IL TEATRO DUSE POI GARIBALDI Roberto Cuppone
OTTONOVECENTO A PADOVA profili, ambienti, istituzioni collana diretta da Mario Isnenghi
ILPOLIGRAFO
OTTONOVECENTO A PADOVA
profili, ambienti, istituzioni
collana diretta da Mario Isnenghi 6
IL TEATRO DUSE POI GARIBALDI Roberto Cuppone
ILPOLIGRAFO
L’Autore e l’Editore ringraziano tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione di questa pubblicazione, in particolare le biblioteche e gli archivi pubblici e privati
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INDICE
Presentazione Mario Isnenghi
L’ANFITEATRO LUIGI DUSE, POI TEATRO SOCIALE, POI TEATRO GARIBALDI E CINEMA GARIBALDI
Il fantasma di un teatro popolare Giacometo e i bisogni del pubblico Ingressi in natura, testi assassinati Un ghostwriter da rievocare “Anfiteatro Duse in via Pedrocchi” Succede il Quarantotto... ...ma la ditta continua I tre rusteghi : tutto torna Il Teatro “si allarga” Edison o Lumière? Le prime proiezioni Una belle époque Il canto del cigno “Cine-teatro”, cinema e poi supermercato
CRONOLOGIA DEL TEATRO DUSE-GARIBALDI
GIACOMETO: “MASCHERA” PADOVANA?
CRONOLOGIA DELLA VITA DI LUIGI DUSE
APPENDICI
I.
Duse capocomico Una corrispondenza inedita con il Teatro Eretenio di Vicenza
II.
Duse in scena, sulla stampa, in famiglia a cura di Chiara Bettinelli Tre saluti di Giacometo ai pubblici di Venezia e Padova Una recensione sulla compagnia Duse che mette in scena Goldoni Una lettera al padre di Eleonora due mesi prima di morire
Bibliografia
Indice dei nomi
L’anima di una città... Il carattere di un popolo... Così, nell’Ottocento, parlavano i romantici. Noi, oggi, parliamo di radici, parliamo di identità. E ne parliamo tanto. Meno ne abbiamo, più ne parliamo. Più le smarriamo, o abbiamo la sensazione di poterle smarrire, e più ne coltiviamo il bisogno e la nostalgia. Questa collana di schegge visive e di affondo restaurativi nella memoria – di Padova, dei Padovani e dei moltissimi che sono passati per Padova quando toccava alla loro generazione incarnare l’antica, secolare figura dello studente a Padova – muove da questi bisogni tutt’attorno affioranti. Viviamo nel presente e del presente, siamo anzi presentisti – in altri termini, non vediamo più in là del nostro naso, sia davanti che dietro – e però quanto ci piace annusare, fingerci, ripercorrere i nostri prossimi o remoti ieri collettivi. Ebbene, premesso – e promesso – che di parole vaghe come appunto le suddette – anima, carattere, radici, identità – faremo un uso il più parco e sobrio possibile, partiamo per un viaggio guidato, a più voci. Lo spazio è Padova, con le sue propaggini naturali, verso il Bacchiglione e i Colli. Il tempo è quello di Padova italiana, senza negarci – con discrezione e misura – punti di partenza e percorsi più lunghi, quando saranno necessari. Ottonovecento a Padova: questo il nostro ambito. Profili ambienti istituzioni: il ventaglio degli approcci, fra persone e luoghi identificati come quelli che definiscono e strutturano una storia. Una non piccola storia, una storia non minore: con una grande università, un grande santo, una grande piazza, un grande caffè... I ritratti stereotipati qualche volta tradiscono, lasciando
fuori troppe cose; ma un po’, anche, ci pigliano, dando alveo e direzione allo sguardo. Con questo volumetto la collana si arricchisce di un nuovo soggetto collettivo e di una gran folla di nomi, avvenimenti e situazioni passati attraverso un teatro che da mezzo secolo non c’è più, ma si è riempito di pubblici popolari per ben anni. Quando è morto, si intitolava da cent’anni a Garibaldi e agiva come cinema, e come cinema aveva accolto a fine Ottocento le prime visioni padovane, ma era nato come teatro, e anche teatro all’aperto: un diurno con un migliaio di posti per pubblici di bocca buona, con biglietti a basso prezzo, repertorio facile e andante, molto dialetto e molta partecipazione diretta del pubblico, attore e interlocutore immediato degli attori in scena. Prima che il ’ ne faccia anche un luogo centrale del Risorgimento a Padova, legandolo strettamente all’ febbraio degli studenti, quella centralissima area, di fronte al Pedrocchi e accanto al Palazzo del Bo, consente una straordinaria contiguità di popolo rispetto ai luoghi della sociabilità aristocratica e borghese. Fondatore e protagonista dell’impresa, autore, attore, proprietario, il chioggiotto Luigi Duse, iniziatore anche di una dinastia che culmina nella grande Eleonora Duse, sua nipote. La sua presa sul pubblico, oltre che su ricuperi di maschere e canovacci goldoniani, si lega a Giacometo, un popolaresco personaggio dialettale restato un nome proverbiale. La panoramica offerta si spinge però molto oltre i primi decenni, seguendo le modifiche, i reinveramenti e riùsi della sala – intanto non più all’aperto –, secondo modifiche di gusto e di mercato. Sino alla trasformazione omicida che ne spegne gli ultimi resti facendone un supermercato fra i tanti.
il teatro duse poi garibaldi
L’Anfiteatro Luigi Duse, poi Teatro Sociale, poi Teatro Garibaldi e Cinema Garibaldi
il fantasma di un teatro popolare Non c’è più. Ormai da quasi mezzo secolo. Lì, in piazzetta della Garzeria, che dà su via viii Febbraio 1848, côté court (sinistra guardando) del Caffè Pedrocchi. Del teatro, di un’epopea durata centotrentaquattro anni, restano solo questi toponimi che sanno di lavoro e di antichi sodalizi, di epica risorgimentale e di appassionata e chiacchierata vita stracittadina. Ma dell’edificio, niente. Dietro una fontana squadrata (opera del mascheraro padovano Amleto Sartori) una frequentata superette amministra impietosamente l’oblio: neppure un frammento, una chiave di volta, una lapide a ricordare quel Cinema Garibaldi che nel dopoguerra, poche settimane dopo la Liberazione, era già in prima linea per risarcire i padovani dei sogni rimasti oltre oceano a causa della guerra. Nessun segno di quel cinema che aveva ereditato la sala, il nome, e dunque la storia, di un teatro che pure lui, all’indomani dell’Unità, nel 1868, altro momento cruciale, aveva raccolto ansie e fantasie di un pubblico popolare, ospitando tutte le innovazioni dello spettacolo, fino a inaugurare le prime proiezioni cinematografiche Lumière già nel 1897, a un anno dal loro debutto parigino – senza prevedere che, per ironia del destino, il centenario di questo suo nome, “Garibaldi”, nel 1968, sarebbe stato l’occasione della sua demolizione. Un teatro che, andando ancora a ritroso, per qualche anno in precedenza, dal 1862, si era chiamato Sociale, e a ra
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gion veduta, ospitando con pari dignità Ernesto Rossi e il circo equestre, per i fluviali disoccupati del Portello e per Vittorio Emanuele ii, fino appunto all’arrivo del generalissimo, reduce da Bezzecca e dal suo telegrafico “Obbedisco”; in cerca, come l’Italia, di una nuova identità. Per avere forse smarrito la sua originaria e vera; che, in primis e in definitiva, era quella conferitagli nel 1834 dal suo fondatore Luigi Duse: l’identità di un anfiteatro “diurno” in legno, “democratico” quanto provvisorio, privato e a grande partecipazione popolare. Perciò, come stupirsi che non resti nulla di uno spazio che nacque di legno e finì in celluloide? Di un’arena dell’effimero che si prestò a essere anche circo, varietà, opera e cinema? Di un sito che non seppe nemmeno mantenere il suo nome, quello dell’impresa per cui era nato e dei sacrifici per cui si era fatto conoscere, sebbene nel corso del Novecento non si contino gli appelli dei padovani – e non solo – che invocano il ripristino del suo nome originario? Non c’è più il sito, e neppure il mito appare oggi coerente: ma allora di cosa stiamo parlando? Di una qualsiasi sala post-unitaria, di uno dei troppi teatri garibaldi tanto numerosi quanto le piazze e i monumenti dedicati all’eroe? No. E neppure di un più feticistico e ambizioso teatro “Duse”, come pure ce ne sono troppi intitolati al culto della Divina. Il nostro si chiamava “Luigi Duse”, l’unico. Parliamo sì di un fantasma, ma con nome e cognome.
“Perché mentre alla gloria dell’Eroe dei Due Mondi non occorreva la consacrazione del nome di un teatro, opportuno sarebbe stato invece ritornare all’edificio il primitivo nome, che vorremmo ancor oggi vedere sul suo frontone a perenne ricordo del luogo da cui ebbe origine il glorioso destino dei Duse”, brunelli, Centenario, p. 19. Come ad esempio quelli di Palermo (quello alla Kalsa e il cosiddetto, impropriamente, “Politeama”), di Pisa (l’ex arena, oggi ci gioca il Pisa calcio) o i meno celebri di Avola, Bisceglie, Enna, Figline Valdarno, Gallipoli, Giarre, Lucera, Mazara del Vallo, Modica, Piazza Armerina, Rio nell’Elba, San Piero in Bagno, Santa Maria Capua Vetere, Settimo, Scarperia, Torreomnia, Val di Chiana Aretina ecc. Come ad esempio ad Asolo, Bologna, Genova, Roma (il teatro studio dell’Accademia d’Arte Drammatica) o ancora a Bari, Agrate Brianza, Besozzo, Cortemaggiore ecc.
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giacometo e i bisogni del pubblico Anzi, nome, cognome e soprannome: “Giacometo”. Perché è proprio la “maschera” di Giacometo a consentire al ciozoto Luigi Duse di costruire il suo teatro; quel suo alter ego che lo porterà all’apice della popolarità fra gli studenti padovani e forse anche lo farà precipitare con sé nel limbo dei giocattoli usati. Più che un burattino, un po’ meno che un tipo fisso, Giacometo è quello che fra Sette e Ottocento si definisce un “carattere”; fratellastro di Ludro, a esso esattamente coetaneo, con cui non a caso rivaleggia fin dal principio al Teatro San Samuele di Venezia e con cui condivide alcuni vezzi goldoniani che fanno di entrambi due nipotini di Momolo e insieme due antesignani del grande Teatro Veneto. I padovani lo adottano fin dagli anni venti dell’Ottocento – come del resto da non molto i fiorentini hanno fatto con Stenterello e i milanesi con Meneghino, i cui due creatori Ludro è il personaggio creato dall’attore, autore e capocomico Francesco Augusto Bon, reso celebre dalla trilogia Ludro e la sua gran giornata (1832), Il matrimonio di Ludro (1836) e La vecchiaia di Ludro (1837); anch’egli, da buon caratterista, pronto a irrispettose parodie, come quando il goldoniano L’uomo di mondo diventa antonomasticamente Ludro e Ludretto. Bon (Peschiera del Garda, 1788 - Padova, 1858) forma una compagnia nel 1822, appena un anno prima di Duse; da allora i due rivaleggiano quasi ogni stagione al San Samuele di Venezia; intitolano le rispettive compagnie a Goldoni; a distanza di pochi anni, creano i caratteri di Ludro e Giacometo (e forse neppure in questo ordine); Duse fu “amico intrinseco” di Bon e “uno dei primi e più valorosi interpreti della sua Trilogia” (luigi rasi, I comici italiani. Biografia, bibliografia, iconografia, 2 voll., Firenze, Fratelli Bocca, 1897 e Firenze, Francesco Lumachi success. Bocca, 1905; i, p. 803); quanto basta per intuire, nell’acceso clima di emulazione, forse anche una fase precostituente di quello che mezzo secolo dopo sarà il sedicente Teatro Veneto. Sulla fortuna post-goldoniana del personaggio giovanile di Momolo, cfr. piermario vescovo, Momolo a Varsavia (postilla a una postilla goldoniana), “Problemi di Critica Goldoniana”, 7 (2000). Nome attribuito per le sue caratteristiche fisiche sparute al tipo creato dall’attore fiorentino Luigi Del Buono (Firenze, 1751-1832), che lo propone almeno a partire dal 1791 e che da esso ricava una ricca dotazione di copioni detti appunto “stenterellate”; cfr. giulio piccini [jarro], L’origine della maschera di Stenterello (Luigi del Buono 1751-1832): studio aneddotico su documenti inediti di Jarro, Firenze, Bemporad & figlio, 1898; rist. anast. Bologna, Forni, 1975. Diminutivo di Menegh, Domenico, di cognome Pecenna, parrucchiere pettegolo, appare in teatro nel Seicento (ma forse già prima) a opera di Carlo
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peraltro condividono con Duse non pochi tratti biografici: tutti e tre di estrazione borghese (dunque non figli d’arte), dapprima filodrammatici, poi con esperienze professionali anche serie e infine interamente dediti alle loro “creature” teatrali; ma soprattutto figure esemplari in questo scorcio di secolo, le quali riuniscono in sé la tripla competenza di attore, capocomico e impresario. Ed ecco appunto che anche Luigi Duse fa il grande passo: autorevoli apprezzamenti, autori disposti a scrivere per lui, dieci anni di successi tra Venezia e Padova hanno dissodato il terreno, e nella primavera del 1834 decide che la prossima stagione estiva sarà in un teatro tutto suo. A Padova ci sono cinque teatri. Il Novissimo (già Obizzi, poi Concordi, poi cinema, e poi amen pure lui) e il Nuovo (oggi Verdi, “nostro Massimo”), placatasi la rivalità che li ha contrapposti ad arte nel Settecento,
Maria Maggi, e quindi il poeta Carlo Porta lo rende di nuovo popolare nella prima metà dell’Ottocento, come simbolo del patriottismo milanese; in particolare è incarnato dall’attore Giuseppe Moncalvo (Reggio nell’Emilia, 1781 Milano, 1859) il cui Meneghino risale almeno al 1810; cfr. alberto bentoglio, Giuseppe Moncalvo. Meneghino, attore e impresario, in paolo puppa, Lingua e lingue nel teatro italiano, Roma, Bulzoni, 2007, pp. 167-187. Ma, fra le coetanee “adozioni” stracittadine di tipi teatrali, si potrebbero aggiungere ancora quelle del torinese Gianduja, del bolognese Sandrone, del bergamasco Gioppino, del romano Cassandrino, le cui origini burattinesche non impediscono loro, anzi, di ascendere al teatro in carne ed ossa e di rappresentare variamente, fra dialetto e pseudotradizioni, tutte le sfumature dell’irrequietezza risorgimentale; tutti “maschere” senza più maschera, ostinate voci dialettali nel proliferare di drammaturgie nazionali, legnosi inossidabili testimoni del giacobinismo e di ciò che resta dei suoi ideali in epoca di restaurazione. Sarebbe opportuno, in questo senso, riattraversare la storia del teatro fra Sette e Ottocento nell’ottica di queste “maschere”, generalmente snobbate come impropri cascami della grande Commedia dell’arte oppure come propaggini carnevalesche del teatro risorgimentale; oggi si può apprezzare come queste creazioni d’attore, accomunate dall’emergente funzione del caratterista (cfr. qui oltre), rimettono in discussione i rapporti di produzione delle compagnie, gli stessi generi teatrali, il rapporto del teatro con altre forme di intrattenimento popolare e finanche il rapporto fra teatro e società; per l’evoluzione dei ruoli, cfr. orietta giardi, I comici dell’arte perduta, Roma, Bulzoni, 1991; per il concetto di attore claudio meldolesi, ferdinando taviani, Teatro e Spettacolo nel primo Ottocento, Roma-Bari, Laterza, 1991; e in generale La commedia e il dramma borghese dell’Ottocento, a cura di siro ferrone, Torino, Einaudi, 1979, vol. i.
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continuano a portare a Padova i fasti dell’opera e, in cauto subordine, i grandi nomi della prosa; trombe e tromboni. Ad esempio, a quaresima dello stesso anno il Novissimo si apre coraggiosamente al debutto di due giovanissimi amici di Conegliano, Alberto Mazzucato (vent’anni) e Pietro Beltrame, librettista (diciassette) con La fidanzata di Lammermoor (un anno prima del debutto napoletano della Lucia di Donizetti!); cui il Nuovo (per la Fiera del Santo opera seria e balli, in autunno opere buffe senza balli) risponde non a caso con tre opere consecutive del maestro bergamasco, che lentamente sta rimpiazzando Rossini nel cuore dei melomani. È un altro pianeta, lontano. Fra i teatri popolari, invece, in ordine di anzianità, il Santa Lucia (1790, nell’antico palazzo degli Ezzelini, all’incrocio con via Marsilio) langue: una poco accattivante locandina alterna il karaoke dei filodrammatici con la compagnia Giandolini, unica professionale (da cui Duse accoglierà nel 1842 Giuseppe e Giuseppina Giandolini); mentre il Poli (fine Settecento, in via Cappelli, non lontano dal Santo), dove pure Duse ha esordito da filodrammatico, dà ormai notizie saltuarie di sé. È soprattutto l’ultimo, il Diurno di via Porciglia (1825, poi Galter dal 1861) a spopolare, proprio grazie a Duse che, con il suo Giacometo, lo ha portato al successo detto fatto, tanto che già nel 1827 ha addirittura causato un esposto della direzione del Nuovo contro la proliferazione di questi nuovi teatri popolari (anche i pianeti lontani temono le eclissi). Ma dopo nove anni – pubblico focoso, legno fradicio – è già fatiscente. Così la scelta viene da sé. Che tipo di teatro? Ça va sans dire: un teatro per tutti, all’aperto, un’arena, per continuare senza soluzione di continuità i suoi successi quasi decennali al Teatro Diurno. Dove? Ma naturalmente proprio a fianco di quel bel caffè che Antonio Pedrocchi ha fatto rimettere in sesto tre anni prima su progetto di Giuseppe Jappelli e che è sempre così affollato di studenti. Così Duse affitta l’area dell’antica Garzeria della Lana – chissà se conosce l’antica tradizione di ospitalità che lega la brunelli, Teatri, p. 502. Padova era rinomata per i pannilana: Francesco ii da Carrara donò all’arte della lana un complesso dove venne eretta la garzeria nuova, con il
1. Teatro Diurno di via Porciglia, pianta a livello del palcoscenico; probabile modello per il primo Anfiteatro Luigi Duse (1825 ca) (Padova, Museo Civico).
15. Composizione della Compagnia Duse (18 gennaio, 1833): i Vitaliani sono sostituiti nei ruoli chiave dalla famiglia Gandini; compare per la prima volta in locandina il nome del figlio tredicenne Alessandro (1820-1892), futuro padre di Eleonora (ivi).
16. Il primo sipario, oggi perduto, del Teatro Duse, raffigurante l’attore (ottavo, da destra, col tricorno in mano) con la sua compagnia (1834?).
17-18. Tre ritratti di Luigi Duse in Giacometo: a sinistra, dal sipario dell’Anfiteatro Duse; al centro, da una stampa della Civica Raccolta di Stampe Bertarelli a Milano; a destra, da luigi rasi, I comici italiani, ad vocem. 20-23. I figli di Luigi Duse, nell’ordine: Giorgio, Alessandro Vincenzo (padre di Eleonora) ed Enrico; Alceste Maggi Duse, moglie di Giorgio.
24. Composizione della compagnia Duse (16 settembre, 1835): compare il terzo figlio Enrico (1830 ca, post 1897), forse all’epoca di cinque anni (Biblioteca Bertoliana di Vicenza). 25. Composizione della Compagnia Duse (27 settembre, 1842): come prima attrice spicca Ferdinanda Carletti, come primo attore emerge Postumio Corsi (dal carteggio col Teatro Eretenio, Biblioteca Bertoliana di Vicenza).
35. La sala del Teatro Garibaldi (1930 ca). 36-37. Progetto di ritocchi alla facciata (1933) (Padova, Archivio Comunale). 38. Teatro Garibaldi, manifestazione di regime per l’autarchia (1934 ca) (Padova, Biblioteca Civica).
e 18,00
ISBN 978-88-7115-827-3