasia, sono ispirati a persone che ho realmente incontrato nei miei viaggi e missioni. Molti degli avvenimenti riportati sono realmente accaduti, anche se non tutti nello stesso paese; spesso ne sono stata testimone diretta, altre volte mi sono stati raccontati da persone che li hanno vissuti. Il resto è immaginazione, ma vuole rappresentare la vita quotidiana di un paese che non conosce pace, dove la violenza, gli abusi di potere, l’impossibilità di esprimere le proprie opinioni appartengono, appunto, al quotidiano. La vita non si ferma: si ama, si soffre, si fanno figli, ci si diverte in una sorta di schizofrenia che coinvolge inevitabilmente anche lo straniero che lì lavora e opera. Alle storie fa da sfondo l’Africa, questo immenso continente dalle innumerevoli sfaccettature, l’Africa con la sua natura opulenta oppure essenziale, la sua musica travolgente, il riso e l’allegria, il dolore e la sopportazione. L’Africa dalle infinite sventure e dall’infinita capacità di risorgere e vivere. Una volta, in uno dei miei primi viaggi nel continente, mi trovai a passare la notte in una missione cattolica, in un villaggio in mezzo alla foresta del Camerun. Il padre, un olandese lì da più di trent’anni, mi offrì la cena, una birra e restammo a parlare. A conclusione mi disse: – L’Afrique est dure, madame, elle est très dure. Poi aggiunse: – Io ci vivo da trent’anni, ma non ho mai voluto lasciarla...

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prefazione

È vero, l’Africa è dura, ma anche affascinante, chi se ne innamora deve tornarci, altrimenti la rifugge. Delle sue sventure siamo tutti un po’ responsabili: prima le colonie che hanno stravolto la cultura locale – e in certi casi sono state di una violenza inaudita –, poi gli sfruttamenti di tutta la comunità internazionale che se da un lato dà (soldi, finanziamenti di progetti ecc.), dall’altro prende, facendo accordi con capi di stato spesso indegni per accedere più facilmente alle ricchezze del paese. Viene fatto di pensare che in fondo un continente ricco come l’Africa è meglio mantenerlo ignorante e nel caos onde evitare che si imponga come una potenza a livello mondiale.


RIFLESSI IN UNO SPECCHIO


L’immagine del corpo sostituisce il corpo; senza lo specchio non potremmo conoscerci Jacques Lacan


I.

Lo specchio

La stagione secca stava per finire e i primi violenti scrosci di pioggia, invece di rinfrescare, avevano lasciato l’aria umida e soffocante. Camminava cercando di evitare le ampie pozzanghere che si erano formate su quelle strade della capitale di quel paese africano dove era appena sbarcata. Non era una grande città. Non sembrava neppure una capitale e per questo le piaceva, ma non avrebbe abitato lì, la sua destinazione era più a nord, in un villaggio sperduto tra le colline. A parte il grande viale centrale le strade erano di terra, polverose nella stagione secca, si riempivano di fango con le piogge. Le case del quartiere dove si trovava erano basse e graziose, perlopiù villette con giardini pieni di piante rigogliose che la recente pioggia aveva ripulito dalla polvere. Più avanti il paesaggio cambiava, la strada si allargava ed era fiancheggiata da laboratori di artigiani: da un lato erano esposte porte e cancelli lavorati in ferro battuto, dall’altro i falegnami mettevano in bella mostra letti, armadi, tavoli e interi salotti, questi ultimi ancora coperti dalla plastica gettata lì in fretta per ripararli dalla recente pioggia. L’apparenza era quella di un grande show-room all’aperto. In fondo alla via, su un ampio spazio, si apriva il cancello di una villa. Era una vecchia villa coloniale, ben tenuta, con le balconate in legno, il giardino pieno di fiori e due grandi palme; si fermò ad ammirarla. Un camion era parcheggiato davanti e stava caricando dei mobili: sembrava che stessero traslocando. Una signora bianca le si avvicinò.

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– Le interessa la villa? Noi rientriamo in Europa, vorremmo venderla o almeno affittarla, – le disse. Lei scosse la testa. – Sono appena arrivata e vado a nord. E poi non potrei mai permettermi un simile acquisto! – Si può anche affittare. Vuole visitarla? – la invitò la signora. – Può guardare se tra i mobili che lasciamo c’è qualcosa che la interessa. Le vecchie case l’avevano sempre affascinata. Forse il fatto di vivere lunghi periodi in giro, in case diverse, le aveva acuito il desiderio di una casa sua, dove mettere le sue cose, dove tornare tra una missione e l’altra. Aveva sempre pensato che avrebbe acquistato una vecchia casa, magari da ristrutturare. Si fece tentare, le sarebbe piaciuto vedere com’era dentro. L’atrio era ampio. Al centro una scala in legno portava al piano superiore, quando salì i gradini scricchiolarono appena. Di sopra vi erano una serie di sale e salette comunicanti una con l’altra. In alcune c’era un bel camino in marmo. I pavimenti erano tutti in legno. I mobili rimasti erano pochi: un tavolo in mezzo a una stanza e qualche piccola etagère. Si aggirava per le stanze vuote, sulle pareti i segni dei mobili e dei quadri che erano stati tolti davano un senso di abbandono, di un vissuto già lontano. Appoggiato in terra contro una parete vide un grande specchio; la cornice era semplice, larga, di legno scuro e opaco, un po’ rovinata. Vecchio, ma non antico, sembrava uno di quegli specchi che si trovavano dai rigattieri nel quartiere latino della sua città. Quello specchio l’attirava. Si osservò nel riflesso: i pantaloni di lino marrone scuro un po’ strapazzati, la maglietta chiara, i capelli biondi e mossi che le ricadevano sulle spalle, la pelle abbronzata, perché prima di partire aveva passato qualche giorno al mare. Dietro di lei si riflettevano le stanze, che si susseguivano in una sequenza che finiva inghiottita dall’oscurità, e lei aveva la strana impressione che si potesse andare oltre quello specchio per tuffarsi in quelle stanze che si aprivano una nell’altra, vuote e in penombra. Una sensazione inquietante.

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La signora riapparì nella stanza. – Le piace? – chiese. – Posso farle un buon prezzo. Lei aveva già deciso; sarebbero venuti a prenderla con un pick- up, lo spazio per trasportarlo dunque c’era. Si accordano per la mattina seguente. – Dove deve andare? – chiese ancora la signora. Quando lei glielo disse scosse la testa e rise. – Glielo faccio imballare bene, le piste lì non sono buone. Scesero insieme le scale e si salutarono al cancello. Il cielo pulito dalla pioggia era di un blu cobalto, il sole ormai basso produceva lunghe ombre e l’aria era meno pesante.

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IV. Annemarie

Annemarie incartò il vestito che aveva appena finito di stirare e lo dette alla signora in attesa. – Sei stata bravissima, Annemarie, il vestito è perfetto, sei diventata un’ottima allieva di tua madre. – Sono stata anni senza cucire, quando lavoravo alle Nazioni Unite non ne avevo il tempo, poi... – fece un gesto con la mano per alludere a tutto quello che era passato da allora. La signora conosceva la situazione e non disse niente, guardò il grande specchio appoggiato al muro: aveva una bella cornice in legno e gli angoli erano decorati con dei piccoli fiori. – Questo specchio è bellissimo, – disse. – Ma dove l’hai trovato? – Me l’ha regalato un’amica che poi è partita, lavoravamo insieme, – rispose Annemarie seguendo con il dito la linea dei fiori dipinti e pensando a Catherine. Guardò la sua figura lì riflessa: da quando era arrivata in quella valle sperduta, aveva abbandonato i vestiti eleganti che era abituata a indossare, anche se cercava di non lasciarsi mai andare alla trascuratezza. – Sei sempre bella, – disse la signora – anche così riesci a essere elegante. Per lo specchio pensaci quando te ne andrai, potresti lasciarmelo. Annemarie si passò una mano sul ventre leggermente arrotondato. – Già, – ribatté sopra pensiero – quando me ne andrò. – Tu te ne andrai, – riprese la signora guardandola negli occhi – questo lo so. – Poi l’abbracciò, prese il pacchetto con il vestito e uscì. 63


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Annemarie rimase sulla porta a guardarla salire con fatica il pendio per arrivare in cima al colle dove l’aspettava una macchina. Il sole si stava abbassando, fra poco sarebbe tramontato dietro le colline coperte di banani, l’aria era tiepida, la stagione delle piogge era alla fine e l’erba era di un verde brillante. – Adesso ricominceranno gli scontri – pensò Annemarie, perché la stagione delle piogge costringeva sempre le fazioni in lotta a una tregua forzata. Era ormai un anno che lei e Benjamin abitavano lì, in quella casa tra le colline, poco distante dalla scuola del villaggio dove lui insegnava. Dopo la partenza di Catherine la situazione nel paese era peggiorata, la polizia aveva fatto più volte incursione a casa loro terrorizzando sua madre che lì aveva il suo laboratorio di cucito. L’ultima volta quello specchio si era salvato per miracolo, era rimasto nascosto sotto alcuni tessuti e i poliziotti dopo aver rovesciato il tavolo e rotto due sedie si erano allontanati. Quella stessa sera Benjamin era rientrato con un’espressione cupa in volto, lei non aveva fatto domande, aspettava che lui avesse voglia di parlare, qualcosa di grave doveva essere successo. Avevano mangiato in silenzio, poi spostando il piatto bruscamente lui aveva battuto con forza il pugno sul tavolo facendo cadere in terra le posate. Era raro che avesse delle reazioni così violente e lei era rimasta seduta a guardarlo con un nodo in gola. – Mi hanno licenziato, – disse infine – il direttore della facoltà quasi si scusava, mi ha fatto capire che non c’era niente di cui poteva rinproverarmi, in un certo qual modo era stato obbligato a farlo... Qualcuno dall’alto deve averglielo imposto. Sono diventato una persona indesiderata che non deve stare a contatto con i giovani. Capisci? – chiese con un sorriso amaro – potrei mettere in testa a quei ragazzi idee strane come... democrazia, rispetto dei diritti umani, libertà di pensiero... Sono un uomo pericoloso. Annemarie aveva appoggiato una mano sulla sua. – Allora? – chiese sottovoce. – Allora niente, sono disoccupato. Arsène, hai presente no? Quello che dirige una scuola privata. Ha detto che proverà a farmi lavorare lì, magari cominciando con qualche sostituzione per

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vedere che reazioni ci saranno... è chiaro, però, che se lo minacciano di fargli chiudere la scuola dovrà adeguarsi anche lui. – Prendi un po’ di tempo, – disse lei. – Resta invisibile per un po’, c’è il mio stipendio, ci può bastare. – Sì, certo, anche Arsène l’ha detto, in ogni caso dovrà aspettare che resti a casa un insegnante per chiamarmi come sostituto, comunque, – aveva continuato guardandola negli occhi – lo sai che non è una questione di stipendio, con il tuo possiamo farcela benissimo, il punto è che non è giusto quello che stanno facendo... E non puoi appellarti a nessuno, è questo che mi esaspera. – Ne parlerò in ufficio, chiamerò anche Catherine, mi dirà a chi rivolgermi. – Prova, – aveva ribattuto Benjamin senza troppa convinzione, – ma lo sai anche tu che le Nazioni Unite hanno dei loro equilibri da mantenere. – Potresti anche parlarne con Amis, lui denuncerebbe la cosa ai media, farebbe capire alla comunità internazionale quello che sta succedendo qui. – Sicuramente Amis darebbe spazio alla cosa, ma questo presidente sta prendendo in giro tutta la comunità internazionale, continua a rinviare le elezioni dicendo che il paese non è ancora pronto e quando deciderà di farle non ci sarà più l’opposizione, sarà sparita. È quello che vuole. Era vero, era quello che il presidente e il suo entourage stavano facendo. Eliminare poco a poco ogni opposizione, eliminare fisicamente i capi carismatici e fiaccare e spaventare quelli che li seguivano. Dopo dieci anni di guerra civile la popolazione era stanca, voleva soltanto vivere tranquilla, la massa della gente nelle campagne non era istruita e poco o niente politicizzata. Parole come libertà d’opinione, rispetto dei diritti umani erano incomprensibili, la gente voleva lavorare i campi, aver qualcosa da mangiare e non dover scappare e abbandonare i villaggi distrutti da una o l’altra fazione armata. Il presidente giocava molto sull’impatto empatico che aveva con la gente semplice: mettersi a torso nudo per spiallare insieme ai muratori la malta sui mattoni nella costruzione di una nuova scuola o aiutare un contadino a tirare l’aratro con i buoi era-

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no atteggiamenti populisti che attiravano voti. L’opposizione era forte nelle città, negli ambienti intellettuali, ma nelle campagne era difficile farsi capire, il tasso di analfabetismo era altissimo e non vi era alcuna sensibilità o critica politica. Quella notte erano rimasti a lungo vicini, distesi nel letto, tenendosi per mano. Fuori si sentivano i grilli e il fischio breve di qualche uccello notturno. La luna aveva illuminato la stanza per poi lasciarla nell’oscurità e sparire dietro il tetto della casa accanto. Allora Annemarie si era girata verso Benjamin e gli aveva appoggiato la testa sul petto. – Ne verremo fuori, – disse – non so come, ma ne verremo fuori, per noi e per i figli che verranno. – Sì, lo so, dobbiamo, – aveva ribattuto Benjamin e l’aveva stretta più forte. Nei giorni seguenti Annemarie aveva chiamato Catherine e su suo suggerimento aveva contattato Cristine nella capitale e preso appuntamento con lei per il fine settimana. Benjamin spedì una lunga e-mail ad Amis che gli rispose dicendo che avrebbe raccontato quanto era successo, ma per il momento non avrebbe fatto il suo nome, in attesa di capire cosa si stava macchinando. Annemarie, qualche giorno dopo, scese alla capitale e andò a dormire da Cristine. L’ufficio dei diritti umani delle Nazioni Unite si era mosso per sapere le ragioni del licenziamento di Benjamin. Le risposte che avevano avuto erano state evasive, ma al tempo stesso ben mirate per far intendere quello che non si poteva e non si voleva dire. Facevano allusione a un comportamento scorretto di Benjamin verso alcune sue allieve e, peggio ancora, anche verso gli allievi, ventilando tendenze “sessuali deviate”. Facevano capire che erano stati generosi a licenziarlo evitandogli un processo che lo avrebbe sicuramente mandato in prigione. Il direttore del dipartimento, interrogato, si era limitato a dire che non era in grado di confermare niente, ma era assolutamente impotente. Era apparso molto abbattuto e preoccupato oltre che spaventato. In questo modo avevano messo Benjamin con le spalle al muro, qualsiasi difesa da parte sua era impossibile. Sia Cristine che Annemarie sapevano come andavano le cose:

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avrebbero trovato falsi testimoni e nessun tribunale l’avrebbe assolto. Avevano avuto altri casi di oppositori messi in galera con accuse di furto, appropriazione indebita o altro. Tutti sapevano che le accuse erano false, ma c’era l’impossibilità di provarlo. – Povero paese mio, – aveva esclamato Annemarie – non so se e quando mai riusciremo a venirne fuori, a far pulizia di certa gente. – Visto come stanno le cose, – aveva ribattuto Christine – anche una presa di posizione massiccia di Amis e di tutta la diaspora che condivide le sue idee potrebbe risultare pericolosa per Benjamin. – Si lo so, gliene parlerò e sarà lui a decidere. – Mi spiace, Annemarie, mi sento spesso assolutamente inutile. Annemarie riportò a Benjamin quanto saputo da Cristine e la sua reazione fu quella che lei si aspettava. – Se per paura delle conseguenze si tace sempre non si arriva da nessuna parte, tutto quello che abbiamo fatto e stiamo facendo diventa inutile. Amis deve parlare di questi fatti con veemenza, deve denunciare sempre più forte questi tentativi di eliminare l’opposizione. Non credo che la comunità internazionale sia veramente convinta dell’onestà di chi comanda il nostro paese, dobbiamo far capire chi sono quelli che stanno al potere, se i media li bombardano di accuse capiranno che devono fare più attenzione. Annemarie lo guardava e la sua rabbia montava con quella di Benjamin, sapeva che non si può sempre tacere, le cose vanno dette, urlate anche, ma lei aveva paura, temeva per lui. Desiderava una vita tranquilla, accanto al suo uomo. Voleva dei figli e che i suoi figli avessero un padre, non solo l’immagine di un eroe ucciso per le sue idee o peggio ancora condannato a marcire in galera. Aveva vissuto quella situazione come figlia e avrebbe voluto evitare che la storia si ripetesse. Suo padre era ministro di un governo formato dopo un colpo di stato che aveva abbattuto una dittatura. Era un uomo entusiasta, voleva fare grandi cose per il suo popolo e aveva intrapreso una dura lotta contro la corruzione. Ricordava ancora con orrore quella sera, l’ultima in cui lo aveva

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visto, quando era venuto a darle la buonanotte. Lei era già a letto con la sorella più piccola quando avevano suonato il campanello, aveva sentito voci: qualcuno era arrivato e stava discutendo con suo padre, sentiva anche sua mamma, poi ci fu lo schiocco secco di uno sparo seguito dalle urla di sua madre che insultava qualcuno. Quasi non riconosceva la sua voce, non l’aveva mai sentita imprecare in quel modo. Era scesa dal letto per andare a vedere, ma sulla porta c’era la nonna che l’aveva fatta rientrare, le aveva detto di stare tranquilla, di far compagnia alla sorella e di non muoversi. Aveva poi saputo che suo padre era stato ucciso da un capitano dell’esercito, davanti agli occhi di sua madre che gli si era slanciata contro martellandolo di pugni finché l’avevano bloccata e portata via. Il nonno era riuscito a farla liberare. Pochi giorni dopo si era accorta di essere incinta del terzo figlio, il più piccolo dei suoi fratelli, che era nato senza aver mai conosciuto il padre. Erano partiti ed erano rimasti via qualche anno in un paese vicino dove abitava una parte della famiglia di sua nonna, poi erano rientrati e qualche anno dopo era cominciata la guerra civile durata quasi dieci anni. Lei aveva conservato un ricordo dolcissimo di suo padre, le aveva insegnato tante cose e ricordava ancora la sensazione di sicurezza che provava quando, da piccola, lui la prendeva per mano. Suo padre era grande, imponente, per lei era invincibile, non poteva capire come avessero potuto ucciderlo. Dopo il licenziamento era seguito un periodo di relativa calma, sembrava che si fossero dimenticati di Benjamin. Era anche riuscito a fare qualche sostituzione nella scuola di Arsène senza che ci fosse alcuna reazione. Cominciarono a sperare che l’interessamento dell’ufficio dei diritti umani delle Nazioni Unite avesse spinto il potere ad essere più cauto. Poi, una mattina, poco prima dell’alba, avevano sentito battere forte alla porta, voci perentorie urlavano di aprire, Benjamin si alzò dal letto e appena aperta la porta fu afferrato da due poliziotti. Gli altri entrarono e cominciarono a rovesciare sedie e cassetti, Annemarie si avvolse in fretta in un pagne per coprire il corpo nudo e uscita dalla stanza si trovò puntate contro due mitragliette. 68


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– Basta così, – aveva ordinato un ufficiale – ci dispiace, signora, suo marito deve venire con noi, abbiamo un mandato. Cercava di essere gentile, forse gli era stato detto di fare così considerato il fatto che lei lavorava con le Nazioni Unite. Lei aveva scambiato un rapido sguardo con Benjamin, quindi, rientrata in camera, aveva indossato un vestito ed era uscita appena in tempo per veder portare via Benjamin. Era salita in macchina e seguito il furgone della polizia fino in commissariato. Poi aveva chiamato il suo capufficio spiegandogli quanto era successo, lui le disse di aspettare lì che sarebbe arrivato subito qualcuno. Annemarie aveva aspettato in macchina più di un’ora, infine era arrivato un responsabile dell’ufficio dei diritti umani accompagnato da un avvocato e le avevano consigliato di andare a casa, le avrebbero portato informazioni più tardi. Benjamin venne rilasciato il giorno dopo, arrivò a casa accompagnato dall’avvocato, aveva un taglio in fronte e un’ecchimosi sulla guancia e uno sguardo duro che Annemarie non gli conosceva. Si sedettero a bere un caffè. Annemarie non fece domande, aspettava che gli altri parlassero. Infine l’avvocato disse: – Vi consiglierei di lasciare per un po’ la città, è meglio che si dimentichino di Benjamin, ora hanno gli occhi puntati su di lui, anche se più di tanto non possono fare considerato l’interessamento dell’ufficio dei diritti umani. Annemarie aveva guardato Benjamin negli occhi, lui sapeva che stava pensando alla possibilità di raggiungere Amis e intervenne subito. – Potremmo andare al villaggio di tua madre, passeremo lì un po’ di giorni e penseremo al da farsi. – Mi sembra una buona idea, – approvò l’avvocato – ci teniamo in contatto e vi informerò sugli sviluppi. Se potete vi consiglierei di partire già domattina. Si scambiarono i numeri di telefono e l’avvocato partì. Annemarie si mise a sciacquare le tazzine e girandogli le spalle disse piano, ma con voce che tratteneva a stento la rabbia, – Cosa vuoi aspettare... che ti ammazzino? Che pensino al modo migliore per farti sparire? 69


In uno stato africano dove la guerra civile contrappone un governo corrotto a un gruppo di ribelli nascosti nella foresta tropicale, quattro donne cercano di ripristinare un ordine nelle loro quotidianità, quattro donne forti, sorprese nel mezzo di decisioni che cambieranno per sempre la loro vita. Noemi, Catherine, Annemarie e Pascaline: le loro storie si intrecciano l’una con l’altra e segnano le tappe di un percorso che si allontana dall’effimera sicurezza delle città e delle sedi ONU per addentrarsi nella foresta, in un cuore di tenebra in cui l’unico dialogo è quello delle mitragliatrici. Il fil rouge che lega questi racconti è un vecchio specchio dalla cornice di legno, silenzioso testimone del coraggio e della forza di volontà delle donne che lo possiedono. In questo nuovo libro Maria Serena Alborghetti non ci racconta solo l’esperienza di chi lavora nelle missioni di pace per le organizzazioni internazionali, ma soprattutto descrive la difficoltà di vivere in un paese che si ama senza riserve ma che fa di tutto per allontanare, un paese pieno di energia e violenza, paura e bellezza, dove è impossibile stare e difficile andarsene, perché nasconde un segreto, una consapevolezza o forse una luminosità che riflette con più nitidezza qualcosa di noi stessi che per troppo tempo abbiamo scelto di ignorare. Maria Serena Alborghetti è nata a San Daniele del Friuli e attualmente risiede al Lido di Venezia. Si è laureata in Pedagogia all’Università di Verona con una tesi in antropologia culturale. Ha vissuto e viaggiato molto all’estero, in particolare in Africa. Negli anni Ottanta ha insegnato in una scuola italiana in Algeria dove ha avuto il suo primo contatto con il deserto, poi, per alcuni anni, ha organizzato e accompagnato gruppi nel Sahara algerino che ha attraversato più volte sia in auto che a dorso di cammello. Ha effettuato una ricerca per una tesi sull’identità culturale dei Tuareg d’Algeria tra nomadismo e sedentarizzazione e ha guidato dei progetti di cooperazione per aiuti alla popolazione tuareg in Mali. Da diversi anni lavora come consulente in democratizzazione ed elezioni in missioni di peace building e peace keeping per vari organismi internazionali (ONU, UE, OSCE, IOM). Nei periodi liberi è spesso a Tamanrasset (sud Algeria) e nel deserto. Per il Poligrafo ha pubblicato Sulle piste d’Africa (2014).

e 14,00

ISBN 978-88-7115-930-0


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