RICERCHE
Enrica Gambin
Trivia nelle tre corone I volti di Diana nelle opere di Dante, Petrarca, Boccaccio prefazione di Pietro Gibellini
ILPOLIGRAFO
ricerche collana della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Venezia
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Enrica Gambin
TRIVIA NELLE TRE CORONE I volti di Diana nelle opere di Dante, Petrarca, Boccaccio
prefazione di Pietro Gibellini
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Copyright Š maggio 2009 Il Poligrafo casa editrice srl 35121 Padova piazza Eremitani - via Cassan, 34 tel. 049 8360887 - fax 049 8360864 e-mail casaeditrice@poligrafo.it ISBN 978-88-7115-624-8
INDICE
7 Prefazione Pietro Gibellini 19
I.
«tria virginis ora dianae». diana, luna, proserpina dall’antichità al medioevo
19 1. Il culto della dea 25 2. Diana-Artemide nella letteratura classica 45 3. Diana-Trivia nel Medioevo 53
II.
trivia e le altre stelle.
la rappresentazione di diana nella commedia
53 1. La caratterizzazione di Diana come dea della castità 60 2. L’immagine delle ninfe e il mito di Proserpina 71 3. Diana nei paragoni astronomici del Paradiso 82 4. La figura di Atteone ed il significato dei miti metamorfici 95 III. tra diana, dafne e atteone. i doppi di laura e del poeta nelle opere di petrarca 95 1. Petrarca mitografo e i due cataloghi degli dèi 107 2. L’alloro e il cervo 135 3. Il ciclo di Diana 177
IV. i «freddi fuochi di diana» nelle opere di boccaccio
177 1. Il ritratto della dea nelle Genealogie e nelle opere giovanili
193 2. La caccia come remedium amoris e il contrasto tra Diana e Venere 224 3. Diana come dea della vendetta: i miti di Callisto e Atteone 249
conclusioni
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Bibliografia
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Indice dei nomi
preFAzione Pietro Gibellini
Tre facce di Trivia nelle tre corone trecentesche: scelto dall’Autrice con gioco ammiccante (omne trinum perfectum), il titolo di questo volume si posa come un manto elegante sul corpo solido del libro, che vaglia con scrupolo e rigore la figura di Diana nell’opera di Dante, Petrarca e Boccaccio, e l’interpretazione che ciascun scrittore ha dato del poliedrico mito illuminandone l’una o l’altra faccia. Il libro è nato come terza tappa (omne trinum) di una ricerca avviata come tesi triennale all’Università di Venezia, centrata sulla polarità DianaVenere nell’opera di quel Boccaccio che con le Genealogie deorum gentilium aveva fornito l’enciclopedia mitografica di riferimento fra Medioevo e Rinascimento. La tesi magistrale, discussa come l’altra all’Università Ca’ Foscari, allarga il campo anche a Dante e Petrarca. Fu per me interessante e lieve seguire il lavoro di questa più che promettente studiosa, che frequenta ora un dottorato di ricerca alla Scuola Normale di Pisa e che dalla sua passione per l’eredità classica nella letteratura moderna ha tratto anche notevoli contributi su Gabriele d’Annunzio: interessante, perché il lavoro che stavo guidando sul Mito nella letteratura italiana – la grande opera collettiva in cinque volumi ora interamente edita dalla Morcelliana – prevedeva, accanto a un sistematico profilo storico-letterario centrato sugli autori, dei sondaggi mirati sulle figure mitologiche (due angolature di approccio che questo libro coniuga), lieve perché Enrica Gambin scelse da sé il tema e lo sviluppò con grande autonomia, camminando da sùbito con le sue forze senza bisogno di sostegno, ma solo di uno sguardo che ne accompagnasse l’autonomo procedere (si perdoni la metafora a un nonno che sta rivedendo l’incantevole esperienza del bambino
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pietro gibellini
che impara a camminare). Già nella prima dissertazione, l’obiettivo è fissato con chiarezza: evidenziare l’importanza nelle opere poetiche e letterarie di Boccaccio del mito di Diana, delineando i tratti caratteristici della raffigurazione poetica della dea figlia della titanide Latona e gemella di Apollo. La voglia di approfondire lo studio dell’immagine letteraria della casta diva muove dalla constatata importanza di questa figura nel panorama culturale del Medioevo: le soluzioni adottate dal trattatista delle Genealogie nel rappresentare la dea si mostrano infatti come il termine poetico di una tradizione più antica, che affonda le proprie radici nella letteratura classica, arricchendosi di nuovi significati con il passaggio alla cultura cristiana e, in particolare, all’esperienza poetica della Commedia dantesca e del Canzoniere di Petrarca. Il libro si propone, infatti, di evidenziare la complessità della raffigurazione letteraria di Diana che, in virtù del suo triplice aspetto e dei significati poetici di volta in volta connessi ai suoi «tria ora», seppe oltrepassare i confini del mondo antico divenendo un emblema lirico fondamentale per il Medioevo: la sua presenza massiccia nelle opere delle tre Corone, in particolare, ne rivela il forte carattere di exemplum, adatto ad esprimere il nuovo messaggio poetico di cui ciascun autore intendeva farsi portavoce. Nella riscoperta del valore più autenticamente classico della vicenda mitologica della dea e dei principali personaggi legati al suo culto, all’insegna di una ricerca mitopoietica che tende progressivamente ad acquisire maggiore autonomia e indipendenza rispetto alla tradizione esegetica cristiana, senza però mai dimenticarla del tutto, Dante, Petrarca e Boccaccio individuarono una valida maschera prima allegorica e poi già proto-umanistica attraverso la quale esprimere concetti e ideali di una poetica aperta al dialogo con l’antico, anche grazie ai preziosi strumenti ermeneutici offerti dalla dottrina morale. Il primo capitolo riassume i tratti fondamentali dell’immagine della dea tramandata dai poeti e dai mitografi antichi ai letterati del Medioevo, proponendo una scelta dei testi più significativi che contribuirono a delineare il ritratto di Diana. La rassegna spazia dall’epifania del mito artemisio nei testi omerici fino all’opera di Ovidio, primo grande serbatoio letterario a cui gli intellettuali cristiani attingono le proprie conoscenze mitologiche, delineando la costante
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prefazione
evoluzione di questa poliedrica figura che, nell’avvicendarsi delle successive tradizioni culturali, si arricchisce di nuovi valori e significati, divenendo prima Diana da Artemide e quindi Trivia, in base ad un processo di condensazione degli dèi gentili che si accentua nel Medioevo. Nel vasto panorama della trattatistica cristiana l’Autrice isola due esempi letterari che, per ragioni storiche e di tradizione culturale, risultarono fondamentali per la ricezione del mito antico all’interno della nuova dottrina esegetica, influenzando la successiva lettura morale delle favole classiche incentrate sulla figura di Diana; nelle pagine dedicate alla dea da Fulgenzio e Isidoro vengono infatti codificati i tratti caratteristici della sorella di Apollo, divinità casta dei boschi e della luce dotata di tre identità fondamentali: quella di Diana, Luna e Proserpina. Alla luce degli studi che hanno messo in evidenza il ruolo fondamentale svolto dalla mitologia pagana all’interno della Commedia, il secondo capitolo esamina la presenza della figura di Diana nella poesia dantesca riscontrando, pur nell’effettiva esiguità dei riferimenti, una notevole precisione ed un’ampia conoscenza delle fonti classiche. Un’attenta analisi dell’opera rivela come, fra le tre cantiche, sia il Purgatorio a custodire la maggioranza delle citazioni dirette alla dea e alle fabulae a lei collegate che, se vengono spesso condensate nello spazio di pochi versi, sanno in ogni modo conservare gli aspetti caratteristici del mito originale. Tali elementi vengono recuperati grazie ad un dialogo costante con i versi dei poeti latini, che conferma in Virgilio ed Ovidio gli interlocutori principali di Dante: l’Eneide e le Metamorfosi forniscono infatti al poeta una precisa conoscenza degli episodi salienti della vicenda mitica di Diana, la cui nascita presso l’isola di Delo viene rievocata nel canto XX, mentre gli attributi della dea e la sua implacabilità nei confronti di chi le disobbedisce emergono chiaramente dal canto dei lussuriosi della settima cornice, che affiancano Diana alla Vergine quando intonano esempi di castità al termine del canto XXV. L’esame mette quindi in luce come i riferimenti alla figura di Diana si addensino negli ultimi canti del Purgatorio, concentrandosi in particolare nella descrizione del Paradiso terrestre e delle creature che lo abitano: l’immagine antica delle ninfe viene infatti scelta per introdurre la figura di Matelda, accostata mediante
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pietro gibellini
un paragone mitologico alle caste compagne della dea che preferivano i boschi alle città e conducevano una vita solitaria immerse nella bellezza della natura (si avverte in ciò la nostalgia dantesca di una società pre-urbana, o in cui la città si contenesse entro la cerchia delle mura antiche: altro, insomma, di quanto vedremo in Boccaccio, per il quale in villa si va giusto per sfuggire alla peste, e che fa della Napoli smaliziata la scuola di maturazione del provinciale Andreuccio). L’esame si applica infine alla raffigurazione delle virtù cristiane, che Dante rappresenta con il duplice aspetto di ninfe sulla terra e stelle in cielo. Echi significativi del mito di Diana vengono rintracciati anche nel Paradiso, dove la dea compare spesso all’interno di paragoni astronomici che si attuano grazie all’identificazione, già classica, della dea dei boschi con la divinità della luna: la sorella di Apollo-sole viene spesso introdotta come personificazione dell’astro da lei presieduto, come nella complicatissima similitudine del canto XXXIII, ove il trionfo di Cristo tra i beati viene descritto attraverso il paragone con il trionfo di Diana-luna tra le ninfe-stelle (e non è un caso che nell’iconografia della vergine bella pur «di sol vestita», le marche lunari e stellari finiranno col prevalere su quelle solari, nel plurisecolare sviluppo della lode mariana). L’ultima sezione del capitolo è dedicata al recupero del mito di Atteone all’interno del canto XIII dell’Inferno, in cui la legge del contrappasso sembra prendere ispirazione dalla mitologia antica: la pena comminata agli scialacquatori appare infatti suggerita dal castigo che Diana aveva impartito al pastore nel celebre episodio ovidiano, il cui modello poetico si propone come fondamentale anche per il racconto della vicenda tragica di Pier delle Vigne e della sua trasformazione infernale. (Toccherà al Rinascimento ripensare al misero cacciatore così crudelmente lacerato per un colpa veniale e a riscattarlo facendone figura di Cristo, in un’iconografia che peraltro consentiva attraverso la raffigurazione delle ninfe al bagno, la piacevole contemplazione della ignuda beltà femminile). L’immagine della selva dei suicidi serve quindi a sviluppare una riflessione più articolata sul valore delle metamorfosi nella Commedia e sulla loro interpretazione da parte dei lettori cristiani dell’età di Dante. Il terzo capitolo, è dedicato alla presenza di Diana nella poesia petrarchesca. Gambin evidenzia come nel Canzoniere il mito antico
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prefazione
si sottometta alla rappresentazione della vicenda personale del poeta, identificando nella coppia Apollo-Dafne il nesso essenziale attraverso cui viene raffigurata la sfortunata passione di Petrarca per Laura, che condivide con la ninfa l’adesione a quel principio di castità che le impone di rifiutare l’amore del poeta. D’altro canto, l’indagine si sofferma anche sulla mancata composizione da parte di Petrarca di un trattato mitografico che offrisse una sistemazione ordinata e scientifica alle vaste conoscenze acquisite in materia nel corso dei suoi studi, tali da spingere Pierre Bersuire ad esaltare nel prologo del suo Ovidius moralizatus le competenze dell’amico, mithographus moderno, accanto a quelle dei maestri del passato. Il confronto con il teorico francese mette in luce il diverso rapporto intrattenuto dal poeta con la tradizione allegorica medievale, di cui Bersuire costituiva uno degli esponenti principali: gli intenti di Petrarca appaiono infatti profondamente diversi da quelli del moralizzatore di Ovidio, che nelle proprie opere aveva impiegato le favole degli antichi a fini esemplari ed edificanti. Il riuso mitologico messo in atto all’interno dei Fragmenta non si sottomette invece ai vincoli dell’interpretazione morale, ma restituisce in maniera più autentica alla poesia le figure degli dèi e degli eroi olimpici, che assumono il valore di exempla lirici, in grado di costituirsi come termine di paragone privilegiato con cui raffrontare la propria esperienza personale. Pur non obbedendo a precise finalità allegoriche, i testi del Canzoniere risentono tuttavia dell’interpretazione simbolica con cui l’esegesi medievale aveva riletto i personaggi e le vicende del mondo pagano, come dimostrano alcune immagini che assumono nell’opera valore emblematico: Gambin illustra in particolare gli elementi del lauro e del cervo, che Petrarca reimpiega nei propri versi sfruttandone la fitta simbologia, associando interpretazioni moderne a significati antichi. Capitale, al riguardo, il mito di Dafne, ninfa di Diana, con la connessa brama del glorioso alloro poetico, che è, con il tema amoroso, l’altro filo conduttore dei Fragmenta, l’altra vanitas da cui Francesco è lungamente tentato. Nella mitica pianta del lauro, si riassume in particolare il senso poetico dell’opera petrarchesca, che individua nella figura di Dafne una preziosa maschera lirica con cui raffigurare la donna amata, che riecheggia sin dal proprio nome la
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I «tria virginis ora dianae». Diana, luna, proserpina dall’antichitÀ al medioevo
1. Il culto della dea Diana, l’antica divinità della caccia e delle selve, figlia di Latona e sorella di Apollo, appare una figura determinante per la letteratura medievale. Fonte primaria di ispirazione lirica nonché portavoce degli ideali culturali di questa stagione, la dea si segnala per la sua massiccia presenza nelle opere delle tre Corone, che la celebrano come maschera allegorica della castità cristiana ma si sforzano anche di recuperarne il volto più autentico, cantato in precedenza dai poeti pagani: nella dea solitaria che preferiva i boschi alle città e difendeva la propria verginità contro uomini e dèi, i letterati italiani scorsero un exemplum utilissimo per la diffusione del proprio messaggio lirico, affidando ai principali personaggi ad essa legati il compito di esprimere concetti e ideali di una poetica che intendeva aprire un dialogo con l’antico, anche attraverso i preziosi strumenti ermeneutici offerti dalla tradizione esegetica medievale. Prima di affrontare separatamente la rielaborazione del mito di Diana messa in atto da Dante, Petrarca e Boccaccio, vale dunque la pena di riassumere i tratti fondamentali dell’immagine della dea tramandata dai poeti e dai mitografi antichi agli uomini del Medioevo, proponendo una scelta dei testi più significativi che contribuirono alla teorizzazione del ritratto di Diana: lo sguardo spazia dalla nascita del mito della dea nella poesia omerica fino alla produzione ovidiana, fonte primaria per la conoscenza mitologica degli intellettuali cristiani, mettendo in luce la progressiva evoluzione di questa complessa figura che si arricchisce, con il passaggio da una tradizione culturale all’altra, di nuove
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capitolo primo
caratteristiche, divenendo prima Diana da Artemide e quindi Trivia, secondo un procedimento di sintesi e di condensazione mitografica che si accentua nel Medioevo. L’immagine più arcaica di Diana viene identificata con quella di un’antichissima divinità italica che poteva vantare numerosi centri di culto: il principale era forse quello di Aricia, antica città del Lazio ai piedi del monte Albano, a circa una ventina di chilometri da Roma. La dea era venerata con l’epiteto di Diana Aricina sulle rive del lago di Nemi, chiamato Speculum Dianae, ove le erano stati consacrati un bosco ed un tempio. Il suo sacerdote era detto rex Nemorensis: egli era solitamente uno schiavo fuggitivo, o comunque un uomo di bassa condizione sociale, ed acquisiva il titolo affrontando in duello il sacerdote in carica, al quale poteva succedere solamente dopo averlo ucciso. Secondo Ovidio era in grado di ottenere il sacerdozio chi era «forte di mano e veloce di piede»1, mentre Svetonio narra che questo feroce rito era ancora in uso durante l’epoca imperiale2. Il culto di Diana risulta pertanto essere antichissimo: è opinione diffusa che esso sia stato introdotto a Roma già in età regia, forse ad opera di Servio Tullio; tuttavia con maggiore probabilità esso si diffuse nel Lazio dopo il 469 a.C., anno in cui i Romani vinsero i Latini al lago Regillo, venendo in contatto con le loro tradizioni e le loro divinità. Questa dea italica, assai povera di miti, in origine veniva essenzialmente concepita come dispensatrice di luce e protettrice delle partorienti: proprio in virtù dell’evidente analogia di caratteri, ella fu presto assimilata alla greca Artemide, di cui ereditò i principali attributi. L’identificazione risulta ormai compiuta ai tempi di Augusto, ma già Catullo aveva potuto celebrare la dea nel carme XXXIV come figlia di Latona, signora dei monti e divinità della luna: Dianae sumus in fide puellae et pueri integri: <Dianam pueri integri> puellaque canamus.
Ovidio, Fasti III, v. 271: «Regna tenent fortes manibus pedibusque fugaces». Cfr. Svetonio, Caligola 35.
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«tria virginis ora dianae»
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Latonia, Maximi magna progenies Iovis, quam mater prope Deliam deposivit olivam,
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montium domina ut fores silvarumque virentium saltuumque reconditorum amniumque sonantum,
tu Lucina dolentibus Iuno dicta puerperis, 15 tu potens Trivia et notho es dicta lumine Luna. Tu cursu, dea, menstruo metiens iter annuum, rustica agricolae bonis 20 tecta frugibus exples. Sis quoqumque tibi placet sancta nomine, Romulique, antique ut solita es bona sospites ope gentem.3
In questo carme, infatti, Diana è rappresentata nei suo vari volti: è invocata come Ilizia, dea dei parti, come Ecate e come Luna; ella esercita un influsso sulla natura e sulle donne, favorendo quindi la fecondità agricola e quella muliebre4. Catullo va dunque a contemperare motivi letterari greci con esigenze romane: romana è infatti la frase del v. 1 «in fide sumus», romani sono gli «integri pueri» e le «puellae» del v. 2; romana è pure l’allusione al mos mairum, evocato
3 Catullo, Le poesie, a cura di F. Della Corte, Milano, Fondazione Lorenzo Valla-Mondadori, 1977, pp. 52-55. Trad.: «Siamo sotto la tutela di Diana / noi, fanciulle e casti fanciulli; / <noi, casti fanciulli e fanciulle,> / cantiamo le lodi di Diana. / O figlia di Latona, grande / virgulto del più grande Giove, / di te la madre si sgravò / presso l’olivo di Delo, / perché divenissi la signora dei monti, / delle verdi foreste, / delle impenetrabili boscaglie e dei risonanti torrenti; / tu sei invocata come Giunone Lucina / dalle gestanti in doglie, / tu sei invocata come magica Trivia / e come Luna, per la luce riflessa non sua. / Tu, o dea, con il percorso mensile / vai misurando il cammino di anno in anno, / tu colmi di messi abbondanti / i rustici tetti dell’agricoltore. / Con qualunque nome ti piaccia / essere invocata, sii venerata e, / come da tempo sei solita, favorisci / col tuo aiuto propizio la stirpe di Romolo». 4 Cfr. ivi, p. 263.
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sia con «antique» (v. 23) che attraverso il verbo liturgico «sospitare» del verso successivo. Greco è invece il racconto di Latona a Delo, che ripercorre il mito della nascita della dea. Artemide nacque da Zeus e da Latona5, figlia del titano Ceo e della titanide Febe. Si racconta che quando si diffuse la notizia che Latona aspettava un figlio dal dio Era, moglie di Zeus, in collera per il tradimento del marito, proibisse a tutti i luoghi della terra di offrirle asilo, in modo tale che non potesse partorire. Così Latona fu costretta a vagabondare senza sosta, perseguitata per di più dal mostruoso serpente Pitone, inviatole contro da Era. Sembra che solo Delo, alla fine, accettasse di accogliere la dea: essa si presentava, infatti, come un’isola galleggiante e sterile che, non avendo nulla da perdere, non poteva temere l’ira di Era; come riconoscimento per l’accoglienza offerta a Latona, l’isola fu quindi ancorata al fondo marino con delle colonne e da quel momento divenne fertile6. Molti poeti narrano anche come, poiché Era aveva giurato che Latona non avrebbe potuto dare alla luce i propri figli in nessun luogo in cui brillassero i raggi del sole, Posidone avesse avvolto Delo in un velo di nuvole, celando agli uomini e agli déi il parto della Titanide7. La collera di Era, tuttavia, non svanì facilmente: la dea, intenzionata ad impedire con ogni mezzo la nascita del figlio di Zeus, proibì a Ilizia, protettrice del parto, di aiutare Latona; così il travaglio durò per nove giorni e nove notti, finché Ilizia si fece corrompere dalle altre dee giunte ad offrire il loro sostegno alla partoriente e soccorse la Titanide8, che finalmente mise al mondo due gemelli. Artemide ed Apollo dimostrarono subito di essere destinati a divenire due delle divinità più potenti dell’Olimpo: la dea bambina, infatti, appena nata, aiutò la madre a partorire il fratello mentre, nel momento in cui
Latona è chiamata dai Greci anche Leto. Fu lo stesso Apollo a rendere l’isola stabile e fissa: cfr. Virgilio, Eneide III, vv. 73 ss.; Ovidio, Metamorfosi VI, vv. 189 ss. 7 Secondo un’altra versione Posidone, sollevando i flutti del mare, formò una specie di volta d’acqua sopra l’isola, riparandola dalla luce del sole. In questo modo Latona potè partorire nonostante il giuramento della sua nemica. 8 Secondo il mito, Iride fu inviata come messaggera dalle dee: ella promise ad Ilizia una collana d’oro e d’ambra, lunga nove cubiti, convincendola ad aiutare Latona. 5 6
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nacque il dio, dei cigni sacri vennero a volare sopra l’isola, facendone sette volte il giro e Zeus donò al figlio una mitra d’oro, una lira e un carro trainato da quei cigni che avevano salutato la sua nascita. Con esso, si racconta, fu trasportato nella regione degli Iperborei dove crebbe in pochi giorni, assumendo l’aspetto di un giovinetto; tornato in Grecia, Apollo si recò a Delfi ove uccise il serpente Pitone, che aveva perseguitato sua madre quando era incinta9. Di Artemide si narra che crebbe dedicandosi alla caccia e che scelse di rimanere giovane e vergine: ella divenne la dea protettrice degli animali selvatici, della vegetazione e delle foreste, vivendo in compagnia delle sue ninfe nella natura. A volte era accompagnata a caccia dal fratello, ma generalmente preferiva evitare il contatto con gli uomini e puniva chiunque le si avvicinasse, volontariamente o meno: trasformò in cervo Atteone, colpevole di averla vista mentre faceva il bagno, lasciando poi che fosse sbranato dai suoi stessi cani. Avendo scelto per sé una vita di castità, pretendeva lo stesso anche dalle ninfe e dalle donne mortali che intendevano diventare sue compagne: numerose furono, infatti, quelle che dovettero subire la sua punizione dopo essere state sedotte, contro la loro volontà, dagli dèi. Fra le sue vittime figura anche il cacciatore Orione, il quale, secondo alcune versioni del mito, avrebbe cercato di insidiare la stessa dea. Artemide era una guerriera coraggiosa, venerata insieme al dio della guerra Ares dalle Amazzoni, come lei guerriere e cacciatrici, indipendenti dal giogo dell’uomo; al pari del fratello aveva come armi arco e frecce, che utilizzava sia per la caccia nei boschi, sia contro gli umani colpevoli di averla oltraggiata: alle sue frecce erano infatti attribuite le morti indolori, soprattutto quelle improvvise. Ella partecipò alla lotta contro i Giganti, uccidendo con l’aiuto di Eracle il suo avversario Grazione; causò anche la morte di altri due
9 Si racconta che questo drago fosse incaricato di proteggere un antico oracolo di Temi, ma che si abbandonava ad ogni serie di saccheggi, distruggendo le mandrie e i raccolti, spaventando e uccidendo gli abitanti della regione. Apollo lo uccise, liberando il paese, ma in ricordo della sua impresa fondò in suo onore i giochi funebri, che presero il nome di Giochi Pitici e si celebravano ogni otto anni a Delfi. Impadronitosi dell’oracolo, consacrò nel santuario un treppiede che divenne uno dei suoi simboli.
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capitolo primo
mostri, gli Aloidi10, trasformandosi in cerbiatta e slanciandosi fra di loro, un giorno in cui cacciavano nell’isola di Nasso: nella fretta di colpirla, i due si uccisero reciprocamente. Ad Artemide viene attribuita anche la morte del mostro Bufago, «mangiatore di buoi», in Arcadia. Nel culto venne presto affiancata da altre dee: nel suo propiziare i parti era vicina ad Ilizia; ma Artemide inviava anche alle donne le doglie e i pericoli mortali del parto: come aiutava a nascere, infatti, la dea possedeva anche la facoltà di causare la morte. Già gli antichi, poi, la associarono a Selene, personificazione della luna, offrendole un potere parallelo a quello del fratello, dio del sole. Ella viene infatti solitamente raffigurata come una donna giovane e bella che percorre il cielo su un carro d’argento trascinato da due cavalli. In queste vesti Diana è famosa per i suoi amori: da Zeus ebbe una figlia chiamata Pandia; in Arcadia poi il suo amante fu il dio Pan, il quale le avrebbe regalato una mandria di buoi bianchi. Il più delle volte, però, la letteratura ha celebrato la sua passione per il pastore Endimione11 che, poiché Zeus gli aveva promesso di esaudire un desiderio, scelse di dormire di un sonno eterno, rimanendo eternamente giovane: si narra che proprio durante questo sonno felice la Luna lo vide e se ne innamorò. Talora, invece, il sonno eterno del pastore viene considerato come una punizione del padre degli dèi, dovuta al fatto che Endimione, elevato da Zeus al cielo, aveva osato desiderare l’amore di Era; secondo altre versioni sarebbe stato lo stesso Ipnos, il dio alato del sonno, ad avergli concesso il dono di dormire ad occhi aperti, dopo essersi innamorato di lui. 10 Essi erano i giganti Oto ed Efialte, nati da Posidone ed Ifimedia, moglie di Aloeo, egli stesso figlio del dio. Quando ebbero nove anni, avendo già raggiunto dimensioni considerevoli, decisero di muovere guerra agli dei, minacciando di dare scalata al cielo e di prosciugare i mari. Essi, adirati con Ares per aver provocato la morte di Adone, imprigionarono il dio in un vaso di bronzo e lo tennero rinchiuso per tredici mesi, finché non giunse Ermes a liberarlo. La loro empietà, dimostrata agli dei attraverso queste imprese smisurate, attirò su di loro il castigo divino: secondo alcuni furono fulminati da Zeus, secondo altri furono ingannati da Artemide. 11 La genealogia di questo personaggio varia a seconda degli autori: nella maggior parte delle testimonianze figura come figlio di Etlio, nato da Zeus, e di Calice, ma alcune tradizioni gli attribuiscono come padre direttamente Zeus. Gli antichi ricordano come avesse guidato gli Eoli dalla Tessaglia nell’Elide, assumendo poi il titolo di re. Dalla prima moglie avrebbe avuto tre figli: Peone, Epeo ed Etolo, ai quali viene aggiunta talora anche una figlia, Pisa, eponima della città di Pisa nell’Elide.
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«tria virginis ora dianae»
2. Diana-Artemide nella letteratura classica Nella letteratura greca Artemide è soggetta a diverse rappresentazioni: ella compare già come signora della caccia e delle belve – «pÒtnia 8er«n»12 – nei poemi omerici, ove le vengono attribuiti anche gli epiteti «urlatrice» – «fiox°aira» –, «frecce d’oro» – «xrushlãkatow» – e «strepitante» – «keladeinØ». Nell’Iliade la dea svolge un ruolo secondario, tuttavia figura già come figlia di Zeus e Latona e sorella di Apollo. Di Artemide Omero ricorda in svariate occasioni il temperamento scontroso e vendicativo, soffermandosi a narrare alcuni episodi mitologici che la videro protagonista, come quello del cinghiale calidonio o la punizione di Niobe13. Il poeta sottolinea anche che la dea aveva il potere di causare la morte repentina delle proprie vittime, per lo più donne, con frecce che non lasciano segni e non causano dolore: ai miti dardi della dea viene per esempio imputata la morte della madre di Andromaca, dopo che Achille ne aveva ucciso il padre e i fratelli, come racconta nel VI libro la stessa principessa troiana al marito Ettore nel loro ultimo incontro, prima che l’eroe scenda nuovamente a combattere contro gli Achei14. Negli ultimi libri, poi, Omero si concentra sulla raffigurazione degli dèi, che vengono invitati da Zeus a partecipare alla battaglia per impedire ad Achille di concludere la guerra, provocando la caduta di Troia prima del tempo stabilito: Era, Atena, Ermes, Posidone ed Efesto si schierano con i Greci, mentre Apollo, Ares, Artemide, Latona e Xanto prendono le parti dei Troiani15. Gli uni si oppongono agli altri affrontandosi singolarmente, proprio come fanno i mortali sul campo di battaglia: mentre Febo si scontra con Posidone, è Era, moglie di Zeus, l’avversaria designata per Artemide e a Latona, madre dei gemelli, tocca sostenere l’attacco di Hermes16. Nel libro XXI, se sulla terra Achille deve difendersi dalla furia del fiume Xanto, adirato perché l’eroe ha compiuto un orrendo massacro di Omero, Iliade XXI, v. 470. Per il mito del cinghiale di Calidone cfr. ivi, IX, vv. 529 ss.; per quello di Niobe cfr. ivi, XXIV, vv. 602 ss. 14 Cfr. ivi, VI, vv. 425-428. 15 Cfr. ivi, XX, vv. 32-40. 16 Cfr. ivi, XX, vv. 67-74. 12 13
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III tra diana, dafne e atteone. i doppi di laura e del poeta nelle opere di petrarca
1. Petrarca mitografo e i due cataloghi degli dèi La lezione dantesca viene recepita prontamente da Francesco Petrarca, che all’interno delle sue opere si impegna nella riscoperta del volto più autentico delle divinità olimpiche, approfondendo una tendenza già emersa in alcuni luoghi della Commedia: se infatti la speciale predilezione accordata da Dante a eroi del mito quali Ulisse, Fetonte e persino Ippolito si può giustificare, come abbiamo spiegato nel capitolo precedente, con la volontà del poeta di universalizzare la propria avventura ultraterrena narrandola mediante la puntuale ripresa di specifiche favole classiche, è solo con il Canzoniere che il mito antico si pone di fatto al servizio della storia personale dell’autore. Individuato nel tema dell’amore impossibile l’argomento primo dei suoi versi, Petrarca sceglie infatti di raccontarlo attraverso l’esempio mitico di alcuni personaggi le cui vicende sono più facilmente associabili alla sua stessa esperienza: nelle figure di Dafne e di Diana il poeta ha la possibilità di manifestare in modo emblematico il rifiuto della sua donna, associandolo poi alla nascita della sua stessa poesia, che trova nella sofferenza una essenziale fonte di ispirazione. Rispetto a Dante, l’autore dei Fragmenta può vantare una maggiore disponibilità di fonti, che contribuisce in prima persona ad incrementare durante tutta la vita con la sua intensa attività di filologo. È interessante notare come, pur non negando l’importanza della mitografia, intesa come parte integrante dello studio della classicità, tuttavia Petrarca non mostrò mai interesse per la realizzazione di una eventuale raccolta di materiali mitografici, né si cimentò nella stesura di un vero e proprio trattato mitologico che codificasse le 95
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sue conoscenze in materia, acquisite sin dall’età giovanile grazie al rapporto con Giovanni del Virgilio, celebre studioso di Ovidio, il quale esponeva le Metamorfosi a Bologna negli anni in cui il figlio di ser Petracco avrebbe dovuto dedicarsi allo studio del diritto (1320-1326)1. Nonostante Petrarca non si fosse, dunque, mai proposto di riunire in un’opera «scientifica» le proprie competenze mitografiche e le nozioni di mitologia classica apprese durante i molti anni di studio della cultura del mondo antico, egli si guadagnò presto la fama di massimo esperto in materia di favole pagane, tanto da essere citato per questi suoi particolari meriti letterari nel prologo all’Ovidius moralizatus, completato ad Avignone intorno ai primi anni Quaranta dal benedettino Pierre Bersuire (1290-1362). Giunto nella cittadina francese presumibilmente attorno al 13282, il maestro di Poitiers vi compose le sue opere più significative, il Repertorium morale ed il Reductorium morale: quest’ultimo, derivato in gran parte dal De proprietatibus rerum di Bartolomeo Anglico3, si presentava come un manuale in sedici libri di interpretazione allegorico-morale, con un penultimo libro incentrato sul racconto e sull’esegesi allegorica delle principali vicende mitologiche antiche, tratte soprattutto dalle pagine latine delle Metamorfosi di Ovidio. Il quindicesimo libro, intitolato originariamente Tractatus de reductione fabularum, godette di una fortuna autonoma, diffondendosi come trattazione indipendente con il titolo di Ovidius moralizatus. Bersuire e Petrarca si incontrarono e frequentarono spesso tra il 1328 e il 1361, come lo stesso poeta testimonia nelle Senili 4; Fausto Ghisalberti ricorda come il dotto benedettino andasse spesso a cercarlo a Valchiusa per discutere con lui dei suoi studi, ricevendo da questo consiglio anche in occasione della composizione del suo Reductorium
1 Cfr. C. Vecce, Francesco Petrarca. La rinascita degli dèi antichi, in Il mito nella letteratura italiana, dir. da P. Gibellini, vol. I, cit., p. 186. Cfr. anche L. Marcozzi, La biblioteca di Febo. Mitologia e allegoria in Petrarca, Firenze, Franco Cesati, 2002, pp. 139 ss. 2 Il primo incontro documentato con Petrarca risalirebbe, in ogni caso, al 1338; cfr. L. Marcozzi, La bibilioteca di Febo, cit., p. 139. 3 Cfr. C. Vecce, La rinascita degli dèi antichi, cit., p. 177. 4 Cfr. Francesco Petrarca, Seniles XVI, 1 e 7, ove Bersuire è ricordato come «Vir insignis religione et litteris».
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morale 5. L’aiuto del poeta dovette essergli particolarmente vantaggioso proprio nella stesura del libro quindicesimo, in cui Bersuire si era proposto di analizzare il problema dell’interpretazione allegorica delle leggende pagane, ricollegandosi alla tradizione medievale della lectura Ovidii, che già aveva potuto contare, per i suoi sviluppi più recenti, sugli studi dei letterati della scuola di Orléans – Arnolfo prima di tutti –, sull’approfondimento condottone da Giovanni di Garlandia nei suoi Integumenta Ovidii e quindi, nel primo Trecento, sulle Allegoriae di Giovanni del Virgilio che assommano in sè i risultati di quella complessa tradizione esegetica. Secondo Ghisalberti, l’Ovidius moralizatus del dotto monaco benedettino Pierre Bersuire si può infatti considerare piuttosto come una delle ultime manifestazioni di quel lavorìo che non solo tendeva alla giustificazione allegorico-morale della favola profana, ma addirittura mirava ad incorporarla nel complesso delle dottrine sacre studiandola come una espressione figurata, e apparentemente contraria allo spirito del cristianesimo, eppure in sostanza riducibile, mediante l’applicazione dell’allegoria scritturale, a quella «verità di ragione» che Dio, innanzi la rivelazione, aveva voluto adombrare nelle profane visioni del vate latino [Ovidio].6
Il fine etico-didascalico dell’opera di Bersuire, che raccoglieva ad uso dei predicatori il materiale mitografico tramandato dalla tradizione esegetica medievale, si scontrò presto con una prima difficoltà, enunciata chiaramente nel prologo al quindicesimo libro: Verumptamen, quia ipsorum deorum ymagines ordinate scriptas vel pictas alicubi non potui invenire, necessarie habui consuluere venerabilem magistrum Franciscum de Petraco poeta utique et oratorem egregium et in omni morali philosophia nec non et in omni historica et poetica disciplina peritum, qui prefatas ymagines in quodam opere suo eleganti metro describit. Libros eciam Fulgencii, Alexandri et Rabani necesse habui transcurrere, et de diversis partibus trahere figuram et ymaginem quam diis istis ficticiis voluerunt secundum raciones historicas vel phisicas assignare.7
Cfr. F. Ghisalberti, L’«Ovidius moralizatus» di Pierre Bersuire, «Studi romanzi», (1933), p. 20. 6 Ivi, p. 6. 7 Pierre Bersuire, Ovidius moralizatus (Reductorium morale, liber XV; cap. I, De Formis figurisque deorum), ed. crit. a cura di J. Engels, Utrecht, Institut voor Laat Latijn der Rijksuniversiteit, 1960, pp. 3-4. Il brano è riportato anche in E. Fenzi, Di alcuni palazzi, cupole e planetari nella letteratura classica e medievale e nell’«Africa» del Petrarca, «Giornale storico della letteratura italiana» 153 (1976), 481, pp. 18-19. Vecce propone la 5
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Il magister Francesco di ser Petracco viene associato ai mitografi del passato come auctoritas contemporanea8: egli solo sembra, infatti, aver proposto le «ymagines deorum», rappresentando con grande attenzione l’aspetto delle divinità antiche, trascurato in precedenza dagli altri letterati che si erano avvicinati allo studio degli dèi pagani. Spiegando di non essere stato in grado di reperire tali immagini né dipinte né descritte nei trattati che avevano anticipato il suo, Bersuire ringrazia Petrarca per aver offerto per primo una raffigurazione visiva degli dèi nel loro sembiante più caratteristico, combinando la descrizione del loro aspetto esteriore con quella dei loro attributi principali: non erano stati, infatti, sufficienti a questo scopo i trattati che Bersuire indica di seguito, le Mythologiae di Fulgenzio, il De universo di Rabano Mauro e l’opera di un Alessandro che viene spesso identificato con il Mitografo vaticano terzo, testi conosciuti dallo stesso Petrarca, il quale se n’era servito come fonte mitografica fondamentale per la ricostruzione delle divinità pagane che egli propone nella sua poesia. Quello operato da Bersuire all’interno del prologo all’Ovidius moralizatus, non è tuttavia un riferimento generico all’opera poetica di Petrarca, quanto piuttosto un’allusione specifica ad un libro in particolare, che il poeta andava componendo e che Bersuire dovette avere l’occasione di consultare durante una delle sue visite all’amico: il testo che viene accostato, con pari dignità autoriale, ai trattati mitografici su cui si basava la lettura allegorica dei classici è l’Africa, il poema epico in esametri latini ambientato al tempo della seconda guerra punica, che narrava le gesta di Scipione Africano, la cui redazione era stata iniziata pochi anni prima (1338-1339) rispetto allo stesso Reductorium morale, testimone della comunanza di interessi che univa i due letterati; traduzione di questo brano in Id., La rinascita degli dèi antichi, cit., p. 177: «In verità, non essendo riuscito a trovare da nessuna parte un’esposizione ordinata delle immagini degli dèi, per scrittura o per immagini, ho dovuto consultare il venerabile maestro Francesco di Petracco, poeta soprattutto ed egregio oratore ed esperto sia di filosofia morale che di ogni disciplina storica e poetica, il quale descrive le suddette immagini in una sua opera composta in versi squisiti. Ho dovuto sfogliare anche i testi di Fulgenzio, Alessandro e Rabano, e desumere da fonti diverse la figura e l’immagine che essi vollero assegnare a questi finti dèi secondo ragioni storiche e fisiche». 8 Cfr. C. Vecce, La rinascita degli dèi antichi, cit., p. 177.
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a questo proposito, Wilkins arriva ad ipotizzare che Bersuire potesse avere una buona familiarità con l’opera petrarchesca9. Il brano dell’Africa tanto elogiato dall’autore francese, poiché comprendeva la descrizione fisica degli dèi, è contenuto nel terzo libro, ove Petrarca racconta di come Scipione, risvegliatosi dal sogno in cui l’eroe aveva assistito alla profezia del destino travagliato ma glorioso di Roma, si rivolga al suo luogotenente Lelio per ordinargli di cercare un alleato adeguato per la res publica in terra d’Africa, prima di muovere un’offensiva contro Cartagine10. Lelio viene dunque incaricato di recarsi da Siface per spingerlo a stipulare un accordo con i Romani e gran parte del libro, giunto a noi in cattive condizioni testuali, si risolve nella narrazione dell’accoglienza ricevuta dal soldato da parte del sovrano di Cirta, che lo invita a fermarsi nella sua splendida reggia. Una delle sale di questo palazzo che, come sostiene Nicola Festa, doveva in origine rappresentare la reggia della Verità costruita da Atlante11 – come tale è citata all’interno del Secretum12 – reca delle raffigurazioni alle pareti in cui sono ritratte le principali divinità dell’Olimpo, secondo quel procedimento di ecfrasis caro all’epica classica così come ad Ovidio, che nel II libro delle sue Metamorfosi descrive il palazzo del Sole13: tale episodio deve aver ispirato, con grande probabilità, il racconto petrarchesco, che tuttavia amplia notevolmente la narrazione del poeta di Sulmona, contenuta in soli diciotto versi14. 9 Cfr. E.H. Wilkins, Description of pagan divinities from Petrarch to Chaucher, «Speculum» (1957), pp. 511-522, poi col titolo Pagan divinities from Boccaccio to Chaucer, in Id., Studies on Petrarch an Boccaccio, Padova, Antenore, 1978, pp. 71-88. 10 Cfr. N. Festa, Saggio sull’«Africa» del Petrarca, Palermo-Roma, Sandron, 1926, pp. 58 ss. 11 Cfr. ivi, pp. 94-109. 12 Cfr. Francesco Petrarca, Secretum, Prohemium: «Vixdum verba finierat, cum michi cunta versanti nichil aliud occurrebat quam Veritatem ipsam fore que loqueretur. Illius enim me palatium atlanteis iugis descripsisse memineram», in Id., Prose, a cura di G. Martellotti, P.G. Ricci, E. Carrara, E. Bianchi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1955, p. 22. Trad.: «Non aveva appena finite queste parole, che, considerata ogni cosa, mi apparve evidente non poter essere altri che la Verità costei che parlava, perché mi ricordavo d’averne descritta la reggia sui gioghi d’Atlante». 13 Come ricorda Marcozzi (cfr. Id., La biblioteca di Febo, cit., p. 146) i versi iniziali del brano ovidiano sul palazzo del Sole sono riportati da Petrarca all’inizio della Senile VI, 8. 14 Per un raffronto più analitico tra il brano ovidiano ed i versi dell’Africa cfr. N. Festa, Saggio sull’«Africa» del Petrarca, cit., pp. 99 ss.
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L’imago di Diana, prodotta dalla letteratura classica nella tradizione di due auctores, Virgilio e Ovidio, raggiunge l’apice dell’esperienza poetica nelle tre “Corone”. Con le opere di Dante, Petrarca e Boccaccio si contribuisce, infatti, alla diffusione del mito di Diana, la divina figlia di Latona e Zeus prescelta nel Medioevo quale ideale exemplum della castità cristiana. Ricostruendo i “tria ora” – i tre volti – con cui la dea è cantata dai poeti classici, la Commedia dantesca connota Trivia di una propria fisionomia letteraria, mediante un costante e prolifico dialogo con i versi dell’Eneide e delle Metamorfosi, mentre nel Canzoniere Petrarca si impossessa del mito classico per raccontare la sua storia personale, il suo struggente amore per Laura, sempre sfruttando le potenzialità liriche delle fabulae antiche. Spetterà però a Boccaccio divulgare un ritratto compiuto della dea – casta signora delle selve dedita alla caccia – reso attuale dalla commistione fra l’immagine pagana e le nuove interpretazioni allegoriche medievali, offrendo un originale percorso narrativo in cui convivono i protagonisti della tradizione antica con personaggi creati dal suo genio poetico. In questa ricerca si seguono gli itinerari poetici di Dante, Petrarca e Boccaccio di fronte a un mito emblematico della classicità. Enrica Gambin, laureata in Filologia e Letteratura italiana presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, svolge attività di ricerca presso la Scuola Normale Superiore di Pisa.
in copertina Cavalier d’Arpino, Diana cacciatrice, ca, part., Roma, Pinacoteca Capitolina
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